Capitolo terzo

Politica e morale

I.
IL CONCETTO DI POLITICA.
Il significato classico e moderno di politica.

Derivato dall’aggettivo di pólis (politikós), significante tutto ciò che si riferisce alla città, e quindi cittadino, civile, pubblico, e anche socievole e sociale, il termine «politica» è stato tramandato per influsso della grande opera di Aristotele, intitolata Politica, che è da considerare il primo trattato sulla natura, le funzioni, le partizioni dello stato, e sulle varie forme di governo, prevalentemente nel significato di arte o scienza del governo, cioè di riflessione non importa se con intenti meramente descrittivi o anche prescrittivi (ma i due aspetti sono mal distinguibili) sulle cose della città. Avvenne cosí sin dall’origine una trasposizione di significato dall’insieme delle cose qualificate in un certo modo (per l’appunto con un aggettivo qualificativo come «politico») alla forma di sapere piú o meno organizzato su questo stesso insieme di cose: una trasposizione non diversa da quella che ha dato origine a termini come fisica, estetica, economia, etica, e da ultimo cibernetica. Per secoli il termine «politica» è stato impiegato prevalentemente per indicare opere dedicate allo studio di quella sfera di attività umana che ha in qualche modo un riferimento alle cose dello stato: Politica methodice digesta, tanto per fare un celebre esempio, è il titolo dell’opera con cui Johannes Althusius (1603) ha esposto una teoria della «consociatio publica» (lo stato nel senso moderno della parola), comprendente nel suo seno varie forme di «consociationes» minori.

Nell’età moderna il termine ha perduto il suo significato originario, via via sostituito da altre espressioni come «scienza dello stato», «dottrina dello stato», «scienza politica», «filosofia politica» ecc., e viene impiegato ormai comunemente per indicare l’attività o l’insieme di attività che hanno in qualche modo come termine di riferimento la pólis, cioè lo stato. Di questa attività la pólis è talora il soggetto, onde appartengono alla sfera della politica atti come il comandare (o proibire) alcunché con effetti vincolanti per tutti i membri di un determinato gruppo sociale, l’esercizio di un dominio esclusivo su un determinato territorio, il legiferare con norme valevoli erga omnes, l’estrarre e il distribuire risorse da un settore all’altro della società e cosí via; talora l’oggetto, onde appartengono alla sfera della politica azioni come il conquistare, il mantenere, il difendere, l’ampliare, il rafforzare, l’abbattere, il rovesciare il potere statale ecc. Prova ne sia che opere che continuano la tradizione del trattato aristotelico si chiamano nell’Ottocento Filosofia del diritto (Hegel, 1821), Sistema della scienza dello stato (Lorenz von Stein, 1852-56), Elementi di scienza politica (Mosca, 1896), Dottrina generale dello stato (Georg Jellinek, 1900). Conserva in parte il significato tradizionale l’operetta di Croce, Elementi di politica (1925), in cui «politica» conserva il significato di riflessione sull’attività politica, e quindi sta per «elementi di filosofia politica». Prova ulteriore è quella che si può desumere dall’uso invalso in tutte le lingue piú diffuse di chiamare storia delle dottrine o delle idee politiche o anche piú in generale del pensiero politico la storia che, se fosse rimasto invariato il significato tramandatoci dai classici, avrebbe dovuto chiamarsi storia della politica, ad analogia di altre espressioni come storia della fisica o dell’estetica o dell’etica: uso accolto anche da Croce che nell’operetta citata chiama Per la storia della filosofia della politica il capitolo dedicato a un breve excursus storico delle dottrine politiche moderne.

La tipologia classica delle forme di potere.

Il concetto di politica, intesa come forma di attività o di prassi umana, è strettamente connesso con quello di potere. Il potere è stato definito tradizionalmente come «consistente nei mezzi per ottenere un qualche vantaggio» (Hobbes 1) o analogamente come «l’insieme dei mezzi che permettono di conseguire gli effetti voluti» (Russell 2). Uno di questi mezzi essendo il dominio su altri uomini (oltre al dominio sulla natura), il potere viene definito talora come un rapporto fra due soggetti di cui uno impone all’altro la propria volontà e ne determina suo malgrado il comportamento: ma siccome il dominio sugli uomini non è generalmente fine a se stesso ma è un mezzo per ottenere «qualche vantaggio» o piú esattamente «gli effetti voluti», non diversamente dal dominio sulla natura, la definizione del potere come tipo di rapporto fra soggetti deve essere integrata con la definizione del potere come il possesso dei mezzi (di cui i due principali sono il dominio sugli altri uomini e il dominio sulla natura) che permettono di conseguire, per l’appunto, un «qualche vantaggio» o gli «effetti voluti». Il potere politico appartiene alla categoria del potere di un uomo su un altro uomo (non del potere dell’uomo sulla natura). Questo rapporto di potere viene espresso in mille modi, in cui si riconoscono formule tipiche del linguaggio politico: come rapporto fra governanti e governati, fra sovrano e sudditi, fra stato e cittadini, fra comando e obbedienza ecc.

Vi sono varie forme del potere dell’uomo sull’uomo: il potere politico è soltanto una di queste. Nella tradizione classica risalente specificamente ad Aristotele, venivano considerate soprattutto tre forme di potere, il potere paterno, il potere dispotico e il potere politico. I criteri di distinzione sono stati nei diversi tempi diversi. In Aristotele si adombra una distinzione in base all’interesse di colui in favore del quale viene esercitato il potere: il paterno viene esercitato nell’interesse dei figli, quello dispotico nell’interesse del padrone, quello politico nell’interesse di chi governa e di chi è governato (peraltro soltanto nelle forme corrette di governo, dal momento che le forme corrotte sono contraddistinte proprio dall’essere il potere esercitato nell’interesse del governante). Ma il criterio che finí poi per prevalere nella trattatistica dei giusnaturalisti fu quello del fondamento o del principio di legittimazione (che si trova formulato con chiarezza nel cap. XV del Secondo trattato sul governo civile di Locke): il fondamento del potere paterno è la natura, del potere dispotico il castigo per un delitto commesso (la sola ipotesi in questo caso è quella del prigioniero di guerra, che ha perduto una guerra ingiusta), del potere civile il consenso. A questi tre motivi di giustificazione del potere corrispondono le tre formule classiche del fondamento dell’obbligazione: ex natura, ex delicto, ex contractu. Nessuno dei due criteri, peraltro, permette di individuare il carattere specifico del potere politico. Infatti, che il potere politico sia caratterizzato rispetto al paterno e al dispotico dall’essere rivolto all’interesse dei governanti e dei governati o dall’essere fondato sul consenso, è un carattere distintivo non di qualsiasi governo ma solo del buon governo: non è una connotazione del rapporto politico in quanto tale ma del rapporto politico corrispondente al governo quale dovrebbe essere. Nella realtà infatti sono sempre stati riconosciuti dagli scrittori politici sia governi paternalistici sia governi dispotici, ovvero governi in cui il rapporto fra sovrano e sudditi viene assimilato ora al rapporto fra padre e figli ora al rapporto fra padrone e schiavi, i quali non sono di fatto meno governi di quelli che agiscono per il bene pubblico e sono fondati sul consenso.

La tipologia moderna delle forme di potere.

Allo scopo di rinvenire l’elemento specifico del potere politico sembra piú conveniente il criterio di classificazione delle varie forme di potere che si fonda sui mezzi di cui si serve il soggetto attivo del rapporto per condizionare il comportamento del soggetto passivo. In base a questo criterio si possono distinguere tre grandi classi nell’ambito del concetto latissimo di potere. Queste classi sono: il potere economico, il potere ideologico e il potere politico. Il primo è quello che si vale del possesso di certi beni, necessari o ritenuti tali, in una situazione di scarsità, per indurre coloro che non li posseggono a tenere una certa condotta, consistente principalmente nell’esecuzione di un certo tipo di lavoro. Nel possesso dei mezzi di produzione risiede un’enorme fonte di potere da parte di coloro che li possiedono nei riguardi di coloro che non li possiedono: il potere del capo di un’impresa deriva dalla possibilità che il possesso o la disponibilità dei mezzi di produzione gli dà di ottenere la vendita della forza-lavoro in cambio di un salario. In genere, chiunque possegga abbondanza di beni è in grado di condizionare il comportamento di chi si trova in condizioni di penuria, attraverso la promessa e l’attribuzione di compensi. Il potere ideologico si fonda sulla influenza che le idee formulate in un certo modo, emesse in certe circostanze, da una persona investita da una certa autorità, diffuse con certe procedure, hanno sulla condotta dei consociati: da questo tipo di condizionamento nasce l’importanza sociale in ogni gruppo organizzato di coloro che sanno, dei sapienti, siano essi i sacerdoti delle società arcaiche, siano gl’intellettuali o gli scienziati delle società evolute, perché attraverso essi, e i valori che essi diffondono o le conoscenze che essi impartiscono, si compie il processo di socializzazione necessario alla coesione e all’integrazione del gruppo. Il potere politico infine si fonda sul possesso degli strumenti attraverso i quali si esercita la forza fisica (le armi di ogni specie e grado): è il potere coattivo nel senso piú stretto della parola. Tutte e tre le forme di potere istituiscono e mantengono una società di diseguali, divisa cioè fra ricchi e poveri in base al primo, fra sapienti e ignoranti in base al secondo, fra forti e deboli in base al terzo: genericamente, fra superiori e inferiori.

In quanto potere il cui mezzo specifico è la forza – s’intende, come si vedrà fra poco, l’uso esclusivo della forza –, che è il mezzo di gran lunga piú efficace per condizionare i comportamenti, il potere politico è in ogni società di diseguali il potere supremo, cioè il potere cui tutti gli altri sono in qualche modo subordinati: il potere coattivo infatti è quello cui ricorre ogni gruppo sociale (la classe dominante di ogni gruppo sociale), in ultima istanza, o come extrema ratio, per difendersi da attacchi esterni o per impedire con la disgregazione del gruppo la propria eliminazione. Nei rapporti fra i membri di uno stesso gruppo sociale, nonostante lo stato di subordinazione che l’espropriazione dei mezzi di produzione crea negli espropriati verso gli espropriatori, nonostante l’adesione passiva ai valori di gruppo da parte della maggior parte dei destinatari dei messaggi ideologici emessi dalla classe dominante, solo l’impiego della forza fisica serve, se pure soltanto in casi estremi, a impedire l’insubordinazione o la disobbedienza dei sottoposti come l’esperienza storica prova in abbondanza. Nei rapporti fra gruppi sociali diversi, nonostante l’importanza che possono avere la minaccia o l’esecuzione di sanzioni economiche per indurre il gruppo avverso a desistere da un certo comportamento (nei rapporti inter-gruppo ha meno rilevanza il condizionamento di natura ideologica), lo strumento decisivo per imporre la propria volontà è l’uso della forza, la guerra.

Questa distinzione fra tre tipi principali di potere sociale si ritrova, se pure espressa in diverse forme, nella maggior parte delle teorie sociali contemporanee, nelle quali il sistema sociale nel suo complesso compare direttamente o indirettamente articolato in tre sotto-sistemi principali, che sono l’organizzazione delle forze produttive, l’organizzazione del consenso, l’organizzazione della coazione. Anche la teoria marxiana può essere interpretata in questo modo: la base reale o struttura comprende il sistema economico, la sovrastruttura, scindendosi in due momenti distinti, comprende il sistema ideologico e quello piú propriamente giuridico-politico. Gramsci distingue nettamente nella sfera sovrastrutturale il momento del consenso (che chiama società civile) e il momento del dominio (che chiama società politica o stato). Per secoli gli scrittori politici hanno distinto il potere spirituale (quello che oggi chiameremmo ideologico) dal potere temporale, e hanno sempre interpretato il potere temporale come costituito dall’unione del dominium (che oggi chiameremmo il potere economico) e dell’imperium (che oggi chiameremmo il potere piú propriamente politico). Tanto nella dicotomia tradizionale (potere spirituale e potere temporale) quanto in quella marxiana (struttura e sovrastruttura) si ritrovano le tre forme di potere, purché si interpreti correttamente il secondo termine nell’uno e nell’altro caso come composto di due momenti. La differenza sta nel fatto che nella teoria tradizionale il momento principale è l’ideologico nel senso che il potere economico-politico viene concepito come dipendente direttamente o indirettamente dallo spirituale, mentre nella teoria marxiana il momento principale è l’economico, nel senso che il potere ideologico e quello politico riflettono piú o meno immediatamente la struttura dei rapporti di produzione.

Il potere politico.

Che la possibilità di ricorrere alla forza sia l’elemento distintivo del potere politico dalle altre forme di potere non vuol dire che il potere politico si risolva nell’uso della forza: l’uso della forza è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’esistenza del potere politico. Non qualunque gruppo sociale in grado di usare anche con una certa continuità la forza (un’associazione a delinquere, una ciurma pirata, un gruppo sovversivo, ecc.) esercita un potere politico. Ciò che caratterizza il potere politico è l’esclusività dell’uso della forza rispetto a tutti i gruppi che agiscono in un determinato contesto sociale, esclusività che è il risultato di un processo svolgentesi in ogni società organizzata verso la monopolizzazione del possesso e dell’uso dei mezzi con cui è possibile esercitare la coazione fisica. Questo processo di monopolizzazione va di pari passo con il processo di criminalizzazione e di penalizzazione di tutti gli atti di violenza che non siano compiuti da persone autorizzate dai detentori e beneficiari di questo monopolio.

Nell’ipotesi hobbesiana che sta a fondamento della teoria moderna dello stato, il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, ovvero dall’anarchia all’archia, dallo stato apolitico allo stato politico, avviene quando gl’individui rinunciano al diritto di usare ciascuno la propria forza che li rende eguali nello stato di natura per rimetterlo nelle mani di un’unica persona o di un unico corpo che d’ora in poi sarà il solo autorizzato a usare la forza nei loro riguardi. Questa ipotesi astratta acquista profondità storica nella teoria dello stato di Marx e di Engels secondo cui le istituzioni politiche in una società divisa in classi antagonistiche hanno la funzione principale di permettere alla classe dominante di mantenere il proprio dominio, scopo che non può essere raggiunto, dato l’antagonismo di classe, se non mediante l’organizzazione sistematica ed efficace della forza monopolizzata (ed è per questo che ogni stato è e non può non essere una dittatura). In questa direzione è ormai classica la definizione di Max Weber: «Per stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti» 3. Questa definizione è diventata un luogo quasi comune della scienza politica contemporanea. Scrivono G. A. Almond e G. B. Powell in uno dei manuali di scienza politica piú accreditati: «Siamo d’accordo con Max Weber sul fatto che la forza fisica legittima è il filo conduttore dell’azione del sistema politico, ciò che gli conferisce la sua particolare qualità ed importanza e la sua coerenza come sistema. Le autorità politiche, ed esse soltanto, hanno il diritto prevalentemente accettato di usare la coercizione e di comandare ubbidienza in base ad essa […] Quando parliamo di sistema politico includiamo tutte le interazioni che riguardano l’uso o la minaccia d’uso della coercizione fisica legittima» 4. La supremazia della forza fisica come strumento di potere su tutte le altre forme di potere (di cui le due principali, oltre la forza fisica, sono il dominio sui beni che dà luogo al potere economico e il dominio sulle idee che dà luogo al potere ideologico) può essere dimostrata dalla considerazione che, per quanto nella maggior parte degli stati storici il monopolio del potere coattivo abbia cercato e trovato il proprio sostegno nella imposizione delle idee («le idee dominanti», secondo un noto detto di Marx, «sono le idee della classe dominante»), dagli dèi patrii alla religione civile, dallo stato confessionale alla religione di stato, e nella concentrazione e direzione delle attività economiche principali, vi sono purtuttavia gruppi politici organizzati che hanno potuto consentire la de-monopolizzazione del potere ideologico e del potere economico (ne è un esempio lo stato liberal-democratico caratterizzato dalla libertà del dissenso, se pure entro certi limiti, e dalla pluralità dei centri di potere economico). Non vi è nessun gruppo sociale organizzato che abbia sinora potuto consentire la de-monopolizzazione del potere coattivo, evento che significherebbe né piú né meno la fine dello stato e che in quanto tale costituirebbe un vero e proprio salto qualitativo al di fuori della storia nel regno senza tempo dell’utopia.

Conseguenza diretta della monopolizzazione della forza nell’ambito di un determinato territorio e con riferimento a un determinato gruppo sociale sono alcuni caratteri che vengono comunemente attribuiti al potere politico e che lo differenziano da ogni altra forma di potere: l’esclusività, l’universalità e la inclusività. Per esclusività s’intende la tendenza che i detentori del potere politico manifestano a non permettere nel loro ambito di dominio la formazione di gruppi armati indipendenti e a soggiogare o a sbaragliare quelli che si venissero formando, nonché a tenere a bada le infiltrazioni, le ingerenze o le aggressioni di gruppi politici esterni. Questo carattere distingue un gruppo politico organizzato dalla «societas» di «latrones» (il «latrocinium» di cui parlava Agostino). Per universalità s’intende la capacità che hanno i detentori del potere politico, ed essi soli, di prendere decisioni legittime ed effettivamente operanti per tutta la collettività riguardo alla distribuzione e alla destinazione delle risorse (non soltanto economiche). Per inclusività s’intende la possibilità di intervenire imperativamente in ogni possibile sfera d’attività dei membri del gruppo indirizzandoli verso un fine desiderato o distraendoli da un fine non desiderato attraverso lo strumento dell’ordinamento giuridico, cioè di un insieme di norme primarie rivolte ai membri del gruppo e di norme secondarie rivolte a funzionari specializzati, autorizzati a intervenire nel caso di violazione delle prime. Ciò non vuol dire che ogni potere politico non si ponga dei limiti. Ma sono limiti che variano da una formazione politica ad un’altra: uno stato teocratico estende il proprio potere alla sfera religiosa, mentre uno stato laico si arresta dinanzi ad essa; cosí, uno stato collettivista estende il proprio potere alla sfera economica mentre lo stato liberale classico se ne ritrae. Lo stato onniinclusivo, cioè lo stato cui nessuna sfera dell’attività umana resta estranea, è lo stato totalitario, ed è, nella sua natura di caso-limite, la sublimazione della politica, la politicizzazione integrale dei rapporti sociali.

Il fine della politica.

Una volta individuato l’elemento specifico della politica nel mezzo di cui si serve, cadono le tradizionali definizioni teleologiche, che cercano di definire la politica mediamente il fine o i fini che essa persegue. Rispetto al fine della politica l’unica cosa che si può dire è che, se il potere politico è, proprio in ragione del monopolio della forza, il potere supremo in un determinato gruppo sociale, i fini che vengono perseguiti attraverso l’opera dei politici sono i fini considerati di volta in volta preminenti per un dato gruppo sociale (o per la classe dominante di quel gruppo sociale): per fare qualche esempio, in tempi di lotte sociali e civili, l’unità dello stato, la concordia, la pace, l’ordine pubblico ecc.; in tempi di pace interna ed esterna, il benessere, la prosperità o addirittura la potenza; in tempi di oppressione da parte di un governo dispotico, la conquista dei diritti civili e politici; in tempi di dipendenza da una potenza straniera, la indipendenza nazionale. Ciò vuol dire che non si dànno fini della politica una volta per sempre stabiliti, e tanto meno un fine che tutti li comprenda e che possa essere considerato il fine della politica: i fini della politica sono tanti quante sono le mete che un gruppo organizzato si propone, secondo i tempi e le circostanze. Questa insistenza sul mezzo anziché sul fine corrisponde del resto alla communis opinio dei teorici dello stato, i quali escludono il fine dai cosiddetti elementi costitutivi dello stato. Valga ancora una volta per tutti Max Weber: «Non è possibile definire un gruppo politico – e neppure lo stato – indicando lo scopo del suo agire di gruppo. Non c’è nessuno scopo che gruppi politici non si siano talvolta proposto […] Si può pertanto definire il carattere politico di un gruppo sociale solamente mediante il mezzo […] che non è proprio esclusivamente di esso, ma è in ogni caso specifico, e indispensabile per la sua essenza: l’uso della forza» 5.

Questa rimozione del giudizio teleologico non toglie peraltro che si possa parlare correttamente per lo meno di un fine minimo della politica: l’ordine pubblico nei rapporti interni e la difesa della integrità nazionale nei rapporti di uno stato con gli altri stati. Questo fine è minimo, perché è la conditio sine qua non per il raggiungimento di tutti gli altri fini, ed è quindi compatibile con essi. Anche il partito che vuole il disordine, lo vuole non come obiettivo finale ma come momento obbligato per mutare l’ordine esistente e creare un nuovo ordine. Oltretutto è lecito parlare dell’ordine come fine minimo della politica perché esso è, o dovrebbe essere, il risultato diretto dell’organizzazione del potere coattivo, perché, in altre parole, questo fine (l’ordine) fa tutt’uno con il mezzo (il monopolio della forza): in una società complessa, fondata sulla divisione del lavoro, sulla stratificazione di ceti e di classi, in taluni casi anche sulla sovrapposizione di genti e razze diverse, solo il ricorso in ultima istanza alla forza impedisce la disgregazione del gruppo, il ritorno, come avrebbero detto gli antichi, allo stato di natura. Tanto è vero che il giorno in cui fosse possibile un ordine spontaneo, come hanno immaginato varie scuole economiche e politiche, dai fisiocrati agli anarchici, oppure gli stessi Marx ed Engels nella fase del comunismo pienamente realizzato, non vi sarebbe piú, propriamente parlando, politica.

Chi consideri le tradizionali definizioni teleologiche di politica non tarderà ad accorgersi che alcune di esse sono definizioni non descrittive ma prescrittive, nel senso che non definiscono ciò che è concretamente e normalmente la politica ma indicano come dovrebbe essere la politica per essere una buona politica; altre differiscono soltanto a parole (le parole del linguaggio filosofico sono spesso volutamente oscure) da quella qui data. Tutta la storia della filosofia politica trabocca di definizioni prescrittive, a cominciare da quella aristotelica: com’è noto, Aristotele afferma che il fine della politica non è il vivere ma il vivere bene (Politica, 1278b). Ma in che cosa consiste la vita buona? Come si distingue dalla cattiva? E se una classe politica tiranneggia i suoi sudditi dannandoli a una vita grama e infelice, forse che non fa politica, e il potere che essa esercita non è un potere politico? Lo stesso Aristotele distingue le forme pure di governo dalle forme corrotte (e prima di lui Platone e dopo di lui molti altri scrittori politici per una ventina di secoli): sebbene ciò che contraddistingue le forme corrotte dalle pure sia che in esse la vita non è buona, né Aristotele né tutti gli scrittori che l’hanno seguito hanno mai negato ad esse il carattere di costituzioni politiche. Non ingannino altre teorie tradizionali che attribuiscono alla politica fini diversi da quello dell’ordine, come il bene comune (lo stesso Aristotele e dietro di lui l’aristotelismo medioevale) o la giustizia (Platone): un concetto come quello di bene comune, qualora lo si voglia liberare dalla sua estrema genericità, per cui può significare tutto e nulla, e se ne voglia indicare un significato plausibile, non può designare se non quel bene che tutti i membri di un gruppo hanno in comune, il quale bene altro non è che la convivenza ordinata, in una parola l’ordine; quanto alla giustizia in senso platonico, se la s’intende, una volta dissipati tutti i fumi retorici, come il principio in base al quale è bene che ciascuno faccia ciò che gli spetta nell’ambito della società come tutto (Repubblica, 433 a), giustizia e ordine sono la stessa cosa. Altre nozioni di fine, come felicità, libertà, eguaglianza, sono troppo controverse, e anch’esse interpretabili nei modi piú disparati, perché se ne possa trarre utili indicazioni per individuare il fine specifico della politica.

Altro modo di sfuggire alle difficoltà di una definizione teleologica di politica è quella di definirla come quella forma di potere che non ha altro fine che il potere medesimo (onde il potere è insieme mezzo e fine, o, come si dice, fine a se stesso). «Il carattere politico dell’azione umana – scrive Mario Albertini – emerge quando il potere diventa un fine, viene ricercato in un certo senso per se stesso, e costituisce l’oggetto di un’attività specifica» 6, a differenza di quel che accade per il medico che esercita il proprio potere sul malato per guarirlo o del ragazzo che impone un suo gioco ai compagni per il piacere non di esercitare un potere ma di giocare. A questo modo di definire la politica si può obiettare che esso non definisce tanto una forma specifica di potere quanto un modo specifico di esercitarlo, e quindi conviene altrettanto bene a qualsiasi forma di potere (sia esso il potere economico o quello ideologico e cosí via). Il potere per il potere è la forma degenerata dell’esercizio di ogni forma di potere, che può avere per soggetto tanto chi esercita quel potere in grande che è il potere politico quanto chi esercita un piccolo potere, come può essere il potere del padre di famiglia, o di un capo-reparto che sorveglia una dozzina di operai. La ragione per cui può sembrare che il potere come fine a se stesso sia caratteristico della politica (ma sarebbe piú esatto dire di un certo uomo politico, dell’uomo politico machiavellico) sta nel fatto che non esiste un fine cosí specifico della politica come esiste invece un fine specifico del potere che il medico esercita sull’ammalato, o del ragazzo che impone un gioco ai suoi compagni. Se il fine della politica (e non dell’uomo politico machiavellico) fosse davvero il potere per il potere, la politica non servirebbe a nulla. Probabilmente la definizione della politica come potere per il potere deriva dalla confusione fra il concetto di potere e quello di potenza: non c’è dubbio che fra i fini della politica vi sia anche quello della potenza dello stato (quando viene in considerazione il rapporto del proprio stato con gli altri stati). Ma altro è una politica di potenza altro il potere per il potere. E poi, la potenza non è che uno dei fini possibili della politica, un fine che solo alcuni stati possono ragionevolmente perseguire.

La politica come rapporto amico-nemico.

Tra le piú note e discusse definizioni della politica va considerata quella di Carl Schmitt (ripresa e sviluppata da Julien Freund), secondo cui la sfera della politica coincide con la sfera del rapporto amico-nemico. In base a questa definizione, il campo di origine e di applicazione della politica sarebbe l’antagonismo e la sua funzione consisterebbe nell’attività di aggregare e difendere gli amici e di disaggregare e combattere i nemici. Per dar forza alla sua definizione fondata su una contrapposizione fondamentale (amico-nemico), Schmitt la paragona alle definizioni di morale, di arte ecc., fondate anch’esse su contrapposizioni fondamentali, come buono-cattivo, bello-brutto ecc. «La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico e nemico […] Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e cosí via» 7. Drasticamente Freund si esprime in questi termini: «sino a che ci sarà politica, essa dividerà la collettività in amici e in nemici» 8. E commenta: «Quanto piú un’opposizione si sviluppa nella direzione della distinzione amico-nemico, tanto piú essa diviene politica. La caratteristica dello stato è di sopprimere all’interno del suo ambito di competenza la divisione dei suoi membri o gruppi interni in amici e nemici, allo scopo di non tollerare se non le semplici rivalità agonistiche o le lotte dei partiti, e di riservare al governo il diritto di designare il nemico esterno […] È dunque chiaro che l’opposizione amico-nemico è politicamente fondamentale» 9.

Nonostante la pretesa di valere come definizione globale del fenomeno politico, la definizione di Schmitt considera la politica secondo una prospettiva unilaterale, ancorché importante, che è quella del particolare tipo di conflitto che contraddistinguerebbe la sfera delle azioni politiche. In altre parole, Schmitt e Freund sembrano essere d’accordo su questi punti: la politica ha a che fare con la conflittualità umana; vi sono vari tipi di conflitti, soprattutto vi sono conflitti agonistici e conflitti antagonistici: la politica copre il campo in cui si sviluppano conflitti antagonistici. Che questa sia la prospettiva da cui si pongono gli autori citati non pare dubbio. Cosí Schmitt: «La contrapposizione politica è la piú intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto piú politica quanto piú si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti amico-nemico» 10. Cosí Freund: «Ogni divergenza d’interessi […] può in ogni momento trasformarsi in rivalità o in conflitto, e questo conflitto, dal momento che assume l’aspetto di una prova di forza fra i gruppi che rappresentano questi interessi, vale a dire dal momento che si afferma come lotta di potenza, diventa politico» 11. Come si vede bene dai passi citati, ciò che hanno in mente questi autori quando definiscono la politica in base alla dicotomia amico-nemico è che esistono conflitti fra gli uomini e fra i gruppi sociali, e che fra questi conflitti ve ne sono alcuni diversi da tutti gli altri per la loro particolare intensità; a questi ultimi essi dànno il nome di conflitti politici. Senonché, non appena si cerca di capire in che cosa consista questa particolare intensità, e quindi in che cosa il rapporto amico-nemico si distingua da tutti gli altri rapporti conflittuali non di pari intensità, ci si accorge che l’elemento distintivo sta nel fatto che sono conflitti che non possono essere risolti in ultima istanza se non con la forza, o per lo meno che giustificano da parte dei contendenti l’uso della forza per porre termine alla contesa. Il conflitto per eccellenza da cui tanto Schmitt quanto Freund hanno estrapolato la loro definizione di politica è la guerra, il cui concetto comprende tanto la guerra esterna quanto quella interna: ora se una cosa è certa, è che la guerra è quella specie di conflitto che viene caratterizzato in modo eminente dall’uso della forza. Ma se questo è vero, la definizione di politica in termini di amico-nemico non è affatto incompatibile con quella data in precedenza che fa riferimento al monopolio della forza. Non solo non è incompatibile ma ne è una specificazione e quindi in ultima analisi una conferma. Proprio in quanto il potere politico è contraddistinto dallo strumento di cui si serve per raggiungere i propri fini, e questo strumento è la forza fisica, esso è quel potere cui si fa appello per risolvere i conflitti la cui non soluzione avrebbe per effetto la disgregazione dello stato o dell’ordine internazionale, e sono appunto i conflitti in cui, ponendosi i contendenti l’uno di fronte all’altro come nemici, la vita mea è la mors tua.

Il politico e il sociale.

Contrariamente alla tradizione classica secondo cui la sfera della politica, intesa come sfera di tutto ciò che è attinente alla vita della pólis, include ogni specie di rapporti sociali, sí che il «politico» viene a coincidere col «sociale», la trattazione che qui si è fatta della categoria della politica è certamente riduttiva: risolvere, come si è detto, la categoria della politica nell’attività che ha direttamente o indirettamente una relazione con l’organizzazione del potere coattivo significa restringere l’ambito del «politico» rispetto al «sociale», respingere la piena coincidenza del primo col secondo. Questa riduzione ha una ben precisa ragione storica. Da un lato, il cristianesimo ha sottratto alla sfera della politica il dominio sulla vita religiosa dando origine alla contrapposizione del potere spirituale al potere temporale che era ignota al mondo antico. Dall’altro, la nascita dell’economia mercantile borghese ha sottratto alla sfera della politica il dominio sui rapporti economici dando origine alla contrapposizione (per esprimerci con la terminologia hegeliana, ereditata da Marx, e diventata ormai di uso comune) della società civile alla società politica, della sfera privata o del borghese alla sfera pubblica o del cittadino, che era anch’essa ignota al mondo antico. Mentre la filosofia politica classica è imperniata sullo studio della struttura della pólis e delle sue varie forme storiche o ideali, la filosofia politica post-classica è caratterizzata dalla continua ricerca di una delimitazione di ciò che è politico (il regno di Cesare) rispetto a ciò che non è politico (sia questo il regno di Dio o quello di Mammona), da una continua riflessione su ciò che distingue la sfera della politica dalla sfera della non-politica, lo stato dal non-stato, ove per sfera della non-politica o del non-stato s’intende a volta a volta sia la società religiosa (l’ecclesia contrapposta alla civitas) sia la società naturale (il mercato come luogo in cui gl’individui s’incontrano indipendentemente da ogni imposizione, contrapposto all’ordinamento coattivo dello stato). Il tema fondamentale della filosofia politica moderna è il tema dei confini, ora piú arretrati ora piú avanzati secondo i vari autori e le varie scuole, dello stato come organizzazione della sfera politica sia rispetto alla società religiosa sia rispetto alla società civile (nel senso di società borghese o dei privati).

Esemplare anche sotto questo aspetto la teoria politica di Hobbes che è articolata intorno a tre concetti fondamentali, costituenti le tre parti in cui è divisa la materia del De Cive. Queste tre parti sono cosí denominate: libertas, potestas, religio. Il problema fondamentale dello stato e quindi della politica è per Hobbes il problema dei rapporti fra la potestas simboleggiata dal grande Leviatano, da un lato, e la libertas e la religio, dall’altro: la libertas sta a indicare lo spazio dei rapporti naturali, ove si svolge l’attività economica degli individui, stimolata dall’incessante gara per il possesso dei beni materiali, lo stato di natura (interpretato recentemente come la prefigurazione della società di mercato); la religio sta a indicare lo spazio riservato alla formazione e alla espansione della vita spirituale, la cui concretizzazione storica avviene nella istituzione della chiesa, cioè di una società che per sua natura è distinta dalla società politica e non può essere confusa con essa. Rispetto a questa duplice delimitazione di confini del territorio della politica emergono nella filosofia politica moderna due tipi ideali di stato: lo stato assoluto e lo stato liberale, il primo tendente a estendere, il secondo tendente a restringere la propria ingerenza nei riguardi della società economica e della società religiosa. Nella filosofia politica del secolo scorso il processo di emancipazione della società rispetto allo stato va tanto innanzi che per la prima volta da piú parti viene ipotizzata addirittura la scomparsa in un futuro piú o meno lontano dello stato e di conseguenza l’assorbimento del politico nel sociale, o la fine della politica. Conformemente a quello che si è detto sin qui sul significato restrittivo di politica (restrittivo rispetto al concetto piú ampio di «sociale»), fine della politica significa esattamente fine di una società per la cui coesione siano necessari rapporti di potere politico, cioè rapporti di dominio fondati in ultima istanza sull’uso della forza. Fine della politica non significa, beninteso, fine di una qualsiasi forma di organizzazione sociale. Significa puramente e semplicemente fine di quella forma di organizzazione sociale che si regge sull’uso esclusivo del potere coattivo.

Politica e morale.

Al problema del rapporto fra politica e non-politica si ricollega uno dei problemi fondamentali della filosofia politica, il problema del rapporto fra politica e morale. La politica e la morale hanno in comune il dominio su cui si estendono, che è il dominio dell’azione o della prassi umana. Si ritiene si distinguano fra loro in base al diverso principio o criterio di giustificazione e di valutazione delle rispettive azioni, con la conseguenza che ciò che è obbligatorio in morale non è detto sia obbligatorio in politica, e ciò che è lecito in politica non è detto sia lecito in morale; o che vi possano essere azioni morali che sono impolitiche (o apolitiche) e azioni politiche che sono immorali (o amorali). La scoperta della distinzione che viene attribuita, a torto o a ragione, a Machiavelli, onde il nome di machiavellismo a ogni teoria della politica che sostiene e difende la separazione della politica dalla morale, viene di solito trattata come problema dell’autonomia della politica. Il problema procede di pari passo con la formazione dello stato moderno e con la sua graduale emancipazione dalla chiesa, che giunge nei casi estremi anche alla subordinazione della chiesa allo stato e di conseguenza alla supremazia assoluta della politica. In realtà ciò che si chiama autonomia della politica non è altro che il riconoscimento che il criterio in base al quale si considera buona o cattiva un’azione politica (e non si dimentichi che per azione politica s’intende, secondo quel che è stato detto sin qui, un’azione che abbia o per soggetto o per oggetto la pólis) è diverso dal criterio in base al quale si considera buona o cattiva un’azione morale. Mentre il criterio in base al quale si giudica un’azione come moralmente buona o cattiva è il rispetto di una norma il cui comando è considerato come categorico, indipendentemente dal risultato dell’azione («fa’ quel che devi e avvenga quel che può»), il criterio in base al quale si giudica un’azione come politicamente buona o cattiva è puramente e semplicemente il risultato («fai quel che devi perché avvenga quel che vuoi»). I due criteri sono incommensurabili. Questa incommensurabilità viene espressa mediante l’affermazione che in politica vale la massima «il fine giustifica i mezzi»: massima che ha trovato in Machiavelli una delle sue piú forti espressioni: «[…] e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati» (Il Principe, XVIII). Al contrario, in morale la massima machiavellica non vale, giacché un’azione per essere giudicata moralmente buona deve essere compiuta con nessun altro fine che quello di compiere il proprio dovere.

Una delle piú convincenti interpretazioni di questa contrapposizione è la distinzione weberiana fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità: «[…] v’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convinzione, la quale in termini religiosi suona: “Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio”, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni» 12. L’universo della morale e quello della politica si muovono entro l’ambito di due sistemi etici diversi anzi contrapposti. Piú che di immoralità della politica o di impoliticità della morale si dovrebbe piú correttamente parlare di due universi etici che si muovono secondo principî diversi secondo le diverse situazioni in cui gli uomini si trovano ad agire. Di questi due universi etici sono rappresentanti due personaggi diversi che agiscono nel mondo su vie destinate quasi sempre a non incontrarsi: da un lato, l’uomo di fede, il profeta, il pedagogo, il saggio che guarda alla città celeste, dall’altro l’uomo di stato, il condottiero di uomini, il creatore della città terrena. Ciò che conta per il primo è la purezza delle intenzioni e la coerenza dell’azione all’intenzione, per il secondo la certezza e la fecondità del risultato. La cosiddetta immoralità della politica si risolve a ben guardare in una morale diversa da quella del dovere per il dovere: è la morale per cui si deve fare tutto quello che è in nostro potere per realizzare lo scopo che ci siamo proposti, perché sappiamo sin dall’inizio che saremo giudicati in base al successo. Vi corrispondono due concetti di virtú, quella classica, per cui «virtú» significa disposizione al bene morale (contrapposto all’utile), e quella machiavellica per cui la virtú è la capacità del principe forte e avveduto che, usando insieme della «golpe» e del «lione», riesce nell’intento di mantenere e di rafforzare il proprio dominio.

La politica come etica del gruppo.

Chi non voglia arrestarsi alla constatazione della incommensurabilità di queste due etiche e voglia cercare di capire la ragione per cui ciò che è giustificato in un certo contesto non è giustificato in un altro, deve porsi ancora la domanda, dove risieda la differenza di questi due contesti. La risposta è la seguente: il criterio dell’etica della convinzione viene impiegato di solito per giudicare azioni individuali, mentre il criterio dell’etica della responsabilità viene impiegato di solito per giudicare azioni di gruppo, o comunque compiute da un individuo in nome o per conto del proprio gruppo, sia esso il popolo, o la nazione, o la chiesa, o la classe, o il partito ecc. In altri termini si può dire che alla differenza fra morale e politica, o tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, corrisponde anche la differenza fra etica individuale ed etica di gruppo. La proposizione iniziale, secondo cui ciò che è obbligatorio in morale non è detto sia obbligatorio in politica, può essere ritradotta in quest’altra formula: ciò che è obbligatorio per l’individuo non è detto sia obbligatorio per il gruppo di cui quell’individuo fa parte. Si pensi alla profonda differenza nel giudizio di filosofi, teologi, moralisti, intorno alla violenza, secondoché l’atto di violenza sia compiuto da un individuo singolo o dal gruppo sociale di cui quello stesso individuo fa parte, secondoché, con altre parole, si tratti di violenza personale, generalmente, salvo casi eccezionali, condannata, o di violenza delle istituzioni, generalmente, salvo casi eccezionali, giustificata. Questa differenza trova la sua spiegazione nella considerazione che nel caso della violenza individuale non si può quasi mai fare ricorso al criterio di giustificazione dell’extrema ratio (tranne nel caso della legittima difesa), mentre nei rapporti fra gruppi il ricorso alla giustificazione della violenza come extrema ratio è abituale. Orbene, la ragione per cui la violenza individuale non è giustificata sta proprio nel fatto che essa è per cosí dire protetta dalla violenza collettiva, tanto che diventa sempre piú raro, al limite impossibile, il caso in cui l’individuo singolo si venga a trovare nella situazione di dover ricorrere alla violenza come extrema ratio. Se questo è vero, ne viene una conseguenza importante: la ingiustificazione della violenza individuale riposa in ultima istanza sul fatto che è accettata, perché giustificata, la violenza collettiva. In altre parole, non c’è bisogno della violenza individuale perché basta la violenza collettiva: la morale può permettersi di essere cosí severa con la violenza individuale perché riposa sull’accettazione di una convivenza che si regge sulla pratica continua della violenza collettiva.

Il contrasto fra morale e politica cosí inteso, come contrasto fra etica individuale ed etica di gruppo, serve anche a fornire un’illustrazione e una spiegazione della secolare disputa intorno alla «ragion di stato». Per «ragion di stato» s’intende quell’insieme di principî e di massime in base alle quali azioni che non sarebbero giustificate se compiute da un individuo singolo, sono non solo giustificate ma addirittura in taluni casi esaltate e glorificate se compiute dal principe, o da chiunque eserciti il potere in nome dello stato. Che lo stato abbia le sue ragioni che l’individuo non ha o non può far valere è un altro modo di mettere in evidenza la differenza fra politica e morale, in quanto questa differenza venga riferita al diverso criterio in base al quale sono giudicate come buone o cattive le azioni nei due diversi ambiti. L’affermazione che la politica è la ragione dello stato trova una perfetta corrispondenza nell’affermazione che la morale è la ragione dell’individuo. Sono due ragioni che quasi sempre non s’incontrano: anzi, dal loro contrasto si alimenta la secolare storia del conflitto fra morale e politica. Quel che se mai occorre ancora aggiungere è che la ragion di stato non è che un aspetto dell’etica di gruppo, se pure il piú clamoroso, se non altro perché lo stato è la collettività nel suo piú alto grado di espressione e di potenza. Ma ogni qual volta un gruppo sociale agisce per la propria difesa contro un altro gruppo si appella a un’etica diversa da quella generalmente valevole per gl’individui, a un’etica cioè che risponde alla stessa logica della ragion di stato. Cosí accanto alla ragion di stato la storia ci addita secondo i tempi e i luoghi, ora una ragion di partito, ora una ragion di classe o di nazione, che ripresentano sotto altro nome ma con la stessa forza e con le stesse conseguenze il principio dell’autonomia della politica, intesa come autonomia dei principî e delle regole di azione che valgono per il gruppo come totalità rispetto a quelle che valgono per l’individuo nel gruppo.

II.
ETICA E POLITICA.
Come si pone il problema.

I discorsi sempre piú frequenti che si fanno da qualche anno nel nostro paese sulla questione morale ripropongono il vecchio tema del rapporto fra morale e politica. Vecchio tema e sempre nuovo, perché non vi è questione morale in qualsiasi campo venga proposta che abbia trovato una soluzione definitiva. Sebbene piú celebre per l’antichità del dibattito, l’autorità degli scrittori che vi hanno partecipato, la varietà degli argomenti addotti, l’importanza del soggetto, il problema del rapporto fra morale e politica non è diverso dal problema del rapporto fra la morale e tutte le altre attività dell’uomo, che ci induce a parlare abitualmente di un’etica dei rapporti economici, o, com’è accaduto spesso in questi anni, del mercato, di un’etica sessuale, di un’etica medica, di un’etica sportiva e via dicendo. Si tratta in tutte queste diverse sfere dell’attività umana sempre dello stesso problema: la distinzione fra ciò che è moralmente lecito e ciò che è moralmente illecito.

Il problema dei rapporti fra etica e politica è piú grave perché l’esperienza storica ha mostrato, almeno sin dal contrasto che contrappose Antigone a Creonte, e il senso comune sembra pacificamente aver accettato, che l’uomo politico può comportarsi in modo difforme dalla morale comune, che un atto illecito in morale può essere considerato e apprezzato come lecito in politica, insomma che la politica ubbidisce a un codice di regole, o sistema normativo, differente da, e in parte incompatibile con, il codice, o il sistema normativo, della condotta morale. Quando Machiavelli attribuisce a Cosimo de’ Medici (e sembra approvare) il detto che gli stati non si governano coi pater noster in mano, mostra di ritenere, e dà per ammesso, che l’uomo politico non possa svolgere la propria azione seguendo i precetti della morale dominante, che in una società cristiana coincide con la morale evangelica. Per venire ai giorni nostri, in un ben noto dramma, Les mains sales, Jean-Paul Sartre sostiene, o meglio fa sostenere a uno dei suoi personaggi, la tesi che chi svolge un’attività politica non può fare a meno di sporcarsi le mani (di fango o anche di sangue).

Per quanto, dunque, la questione morale si ponga in tutti i campi della condotta umana, quando viene posta nella sfera della politica assume un carattere particolarissimo. In tutti gli altri campi, la questione morale consiste nel discutere quale sia la condotta moralmente lecita e, viceversa, quale sia illecita, e per avventura, in una morale non rigoristica, quale sia indifferente, nei rapporti economici, sessuali, sportivi, tra medico e malato, tra maestro e scolaro, e cosí via. La discussione verte su quali siano i principî o le regole che rispettivamente gli imprenditori o i commercianti, gli amanti o i coniugi, i giocatori di poker o di calcio, i medici e i chirurghi, gli insegnanti, debbano seguire nell’esercizio delle loro attività. Ciò che non è generalmente in discussione è la questione morale stessa, ovvero che vi sia una questione morale, che in altre parole sia plausibile porsi il problema della moralità delle rispettive condotte. Prendiamo, per esempio, il campo, in cui da anni ferve tra moralisti un dibattito particolarmente vivace, dell’etica medica e piú in generale della bioetica: la discussione è animatissima per quel che riguarda la liceità o l’illiceità di certi atti, ma a nessuno viene in mente di negare il problema stesso, cioè che nell’esercizio dell’attività medica sorgano problemi che tutti coloro che ne trattano sono abituati a considerare morali, e nel considerarli tali s’intendono perfettamente fra di loro, anche se non s’intendono su quali siano i principî o le regole da osservare e applicare. Non diversamente accade nella disputa corrente sulla moralità del mercato 13. Solo là dove si sostenga che il mercato come tale, in quanto è un meccanismo razionalmente perfetto, se pure di una razionalità spontanea e non riflessa, non può essere sottoposto ad alcuna valutazione d’ordine morale, il problema viene posto in modo simile a quello in cui si è posto tradizionalmente il problema morale in politica. Se pure con questa differenza: anche nelle valutazioni moralmente piú spregiudicate del mercato non si arriverà mai a sostenere consapevolmente e ragionatamente l’immoralità del mercato ma al massimo la sua premoralità, o amoralità, ovvero non tanto la sua incompatibilità con la morale quanto la sua estraneità a ogni valutazione d’ordine morale. L’amico a oltranza del mercato non ha alcun bisogno di affermare che il mercato non si governa coi pater noster. Se mai afferma che non si governa affatto.

Naturalmente il problema dei rapporti fra morale e politica ha senso soltanto se si è d’accordo nel ritenere che esista una morale e se si accettano in linea di massima alcuni precetti che la caratterizzano. Per essere d’accordo sull’esistenza della morale e su alcuni precetti generalissimi, negativi come neminem laedere, positivi come suum cuique tribuere, non vi è bisogno di essere d’accordo sul loro fondamento, che è il tema filosofico per eccellenza su cui si sono sempre divise, e continueranno a dividersi, le scuole filosofiche. Il rapporto fra etiche e teorie dell’etica è molto complesso e possiamo qui limitarci a dire che il disaccordo sui fondamenti non pregiudica l’accordo sulle regole fondamentali.

Se mai occorre precisare che, quando si parla di morale in rapporto alla politica, ci si riferisce alla morale sociale e non a quella individuale, alla morale cioè che riguarda azioni di un individuo che interferiscono con la sfera di attività di altri individui e non a quella che riguarda azioni relative, per esempio, al perfezionamento della propria personalità, indipendentemente dalle conseguenze che il perseguimento di questo ideale di perfezione possa avere per gli altri. L’etica tradizionale ha sempre distinto i doveri verso gli altri dai doveri verso se stessi. Nel dibattito sul problema della morale in politica vengono in questione esclusivamente i doveri verso gli altri.

L’azione politica è sottoponibile al giudizio morale?

A differenza degli altri campi della condotta umana, nella sfera della politica il problema che è stato posto tradizionalmente non riguarda tanto quali siano le azioni moralmente lecite e quali illecite, ma se abbia un qualche senso porsi il problema della liceità o illiceità morale delle azioni politiche. Per fare un esempio che serve a far capire la differenza meglio che una lunga dissertazione: non c’è sistema morale che non contenga precetti volti a impedire l’uso della violenza e della frode. Le due principali categorie di reati previste nei nostri codici penali sono i reati di violenza e di frode. In un celebre capitolo del Principe Machiavelli sostiene che il buon politico deve conoscere bene le arti del leone e della volpe. Ma il leone e la volpe sono il simbolo della forza e dell’astuzia.

Nei tempi moderni il piú machiavellico degli scrittori politici, Vilfredo Pareto, e tra i machiavellici annoverato in un noto libro, recentemente rimesso in circolazione 14, sostiene tranquillamente che i politici sono di due categorie, quelli in cui prevale l’istinto della persistenza degli aggregati, e sono i machiavellici leoni, e quelli in cui prevale l’istinto delle combinazioni, e sono le machiavelliche volpi. In una celebre pagina, Croce, ammiratore di Machiavelli e di Marx per la loro concezione realistica della politica, svolge il tema dell’«onestà politica», cominciando il discorso con queste parole che non hanno bisogno di commento: «Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica». Dopo aver detto che si tratta dell’ideale che canta nell’animo di tutti gli imbecilli spiega che «l’onestà politica non è altro che la capacità politica» 15. La quale, aggiungiamo noi, è quella che Machiavelli chiamava «virtú», che, come tutti sanno, non ha niente a che vedere con la virtú di cui si parla nei trattati di morale, a cominciare dall’Etica Nicomachea di Aristotele.

Da questi esempi, che si potrebbero moltiplicare, sembrerebbe non potersi trarre altra conclusione che quella della impossibilità di porre il problema dei rapporti tra morale e politica negli stessi termini in cui si pone nelle altre sfere della condotta umana. Non già che non vi siano state teorie che hanno sostenuto la tesi contraria, la tesi cioè che anche la politica sottostà, o meglio deve sottostare, alla legge morale, ma non hanno mai potuto affermarsi con argomenti molto convincenti e sono state considerate tanto nobili quanto inutili.

Il tema della giustificazione.

Piú che alla argomentazione, destinata ad avere scarsa forza persuasiva, circa la moralità della politica, la maggior parte degli autori che si sono occupati della questione hanno preso atto della lezione della storia e dell’esperienza comune, dalla quale si trae l’insegnamento del divario fra morale comune e condotta politica, e hanno rivolto la loro attenzione a cercare di capire e, in ultima istanza, di giustificare questa divergenza. Ritengo si possa riassumere tutta, o per lo meno gran parte, della storia del pensiero politico moderno nella ricerca di una soluzione del problema morale in politica interpretandola come una serie di tentativi di dare una giustificazione del fatto, di per se stesso scandaloso, del contrasto evidente tra morale comune e morale politica. Quando assumono di fronte al problema questo atteggiamento, gli scrittori politici non si propongono di prescrivere quello che il politico deve fare. Abbandonano il campo della precettistica e si pongono su un terreno diverso, quello della comprensione del fenomeno. Accogliendo la distinzione oggi corrente tra etica e meta-etica, la maggior parte delle disquisizioni sulla moralità della politica, di cui è ricca la filosofia politica dell’età moderna, sono prevalentemente di meta-etica, anche se non si possono escludere riflessi secondari, non sempre intenzionali, in etica.

Parlo a ragion veduta di «giustificazione». La condotta che ha bisogno di essere giustificata è quella non conforme alle regole. Non si giustifica l’osservanza della norma, cioè la condotta morale. L’esigenza della giustificazione nasce quando l’atto viola o sembra violare le regole sociali generalmente accettate, non importa se morali, giuridiche o del costume. Non si giustifica l’obbedienza ma, se si ritiene che abbia un qualche valore morale, la disobbedienza. Non si giustifica la presenza a una riunione obbligatoria, ma l’assenza. In generale, non v’è alcun bisogno di giustificare l’atto regolare o normale, bensí è necessario dare una giustificazione, se lo si vuole salvare, dell’atto che pecca per eccesso o per difetto. Nessuno chiede una giustificazione dell’atto della madre che si getta nel fiume per salvare il figlio che sta per annegare. Ma si pretende una giustificazione se non lo fa. Uno dei piú grandi problemi teologici e metafisici, il problema della teodicea, nasce dalla constatazione del male nel mondo e nella storia. Candide non si arrovella per giustificare l’esistenza del migliore dei mondi possibili: il suo compito è se mai quello di dare una spiegazione o una dimostrazione del fatto che il mondo è cosí e non in altro modo.

Una mappa.

Premetto che di fronte alla vastità del tema mi sono proposto un compito molto modesto. Ho pensato che potesse essere di qualche utilità presentare, a guisa d’introduzione, una «mappa» delle diverse e opposte soluzioni che storicamente sono state date al problema del rapporto tra etica e politica.

Si tratta di una mappa certamente incompleta e imperfetta, perché è soggetta alla possibilità di un duplice errore: rispetto alla classificazione dei tipi di soluzione e rispetto all’inquadramento delle diverse soluzioni in questo o quel tipo. Il primo errore è di natura concettuale, il secondo di interpretazione storica. Si tratta dunque di una mappa che è certamente da rivedere con ulteriori osservazioni. Ma intanto credo sia in grado di offrire almeno un primo orientamento a chi, prima di avventurarsi su un terreno poco noto, voglia conoscere tutte le vie che lo percorrono.

Tutti gli esempi sono tratti dalla filosofia politica moderna, da Machiavelli in poi. È vero che la grande filosofia politica nasce in Grecia, ma la discussione del problema dei rapporti tra etica e politica diventa particolarmente acuta con la formazione dello stato moderno, e riceve per la prima volta un nome che non l’abbandona piú: «ragion di stato».

Per quale motivo? Adduco qualche ragione, sia pure con molta cautela. Il dualismo tra etica e politica è uno degli aspetti del grande contrasto tra chiesa e stato, un dualismo che non poteva nascere se non con la contrapposizione tra un’istituzione la cui missione è quella di insegnare, predicare, raccomandare leggi universali della condotta, che sono state rivelate da Dio, e un’istituzione terrena il cui compito è di assicurare l’ordine temporale nei rapporti degli uomini tra loro. Il contrasto tra etica e politica nell’età moderna si risolve, in realtà, sin dal principio, nel contrasto tra la morale cristiana e la prassi di coloro che svolgono azione politica. In uno stato precristiano, dove non esiste una morale istituzionalizzata, il contrasto è meno evidente. Il che non vuol dire che il pensiero greco lo ignori: basta pensare all’opposizione fra le leggi non scritte cui si richiama Antigone e quelle del tiranno. Ma nel mondo greco non c’è una morale, ci sono varie morali. Ogni scuola filosofica ha la sua morale. Il problema del rapporto tra morale e politica, laddove ci sono piú morali con cui si può confrontare l’azione politica, non ha piú alcun senso preciso. Ciò che ha suscitato l’interesse del pensiero greco non è tanto il problema del rapporto tra etica e politica, quanto il problema del rapporto tra buon governo e malgoverno, da cui nasce la distinzione tra il re e il tiranno. Ma è una distinzione all’interno del sistema politico, che non riguarda il rapporto tra un sistema normativo, quale la politica, e un altro sistema normativo quale la morale. Come avviene invece nel mondo cristiano e postcristiano.

La seconda ragione della mia scelta è che, soprattutto con la formazione dei grandi stati territoriali, la politica si rivela sempre piú come luogo in cui si esplica la volontà di potenza, in un teatro ben piú vasto, e quindi ben piú visibile, di quello delle faide cittadine o dei conflitti della società feudale; soprattutto quando questa volontà di potenza viene messa al servizio di una confessione religiosa. Il dibattito sulla ragion di stato esplode nel periodo delle guerre religiose. Il contrasto tra morale e politica si rivela in tutta la sua drammaticità quando azioni moralmente condannevoli (si pensi, per fare il grande esempio, alla notte di San Bartolomeo, lodata tra l’altro da uno dei machiavellici, Gabriel Naudé) sono compiute in nome della fonte stessa, originaria, unica, esclusiva, dell’ordine morale del mondo, che è Dio.

Si può aggiungere anche una terza ragione: solo nel Cinquecento il contrasto viene assunto come problema anche pratico, e si cerca di darne una qualche spiegazione. Il testo canonico ancora una volta è Il Principe di Machiavelli, in particolare il capitolo XVIII che comincia con queste fatali parole: «Quanto sia laudabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascun lo intende: non di manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi quelli principî avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto». La chiave di tutto è l’espressione «gran cose». Se si incomincia a discutere intorno al problema dell’azione umana, non dal punto di vista dei principî, ma dal punto di vista delle «gran cose», cioè del risultato, allora il problema morale cambia completamente aspetto, si rovescia radicalmente. Il lungo dibattito sulla ragion di stato è un commento durato secoli a questa affermazione, perentoria e inconfondibilmente veridica: che nell’azione politica contano non i principî ma le grandi cose.

Tornando alla nostra tipologia, dopo questa premessa, ne faccio ancora una seconda. Delle dottrine su etica e politica, che enumererò, alcune hanno prevalentemente valore prescrittivo, in quanto non pretendono di dare una spiegazione del contrasto, ma tendono a dare a esso una soluzione pratica. Altre hanno un valore prevalentemente analitico, in quanto tendono non già a suggerire come dovrebbe essere risolto il rapporto tra etica e politica, ma a indicare qual è la ragione per cui il contrasto esiste. Ritengo che il non aver tenuto conto della diversa funzione delle teorie abbia condotto a grandi confusioni. Per esempio, non ha senso confutare una dottrina prescrittiva facendo osservazioni di tipo realistico, cosí come non ha senso opporsi a una teoria analitica proponendo una migliore o la migliore soluzione del contrasto.

Divido le teorie che si sono poste il problema del rapporto tra morale e politica in quattro grandi gruppi, anche se di fatto non sempre nettamente separabili, anzi spesso confluenti l’uno nell’altro. Distinguo le teorie monistiche da quelle dualistiche; le monistiche, a loro volta, in monismo rigido e monismo flessibile; le dualistiche in dualismo apparente e dualismo reale. Nel monismo rigido faccio rientrare quegli autori per cui non esiste contrasto tra morale e politica perché vi è un solo sistema normativo, o quello morale o quello politico; nel monismo flessibile gli autori per cui vi è un solo sistema normativo, quello morale, che tuttavia consente, in determinate circostanze o per particolari soggetti, deroghe o eccezioni giustificabili con argomenti appartenenti alla sfera del ragionevole; nel dualismo apparente, gli autori che concepiscono morale e politica come due sistemi normativi distinti ma non totalmente indipendenti l’uno dall’altro, bensí posti l’uno sull’altro in ordine gerarchico; infine nel dualismo reale gli autori per cui morale e politica sono due sistemi normativi diversi che ubbidiscono a diversi criteri di giudizio. Ho esposto le varie teorie nel senso della via via sempre maggiore divaricazione tra i due sistemi normativi.

Il monismo rigido.

Del monismo rigido vi sono naturalmente due versioni secondoché la reductio ad unum sia ottenuta risolvendo la politica nella morale o, viceversa, la morale nella politica.

Esempio della prima è l’idea, anzi l’ideale, tipicamente cinquecentesco, del principe cristiano, cosí bene rappresentato da Erasmo, il cui libro L’educazione del principe cristiano è del 1515, quindi piú o meno contemporaneo del Principe di Machiavelli, di cui è l’antitesi piú radicale. Il principe cristiano di Erasmo è l’altra faccia del volto demoniaco del potere. Alcune citazioni. Erasmo si rivolge al principe e dice: «Se vuoi mostrarti ottimo principe, sta quindi ben attento a non lasciarti superare da alcun altro in quei beni che veramente sono tuoi propri: la magnanimità, la temperanza, l’onestà». Queste virtú esclusivamente morali non hanno niente a che vedere con la virtú nel senso machiavellico della parola. Oppure: «Se vorrai entrare in gara con altri principi, non ritenere di averli vinti perché hai tolto loro parte del loro dominio; li vincerai veramente se sarai meno corrotto di loro, meno avaro, arrogante, iracondo». E ancora: «Qual è la mia croce?» chiede il principe. E risponde: «Il seguir ciò ch’è onesto, il non far del male a nessuno, non depredare nessuno, non vendere magistrature, non lasciarsi corrompere dai doni» 16. La soddisfazione del principe sta nell’essere giusto, non nel fare «gran cose».

Traggo il secondo esempio da Kant. Nell’appendice a quell’aureo libro che è Per la pace perpetua, distingue il moralista politico che condanna dal politico morale che esalta. Il politico morale è colui che non subordina la morale alle esigenze della politica ma interpreta i principî della prudenza politica in modo da farli coesistere con la morale: «Per quanto la massima: “L’onestà è la miglior politica” implichi una teoria, che la pratica purtroppo assai spesso smentisce, tuttavia la massima parimenti teoretica: “L’onestà è migliore di ogni politica” è al di sopra di ogni obbiezione, è anzi la condizione indispensabile della politica» 17. Per uno studioso di morale può essere interessante sapere che tanto Erasmo quanto Kant, pur partendo da teorie morali, intendo sul fondamento della morale, diverse, ricorrono, allo scopo di sostenere la loro tesi, allo stesso argomento, che nella teoria etica di oggi si chiamerebbe «consequenzialista», vale a dire che tiene conto delle conseguenze. Contrariamente a ciò che affermano i machiavellici, per cui l’inosservanza delle regole morali correnti è la condizione per aver successo, i nostri due autori sostengono che alla lunga il successo arride al sovrano rispettoso dei principî della morale universale. È come dire: «Fai il bene, perché questo è il tuo dovere; ma anche perché indipendentemente dalle tue intenzioni, la tua azione sarà premiata». Si tratta, come ognuno vede, di un argomento pedagogico molto comune, ma non di grande forza persuasiva. Diciamolo pure: è un argomento debole che non è suffragato né dalla storia né dall’esperienza comune.

Come esempio della seconda versione del monismo, ovvero della riduzione della morale alla politica, io ho scelto Hobbes, naturalmente anche qui con tutte le cautele del caso, soprattutto dopo che alcuni critici recenti hanno messo in rilievo quella che è stata chiamata la chiarezza piena di confusione dell’autore del Leviathan e hanno diffidato il lettore, avvinto e affascinato dalla forza logica dell’argomentazione hobbesiana, nei riguardi di interpretazioni troppo unilaterali. A me tuttavia pare che, per certi aspetti, sia difficile trovare un autore in cui il monismo normativo sia piú rigoroso, e il sistema normativo, esclusivo di tutti gli altri, sia il sistema politico, ovvero il sistema di norme che derivano dalla volontà del sovrano legittimato dal contratto sociale. Si possono addurre molti argomenti: per Hobbes, i sudditi non hanno il diritto di giudicare ciò che è giusto e ingiusto perché questo spetta soltanto al sovrano, e il sostenere che il suddito abbia il diritto di giudicare ciò che è giusto e ingiusto è considerato una teoria sediziosa. Ma l’argomento fondamentale è che Hobbes è uno dei pochi autori, forse l’unico, in cui non c’è distinzione tra principe e tiranno: e non c’è questa distinzione perché non esiste la possibilità di distinguere il buon governo dal mal governo. Infine, siccome mi sono riferito al contrasto tra chiesa e stato come al contrasto determinante per capire il problema della ragion di stato nel Cinquecento e nel Seicento, ricordo che Hobbes riduce la chiesa allo stato: le leggi della chiesa sono leggi soltanto in quanto sono accettate, volute e rafforzate dallo stato. Hobbes, negando la distinzione tra chiesa e stato, e riducendo la chiesa allo stato, elimina la ragione stessa del contrasto.

Teoria della deroga.

Secondo le teorie del monismo flessibile, il sistema normativo è uno solo ed è quello morale, abbia esso il proprio fondamento nella rivelazione o nella natura da cui la ragione umana è in grado di ricavare con le sole sue forze leggi universali della condotta. Ma queste leggi, proprio per la loro generalità, non possono essere applicate in tutti i casi. Non vi è legge morale che non preveda eccezioni in circostanze particolari. La regola «non uccidere» viene meno nel caso della legittima difesa, vale a dire nel caso in cui la violenza è l’unico rimedio possibile, in quella particolare circostanza, alla violenza, in base alla massima che espressamente o tacitamente è accolta dalla maggior parte dei sistemi normativi morali e giuridici: vim vi repellere licet. La regola «non mentire» viene meno, per esempio, nel caso in cui l’affiliato a un movimento rivoluzionario viene arrestato e gli si chiede di denunciare i propri compagni. In ogni sistema giuridico è massima consolidata che lex specialis derogat generali. Questa massima è altrettanto valida in morale, e in quella morale codificata che è contenuta nei trattati di teologia morale a uso dei confessori.

Secondo la teoria che sto esponendo, ciò che appare a prima vista una violazione dell’ordine morale, commessa dal detentore del potere politico, altro non è che una deroga alla legge morale compiuta in una circostanza eccezionale. In altre parole, ciò che giustifica la violazione è la eccezionalità della situazione in cui il sovrano si è trovato a operare. Giacché stiamo cercando di individuare i diversi motivi di giustificazione della condotta non morale dell’uomo politico, qui il motivo viene trovato non nel presupporre l’esistenza di un diverso sistema normativo, ma all’interno dell’unico sistema normativo ammesso, dentro il quale si considera valida la regola che prevede la deroga in casi eccezionali. Ciò che se mai caratterizza la condotta del sovrano è la straordinaria frequenza delle situazioni eccezionali in cui si viene a trovare in paragone all’uomo comune: questa frequenza è dovuta al fatto che egli opera in un contesto di rapporti, specie con gli altri sovrani, in cui l’eccezione viene elevata, per quanto possa essere considerato contraddittorio, a regola (ma contraddittorio non è, perché qui si tratta di regola nel senso di regolarità, e la regolarità di un comportamento contrario non è detto che faccia venir meno la validità della regola data). Anche se può sembrare che la deroga sia sempre vantaggiosa per il sovrano (ed è proprio questo vantaggio che è stato guardato con ostilità dai moralisti), si può dare anche il caso contrario, se pure piú raramente: la deroga infatti può agire estensivamente perché permette al sovrano ciò che è moralmente proibito, ma può agire anche restrittivamente perché proibisce il compimento di azioni che all’uomo comune sono permesse: noblesse oblige.

Sull’importanza storica di questo motivo di giustificazione non ho bisogno di spendere molte parole. I teorici della ragion di stato, che fiorirono nel corso del XVII secolo, ai quali si deve la piú intensa e continua riflessione sul tema dei rapporti fra politica e morale, erano spesso dei giuristi, e fu per loro naturale applicare alla soluzione del problema, che Machiavelli aveva posto all’ordine del giorno con una soluzione nettamente dualistica, come vedremo fra poco, il principio ben noto ai giuristi della deroga per circostanze eccezionali in stato di necessità. In questo modo essi erano in grado di salvaguardare il principio dell’unico codice morale, e nello stesso tempo di offrire ai sovrani un argomento, per le loro azioni compiute in violazione di quell’unico codice, che serviva a coprire quel «volto demoniaco del potere» che Machiavelli aveva con scandalo scoperto. Jean Bodin, scrittore cristiano e giurista, inizia la sua grande opera, De la République, con un’invettiva contro Machiavelli (un’invettiva che era di rito per uno scrittore cristiano), ma là dove tratta della differenza fra il buon principe e il tiranno sostiene che «non si può considerare tirannico quel governo che debba valersi di mezzi violenti, come uccisioni, bandi o confische, o altri atti di forza e d’armi, come avviene necessariamente all’atto del cambiamento o del ristabilimento di un regime». Cambiamento e ristabilimento di regime sono per l’appunto quelle circostanze eccezionali, quello stato di necessità, che giustifica atti che in circostanze normali sarebbero considerati immorali.

La teoria dell’etica speciale.

Per illustrare il secondo motivo di giustificazione del divario fra morale comune e condotta politica mi servo di un’altra categoria giuridica: quella del ius singulare. Sono il primo a riconoscere che queste analogie fra teorie politiche e teorie giuridiche debbono essere assunte con prudenza: ma, per effetto della loro lunga elaborazione e della loro costante applicazione nella casistica legale, esse offrono spunti di riflessione e suggerimenti pratici in campi affini, com’è quello della casistica morale e politica. A differenza del rapporto fra regola ed eccezione, che riguarda la particolarità di una situazione, lo «stato di necessità», il rapporto fra ius commune e ius singulare riguarda in primo luogo la particolarità dei soggetti, ovvero lo status di certi soggetti che proprio in ragione di questo loro status godono o soffrono di un regime normativo diverso da quello della gente comune. Anche in questo caso si può parlare di deroga rispetto al diritto comune, ma ciò che distingue questo tipo di deroga da quella esaminata nel paragrafo precedente è il riferimento non già a un tipo di situazione ma a un tipo di soggetto, e non importa poi se la tipicità del soggetto derivi dalla condizione sociale, per cui l’ordinamento giuridico cui è sottoposto il nobile è diverso da quello cui è sottoposto il borghese o il contadino, oppure dall’attività svolta, in base alla quale, per fare un esempio noto, si è venuto formando da secoli il diritto dei mercanti in «deroga» al diritto civile.

Applicata al discorso morale, la categoria del ius singulare serve egregiamente, a mio parere, come introduzione al capitolo delle cosiddette etiche professionali. S’intende per etica professionale quell’insieme di regole di condotta cui si debbono considerare sottoposte le persone che svolgono una determinata attività e che generalmente differiscono dall’insieme delle norme della morale comune o per eccesso o per difetto, vale a dire perché impongono ai membri della corporazione obblighi piú rigidi oppure perché li esentano da obblighi impraticabili, come quello di dire la verità nel caso del medico di fronte al malato di una malattia incurabile. Nulla vieta di chiamare le etiche professionali morali singolari nello stesso senso in cui si parla nella teoria giuridica di diritti singolari, tanto piú che gli stessi utenti amano attribuire a esse un nome specifico e particolarmente impegnativo per la sua solennità: deontologia.

Costituiscono coloro che svolgono un’attività politica qualcosa che può essere assimilato a una professione o a una corporazione? Sia ben chiaro che qui non si tratta di prendere posizione di fronte al problema attuale del «professionismo politico». Si tratta di sapere se l’attività politica sia un’attività con caratteristiche specifiche tali da richiedere un regime normativo particolare che abbia la stessa ragion d’essere di una qualsiasi altra etica professionale, la ragione di consentire lo svolgimento di quella determinata attività e di raggiungere il fine che le è proprio: il fine del politico è il bene comune come quello del medico è la salute, quello del sacerdote la salvezza delle anime. Il porre la domanda in questi termini non ha nulla di stravagante: la riflessione sulla natura dell’attività politica ha avuto inizio nella Grecia antica da quando la si è considerata come una tecnica, una forma del fare costruttivo (il poiéin), e dalla comparazione di questa arte con altre forme di arte in cui è richiesta per il loro buon esito una competenza specifica. Il dialogo platonico Il Politico, il cui scopo è di spiegare in che cosa consiste la scienza regia, cioè il sapere proprio di colui che deve governare, è una dotta comparazione fra l’arte del governo e quella del tessitore. Del resto, la similitudine tanto frequente da diventare rituale fra l’arte del governo e quella del nocchiero ci ha lasciato in eredità la parola «governo» e derivati, di cui ci serviamo abitualmente senza ricordarne il significato primitivo, salvo vederlo rispuntare in situazioni e ambienti storici diversissimi allorquando abbiamo appreso che Mao veniva chiamato il «grande timoniere».

Lungo tutta la storia del dibattito secolare sulla ragion di stato, accanto alla giustificazione della «immoralità» della politica, dedotta dall’argomento dello stato di necessità, si svolge quello derivato dalla natura dell’arte politica, che impone a chi la esercita azioni moralmente riprovevoli ma richieste dalla natura e dal fine dell’attività stessa. Se vi è un’etica politica diversa dall’etica etica, ciò dipende, secondo questa argomentazione, dal fatto che il politico, come il medico, il commerciante, il prete, non potrebbe fare il suo mestiere senza obbedire a un codice che gli è proprio e che in quanto tale non è detto debba coincidere con il codice della morale comune né con quello degli altri mestieri. L’etica politica diventa cosí l’etica del politico e, in quanto etica del politico e dunque in quanto etica speciale, può avere i suoi giustificati motivi per l’approvazione di una condotta che al volgo può apparire immorale ma che al filosofo appare semplicemente come il necessario conformarsi dell’individuo-membro all’etica del gruppo. Si rilegga il brano di Croce già citato, e si vedrà come la considerazione dell’arte politica come un mestiere tra gli altri mestieri non ha perso nulla della sua perenne vitalità. Condannando la comune e, a suo parere, errata richiesta da parte degli «imbecilli», che il politico sia onesto, Croce si lascia andare a profferire questa sentenza: «laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a un’operazione chirurgica, chiede un onest’uomo […] ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia […] nelle cose della politica si chiedono, invece, non uomini politici [uomini cioè che sappiano fare il loro bravo mestiere di politici, aggiungo io], ma onest’uomini, forniti tutt’al piú di attitudini d’altra natura». E continua: «Perché è evidente che le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politico, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, ma non già nella politica» 18. Vorrei richiamare l’attenzione su quell’«improprio», che fa pensare, per contrasto, a una «proprietà» della politica, che non è evidentemente quella della morale.

La teoria della superiorità della politica.

Ora passo da concezioni di monismo attenuato o corretto, «la moralità è una sola ma la sua validità viene meno in situazioni eccezionali o in sfere di attività speciali», a una concezione di dualismo dichiarato ma apparente. Chiedo un po’ di tolleranza per questo insistente riferimento a categorie giuridiche, ma anche in questo caso mi viene in aiuto un ben noto principio giurisprudenziale, secondo cui quando due norme sono poste l’una sopra l’altra, ovvero in ordine gerarchico, se sono antinomiche, prevale quella superiore.

Rispetto al problema dei rapporti fra morale e politica, una del le soluzioni possibili è il concepire morale e politica come due sistemi normativi distinti ma non totalmente indipendenti l’uno dall’altro, sibbene posti l’uno sull’altro in ordine gerarchico. Naturalmente una soluzione di questo genere può avere due versioni: dei due sistemi normativi, il morale è superiore al politico, oppure il politico è superiore al morale. Della prima versione si può trovare un esempio caratteristico nella filosofia pratica di Croce, della seconda in quella di Hegel. Nel sistema di Croce, economia ed etica sono due distinti, non sono né opposti né collocati sullo stesso piano: la seconda è superiore alla prima in quanto appartiene al momento dello Spirito che supera il momento inferiore. La politica appartiene alla sfera dell’economia e non a quella dell’etica. Non è detto che «superare» significhi essere superiore anche in senso assiologico, ma di fatto ogni qualvolta Croce si pone il problema machiavellico del rapporto tra etica e politica, sembra ammettere che la differenza tra i due momenti sia una differenza assiologicamente gerarchica, anche se non è sempre molto chiaro quali ne siano le conseguenze. Una azione politica contraria alla morale è da condannare? Che cosa significa che è lecita nella sua sfera particolare, se poi si ammette che esiste una sfera normativamente superiore? Sono domande cui è molto difficile rispondere. Croce è ritornato sul tema infinite volte. Qui mi riferisco a un passo che si trova nel volume intitolato, per l’appunto, Etica e politica, dove insiste su un punto: la cerchia della politica è quella dell’utilità, degli affari, dei negoziati, delle lotte, e in queste continue guerre, individui, popoli e stati si mantengono vigili contro individui, popoli, stati, intenti a mantenere e a promuovere la propria esistenza, rispettando l’altrui solo in quanto giovi alla loro propria. Poi, continuando il proprio ragionamento, ammonisce che bisogna guardarsi dal comune errore di staccare l’una dall’altra le forme di vita. Esorta a respingere le sciocche moralizzazioni e a tenere per falso a priori ogni dissidio che si crede di scorgere tra la politica e la morale, perché la vita politica o prepara la vita morale o è essa stessa strumento di forma di vita morale. Insomma, nella dialettica crociana, che è dialettica non degli opposti ma dei distinti, di cui l’uno è superiore all’altro, morale e politica vengono interpretate come due distinti e, come si vede dall’ultima parte del brano, la politica sta sotto e la morale sta sopra.

Al contrario, Hegel, pur ammettendo l’esistenza dei due sistemi, ritiene gerarchicamente superiore il sistema politico, e in questa superiorità del sistema politico trova un ottimo argomento di giustificazione della condotta immorale dell’uomo politico, se e in quanto essa sia conforme a una norma superiore, dalla quale si deve considerare abrogata, e quindi invalida, una norma con essa incompatibile del sistema normativo inferiore. Per fare i soliti esempi di scuola, se nel sistema normativo di un gruppo di latrones, o di pirati o di «masnadieri», o perché no? di zingari, per non parlare di mafia, camorra, et similia, che appartengono alla nostra esperienza quotidiana, esiste una norma che considera lecito il furto (s’intende delle cose non appartenenti a membri del gruppo), è evidente che la norma che proibisce il furto esistente nel sistema normativo considerato inferiore, sia esso quello dello stato o della chiesa o della morale dei non appartenenti al gruppo, deve considerarsi implicitamente abrogata, in quanto incompatibile con una norma del sistema normativo ritenuto superiore. Gli stati, in fondo, potrebbero essere anch’essi, secondo il famoso detto di sant’Agostino, «magna latrocinia».

A maggior ragione, chi ha considerato lo stato non come un magnum latrocinium ma come il «razionale in sé e per sé», come il momento ultimo dell’eticità la quale è a sua volta il momento ultimo dello Spirito oggettivo (della filosofia pratica nel senso tradizionale della parola), doveva porre gli imperativi ultimi dello stato al di sopra degli imperativi della morale individuale. Il sistema di Hegel è un grande esempio, e grandemente illuminante, anche per la sua singolarità, della totale inversione del rapporto fra morale e politica che aveva avuto una delle massime espressioni nel pensiero kantiano. Serve, infatti, magnificamente a illustrare una forma di giustificazione della immoralità della politica diversa da tutte quelle esaminate sin qui: la morale nel senso tradizionale della parola non è da Hegel espunta dal sistema, ma è considerata un momento inferiore nello sviluppo dello Spirito oggettivo che trova il suo compimento nella morale collettiva o eticità (di cui lo stato è il portatore).

Hegel era un ammiratore di Machiavelli di cui aveva tessuto le lodi già nell’opera giovanile sulla Costituzione della Germania. In politica era un realista che sapeva quale posto dare alle chiacchiere dei predicatori quando entrano in campo gli ussari con le loro sciabole luccicanti. Forse che la maestà dello stato, «di quella ricca membratura dell’ethos in sé che è lo stato», deve chinarsi dinanzi a coloro che vi contrappongono la «pappa del cuore, dell’amicizia e dell’ispirazione»?

Nel paragrafo 337 dei Lineamenti di filosofia del diritto riassume brevemente ma esaurientemente la sua dottrina in proposito. Il paragrafo comincia cosí: «Si è molto discusso, un tempo, del contrasto di morale e politica e della pretesa che la seconda sia conforme alla prima». Ma è una discussione, lascia capire Hegel, che ha fatto il suo tempo, ed è diventata anacronistica, almeno da quando si è cominciato a comprendere che il bene dello stato ha una «giustificazione» completamente diversa dal bene del singolo: lo stato ha una sua ragion d’essere «concreta» e solo questa sua esistenza concreta può valere come principio della sua azione, non un imperativo morale astratto che prescinda completamente dalle esigenze e dai vincoli imposti dal movimento storico, di cui lo stato, non il singolo individuo e nemmeno la somma dei singoli individui, è il protagonista. Di qui deriva fra l’altro la nota tesi che solo la Storia universale, non un’astorica morale posta (da chi?) al di sopra di essa, può giudicare del bene e del male degli stati, dai quali dipende la sorte del mondo ben piú che dalla condotta, per morale che sia, di questo o quel singolo individuo. Da questo punto di vista mi pare giusto dire che per Hegel la morale individuale è inferiore per quel che riguarda la sua validità alla morale dello stato e deve cedere a essa quando il compito storico dello stato lo richiede.

Il fine giustifica i mezzi.

Una soluzione dualistica, non piú soltanto apparente ma reale è quella che è passata alla storia col nome di «machiavellica», perché a torto o a ragione vien fatta risalire all’autore del Principe. Qui il dualismo è fondato sulla distinzione fra due tipi di azioni, le azioni finali che hanno un valore intrinseco, e quelle strumentali, che hanno un valore solo in quanto servono a raggiungere un fine considerato esso solo come avente un valore intrinseco. Mentre le azioni finali, chiamate buone in sé, come il soccorrere il sofferente, e in genere tutte le tradizionali «opere di misericordia», vengono giudicate di per se stesse, in quanto azioni «disinteressate», che appunto vengono compiute con nessun altro interesse che quello di compiere un’azione buona, le azioni strumentali, o buone per altro da sé, vengono giudicate in base alla loro maggiore o minore idoneità al raggiungimento di un fine.

Non c’è teoria morale che non avverta questa distinzione. Per fare un esempio noto, vi corrisponde la distinzione weberiana tra azioni razionali conformi al valore (wert-rational) e azioni razionali conformi allo scopo (zweck-rational). Cosí non vi è teoria morale che non si renda conto che la stessa azione può essere giudicata in due modi diversi secondo il contesto in cui si svolge e l’intenzione con cui è stata compiuta. Il soccorrere il povero, un’azione che di solito viene citata a esempio di azione buona in sé, diventa un’azione buona per altro, e come tale deve essere giudicata, se viene compiuta allo scopo di ottenere un premio di virtú: se chi la compie non ottiene il premio, si potrà anche dire che l’azione è stata razionale rispetto al valore ma certamente non rispetto allo scopo.

Ciò che costituisce il nucleo fondamentale del machiavellismo non è tanto il riconoscimento della distinzione fra azioni buone in sé e azioni buone per altro, quanto la distinzione fra morale e politica sulla base di questa distinzione, vale a dire l’affermazione che la sfera della politica è la sfera di azioni strumentali che in quanto tali debbono essere giudicate non in se stesse ma in base alla loro maggiore o minore idoneità al raggiungimento dello scopo. Il che spiega perché si sia parlato, a proposito della soluzione machiavellica, di amoralità della politica, cui corrisponderebbe, sebbene l’espressione non sia entrata nell’uso (non essendo necessaria), l’ «apoliticità della morale»: amoralità della politica nel senso che la politica nel suo complesso, come insieme di attività regolate da norme e valutabili con un certo criterio di giudizio, non ha niente a che vedere con la morale, nel suo complesso come insieme, anch’essa, di azioni regolate da norme diverse e valutabili con un diverso criterio di giudizio. Appare a questo punto chiaramente la differenza fra una soluzione come quella di cui stiamo discorrendo, fondata sull’idea della separatezza e dell’indipendenza fra morale e politica, e che in quanto tale si può ben chiamare dualistica, senza attenuazione, e le soluzioni precedentemente esaminate in cui manca o la separazione, giacché la politica è inglobata nel sistema normativo morale se pure con uno statuto speciale, oppure l’indipendenza, essendo morale e politica distinte sí ma in rapporto di reciproca dipendenza. La soluzione machiavellica dell’amoralità della politica viene presentata come quella il cui principio fondamentale è: «Il fine giustifica i mezzi». Per contrasto si potrebbe definire la sfera non politica (quella, tanto per intenderci, che si governa coi pater noster) come la sfera in cui è scorretto il ricorso alla distinzione fra mezzi e fini, perché ogni azione deve essere considerata di per se stessa per il valore o disvalore in essa intrinseco, indipendentemente dal fine. In una morale rigoristica come quella kantiana, in generale in una morale del dovere, la considerazione di un fine esterno all’azione non solo è impropria ma è anche impossibile, perché l’azione per essere morale non deve avere altro fine che l’adempimento del dovere, che è per l’appunto il fine intrinseco all’azione medesima.

Anche se la massima «Il fine giustifica i mezzi» non si trova letteralmente in Machiavelli, si considera di solito come equivalente il passo del capitolo XVIII del Principe in cui, ponendosi il problema se il principe sia tenuto a rispettare i patti (il principio pacta sunt servanda, i patti devono essere osservati, è un principio morale universale quale che ne sia il fondamento, religioso, razionale, utilitaristico, ecc.), risponde che i principi che hanno fatto «gran cose» ne hanno tenuto poco conto. Risulta chiaro da questo passo che ciò che conta nella condotta dell’uomo di stato è il fine, la «gran cosa», e il raggiungimento del fine rende lecite azioni, come il non osservare i patti convenuti, condannate da quell’altro codice, il codice morale, cui sono tenuti i comuni mortali. Ciò che non risulta altrettanto chiaro è in che cosa consistano le grandi cose. Ma già una prima risposta si trova nello stesso capitolo, verso la fine, dove importante per il principe è «di vincere e mantenere lo stato».

Una seconda risposta, ancora piú chiara e anche piú comprensiva, è quella che si trova in un passo dei Discorsi (III, 41), in cui si celebra spiegatamente la teoria della separazione: «dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà» 19. Niente di nuovo sotto il sole: in questo brano Machiavelli non fa altro che illustrare con parole particolarmente efficaci la massima: salus rei publicae suprema lex (legge suprema è la salvezza dello stato). L’illustrazione avviene contrapponendo al solo principio che deve guidare il giudizio politico, al principio della «salvezza della patria», altri possibili criteri di giudizio dell’azione umana, fondati rispettivamente sulla distinzione fra il giusto e l’ingiusto, fra il pietoso e il crudele, fra il lodevole e l’ignominioso, che fanno riferimento, se pur da diversi punti di vista, a criteri di giudizio della morale comune.

Le due etiche.

Di tutte le teorie sul rapporto fra morale e politica quella che ha condotto alle estreme conseguenze la tesi della separazione, e che quindi può essere considerata la piú conseguentemente dualistica, ammette l’esistenza di due morali fondate sopra due diversi criteri di giudizio delle azioni, che portano a valutazioni della stessa azione non necessariamente coincidenti, e quindi sono fra di loro incompatibili e non sovrapponibili. Un esempio ormai classico della teoria delle due morali è la teoria weberiana della distinzione fra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Ciò che distingue queste due morali è proprio il diverso criterio che esse assumono per giudicare buona o cattiva un’azione. La prima si serve di qualche cosa che sta prima dell’azione, un principio, una norma, in generale una qualsiasi proposizione prescrittiva la cui funzione è quella di influire in maniera piú o meno determinante sul compimento di un’azione e insieme di permetterci di giudicare positivamente o negativamente un’azione reale in base all’osservazione della conformità o della difformità di essa all’azione astratta nella norma contemplata. La seconda, invece, per dare un giudizio positivo o negativo di un’azione si serve di qualche cosa che viene dopo, cioè del risultato, e dà un giudizio positivo o negativo dell’azione in base al raggiungimento o meno del risultato proposto. Popolarmente, queste due etiche si possono anche chiamare etica dei principî ed etica dei risultati. Nella storia della filosofia morale vi corrispondono, da un lato, le morali deontologiche, come quella kantiana, dall’altro, le morali teleologiche, come quella utilitaristica.

Le due etiche non coincidono: ciò che è bene rispetto ai principî non è detto sia bene rispetto ai risultati. E viceversa. In base al principio «non uccidere» la pena di morte è da condannarsi. Ma in base al risultato, in seguito a una eventuale provata constatazione che la pena di morte ha un grande potere d’intimidazione, potrebbe essere giustificata (e infatti gli abolizionisti si sono sforzati di dimostrare con dati statistici alla mano che un grande potere deterrente non ha).

Questa distinzione corre lungo tutta la storia della filosofia morale indipendentemente dalla connessione che essa possa avere con la distinzione fra morale e politica. Diventa rilevante rispetto a questa distinzione, quando si sostenga che l’etica del politico è esclusivamente l’etica della responsabilità (o dei risultati), che l’azione del politico si giudica in base al successo o all’insuccesso, che il giudicarla col criterio della fedeltà ai principî è dar prova di moralismo astratto e quindi di poco senno negli affari di questo mondo. Chi agisce secondo principî non si preoccupa del risultato delle proprie azioni: fa quel che deve e avvenga quel che può. Chi si preoccupa esclusivamente del risultato, non va tanto per il sottile rispetto alla conformità ai principî: fa quel che è necessario affinché avvenga quello che vuole. Il giudice, come si è letto piú volte nei giornali, che chiede al terrorista «pentito» se i terroristi si erano posti il problema del «non uccidere», rappresenta l’etica dei principî. Il terrorista che risponde che il gruppo si era posto soltanto il problema di riuscire o non riuscire rappresenta l’etica del risultato. Se si pente, non è perché senta rimorso per aver violato la legge morale, ma perché ritiene che alla fin fine l’azione politica intrapresa era fallita rispetto agli scopi proposti. In questo senso non può dirsi propriamente un pentito, ma piuttosto uno che si è convinto di aver sbagliato. Non ha riconosciuto tanto la colpa, quanto l’errore.

Si può non raggiungere lo scopo, ma si può anche raggiungere uno scopo diverso da quello che ci si era proposti. L’attentatore dell’arciduca Ferdinando disse, durante l’interrogatorio al processo: «Non prevedevo che dopo l’attentato sarebbe venuta la guerra. Credevo che l’attentato avrebbe agito sulla gioventú incitandola alle idee nazionalistiche». E uno dei complici, che fallí il colpo, disse: «Questo attentato ha avuto conseguenze che non si potevano prevedere. Se avessi potuto prevedere che cosa ne sarebbe derivato, mi sarei seduto io stesso su quella bomba per farmi a pezzi».

Superfluo insistere sulla illustrazione di questa nota distinzione, anche se è da osservare che la risoluzione di tutta la politica a etica della responsabilità è un’indebita estensione del pensiero di Weber, il quale in tema di etica (e non di meta-etica), ovvero di convinzione personale (e non di astratta teoria), non è affatto disposto a compiere questa riduzione. Nell’azione del grande politico etica della convinzione ed etica della responsabilità non possono andare disgiunte, secondo Weber, l’una dall’altra. La prima, presa in sé, condotta alle estreme conseguenze, è propria del fanatico, figura moralmente ripugnante. La seconda, totalmente scissa dalla considerazione dei principî da cui nascono le grandi azioni, e tutta tesa soltanto al successo (si ricordi il machiavellico «facci uno principe di vincere»), caratterizza la figura moralmente non meno riprovevole del cinico.

Esiste una relazione fra le varie teorie?

Ciò che mi pare ancora interessante osservare in forma di conclusione di questa rassegna delle «giustificazioni», proprio a proposito di quest’ultima che pare la piú drastica, una volta che venga accettata la distinzione tra morale come etica della convinzione e politica come etica della responsabilità, è che tutte e cinque si richiamano l’una con l’altra, tanto da poter essere considerate, come del resto è forse già apparso al lettore, variazioni dello stesso tema. Il che naturalmente non esclude la possibilità e non toglie l’utilità della loro distinzione dal punto di vista analitico, che è quello adottato sin qui. In una catena discendente, cioè percorrendo il nostro cammino a ritroso, l’ultima variazione, ovvero l’etica della responsabilità, si ricollega alla precedente, la dottrina machiavellica, secondo cui conta nel giudizio politico l’idoneità del mezzo al raggiungimento del fine indipendentemente dalla considerazione dei principî. Questa a sua volta considerata la «salute della patria» come fine ultimo dell’azione politica, da cui dipende il giudizio sulla bontà o meno delle singole azioni in base alla maggiore o minore conformità al fine ultimo, richiama immediatamente la soluzione che la precede, quella di Hegel, non a caso, come si è detto, ammiratore di Machiavelli, secondo cui lo stato (la «patria» dei Discorsi e la res publica del detto tramandato dalla morale politica tradizionale) ha una sua ragion d’essere «concreta», che è poi la «ragion di stato» degli scrittori politici che osservano e commentano la nascita e la crescita dello stato moderno, e questa ragione concreta vale come principio esclusivo dell’azione del sovrano e quindi del giudizio positivo o negativo che si può dare su di essa. A ben guardare, anche la giustificazione fondata sulla specificità dell’etica professionale, la nostra seconda variazione, deriva da una netta prevalenza del fine come criterio di valutazione: ciò che caratterizza infatti la singola professione è il fine comune a tutti i membri del gruppo, la salute del corpo per il medico o la salute dell’anima per il sacerdote. Tra questi fini professionali specifici è perfettamente legittimo annoverare una terza forma di salute, non meno importante delle altre due, la salus rei publicae, come fine proprio dell’uomo politico. Infine, anche la prima variazione, quella fondata sulla deroga in caso di necessità, che è a mio parere la piú comune, ed è la piú comune perché è, tutto sommato, la meno scandalosa o la piú accettabile da chi si pone dal punto di vista della morale comune, può essere interpretata come una deviazione dal retto cammino dovuta al fatto che proseguire nel retto cammino in quella particolare circostanza condurrebbe a una meta diversa da quella proposta o addirittura a nessuna meta.

Varrebbe la pena mettere alla prova tutti questi motivi di giustificazione (ed eventuali altri) di fronte a un caso storico concreto, a uno di quei casi limite, rappresentati bene dalla figura tradizionale del tiranno, in cui il divario fra la condotta che la morale prescrive all’uomo comune e la condotta del signore della politica è piú evidente. Uno di questi casi esemplari è il regno di Ivan il Terribile, che ha suscitato un dibattito intensissimo e appassionatissimo, ormai secolare, nella storiografia russa e sovietica.

Assumo questo caso, ma se ne potrebbero assumere altri, non solo perché è davvero un caso limite, ma soprattutto perché se ne può leggere una dotta e ampia sintesi in un libro di uno storico molto sensibile al problema che ci sta a cuore 20. Nella difesa di colui che è stato considerato il fondatore dello stato russo, i motivi di giustificazione sin qui esaminati vi compaiono, in forma piú o meno esplicita, tutti. Soprattutto il primo, lo stato di necessità, e l’ultimo, il risultato ottenuto. Ma tutte queste iustae causae sono tenute insieme dalla considerazione della grandiosità del fine, che equivale esattamente alle «gran cose» di Machiavelli. Uno degli storici presi in considerazione, I. I. Smirnov, parla di «necessità oggettiva dello sterminio fisico dei principali rappresentanti delle famiglie ostili aristocratiche e boiare» 21. Proprio cosí: la necessità non ha legge. È un vecchio detto che non si possa costringere una persona a compiere un’azione impossibile. Con la stessa logica si deve dire che non si può proibire alla stessa persona di fare ciò che è necessario. Come lo stato d’impossibilità è incompatibile con l’osservanza di comandi, cosí lo stato di necessità è incompatibile con l’osservanza di divieti. La considerazione dello stato di necessità è strettamente connessa con la considerazione del risultato: ciò che rende «oggettivamente necessaria» un’azione è la considerazione di essa come l’unica possibile condizione per il raggiungimento del fine voluto e giudicato buono. E infatti lo stesso Smirnov conclude immancabilmente che, nonostante la «forma crudele» che assunse la lotta per l’accentramento, questo era il prezzo che si doveva pagare al progresso e alla liberazione dalle «forze della reazione e della stagnazione» 22. Si parla di Ivan ma la mente corre subito a Stalin. E Yanov infatti commenta: «Usando la stessa analogia, uno storico che sostenesse che la Russia sovietica degli anni Trenta era veramente satura di tradimento, che tutto il personale dirigente del paese stava complottando contro lo stato e che l’asservimento dei contadini durante la collettivizzazione e l’attaccamento degli operai e degli impiegati alloro lavoro era “storicamente necessario” alla sopravvivenza dello stato, sarebbe costretto a “giustificare moralmente” il terrore totale e il Gulag» 23.

Un’ultima considerazione. Tutte queste giustificazioni hanno in comune l’attribuzione delle regole della condotta politica alla categoria delle norme ipotetiche, sia nella forma delle norme condizionate, del tipo «Se è A, deve essere B», come è il caso della giustificazione sulla base del rapporto fra regola ed eccezione, sia nella forma delle norme tecniche o prammatiche, del tipo «Se vuoi A, devi B», dove A può essere un fine soltanto possibile o anche necessario, come in tutti gli altri casi. Questa esclusione degli imperativi categorici dalla sfera della politica corrisponde, del resto, alla opinione comune secondo cui la condotta degli uomini di stato è guidata da regole di prudenza, intese come quelle dalle quali non deriva un obbligo incondizionato che prescinda da ogni considerazione della situazione e del fine, ma soltanto un obbligo da osservarsi quando si verifichi quella determinata condizione o per il raggiungimento di un determinato fine. A chiarire questo tratto essenziale delle teorie morali della politica nulla serve piú di questo pensiero di Kant, cui si deve la prima e piú compiuta elaborazione della distinzione fra imperativi categorici e imperativi ipotetici: «La politica dice: “Siate prudenti come serpenti”; la morale aggiunge (come condizione limitativa) “e semplici come colombe”» 24.

Osservazioni critiche.

Sia ben chiaro che tutte queste giustificazioni (valgano quel che valgono, ma pur devono valere qualche cosa se rappresentano tanta parte della filosofia politica dell’età moderna) non tendono a eliminare la questione morale in politica, ma soltanto, proprio partendo dalla importanza della questione, a precisarne i termini e a delimitarne i confini. Ho detto che si giustifica la deviazione e non la regola. Ma appunto la deviazione ha bisogno di essere giustificata, perché la regola in tutti i casi in cui la deviazione non è giustificabile continua a valere. Nonostante tutte le giustificazioni della condotta politica che devia dalle regole della morale comune, il tiranno resta il tiranno, e può essere definito come colui la cui condotta non riesce a essere giustificata da nessuna delle teorie che pur riconoscono una certa autonomia normativa della politica rispetto alla morale. Machiavelli, sebbene affermi che quando si tratta della salute della patria non vi deve essere alcuna considerazione di «pietoso e di crudele», condanna Agatocle come tiranno perché le sue crudeltà erano «male usate». Bodin, sopra ricordato come un teorico dello stato di eccezione, illustra in alcune pagine famose la differenza fra il re e il tiranno.

Riprendendo brevemente le varie teorie:

1) Vale anche per la teoria dello stato di necessità che l’eccezione conferma la regola proprio in quanto eccezione, perché, se valesse sempre il criterio dell’eccezione, non vi sarebbe piú eccezione e non vi sarebbe piú regola. Se la deviazione deve essere consentita solo se è giustificata, vuol dire che si dà come presupposto che vi siano deviazioni non giustificabili e in quanto tali inammissibili.
2) L’etica politica è l’etica di colui che esercita attività politica, ma l’attività politica nella concezione di chi svolge il proprio argomento partendo dalla considerazione dell’etica professionale non è l’esercizio del potere in quanto tale, ma del potere per il raggiungimento di un fine che è il bene comune, l’interesse collettivo o generale. Non è il governo ma il buon governo. Uno dei criteri tradizionali e continuamente rinnovati per distinguere il buon governo dal malgoverno è per l’appunto la valutazione del conseguimento o meno di questo fine specifico: buon governo è quello di chi persegue il bene comune, malgoverno è quello di chi persegue il bene proprio.
3) La politica è superiore alla morale? Ma è tale non ogni politica ma solo quella di chi realizza in una determinata epoca storica il fine supremo dell’attuazione dello Spirito oggettivo, la politica dell’eroe o dell’individuo della Storia universale.
4) Il fine giustifica i mezzi. Ma chi giustifica il fine? Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato? Ogni fine che si proponga l’uomo di stato è un fine buono? Non deve esservi in criterio ulteriore che permetta di distinguere fini buoni da fini cattivi? E non ci si deve domandare se i mezzi cattivi non corrompano per avventura anche i fini buoni?
5) L’etica politica è l’etica dei risultati e non dei principî. Ma di tutti i risultati? Se si vuole distinguere risultato da risultato non occorre ancora una volta risalire ai principî? Si può ridurre il buon risultato al successo immediato? I vinti hanno sempre torto per il solo fatto di essere vinti? Ma il vinto di oggi non può essere il vincitore di domani? Victrix causa deis placuit | Sed victa Catoni. Catone non appartiene alla Storia? E cosí via. E cosí via.
Il problema della legittimità del fine.

Tutte queste domande non sono una risposta, ma fanno capire in quale direzione si debba cercare la risposta, e questa direzione non è quella dell’idoneità dei mezzi, ma quella della legittimità del fine. Un problema non esclude l’altro, ma si tratta di due problemi diversi e conviene tenerli ben distinti. Il problema dell’idoneità dei mezzi si pone quando si vuol dare un giudizio sull’efficienza del governo, che è chiaramente giudizio tecnico e non morale: un governo efficiente non è di per se stesso un buon governo. Questo giudizio ulteriore non si accontenta del raggiungimento del fine ma si pone la domanda: quale fine? Riconosciuto come fine dell’azione politica la salvezza della patria o l’interesse generale o il bene comune (contrapposti alla salute del governante, agli interessi particolaristici, al bene proprio), il giudizio non piú sull’idoneità dei mezzi ma sulla bontà del fine è un vero e proprio giudizio morale, anche se, per le ragioni che vengono addotte da tutte le teorie giustificazionistiche, di una morale diversa o in parte diversa dalla morale comune, in base alla quale vengono giudicate le azioni degli individui singoli. Il che vuol dire che, pur tenendo conto delle ragioni specifiche dell’azione politica, della cosiddetta «ragion di stato», che evoca episodi sinistri per il cattivo uso che se n’è fatto, anche se di per se stessa indica unicamente i caratteri distintivi dell’etica politica, l’azione politica non si sottrae affatto, come ogni altra azione libera o presunta libera dell’uomo, al giudizio di lecito e illecito, in cui consiste il giudizio morale, e che non si può confondere con il giudizio di idoneo o inidoneo.

Si può porre lo stesso problema anche in questi termini. Si ammetta pure che l’azione politica abbia in qualche modo riguardo alla conquista e alla conservazione e all’ampliamento del potere, del massimo potere dell’uomo sull’uomo, dell’unico potere cui si riconosce, se pure in ultima istanza, il diritto di ricorrere alla forza (ed è ciò che distingue il potere di Alessandro da quello del pirata che questo diritto non ha), tuttavia nessuna delle teorie giustificazionistiche, qui illustrate, considera la conquista, la conservazione e l’ampliamento del potere come beni in se stessi. Nessuna ritiene che lo scopo dell’azione politica sia il potere per il potere. Per lo stesso Machiavelli l’azione politica «immorale» (immorale rispetto alla morale dei pater noster) è giustificata soltanto se ha per fine le «grandi cose», o «la salute della patria». Perseguire il potere per il potere vorrebbe dire trasformare un mezzo, che come tale deve essere giudicato alla stregua del fine, in un fine in se stesso. Anche per chi considera l’azione politica come un’azione strumentale, essa non è strumento per qualsiasi fine che all’uomo politico piaccia perseguire. Ma una volta posta la distinzione tra un fine buono e un fine cattivo, una distinzione cui non è sfuggita alcuna teoria del rapporto fra morale e politica, è inevitabile distinguere l’azione politica buona da quella cattiva, il che significa sottoporla a un giudizio morale. Valga un esempio. Il dibattito sulla questione morale riguarda spesso, e in Italia prevalentemente, il tema della corruzione, in tutte le sue forme, previste del resto dal codice penale sotto la rubrica di reati quali interesse privato in atti di ufficio, peculato, concussione, eccetera, e specificamente, con riferimento quasi esclusivo a uomini di partito, il tema cosiddetto delle tangenti. Basta una breve riflessione per rendersi conto che ciò che rende moralmente illecita ogni forma di corruzione politica (tralasciando l’illecito giuridico), è la fondatissima presunzione che l’uomo politico che si lascia corrompere abbia anteposto l’interesse individuale all’interesse collettivo, il bene proprio al bene comune, la salute della propria persona e della propria famiglia a quella della patria. E ciò facendo sia venuto meno al dovere di chi si dedica all’esercizio dell’attività politica, e abbia compiuto un’azione politicamente scorretta.

Il discorso sarebbe finito qui se in uno stato di diritto, com’è quello della Repubblica italiana, dalle condizioni di salute della quale sono nate queste mie riflessioni, oltre al giudizio sull’efficienza e a quello morale o di morale politica, come ho cercato di spiegare sin qui, non si desse sull’azione politica anche un giudizio piú propriamente giuridico, vale a dire di conformità o meno alle norme fondamentali della Costituzione, cui è sottoposto l’esercizio dell’azione politica anche degli organi superiori dello stato. Tra le varie accezioni di stato di diritto mi riferisco a quella che lo definisce come il governo delle leggi contrapposto al governo degli uomini, e intende il governo delle leggi nel senso del moderno costituzionalismo.

Il giudizio sulla maggiore o minore conformità degli organi dello stato, o di quella parte integrante del potere sovrano che sono i partiti, alle norme della Costituzione e ai principî dello stato di diritto, può dar luogo al giudizio, che risuona cosí frequente nell’attuale dibattito politico, di scorrettezza costituzionale e di pratica antidemocratica, a che accade, per fare qualche esempio, nel caso dell’abuso dei decreti legge, di appello al voto di fiducia unicamente per stroncare l’opposizione e, per quel che riguarda i partiti, nella pratica del sottogoverno, che viola uno dei principî fondamentali dello stato di diritto, la visibilità del potere e la controllabilità del suo esercizio.

Anche se spesso la polemica politica non distingue i vari giudizi e li pone tutti e tre sotto l’etichetta della «questione morale», i tre giudizi, quello di efficienza, quello di legittimità e quello piú propriamente morale (che si potrebbe anche chiamare di merito), sul quale esclusivamente mi sono soffermato, debbono essere tenuti distinti per ragioni di chiarezza analitica e di attribuzione di responsabilità.

III.
IL BUONGOVERNO.

Quando Ernesto Rossi raccolse in un volume alcuni scritti di Luigi Einaudi per la Collana storica dell’editore Laterza decise, d’accordo con l’autore, di intitolarlo Il buongoverno. Nella scelta di questo titolo c’era un giudizio di condanna del recente passato e insieme un atto di fiducia, anche soltanto di speranza e di augurio, nel prossimo avvenire. Che cosa Einaudi intendesse per buongoverno si può desumere meglio che da ogni altro scritto da un saggio del 1941 (Liberismo e comunismo, pubblicato su «Argomenti» nel corso di un celebre dibattito con Croce sul rapporto fra libertà economica e liberalismo politico), là dove Cavour e Giolitti sono presi ad esempio del politico geniale ed esperto di cose economiche, l’uno, e dell’onesto e buon amministratore che ritiene essere compito del politico «governé bin», governare bene, l’altro. «Ma – aggiunge Einaudi – non si governa bene senza un ideale». E piú oltre: «Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile ed a me pare un mostro, dal quale il paese non può aspettarsi altro che sciagure. Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande […] il quale sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscono i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quell’ideale? Ma queste esigenze dicono che il politico non deve essere un mero maneggiatore di uomini; deve saperli guidare verso una meta e questa meta deve essere scelta da lui e non imposta dagli avvenimenti mutevoli del giorno che passa» 25.

Quando rilessi queste parole la mia mente corse subito e naturalmente alle famose pagine di Politik als Beruf di Max Weber: «Tre qualità possono dirsi sommamente decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza» 26. Passione, Weber spiega, nel senso di dedizione appassionata a una causa, di fronte alla quale si deve assumere intera la responsabilità, ovvero fare del senso di responsabilità la guida determinante della propria azione, donde la necessità della lungimiranza intesa come la capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore, il contrario della mancanza di distacco (Distanzlosigkeit), peccato mortale di qualsiasi uomo politico, e della vanità, ossia del bisogno di porre in primo piano con la massima evidenza la propria persona. Quando manca di una causa cosí concreta, il politico rischia continuamente di scambiare la prestigiosa apparenza del potere per il potere reale, e quando manca del senso di responsabilità, rischia di godere del potere semplicemente per amore della potenza, senza dare a esso uno scopo per contenuto.

Buongoverno e malgoverno: un’antitesi che percorre tutta la storia del pensiero politico, uno dei grandi temi, se non il piú grande, della riflessione politica di tutti i tempi. Problema fondamentale nel senso che non c’è problema di teoria politica dal piú vecchio al piú nuovo che non vi si riconnetta. Si può dire, senza timore di esagerare, che non c’è grande opera di teoria politica che non abbia tentato di rispondere alla domanda: «Come si distingue il buongoverno dal malgoverno?», e non possa essere ricondotta tutta quanta, nelle sue interne articolazioni, alla ricerca di una risposta a questa domanda. Anche le opere che sembrano proporsi uno scopo prevalentemente storico o analitico. Nella Politica, Aristotele, dopo aver descritto e classificato le costituzioni del suo tempo, con lo spirito e gli strumenti del ricercatore che sta ai fatti, non può sottrarsi all’esigenza di affrontare negli ultimi libri il problema della miglior forma di governo. Hegel, che nella prefazione alle lezioni di filosofia del diritto e dello stato allontana da sé il sospetto di volersi occupare in quanto filosofo dello stato come deve essere, lascia intendere a chi sappia leggere fra le righe di preferire la monarchia costituzionale, la forma di governo piú adatta alla maturità dei tempi e ai popoli piú progrediti, alle due coordinate principali della sua filosofia della storia, lo spirito del tempo e lo spirito del popolo.

Nella storia delle idee non c’è mai l’inizio e non c’è nulla di piú vano e disperato che cercare il momento iniziale, la fonte originaria, l’Ursprung. Non ho mai dimenticato, pur avendole lette molti anni fa, le prime parole di Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann: «Profondo è il pozzo del passato. Non dovremo dirlo insondabile?» Eppure bisogna cominciare, arrestarsi, non procedere oltre e fissare, se pure con un atto che può sembrare arbitrario, il punto di partenza. C’è per fortuna nella tradizione greca, da cui è nato in gran parte il nostro pensiero politico, un passo esemplare che, nonostante la lontananza, non ha perduto nulla del suo vigore e sembra fatto apposta per rendere meno casuale e quasi obbligato il dato d’origine e per essere posto a guisa d’illustre antenato all’inizio di una lunga famiglia di testi che arriva sino a noi. Nel piú celebre dei suoi carmi Solone, dopo aver espresso la propria indignazione contro i cittadini che seguono ciecamente il desiderio di ricchezza e le guide del popolo che insaziabili ammucchiano ricchezze senza risparmiare né le proprietà sacre né quelle pubbliche «e saccheggiano chi qua chi là né hanno riguardo per gli augusti fondamenti di Dike», contrappone l’eunomia (le buone leggi) alla disnomia (le cattive leggi), e descrive la prima cosí: «Il buongoverno tutto rende bene ordinato e composto e spesso getta catene intorno agli ingiusti; ammorbidisce le asprezze, pone termine all’insaziabilità, addomestica la violenza, fa seccare sul crescere i fiori della pazzia, raddrizza le sentenze ingiuste, mitiga le opere della superbia, spegne le azioni della divisione discorde, spegne l’ira della contesa funesta; sotto di esso tutte le cose sono ben regolate e sagge» 27.

Eunomia-disnomia è una classica coppia di contrari, che ne comprende nel suo seno tante altre, una vera e propria «grande dicotomia», che serve a designare con un solo tratto, e abbracciare con un solo sguardo, tutte le piú comuni coppie di contrari del linguaggio politico: ordine-disordine, concordia-discordia, pace-guerra, moderazione-tracotanza, mitezza-violenza, giustizia-ingiustizia, saggezza-dissennatezza. Tutte caratterizzate dall’essere assiologicamente ben definite una volta per sempre, avendo uno dei due termini sempre un significato positivo, l’altro sempre un significato negativo: a differenza di tante altre antitesi dello stesso linguaggio politico i cui due termini possono avere significato assiologico diverso secondo le dottrine e le ideologie, come pubblico-privato, società di natura-società civile, diritto naturale-diritto positivo, stato-antistato.

Sarebbe toccato ai filosofi riflettere su queste due condizioni contrapposte del vivere sociale, lo stato buono e desiderabile, lo stato cattivo e indesiderabile, per trovare alcuni criteri generali di distinzione tra l’uno e l’altro, che permettessero di andare al di là della mera descrizione dei due stati e dei loro vantaggi e svantaggi, e giungere alla definizione, o al concetto, dell’uno e dell’altro.

Attraverso la lezione dei classici ritengo siano emersi sostanzialmente due criteri principali di distinzione tra buongoverno e malgoverno, che, se pure usati spesso promiscuamente, si rincorrono l’un l’altro lungo tutta la storia del pensiero politico. Il primo: buongoverno è quello del governante che esercita il potere in conformità di leggi prestabilite e inversamente malgoverno è il governo di colui che esercita il potere senza rispettare altra legge che quella del proprio capriccio. Il secondo: buon governo è quello del governante che si vale del proprio potere per perseguire il bene comune, malgoverno è quello di colui che si vale del potere per perseguire il bene proprio. Ne derivano due figure tipiche di governante odioso: il signore che dà legge a se stesso, l’autocrate nel senso etimologico della parola; e il tiranno che usa il potere per soddisfare i propri piaceri, i desideri illeciti di cui parla Platone nel IX libro della Repubblica.

Di entrambe le interpretazioni il pensiero greco classico ci ha lasciato alcuni testi canonici (dico «canonici» nel senso che staccati dal loro contesto storico sono diventati vere e proprie massime da usare nelle piú diverse circostanze). Per quel che riguarda la sottomissione del governante alle leggi, è esemplare un testo platonico tratto dal quarto libro delle Leggi (indipendentemente dalla considerazione che lo stesso Platone nel Politico sostiene la tesi contraria): «ho qui chiamati servitori delle leggi quelli che ordinariamente si chiamano governanti, non per amore di nuove denominazioni, ma perché ritengo che da questa qualità soprattutto dipenda la salvezza o la rovina delle città. Difatti dove la legge è sottomessa ai governanti ed è priva di autorità, io vedo pronta la rovina delle città; dove invece la legge è signora dei governanti e i governanti sono i suoi schiavi, io vedo la salvezza delle città e accumularsi su di esse tutti i beni che gli dèi sogliono largire alle città» (715d).

Cosí, iniziando a parlare delle costituzioni monarchiche, Aristotele pone il problema del rapporto fra le leggi e i governanti sotto forma di dilemma. «È piú conveniente essere governati dall’uomo migliore o dalle leggi migliori?» A favore del secondo corno Aristotele enuncia una massima che avrà molta fortuna: «La legge non ha passioni che necessariamente si riscontrano in ogni anima umana» (Politica, 1286a). E la enuncia sulla base della osservazione, anch’essa fondamentale, che la legge dà «prescrizioni generali». Peraltro il pensiero politico occidentale è debitore ad Aristotele soprattutto della seconda interpretazione del buon governo, quella che contraddistingue il buono dal cattivo governante in base al criterio del bene comune contrapposto al bene proprio. La famosa classificazione delle costituzioni nelle tre rette e nelle tre corrotte si vale proprio di questo criterio: «Quando uno solo, pochi o i piú esercitano il potere in vista dell’interesse comune, allora si hanno necessariamente le costituzioni rette; mentre quando l’uno o i pochi o i piú esercitano il potere nel loro privato interesse, allora si hanno le deviazioni» (1279a).

Ho detto due interpretazioni, ma ognuno vede come non siano tanto diverse da non potersi collegare l’una con l’altra. Il governo delle leggi è buono se le leggi sono buone e sono buone le leggi che hanno di mira il bene comune. D’altra parte il modo migliore, piú sicuro, che ha il governante di perseguire il bene comune è di seguire le leggi che non hanno passioni o di fare egli stesso buone leggi. Ma pur conviene tenerle distinte perché gli scrittori accentuano or l’una or l’altra e questo diverso accento permette di distinguere correnti o indirizzi diversi di pensiero politico.

La superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini è una delle grandi idee che ritornano ogni qual volta è stato posto il problema dei limiti del potere. Come risulta abbastanza chiaramente dal passo aristotelico citato, per una ragione formale e una materiale. Formalmente, la legge si distingue dal comando personale del sovrano per la sua generalità (di «prescrizioni generali» parla Aristotele): è la caratteristica in base alla quale la legge, quando sia rispettata anche dai governanti, impedisce che costoro facciano valere la propria volontà personale mediante ordinanze emanate di volta in volta, senza tener conto dei precedenti né delle disparità di trattamento che il comando particolare può produrre. Sostanzialmente, la legge, per la sua origine, sia essa immediatamente derivata dalla natura, o mediatamente dalla tradizione, o dalla sapienza del grande legislatore, e per la sua durata nel tempo, non è sottoposta al mutare delle passioni, e resta come un deposito della saggezza popolare o della sapienza civile che impedisce i bruschi mutamenti, le prevaricazioni del potente, l’arbitrio del «sic volo sic iubeo». Questo contrasto fra le passioni degli uomini, in particolare dei governanti, e la spassionatezza delle leggi, sta a fondamento oltretutto del tópos non meno classico della legge identificata con la voce della ragione: principio e fine di tutta la tradizione giusnaturalistica, a mio parere senza soluzione di continuità, nonostante autorevoli e rispettabili opinioni diverse, dagli antichi ai moderni attraverso il pensiero dell’età di mezzo che è davvero in questo caso un anello di congiunzione fra noi e gli antichi.

Si deve prima di tutti al Gierke la tesi, ripresa nella monumentale storia del pensiero politico medioevale dei fratelli Carlyle, che l’idea dominante nella teoria e nella pratica dei governi dal secolo IX al secolo XIII sia stata la supremazia della legge sugli uomini. Da questa idea deriva il dovere del governante di governare secondo le leggi, siano esse le leggi divine o naturali, le leggi consuetudinarie o quelle fondamentali stabilite dai predecessori: dovere che si riassume nel giuramento di rito al momento dell’assunzione al trono di «servare leges». Vi si riferiscono, per limitarmi a due citazioni essenziali, tratte rispettivamente da un’opera filosofica e da un’opera giuridica, il piú grande trattato politico scritto prima della riscoperta della Politica aristotelica, il Policraticus di Giovanni di Salisbury (metà del secolo XII) e il primo imponente trattato di diritto inglese, il De legibus et consuetudinibus Angliae di Henry Bracton (metà del secolo XIII). Giovanni dedica alla contrapposizione fra principe e tiranno un intero libro della sua opera il cui cap. 1, intitolato De differentia principis et tiranni et qui sit princeps, comincia cosí: «Est ergo tiranni et principis haec differentia sola vel maxima: quod hic legi obtemperat, et eius arbitrio populum regit, cuius se credit ministrum» 28. In un altro passo spiega che, quando si afferma che il princeps è legibus solutus, non si vuol dire che gli sia lecito commettere atti ingiusti ma semplicemente che egli deve essere giusto non per timore delle pene (giacché non vi è nessuno al di sopra di lui che abbia il potere di punirlo) ma per amore della giustizia, poiché «publicae utilitatis minister et aequitatis servus est princeps» 29. Là dove afferma che i destinatari dei comandi del re possono essere liberi o servi, Bracton osserva che mentre gli uni e gli altri sono soggetti al re, il re non è soggetto a nessuno tranne che a Dio, perché il re non ha altri che gli sia pari nel regno, e se cosí fosse non avrebbe il diritto di comandare, giacché «par in parem non habet imperium». Ma, subito dopo, in un passo destinato ad assumere quasi forma e forza di regola e al quale si richiameranno negli anni della guerra civile inglese sia i fautori del re contro il parlamento sia i fautori del parlamento contro il re, precisa: «Ipse autem rex non debet esse sub homine, sed sub deo et sub lege, quia lex facit regem». E poco piú avanti: «Non est enim rex ubi dominatur voluntas et non lex» 30.

Il principio non viene meno nell’età e nei luoghi dell’assolutismo. Tranne in Hobbes, che respinge la distinzione fra re e tiranno, il principio secondo cui il sovrano è legibus solutus non viene mai preso alla lettera: per Jean Bodin, considerato a ragione il maggior teorico dell’assolutismo, il sovrano legibus solutus è sciolto dalle leggi positive, che egli stesso emana o dalle leggi la cui validità dipende, come nel caso delle consuetudini, dalla sua tolleranza, non già dalle leggi divine e naturali che non dipendono dalla sua volontà (e tra le leggi naturali vi sono le leggi che riguardano il diritto privato, cioè proprietà, contratti e successioni), e dalle leggi fondamentali del regno in virtú delle quali il suo potere è un potere non di fatto ma legittimo.

Affinché la subordinazione del sovrano alla legge abbia la stessa forza costrittiva della subordinazione alla legge del semplice cittadino occorrerà un lungo e travagliato e accidentato processo di trasformazione dei rapporti fra governanti e governati attraverso il quale questi rapporti regolati dal diritto naturale o da patti formalmente fra eguali ma di fatto fra diseguali, come sono i trattati internazionali, si trasformano in diritti positivi regolati da costituzioni scritte aventi forza di leggi fondamentali o anche, come nel caso dell’Inghilterra, da una costituzione non scritta ma consolidata e convalidata da una prassi regolare nella sua continuità e accettata dopo la rivoluzione del 1688 pacificamente dalle parti politiche che si succedono e si alternano al potere. Di questo processo, cui oggi si dà concordemente il nome di costituzionalismo, l’esito finale è un sistema o organismo politico ispirato al principio della responsabilità non soltanto religiosa e morale, ma anche politica e giuridica, degli organi di governo attraverso alcuni istituti fondamentali come quello dell’equilibrio e separazione dei poteri, del controllo periodico dei governanti attraverso libere elezioni a suffragio universale, della garanzia giuridica dei diritti civili (e non piú soltanto dell’appello al cielo cui si affidava Locke), del controllo di legittimità delle stesse leggi del parlamento e via enumerando. L’ideale antico del governo delle leggi ha trovato nel costituzionalismo moderno la sua forma istituzionale, e in definitiva la sua attuazione in una serie di istituti, ai quali un moderno stato democratico non può rinunciare senza cadere in forme tradizionali di governo personale, di quel governo in cui l’individuo è al di sopra delle leggi, o, con le parole dei classici, il governo è padrone delle leggi anziché esserne il servitore.

L’altra interpretazione della distinzione fra buongoverno e malgoverno riposa, come si è detto, sulla contrapposizione fra interesse comune e interesse particolare, fra utilità pubblica e utilità privata. Prende in tal modo in considerazione non tanto la forma entro cui il potere viene esercitato quanto il fine che deve essere perseguito. Che questo fine sia l’utilità comune non del governante o dei governanti, della classe dominante si direbbe oggi, o dell’élite al potere, deriva dalla natura stessa della società politica (la koinonía politiké di Aristotele), la quale deve provvedere a soddisfare bisogni che riguardano tutti i membri e non solo alcuni di essi, quali, secondo i tempi e secondo le concezioni generali del vivere comune e le diverse e spesso opposte ideologie, l’ordine interno e la pace esterna, la libertà e l’eguaglianza, la prosperità dello stato nel suo insieme, o il benessere dei cittadini uti singuli, l’educazione alla virtú o la felicità. In un passo dell’Etica Nicomachea (1160 a), là dove Aristotele introduce il discorso sulle società parziali, cui i cittadini danno vita per perseguire utilità particolari lecite, e fa l’esempio dei naviganti che si riuniscono per navigare, o delle società religiose che si riuniscono per celebrare dei riti, o delle compagnie di piacere che si riuniscono per banchettare, spiega che queste società particolari debbono essere subordinate alla società politica perché questa non mira all’utilità del momento ma a quella di tutta la vita ed è per questo, aggiunge, che «i legislatori dicono giusto ciò che è utile alla comunità». Al contrario, quando alcuni cittadini si riuniscono in una società particolare ma con un fine politico e quindi non particolare ma generale, allora nasce la fazione, che genera discordia e attraverso la discordia produce o la disgregazione della città, oppure, se riesce vittoriosa, un governo che mira al bene della parte e non del tutto.

Nella tradizione politica dei comuni italiani e dei nostri scrittori politici dal Medioevo al Rinascimento ed oltre, l’ideale del buongoverno s’identifica con il governo per il bene comune contrapposto al governo per il bene della parte, la fazione, o di uno solo, il tiranno. Nell’affresco detto del Buongoverno, dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena, la figura centrale del reggitore, contornata dalle virtú cardinali e sovrastata da quelle teologali, è stata interpretata come raffigurante il bene comune, in base ai versi sottostanti: «Questa santa virtú lí dove regge | induce all’unità li animi molti | e questi acciò ricolti | un Ben Comun per lor signor si fanno» 31. Non a caso le due figure centrali sono quella del buon reggitore che personifica il bene comune ed ha accanto la pace, e quella della Giustizia ispirata dall’alto dalla Sapienza, che ha sotto di sé la Concordia. Il buongoverno regge la cosa pubblica mediante la giustizia e attraverso la giustizia assicura la concordia dei cittadini e la pace generale. All’idea del buongoverno inteso come il governo per il bene comune è e sarà sempre associata l’idea che solo il governo secondo giustizia impedisce il formarsi delle diseguaglianze che già secondo Aristotele erano la principale causa del sorgere delle fazioni, e assicura quella concordia, o unità del tutto, che è la condizione necessaria per la sopravvivenza della comunità politica.

Per contrasto si può dire che tutta la fenomenologia del malgoverno dai greci in poi conosce soprattutto due figure storiche principali: il tiranno e la fazione. La immensa letteratura politica sul malgoverno può essere considerata come una serie infinita di variazioni su questi due temi che oltretutto sono strettamente connessi, essendo la discordia fra le fazioni il contesto storico da cui nasce abitualmente il tiranno, ed essendo il tiranno colui che si erge al di sopra delle fazioni per restituire alla città la concordia, perduta anche a causa della perdita della libertà male esercitata. Fra le cause di disgregazione dello stato Hobbes menziona la formazione delle fazioni, veri e propri stati nello stato, create da demagoghi avidi di potere, i quali per meglio riuscire nel loro intento creano un partito nel partito, factio in factione, e si radunano con pochi compagni fidati in conventicole segrete «ubi ordinare possint quid postea in conventu generali proponendum sit» (dove possano ordinare quel che si debba proporre nella riunione generale). La disgregazione dello stato prodotta dalle fazioni è paragonata alle figlie di Pelio, re della Tessaglia, che per ridonare la giovinezza al vecchio padre, su consiglio di Medea, lo tagliano a pezzi e lo mettono a cuocere aspettando inutilmente che ritorni sano e salvo: «La folla nella sua ignoranza, sognando di rinnovare gli ordinamenti antichi, soggiogata dall’eloquenza di uomini ambiziosi che ripetono la magia di Medea, fa a brani lo stato e lo distrugge nel fuoco della guerra civile» 32. Scrittori politici non digiuni di letture classiche, come gli autori dei Federalist Papers, contrappongono la democrazia rappresentativa o dei moderni alla democrazia diretta o degli antichi. Scrive Hamilton: «È impossibile leggere delle piccole repubbliche di Grecia e d’Italia, senza provare sentimenti d’orrore e di disgusto per le agitazioni di cui esse erano continua preda, e per il rapido succedersi di rivoluzioni che le mantenevano in uno stato di perpetua incertezza tra gli stadi estremi della tirannide e dell’anarchia» 33. Risponde Madison che le fazioni sono un effetto inevitabile della partecipazione diretta del popolo al governo dello stato e le definisce in questo modo: «Per fazione intendo un gruppo di cittadini […] uniti e spinti da un medesimo e comune impulso di passione o d’interesse in contrasto coi diritti degli altri cittadini e con gl’interessi permanenti e complessi della comunità» 34.

Ho detto che il costituzionalismo rappresenta lo sbocco naturale dell’idea del buongoverno fondato sulla supremazia della legge. Analogamente, solo con l’istituzione e l’esercizio della democrazia rappresentativa le divisioni si spostano dal paese al parlamento dove il dissenso è per cosí dire costituzionalizzato e quindi legittimato, e dove nascono i partiti nel senso moderno della parola, non piú fazioni, in quanto parti che, rappresentando di volta in volta il tutto e alternandosi al potere quando l’alternativa è possibile, costituiscono il necessario tramite fra i cittadini e lo stato, e in tal modo permettono la permanenza della democrazia, ovvero di un sistema poliarchico in una società di massa.

«Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato: perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto» 35. Sono parole notissime di Machiavelli. Per questo Machiavelli leggeva Livio per trarne, come scrive nel Proemio, «quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie» 36. E dopo alcuni secoli, per la stessa ragione, Gramsci leggerà Machiavelli, e noi e i nostri posteri leggeremo e Gramsci e Machiavelli e Livio. Nei suoi Discorsi su Cornelio Tacito Scipione Ammirato scrive con un di piú di malizia: «[…] E perché è bene parlare con gli esempi e autorità degli antichi, acciocché altri non istimi queste esser nostre invenzioni» 37. No, non sono nostre invenzioni. I termini, è vero, sono cambiati. E infatti nessuno usa piú le parole buongoverno e malgoverno, e chi le usa ancora sembra volto al passato, a un passato remoto, che solo un compositore di prediche inutili ha ancora il coraggio di riesumare. Eppure le cose non sono cambiate. Ancora Machiavelli: «È si conosce facilmente per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desideri e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre» 38. Non sono cambiate, se mai sono diventate sempre piú difficili, o come si dice oggi, complesse. Alla coppia buongoverno-malgoverno, si venne sostituendo nel secolo scorso la coppia governo minimo-governo massimo. Per i fautori del governo minimo (il minimal state di cui si è ricominciato a parlare con forza in questi ultimi anni) 39 cattivo governo era il governo che voleva governare troppo. Se dovessi scrivere una storia di questa idea vi apporrei come motto le parole con cui Thomas Paine dà inizio al suo Common Sense (1776): «La società è prodotta dai nostri bisogni ed il governo dalla nostra malvagità … La prima protegge, il secondo punisce» 40. Poi nel nostro secolo le parti si sono invertite: buongoverno è diventato sempre piú il governo massimo, quello che si deve occupare del benessere dei suoi cittadini e deve non soltanto amministrare la giustizia ma anche somministrarla, cioè avere un proprio principio o criterio di giustizia distributiva allo scopo di pareggiare le fortune o almeno di ridistribuirle, e malgoverno è stato sempre piú considerato lo stato che lascia fare e lascia passare, ed è stato chiamato, con un termine religioso, quasi per accentuarne il giudizio negativo, «agnostico».

In questi ultimi anni, i termini-chiave della teoria del governo sono ancora cambiati: non buon governo e mal governo, neppure governo massimo e governo minimo, ma governabilità e ingovernabilità. Il problema è entrato con impeto nei nostri dibattiti quotidiani soprattutto da quando apparve nel 1975 il rapporto della Commissione trilaterale, La crisi della democrazia, avente per sottotitolo Rapporto sulla governabilità delle democrazie 41. Il problema è noto: nelle società libere partono dalla società civile un numero di domande verso il sistema politico molto superiore alla capacità di qualsiasi sistema politico, anche il piú efficiente, di rispondervi. Di qua le immagini del sistema sovraccarico che salta, della società bloccata, o dell’omino dei Tempi moderni che segue affannosamente la catena di montaggio che corre piú veloce delle sue tenaglie e resta sempre piú indietro sino a perdere il lume della ragione. Piú che la vecchia antitesi fra buongoverno e malgoverno si scopre una nuova antitesi, forse piú drammatica, fra governo e non-governo, fra un nocchiero (un gubernator) che bene o male tiene il timone ancora nelle proprie mani e un nocchiero cui mancano non le buone intenzioni (anzi di buone ne ha persin troppe), ma gli strumenti adatti per continuare la navigazione, la bussola, le carte di bordo, mentre il mare è in tempesta. Paradossalmente, il malgoverno è sempre stato considerato come un eccesso di potere; oggi, invece, si tende a considerarlo come un difetto. Non come un potere troppo forte che soffoca ogni voce di libertà, sopprime ogni dissenso, regola dall’alto ogni cosa, come in Turchia, secondo l’espressione icastica di Machiavelli, «per uno principe e tutti gli altri servi» 42, ma al contrario come un potere troppo debole che non riesce piú a risolvere la miriade di conflitti che lacerano la società, e i conflitti si moltiplicano e si accavallano, e quando se ne chiude uno se ne aprono cento, e si formano, come dicono oggi alcuni studiosi, governi parziali che impediscono al governo centrale di svolgere la propria attività, di selezionare le domande e di raggiungere i fini di volta in volta proposti, come se diventasse, ogni giorno piú, sempre meno principe e tutti gli altri padroni 43.

Sino a quando per malgoverno si è inteso l’esercizio tracotante del potere, problema fondamentale della filosofia politica è stato quello dei limiti del potere. Ma se il malgoverno consiste non piú nell’abuso del potere ma nel suo non uso? Quale sarà il compito della teoria politica? Ritornare al governo minimo? Ma è possibile? Insistere nella strada del governo massimo e rafforzarlo? Ma è desiderabile? Non è, la prima, la strada della rinuncia allo stato del benessere, che in Italia si chiama malamente, quasi per denigrarlo, assistenziale, allo stato che assicura la giustizia sociale oltre la libertà? Non è la seconda la via che conduce inevitabilmente allo stato totale e il 1984 è vicino?

Sono queste le due domande fondamentali del nostro tempo. So bene che terminare un discorso con domande finisce per lasciare la bocca amara. Ma continuo a credere che sia meglio porre domande serie che dare risposte fatue. E del resto non è vero, ancora una domanda, che uno dei segni premonitori della nostra crisi è che, nonostante l’aumento vertiginoso delle nostre conoscenze, vi sono ancora troppe domande cui non riusciamo a dare una risposta? Forse sarà capace di rispondere solo chi – permettetemi di riprendere le parole di Max Weber – sentirà con passione, agirà con senso di responsabilità, affronterà la prova e la sfida con lungimiranza.

1 Cfr. TH. HOBBES, Leviatano, cap. x.

2 Cfr. B. RUSSELL, Power. A New Social Analysis, Allen & Unwin, London 1938 (trad. it. Il potere. Una nuova analisi sociale, Feltrinelli, Milano 1976 4).

3 M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft, a cura di J. Winckelmann, Mohr, Tübingen 1976 5, vol. I, p. 29 (trad. it. Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, 2 voll., Milano 19743, nuova ed. in 5 voll., 1980, vol. I, p. 53).

4 G. A. ALMOND, G. B. POWELL, Comparative Politics. A Developmental Approach, Little, Brown, Boston 1966 (trad. it. Politica comparata, il Mulino, Bologna 1970, p. 55. [Esiste una nuova ed. modificata: Comparative Politics. System, Process, and Policy, Little, Brown & Co., Boston 1978 (trad. it. Politica comparata. Sistema, processi e politiche, il Mulino, Bologna 1988. Il passo corrispondente a quello citato, in diversa trad., si trova alla p. 27)].

5 M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft cit., vol. I, pp. 29-30 (trad. it. 1974 e 1980, vol. I, pp. 53-54).

6 M. ALBERTINI, La politica, in La politica ed altri saggi, Giuffrè, Milano 1963, p. 9.

7 C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Duncker und Humblot, München-Leipzig 1932 (trad. it. Il concetto di «politico», in ID., Le categorie del «politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, rist. 1998, p. 108).

8 J. FREUND, L’essence du politique, Sirey, Paris 1965, p. 448.

9 J. FREUND, L’essence du politique cit., p. 445.

10 C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen cit., p. 112.

11 J. FREUND, L’essence du politique cit., p. 479.

12 M. WEBER, Politik als Beruf, in Gesammelte Politische Schriften, a cura di J. Winckelmann, Mohr, Tübingen 1971 3 (trad. di A. Giolitti, in Il lavoro intellettuale come professione, «Nue», Einaudi, Torino 1966, nuova ed. 1977, p. 109).

13 Si veda A. K. SEN, Mercato e morale, in «Biblioteca della libertà», n. 94, 1986, pp. 8-27.

14 Mi riferisco a J. BURNHAM, The Machiavellians: Defenders of Freedom, Putnam & C., London 1943. Vedi la trad. it., a cura di E. Mari, I difensori della libertà, Mondadori, Milano 1947. La stessa traduzione, rivista e corretta da G. Pecora, con la collaborazione di V. Ghinelli, è stata riproposta di recente con il titolo I machiavelliani. Critica della mentalità ideologica, prefazione di L. Pellicani, Masson, Milano 1997.

15 B. CROCE, L’onestà politica, in ID., Etica e politica, Laterza, Bari 1945, p. 165.

16 ERASMO DA ROTTERDAM, Institutio Principis Christiani (1515) (trad. it. L’educazione del principe cristiano, a cura di M. Isnardi Parente, Morano, Napoli 1977, pp. 65 e 68).

17 I. KANT, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in ID., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, rist. 1978, p. 317.

18 B. CROCE, L’onestà politica cit., pp. 165-66.

19 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1983, pp. 504-5.

20 A. YANOV, The Origins of Autocracy, University of California Press, Berkeley Cal. 1980 (trad. it. Le origini dell’autocrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1984).

21 Ibid., p. 312.

22 Ibid., pp. 376-77.

23 Ibid., p. 312.

24 I. KANT, Per la pace perpetua cit., p. 317.

25 L. EINAUDI, Il buongoverno, a cura di E. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1973, vol. I, pp. 301 e 302.

26 Cito dalla trad. it. di A. Giolitti, in M. WEBER, Il lavoro intellettuale come professione cit., p. 101.

27 SOLONE, fr. 3 Diehl. Sulla nozione di «eunomia», W. JAEGER, Paideia. La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1936, I, pp. 255 sgg., che richiama un suo scritto precedente, Solons Eunomie, «Sitz.-b. Berl. Ak. Wiss.», 1926; quindi M. GIGANTE, Nómos Basiléus, Glaux, Napoli 1956, reprint Arno Press., New York 1979, pp. 38 sgg.

28 J.-P. MIGNE, P.L., CIX (1855), pp. 379-822. L’edizione a cura di C. Ch. J. Webb, in due volumi, London 1909, è una riproduzione anastatica di quella uscita a Frankfurt, Minerva G.M.B.H., nel 1865. Parziale traduzione inglese: The Statesman’s Book of John of Salisbury, con introduzione di J. Dickinson, Knopf, New York 1927 (rist. an. Russell and Russell, New York 1963). Cfr. anche la trad. it. parziale: GIOVANNI DI SALISBURY, Policraticus. L’uomo di governo nel pensiero medioevale, Jaca Book, Milano 1985.

29 La celebre formula del «princeps legibus solutus» compare nei giuristi dell’età imperiale, ULPIANO, D. 1, 3, 31. Per l’altra, ved. l’op. cit. alla nota 4, VI, 22.

30 H. BRACTON, De Legibus et Consuetudinibus Angliae, a cura di G. E. Woodbine, trad. di S. E. Thorne, Harvard University Press, 1968, II, p. 33.

31 Secondo l’interpretazione di N. RUBINSTEIN, Political Ideas in Senese Art: the Frescoes by Ambrogio Lorenzetti, in «Journal of the Warburg and Countauld Institutes», XXI (1958), pp. 179-207. Vedi anche U. FELDGES-HENNING, The Pictorial Programme of the Sala della Pace: a New Interpretation, XXXV, 1972, pp. 145-62.

32 TH. HOBBES, De Cive, XII, 13.

33 A. HAMILTON, J. MADISON, J. JAY, The Federalist (1788), Lettera IX (trad. it. Il Federalista, nuova ed. a cura di L. Levi, il Mulino, Bologna 1997, p. 183).

34 Ibid., Lettera X, p. 190.

35 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio cit., III, 43, pp. 506-7.

36 Ibid., p. 10.

37 S. AMMIRATO, Discorsi su Cornelio Tacito (1574), Pomba, Torino 1853, I, 300.

38 N. MACHIAVELLI, Discorsi cit., I, 39, p. 146.

39 Mi limito a ricordare il grande dibattito su questo tema suscitato dal libro di R. NOZICK, Anarchy, State and Utopia, Blackwell. Oxford 1974 (trad. it. Anarchia, Stato e utopia, Le Monnier, Firenze 1981).

40 TH. PAINE, Common Sense (1776) (trad. it. Il senso comune, in ID., I diritti dell’uomo e altri scritti politici, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 69).

41 M. CROZIER, S. P. HUNTINGTON, J. WATANUKI, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, New York 1975 (ed. it. Angeli, Milano 1977).

42 N. MACHIAVELLI, Il Principe, cap. IV.

43 Su questo tema vedi la raccolta di saggi recenti, scritti da studiosi tedeschi di scienza politica, Il governo debole. Forme e limiti della razionalità politica, De Donato, Bari 1981, e l’ampia introduzione dei due curatori, G. Donolo e F. Fichera.