Capitolo quinto

Valori politici

I.
DELLA LIBERTÀ DEI MODERNI COMPARATA A QUELLA DEI POSTERI.

1. Poiché Galvano Della Volpe rispondendo al mio articolo Democrazia e dittatura 1 dice di aver l’impressione, nel leggere le mie pagine, di riascoltare una «vecchia musica», che sarebbe quella del celebre saggio De la liberté des anciens comparée à celle des modernes dell’«impenitente liberale» Benjamin Constant 2, voglio mostrargli sin dal titolo di questa mia replica che non rifiuto il rimprovero (e tanto meno disdegno il raffronto), sebbene cerchi, come si vede dalla variazione, di adattare il motivo ai nuovi ascoltatori.

E anzitutto, ancora a proposito della vecchia musica, chiunque abbia familiarità coi testi della teoria politica sa che essi ripropongono da secoli alcuni temi fondamentali, sempre gli stessi. Perciò guardo con diffidenza ogni ricerca dei precursori perché non c’è precursore di cui non si scopra che ha dei precedenti (la teoria del contrattualismo insegni); né mi è mai riuscito di abbandonarmi alla gioia della «scoperta» degli scopritori, come accade, invece, al Della Volpe, il quale è convinto che Rousseau abbia per primo introdotto la distinzione di principio fra sovrano e governo, mentre a me pare cosa alquanto vecchia, almeno altrettanto vecchia quanto la teoria del mandato politico, che presupponeva, appunto, la distinzione tra la titolarità della sovranità, appartenente al popolo, e il suo esercizio, appartenente ai governanti (e nell’ottimo libro del Derathé sulle fonti del pensiero di Rousseau 3 c’è di che scoraggiare e amareggiare ogni cercatore di novità). Cosí, nel momento stesso in cui acconsento a credere che la mia sia una vecchia musica, invito l’amico Della Volpe a persuadersi che la sua musica non è nuova.

2. Certamente, il mio articolo Democrazia e dittatura appartiene a un genere noto della pubblicistica politica, a quello degli scritti che si propongono di correggere l’unilateralità del radicalismo democratico richiamandosi ai principî liberali che la democrazia non rende superflui (anzi, a mio avviso, presuppone). Ma non meno noto è il genere a cui appartiene l’articolo di Della Volpe: da annoverarsi fra gli scritti dei fautori della democrazia ad oltranza, affermanti che il principio democratico è di per se stesso superiore al principio liberale, perché, nonché escluderlo, lo ingloba e lo rafforza. (Della Volpe parla, rispetto alla libertà egualitaria, di una libertà «piú universale», di una «libertas maior»). Tutta la nostra discussione, dunque, è soltanto un episodio di un’antica, non so quanto antica, contesa.

E se il mio contraddittore ha ricordato Constant rispetto a Rousseau, io potrei ricordare, già che siamo sulla china di fare grandi nomi, John Stuart Mill rispetto a Bentham, all’ultimo Bentham, quello del Constitutional Code (pubblicato dal Bowring nel 1841), che rifiutava come luoghi comuni del liberalismo corrente la dichiarazione dei diritti e la separazione dei poteri e li sostituiva coi principî del radicalismo democratico, il potere assoluto della maggioranza, il sistema unicamerale, il suffragio universale. Tanto che il Mill nell’introduzione all’Essay on Liberty (1859) era costretto a ripetere: «Ci si rese allora conto che espressioni come “autogoverno” e “potere del popolo su se stesso” non esprimevano il vero stato delle cose. Il “popolo” che esercita il potere non coincide sempre con coloro sui quali quest’ultimo viene esercitato; e l’“autogoverno” di cui si parla non è il governo di ciascuno su se stesso, ma quello di tutti gli altri su ciascuno» 4. Potrei ricordare – ancora un grande nome, forse il piú appropriato – Tocqueville, perché, diviso com’era fra l’ammirazione-inquietudine per la democrazia e la devozione-sollecitudine per la libertà individuale, il dissidio fra libertà ed eguaglianza egli lo portava dentro di sé. Ricordate la celebre frase con cui si chiude la sua opera maggiore? «Le nazioni moderne non possono evitare che le condizioni diventino uguali; ma dipende da loro che l’eguaglianza le porti alla schiavitú o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria» 5. E chi può leggere oggi queste parole senza guardarsi, conturbato ed inquieto, d’intorno?

3. Vecchia disputa, dunque, quella che trova contrapposti democrazia a liberalismo, nientemeno eguaglianza a libertà. Quel che vi è di nuovo, ciò che la rende nuova, e quindi, nonostante le ripetizioni, forse non superflua, è la diversa prospettiva storica in cui si inserisce. Abbiamo assistito nel secolo scorso alla successiva e graduale democratizzazione di regimi liberali attraverso la democrazia formale, piú ampia e diffusa, prima (suffragio universale, sistema rappresentativo, principio maggioritario), e la democrazia sostanziale, piú timida, meno estesa (e ancor oggi lungi dall’essere compiuta anche nei paesi piú avanzati) poi, con istituti quali l’istruzione obbligatoria, la previdenza sociale assunta dallo stato, l’imposizione fortemente progressiva sui redditi e sulle successioni. (Che la democrazia formale in alcuni paesi, come nel nostro, sia un guscio vuoto, non deve indurre ad affermare avventatamente che in tutti i paesi in cui è avvenuto il graduale passaggio dal regime liberale a quello democratico, la democrazia sia soltanto formale. La storia dell’Inghilterra, che fu del resto il paese in cui il regime liberale ebbe inizio, è anche sotto questo aspetto esemplare). Il processo di democratizzazione sia formale sia sostanziale, si ritenne che non dovesse avvenire – e nei paesi in cui piú intensamente si è attuato non è avvenuto – a scapito dei principî liberali. Si ritenne, anzi, che esso dovesse costituire una integrazione del liberalismo classico, un avanzamento del principio di libertà, e che perciò i nuovi istituti della democrazia formale e sostanziale (dal suffragio universale al livellamento delle proprietà) non dovessero soppiantare quelli propri dei regimi liberali (che si riassumevano nella garanzia giuridica di alcuni fondamentali diritti di libertà). Simbolo (per quanto talora non piú che simulacro) di questa convivenza di principî affermatisi storicamente in tempi diversi, è la proclamazione nelle costituzioni contemporanee dei cosiddetti diritti sociali oltre ed accanto ai diritti individuali delle carte settecentesche.

Il problema nuovo e molto importante – per lo meno altrettanto importante quanto quello della democratizzazione dei regimi liberali – di fronte al quale ci troviamo, e che per parte mia ho cercato di mettere in evidenza nell’articolo precedente, è quello, inverso, della liberalizzazione dei regimi democratici. Che una democrazia pura irrispettosa dei principî classici del liberalismo si dovesse necessariamente trasformare in regime illiberale e dispotico – la cosiddetta tirannia della maggioranza col conseguente eccesso di statalismo – è vecchia accusa, una specie di motivo ricorrente in tutti gli scrittori liberali classici. Ma l’unico esempio storico – breve episodio se pure efficacissimo a scandalizzare i moderati – era il Terrore. La disputa era per lo piú teorica e si svolgeva a colpi di logica piú che di esperienza: il bersaglio polemico era non tanto un regime reale, quanto la teoria di un regime, quella di Jean-Jacques Rousseau, che recentemente in un libro polemico volto a imputare al Rousseau gran parte della responsabilità della statolatria contemporanea, è stata battezzata col nome infamante di «democrazia totalitaria» 6. Oggi, invece, il problema della democrazia non liberale o totalitaria è un problema reale, altrettanto reale quant’era, all’epoca della Restaurazione, quello di un liberalismo non democratico.

Vi sono infatti paesi che si proclamano democratici, anzi di una democrazia «mille volte piú democratica di qualsiasi democrazia borghese», ed hanno effettivamente iniziato una nuova fase di progresso civile in paesi politicamente arretrati introducendo istituti tradizionalmente democratici, di democrazia formale come il suffragio universale e l’elettività delle cariche, e di democrazia sostanziale come la collettivizzazione degli strumenti di produzione. Ma questi stessi paesi non sono liberali. Del liberalismo rifiutano piú o meno dichiaratamente il principio teorico fondamentale, la concezione storicistica della verità, da cui è nato lo spirito di tolleranza contro il fanatismo; l’atteggiamento critico contro quello dogmatico, come è stato ancor recentemente illustrato 7, e le principali istituzioni, tra le quali la garanzia dei diritti di libertà, primo fra questi la libertà di pensiero e di stampa, la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche.

4. Si può contestare che questo problema della liberalizzazione di certi regimi democratici sia un problema reale. Ma credo sia difficile e disperato il farlo, contestando la veridicità dei fatti su cui si fonda l’accusa di antiliberalismo diretta ai paesi sovietici. Si possono però seguire altre strade. Di queste le piú percorse mi pare siano le tre seguenti.

Si può sostenere in primo luogo – ed è il modo piú radicale (nel senso che taglia alle radici ogni base alla disputa) – che la concezione e gli istituti del liberalismo hanno fatto il loro tempo, avendo perduto ogni loro funzione storica, e quindi non c’è ragione di rammaricarsi se regimi piú avanzati e protesi verso il futuro, non ripiegati melanconicamente verso il passato, non ne facciano nessun conto. Questo modo di argomentare, come abbiamo messo in rilievo altre volte, consiste nel trasferire la discussione dal piano dei fatti al piano dei valori. La moglie còlta in fallo dal marito si appellerà ai supremi diritti dell’amore contro i doveri istituzionali del matrimonio. Se non potrà contestare i fatti, stabilirà una nuova gerarchia di valori in base ai quali i fatti vengono a perdere il loro valore negativo.

Pur riconoscendo la validità storica dell’istanza liberale nella lotta contro l’assolutismo monarchico e feudale in favore di una maggiore liberazione dell’uomo, e quindi come elemento di progresso storico, si può sostenere in secondo luogo che i regimi sorti dalla rivoluzione socialista attuano in modo piú completo quella istanza, e quindi rendono superflue le istituzioni precedenti, in quanto sono stati ispirati da un concetto piú ampio e piú moderno di libertà. Non si nega che esista un problema della libertà in generale. Si afferma che nei paesi di democrazia progressiva il problema è stato risolto meglio che nei regimi liberali borghesi perché alla libertà del borghese si è sostituita la libertà di tutti, e che perciò essi costituiscono nella storia umana, intesa come storia della liberazione dell’uomo alienato, una fase piú evoluta (anzi l’ultima fase prima della liberazione finale). Qui l’argomentazione non salta dai fatti ai valori, ma restando sul terreno dei fatti ne dà un’interpretazione diversa: i fatti continuano ad essere quelli che sono ma il loro senso è diverso da quello che viene ad essi attribuito dagli avversari. Un industriale licenzia alcuni operai: di fronte a chi glielo rinfaccia in nome dei valori sociali, egli potrebbe invocare i suoi valori, ovvero la libertà dell’imprenditore e tutti i sacri principî dell’economia di mercato; ma non è improbabile che si limiti a far osservare che il provvedimento deve essere considerato come un atto disciplinare contro operai negligenti, e quindi come atto avente anch’esso, nonostante le apparenze, un indiscutibile valore sociale.

È possibile infine una terza risposta. Si concede agli avversari, a differenza di quel che accade nella prima risposta, che la libertà è un valore. Si concede, a differenza di quel che si afferma nella seconda, che questo valore non è stato attuato nei regimi di democrazia progressiva. Ma si sostiene che questi regimi siano i soli in grado di risolverlo in futuro, avendo essi soli posto la condizione necessaria e sufficiente (principalmente l’abolizione della lotta di classe) per la sua soluzione. Non si contestano i fatti, non si respingono i valori; né si cerca di dare ai fatti una interpretazione benevola. Si è d’accordo con gli avversari sui valori; si è d’accordo pure sull’interpretazione dei fatti. Ciò che muta è il diverso modo di giudicare il rapporto dei mezzi ai fini. Si ritiene cioè che la realtà sovietica, per spietata che sia, offra pur sempre uno strumento per realizzare il fine supremo, su cui liberali e comunisti sono d’accordo, la libertà, piú adeguato e perfetto che non i regimi che vengono ad essa contrapposti. Per fare anche qui un esempio, scatenata la guerra, i capi responsabili del paese cercheranno di giustificarla (soprattutto in caso di sconfitta) non contestando né la desiderabilità della pace, né la crudeltà della guerra, ma proclamando la loro convinzione che quella guerra per quanto crudele era pur sempre l’unico modo per raggiungere la «vera» pace nel mondo.

5. Non direi che il Della Volpe abbia di questi tre modi di argomentazione adottato l’uno piuttosto dell’altro. Mi pare che li abbia seguiti, a volta a volta, tutti e tre. Quando dice che la libertà civile non è altro che la libertà dei borghesi e si identifica «angustamente» con la libertà di una classe, rifiuta del liberalismo il valore fondamentale, ossia cerca di svalutare la dottrina liberale non accettandone uno dei principî fondamentali. Quando, subito dopo, sostiene che vi è una libertà comunista, e tale libertà in quanto libertà egualitaria è superiore a quella propugnata dai liberali, è come se dicesse che il problema della libertà non si pone, non già perché non sia un problema, ma perché con un’interpretazione dei fatti diversa da quella data dagli avversari ci si avvede che ormai è stato risolto. Infine, affermando, a chiusura del saggio, che «è da pensare che “nella società di liberi” marx-engelsiana in quanto società senza classi, verso cui è avviata la democrazia sovietica attuale, si dissolva e si superi veramente l’antinomia delle due libertà», ci fa sapere che egli crede che la libertà sia un valore, che nell’attuale società sovietica tale valore non sia ancora stato raggiunto, ma che possa esserlo in futuro solo attraverso questa nuova forma di organizzazione sociale. Questo triplice modo di argomentazione corrisponde ad una sequenza di questo tipo:

1) «Non ti riconosco il diritto di condannarmi perché ciò che per te è bene per me è male»;
2) «Sí, ciò che è male per te lo è pure per me, ma bada che l’azione compiuta, se la esamini rettamente, non è come tu credi una cattiva ma una buona azione»;
3) «Ciò che è male per te lo è pure per me, e l’azione che io ho compiuto è una cattiva azione, ma, abbi pazienza, l’ho fatto per il tuo bene».

Nelle pagine seguenti esaminerò ad uno ad uno questi tre argomenti di gran peso, a mio avviso, perché in essi si riassume la polemica degli scrittori marxisti contro il liberalismo. E precisamente il primo nei §§ 6-8, il secondo nei §§ 9-18, e il terzo nei §§ 19-25.

6. Cominciamo dal primo: «Le libertà civili rivendicate dalla dottrina liberale pretendevano di essere valori universali, mentre sono valori di classe, rappresentando l’ideologia individualistica e gli interessi economici egoistici della classe borghese. Perciò, venuta meno o in via di dissoluzione la classe, anche i valori da essa portati non hanno piú ragione di sopravvivere». A me questo modo di ragionare fa venire in mente i contadini di quel comune che non volevano saperne di usare l’acqua potabile perché l’acquedotto era stato costruito dall’amministrazione del partito rivale. Il problema evidentemente non è quello di sapere per merito o per colpa di chi libere istituzioni siano state introdotte, ma se le libere istituzioni siano per gli uomini un beneficio o un malanno.

Oltretutto questa identificazione della dottrina dello stato liberale con l’ideologia borghese dello stato riposa sopra una considerazione storica inadeguata. La dottrina dello stato liberale si presenta al suo sorgere (nelle prime dottrine contrattualistiche dei cosiddetti monarcomachi) come la difesa dello stato limitato contro lo stato assoluto. Per stato assoluto s’intende lo stato in cui il sovrano è «legibus solutus», e il cui potere è quindi senza limiti, arbitrario. Lo stato limitato è per contro lo stato in cui il supremo potere è limitato sia dalla legge divina e naturale (i cosiddetti diritti naturali inalienabili e inviolabili), sia dalle leggi civili attraverso la costituzione pattuita (fondamento contrattualistico del potere). Tutti gli autori a cui si fa risalire la concezione liberale dello stato ripetono monotonamente questo concetto; e tutta la storia dello stato liberale si sviluppa nella ricerca di tecniche atte a realizzare il principio della limitazione del potere.

Si possono distinguere, per maggior chiarezza, due forme di limitazione del potere: una limitazione materiale, che consiste nel sottrarre agli imperativi positivi e negativi del sovrano una sfera di comportamenti umani che sono riconosciuti per natura liberi (la cosiddetta sfera di liceità); e una limitazione formale, che consiste nel porre tutti gli organi del potere statale al di sotto delle leggi generali dello stato medesimo. La prima limitazione è fondata sul principio della garanzia dei diritti individuali da parte dei pubblici poteri; la seconda sul controllo dei pubblici poteri da parte degli individui. Garanzia dei diritti e controllo dei poteri sono i due tratti caratteristici dello stato liberale. Il primo dei due principî ha dato origine alla proclamazione dei diritti naturali, il secondo alla divisione dei poteri. Brevemente si può dire che proclamazione dei diritti e divisione dei poteri sono i due istituti fondamentali dello stato liberale inteso come stato di diritto, ovvero come stato la cui attività è in duplice senso, cioè materialmente e formalmente, limitata.

7. Ora, è vero che questa dottrina della limitazione dei poteri è nata in circostanze storiche determinate, in occasione della lotta contro la monarchia di diritto divino, ed è stata elaborata principalmente da scrittori borghesi. Però, a chi voglia ricavare da questa constatazione la conseguenza che la dottrina liberale è una dottrina borghese, si ha il diritto di chiedere che risponda a queste due domande:

1) se egli creda veramente che l’unica forma possibile di stato assoluto sia la monarchia di diritto divino, o non piuttosto pensi che ogni gruppo dirigente abbia la naturale tendenza a trasformare il proprio potere in un potere quanto piú è possibile assoluto nel senso di «legibus solutus»;
2) se egli non creda, ammessa questa naturale tendenza, che l’ordinamento giuridico debba prevedere espedienti atti ad impedirne gli effetti, e che tra questi espedienti quelli sinora dimostratisi piú efficaci siano quelli elaborati dalla dottrina liberale.

Con queste due domande vogliamo porre gli oppositori della dottrina liberale di fronte alle conseguenze delle loro eventuali risposte. Se essi rispondono, rispetto al primo punto, che non è vero che tutti i gruppi dirigenti tendano ad abusare del potere, devono poi mettere d’accordo questa risposta con la tesi, a loro particolarmente gradita, che tutti gli stati, in quanto stati, sono dittature; se dànno la risposta contraria, ecco allora che l’esigenza della limitazione dei poteri dello stato, formulata la prima volta con rigore dai teorici borghesi, mostra la sua perenne vitalità. Rispetto al secondo punto, se essi rispondono che le tecniche sinora adoperate per la garanzia dei diritti e il controllo dei poteri non hanno sortito alcun effetto, sarà da vedere perché mai durante il periodo e nei paesi in cui questi istituti hanno operato, il socialismo abbia potuto crescere e diventare quasi sempre partito di governo. Ma se dànno la risposta contraria, c’è da chiedersi perché queste tecniche non debbano valere anche in uno stato diverso da quello borghese.

I marxisti possono ribattere che la dottrina liberale, combattendo il potere assoluto della monarchia unita alla classe feudale, ha servito alla classe borghese per conquistare il potere, cioè – accettiamo la lezione marxistica – per formare il proprio stato di classe (e questo sarebbe un altro motivo per identificare stato liberale e stato borghese). Ma anche qui due osservazioni:

1) la dottrina liberale, in quanto teoria dello stato limitato, poneva in astratto limiti non soltanto alla monarchia assoluta, ma a qualsiasi altra forma di governo, e pertanto allo stesso governo della borghesia (la quale conosce assai bene il suo stato assoluto che è lo stato fascista);
2) in quanto dottrina dello stato rappresentativo, poneva in atto condizioni che avrebbero permesso a nuovi gruppi sociali, in procinto di diventare piú rappresentativi della borghesia, di andare al potere al posto di questa.

A differenza della teoria ch’essa combatte, che mirava a giustificare una particolare forma di governo (la monarchia ereditaria), la dottrina liberale nelle sue linee principali non è la giustificazione dello stato dominato dalla classe borghese piú di quel che non lo sia dello stato dominato da qualsiasi altra classe, salvo anche qui a cacciarsi nell’assurdità di sostenere che solo lo stato dominato dalla classe borghese aveva bisogno di limiti (e perché non lo stato diretto dal partito comunista, che Gramsci paragonava, scavalcando tre secoli di esperienza liberale, al principe machiavellico, prototipo dell’assolutezza del potere?), oppure che i limiti imposti allo stato dalla dottrina liberale erano tali da andare ad esclusivo vantaggio della classe al potere (anche il diritto di libertà religiosa, di stampa, di associazione?)

8. Ogni qualvolta torno a riflettere sul corso storico di questi ultimi secoli, mi vengo sempre piú persuadendo che la dottrina liberale, pur storicamente condizionata, ha espresso un’esigenza permanente (perfezionabile certamente nell’attuazione pratica, ma da non trascurare e tanto meno disprezzare nel suo valore normativo): questa esigenza, per dirla con la formula piú semplice, è quella della lotta contro gli abusi del potere. Ed è permanente, come ogni esigenza di liberazione, sia perché ogni potere tende ad abusare, sia perché nella struttura formale assunta dallo stato di diritto, estrema elaborazione della concezione liberale dello stato, vi sono alcune basi per reprimere ogni attentato alle garanzie della libertà individuale da qualunque parte provenga, anche da parte della borghesia. Quando, infatti, coi regimi fascisti tale attentato ebbe luogo, la lotta contro di essi è stata fatta, e non poteva non esserlo, anche dai partiti marxisti in nome dei principî tramandati dal liberalismo, in nome cioè di quei limiti al potere dello stato che rendono la convivenza sociale piú civile o meno selvaggia.

Ancor oggi contro gli abusi di potere, per esempio in Italia, i comunisti invocano la Costituzione, invocano proprio quei diritti di libertà, quella separazione dei poteri (l’indipendenza della magistratura), quella rappresentatività del Parlamento, quel principio della legalità (niente poteri straordinari all’esecutivo), che costituiscono la piú gelosa conquista della borghesia nella lotta contro la monarchia assoluta. E come? Quelle stesse libertà che erano state invocate dalla classe borghese contro gli abusi della monarchia, ora sono invocate dai rappresentanti del proletariato contro gli abusi della classe borghese? Quale miglior prova del permanere di un’esigenza, al di là dell’occasione storica, e della bontà di un’istituzione al di là dell’uso o del cattivo uso che ne stanno facendo i suoi creatori? Per queste ragioni non riesco a vedere come si possa validamente difendere la tesi che la dottrina liberale dello stato, se s’intende con questa espressione la teoria che proclama e difende i diritti di libertà, abbia perso ogni valore, dal momento che coloro che dovrebbero essere i suoi superatori continuano a servirsene per i loro scopi. Risponderete che ha perso ogni valore di principio, ma ha conservato un valore pratico? Lascio agli eventuali sostenitori della libertà come instrumentum regni (che è accolta quando serve e respinta quando non serve piú) la penosa e non invidiabile responsabilità di una risposta a questa domanda.

9. Capisco bene, invece, che si possa aggirare l’ostacolo o meglio saltare il fosso, sostenendo che le garanzie individuali nello stato liberale hanno valore sino a che, data la costituzione della società in classi, l’individuo singolo e i gruppi minoritari sono inevitabilmente esposti agli abusi della classe dominante, ma che, attuata la società con una sola classe, i pericoli dell’abuso di potere non esistono piú e la libertà che vi si dispiega non è piú la piccola libertà dell’individuo di non essere messo in prigione senza mandato di cattura ma quella grande di tutto il popolo di disporre liberamente del proprio destino. Ed eccoci al secondo argomento degli scrittori antiliberali. Parliamo dunque della «libertas maior».

Questa disputa è vecchissima, antica quanto l’illusione dei democratici puri che la democrazia, cioè la sovranità popolare, sostituisca il liberalismo. Anche il Della Volpe cede ancora a questa illusione, e mostra pertanto di credere che la libertà democratica sia non già una libertà diversa da quella liberale, ma una libertà su un piano piú alto, tanto da assorbirla, e assorbendola eliminarla. Qui conviene distinguere la trattazione in due parti, in base alla distinzione prima menzionata tra limitazione materiale (§§ 10-13) e limitazione formale (§§ 14-17) dello stato.

10. Per quel che riguarda il rapporto tra limitazione materiale dello stato e dottrina democratica, cominciamo con l’osservare che sono in questione due diversi usi della stessa parola «libertà» e che, se non si vuol perpetuare le confusioni che sono caratteristiche del linguaggio politico, bisogna chiarire questa differenza.

Quando parlo di libertà secondo la dottrina liberale, intendo usare questo termine per indicare uno stato di non-impedimento, cosí come, nel linguaggio comune, si dice «libero» l’uomo che non è in prigione, l’acqua che scorre senz’argini, l’entrata in un museo nei giorni festivi, il passeggio in un giardino pubblico. «Libertà» ricopre la stessa estensione del termine «liceità» o sfera di ciò che non essendo né comandato né proibito è permesso. Come tale si contrappone a impedimento. In parole povere si potrebbe dire che ciò che caratterizza la dottrina liberale dello stato è la richiesta di una diminuzione della sfera dei comandi e di un allargamento della sfera dei permessi: i limiti dei poteri dello stato sono segnati dalla sfera, piú o meno larga secondo gli autori, della liceità.

Lo stesso termine «libertà» nella dottrina democratica ha un altro senso (che è proprio del linguaggio tecnico della filosofia): significa «autonomia», ovvero il potere di dar norme a se stessi e di non ubbidire ad altre norme che a quelle date a se stessi. Come tale si contrappone a costrizione. Perciò si dice «libero» l’uomo non conformista, che ragiona con la propria testa, non guarda in faccia nessuno, non cede a pressioni, lusinghe, miraggi di carriera, ecc.

Nel primo significato il termine «libertà» si accompagna bene con «azione»: appunto un’azione libera è un’azione lecita, che io posso fare o non fare in quanto non impedita. Nel secondo significato si accompagna bene con «volontà»: appunto una volontà libera è una volontà che si autodetermina. I due significati sono tanto poco sostituibili che si potrebbe a rigore parlare tanto di un’azione limitatrice di libertà, voluta liberamente («non fumo perché ho deciso di non fumare in seguito a matura riflessione»), quanto di un’azione libera, la cui libertà non ho liberamente voluto («mi son rimesso a fumare perché il mio medico me ne ha dato il permesso»). Nel primo significato si parla di libertà come di qualcosa contrapposto a legge, a ogni forma di legge, per cui ogni legge (proibitiva e imperativa) è restrittiva della libertà. Nel secondo significato si parla di libertà come essa stessa campo di azione conforme a legge; e si distingue non piú l’azione non regolata dall’azione regolata dalla legge, ma l’azione regolata da una legge autonoma (o accettata volontariamente) dall’azione regolata da una legge eteronoma (o accettata per forza).

Entrambi i significati sono legittimi, ciascuno nel proprio ambito. E guai a impegolarsi nella discussione su quale delle due libertà sia la vera libertà. Tale disputa vorrebbe farci credere che vi sia, per non so quale decreto divino o storico o razionale, un solo modo legittimo di intendere il termine «libertà», e tutti gli altri siano sbagliati. A chi sostiene che la vera libertà consiste nell’assenza di leggi, si può obiettare con qual diritto egli contesti di considerare come uno stato di libertà quello del bambino che gioca coi compagni a nascondersi anche se le regole del gioco siano non meno numerose e rigide di quelle della scuola. A chi sostiene che la vera libertà consiste nell’autonomia, si può domandare perché non si possa chiamare azione libera quella dell’uomo che cammina nel bosco senza seguire un sentiero obbligato.

Altrettanto vana è la discussione su quale delle due libertà sia la migliore. Qui interviene il fatto che il termine «libertà» ha, oltre un significato descrittivo (ambiguo), anche uno apprezzativo (non ambiguo), in quanto indica uno stato desiderabile. Ma direi che tanto la libertà come non-impedimento come la libertà come autonomia indicano stati desiderabili dall’uomo. Il problema intorno alla migliore libertà si ridurrebbe a questo interrogativo: quale dei due stati è il piú desiderabile, quello del non-impedimento o quello della legge spontaneamente accettata? Mi pare evidente che a una domanda siffatta è difficile rispondere prescindendo dalla situazione concreta: voglio dire che è difficile paragonare la soddisfazione che provo nel poter andare all’estero senza dover chiedere il passaporto (libertà come non-impedimento) e quella che provo nel fare io stesso il programma del mio viaggio in Spagna anziché accettare l’itinerario di un’agenzia turistica (libertà come autonomia).

11. Gran parte della discussione tra fautori del liberalismo ad oltranza e fautori della democrazia ad oltranza non va al di là della vana disputa se la vera libertà (politica) sia il non impedimento o l’autonomia, e quale delle due, posto che entrambe siano legittime, sia politicamente la migliore, cioè sia la piú atta a fondare l’ottima repubblica. Le due principali massime dei disputanti sono:

1) «Lo stato deve governare il meno possibile, perché la vera libertà consiste nel non essere impacciati da troppe leggi»;
2) «I membri di uno stato debbono governarsi da sé, perché la vera libertà consiste nel non far dipendere da altri che da se stessi la regolamentazione della propria condotta».

È nota la ragione storica per cui il concetto di libertà come noncostrizione è andato prevalendo su quello di libertà come non-impedimento, sino a diventare, per la scuola democratica radicale, esclusivo. Nonostante le resistenze e le querimonie dei fanatici del laissez-faire, le limitazioni della libertà individuale da parte dello stato sono andate aumentando. Ci si doveva rassegnare ad una diminuzione della libertà, magari ad una sua scomparsa, all’avvento minaccioso dello stato totalitario, cioè dello stato che si pone al limite come il compressore di ogni sfera di libertà individuale? Il concetto di libertà come non-costrizione suggeriva il rimedio: se lo stato diventa sempre piú invadente e questa invadenza è inevitabile, si faccia in modo che i limiti diventino, per quanto è possibile, auto-limiti, nel senso che i limiti alla libertà vengano posti da coloro stessi che li dovranno subire. Se non è possibile evitare che i cittadini dello stato siano piú impediti di prima, si faccia almeno in modo che siano meno costretti. I pedagogisti conoscono bene questo canone: essi sanno che molti dei comportamenti che ritengono utili allo sviluppo mentale e fisico dei bambini sono limitativi; l’unico modo di correggere la penosità di questo stato limitativo è di provocare la collaborazione attiva dei bambini alla stessa determinazione consapevole dei limiti. L’atteggiamento in base al quale si ritenne che la libertà come autonomia potesse risolvere tutti i problemi lasciati aperti dalla difficoltà di attuare soddisfacentemente la libertà come non-impedimento era una conseguenza dell’errore sopra indicato che vi fosse una vera libertà, o comunque una libertà migliore di ogni altra libertà, e che bastasse individuare la vera libertà, o la libertà migliore, perché fosse risolto una volta per sempre il problema del governo civile.

12. Molte sono le ragioni per cui l’illusione democratica del democratismo puro alla Rousseau, che la libertà come autonomia sostituisse completamente la libertà come non-impedimento, è caduta.

La ragione piú frequentemente addotta e su cui qui non è il caso d’indugiare, è che l’autonomia tecnicamente realizzabile nella società anche piú radicalmente democratica è pur sempre assai piú ipotetica che reale: anzitutto coloro che prendono le decisioni piú impegnative per l’indirizzo politico non sono tutti i cittadini ma un’esigua rappresentanza di essi; in secondo luogo le decisioni di questa esigua rappresentanza sono prese a maggioranza. Di qua due difficoltà: quale fondamento ha la pretesa che le decisioni dei rappresentanti siano esattamente quelle che avrebbero preso i singoli cittadini se si fossero trovati, essi e non i rappresentanti, nella situazione di dovere e di potere decidere? E se ancora ha un senso parlare di autonomia nel caso della volontà della maggioranza, con quale fondamento si può parlare di una volontà autonoma a proposito della minoranza la quale è tenuta dai principî dello stesso sistema a conformarsi alle decisioni dei piú? Dunque è vero che l’istanza liberale del potere limitato sorse per combattere lo stato assoluto dei pochi, il che ha indotto a pensare che, allargato il potere dai pochi ai piú, addirittura a tutti, non vi fosse piú bisogno di limiti; ma è vero anche che questo allargamento ai piú e a tutti è istituzionalmente imperfetto (ed è difficilmente perfezionabile), e pertanto le ragioni che sussistevano per la limitazione del potere del principe sussistono ancor oggi per la limitazione del potere della maggioranza, che è pur sempre un potere diverso dal potere di tutti (irrealizzabile).

13. Ma vi è una ragione piú seria, ed è che la stessa volontà come autonomia presuppone una situazione di libertà come non-impedimento. In altre parole, una generale situazione di larga liceità è condizione necessaria per la formazione di una volontà autonoma. Si può dare una società in cui i cittadini godano di certe libertà senza averle essi stessi volute (si pensi alle costituzioni octroyées). Non può esistere una società in cui i cittadini diano origine ad una volontà generale nel senso rousseauiano senza esercitare alcuni fondamentali diritti di libertà.

Il concetto di autonomia è, in filosofia, molto imbarazzante. Ma qui fortunatamente non si tratta di comprendere che cosa intendano con quella parola i filosofi. Nell’uso politico il termine indica qualcosa di piú facile a comprendersi: indica che le norme regolanti le azioni dei cittadini devono essere conformi quanto piú è possibile ai desideri dei cittadini. Ora perché i desideri dei cittadini vengano conosciuti, è necessario che il maggior numero possibile di essi possa esprimersi liberamente (cioè senza impedimenti esteriori). Se noi fossimo convinti che il miglior modo di far leggi è che le facciano alcuni saggi forniti di sapienza universale infusa, non avremmo troppo a preoccuparci delle libertà individuali. Per il pastore il quale ritiene di essere il solo giudice del bene comune del gregge (anche se questo bene comune finisce alla tosatura e al macello), è assurdo che le pecore abbiano altra libertà che non sia quella di ubbidire ai suoi ordini. Le libertà individuali cominciano ad essere interessanti quando sorgono i primi sospetti sulla infallibilità dei pochi iniziati, e si comincia a credere che i pochi iniziati facciano bene ad ascoltare suggerimenti, critiche ed obiezioni dagli altri. A maggior ragione poi, quando si pretende, come nella dottrina del governo democratico, che non ci siano piú iniziati del tutto, e a dar leggi ai cittadini siano i cittadini stessi o i loro rappresentanti. Brevemente: una deliberazione autonoma si può formare soltanto in un’atmosfera di libertà come non-impedimento. Siccome Della Volpe mostra considerazione per il Kelsen, «il maggior giurista borghese vivente», mi limito a citare il passo in cui il Kelsen nella sua opera maggiore parla dei rapporti tra liberalismo e democrazia: «In una democrazia, la volontà della comunità è sempre creata attraverso una continua discussione fra maggioranza e minoranza, attraverso un libero esame di argomenti pro e contro una data regolamentazione di una materia. Questa discussione ha luogo non soltanto in parlamento ma anche, e principalmente, in riunioni politiche, sui giornali, sui libri e altri mezzi di diffusione dell’opinione pubblica. Una democrazia senza opinione pubblica è una contraddizione in termini. In quanto l’opinione pubblica può sorgere dove sono garantite la libertà di pensiero, la libertà di parola, di stampa e di religione, la democrazia coincide con il liberalismo politico, sebbene non coincida necessariamente con quello economico» 8.

14. Le istituzioni democratiche (prime fra tutte il suffragio universale e la rappresentanza politica) sono dunque un correttivo, un’integrazione, un perfezionamento delle istituzioni liberali; non ne sono né una sostituzione né un superamento. Quando io uso la formula «liberal-democrazia», anziché semplicemente democrazia, non la uso, come sembra credere il Della Volpe (il quale intende «liberale» per «borghese»), in senso limitativo, come se credessi che accanto alla democrazia liberale possa esserci una democrazia non liberale. Per il nesso ineliminabile esistente tra libertà come non-impedimento e libertà come autonomia, quando parlo di liberal-democrazia parlo di ciò che per me è l’unica possibile forma di democrazia effettiva, laddove democrazia senz’altra aggiunta, soprattutto se s’intende «democrazia non liberale», indica a mio avviso una forma di democrazia apparente.

Per fare un esempio, il caso tipico di democrazia senza libertà si ha quando tutto un popolo (col piú ampio suffragio) è chiamato ad eleggere i propri rappresentanti su una lista unica approvata dal partito che si identifica col governo (com’è accaduto sinora, se mal non sono informato, nell’Unione Sovietica). Padronissimi gli ammiratori di questi regimi di chiamarli «democrazia», purché siano disposti a convenire che qui democrazia non significa neppure piú formazione autonoma di volontà, dal momento che non si vede come si possa giungere a una deliberazione autonoma senza libertà di discussione e di scelta. Ma se democrazia non significa piú formazione di volontà autonoma, ma qualche altra cosa difficile a esprimersi e a intendersi, cade ogni interesse alla discussione intorno ai rapporti tra libertà come non-impedimento e libertà come non-costrizione, che presuppone, tra i disputanti almeno, un accordo di principio sul valore della libertà.

15. Sin qui il problema dei rapporti fra democrazia e liberalismo con riferimento alla teoria della limitazione materiale del potere dello stato. Si è detto che la dottrina liberale contiene pure una teoria della limitazione formale del potere che si attua prevalentemente nella cosiddetta separazione dei poteri. La polemica dei democratici ad oltranza nei confronti del liberalismo sotto l’aspetto formale si dirige contro la teoria della separazione dei poteri: ve n’è un’eco ben chiara nello stesso articolo di Della Volpe.

Il ragionamento dei democratici ad oltranza, in questo argomento, è per lo piú di questo tipo: la teoria liberale, essendo sorta in reazione allo stato assoluto dei pochi, s’intende che abbia posto in essere istituzioni atte a frenare l’abuso di potere; ma la democrazia, allargando il potere dai pochi ai molti, dai molti a tutti, rende superflua ogni limitazione, perché se è facilmente pensabile l’abuso di potere dei pochi a danno dei molti, non è piú pensabile abuso alcuno da parte di ciascuno verso se stesso; e cosí pure se è pensabile un controllo là dove vi sono controllori e controllabili, il controllo non è piú possibile dove i controllori s’identificano con gli stessi controllati. Dunque la teoria dell’abuso di potere e della conseguente limitazione del potere, ottenuta con la cosiddetta bilancia dei poteri eguali e contrapposti, è nata da condizioni storiche particolari che in regime democratico non esistono piú. I democratici che sono anche marxisti rinforzano questo ragionamento con un nuovo argomento tratto dalla teoria classistica della storia: la necessità del controllo reciproco dei poteri nascendo dalla divisione della società in classi, la teoria della separazione dei poteri non è che un’ideologia della classe borghese in ascesa costretta a dividere il dominio con le antiche classi feudali. Perciò, secondo i marxisti, e Della Volpe con loro, scomparsa o in via di scomparire con la conquista del potere da parte del proletariato la divisione della società in classi, anche l’istituzione dei poteri separati, attorno a cui il diritto pubblico borghese ha fatto tanto strepito, non ha piú ragione di esistere. Con le parole di Della Volpe che si rifà a Vyšinskij: nello stato democratico proletario il fondamento dell’autorità «non è nella borghese “società civile”, ma nella proletaria massa organica dei lavoratori». Una «massa organica» non consente quelle divisioni che sono necessarie invece in una società disorganica, com’è quella borghese. È cosí?

16. Allo stesso modo che, rispetto alla questione dei limiti materiali del potere, la democrazia si presentava come sovranità autonoma contrapposta a sovranità eteronoma, cosí rispetto alla presente questione dei limiti formali del potere, essa si presenta con le seducenti vesti della sovranità universale contrapposta alla sovranità particolare e particolaristica dei regimi pre-democratici.

Non occorrono molte parole per mostrare che questa pretesa universalità è un miraggio non meno della pretesa autonomia. Basta richiamare per un momento l’attenzione sulla differenza fra democrazia diretta e democrazia indiretta (che è la sola realizzabile, sinora anche nei paesi sovietici). Basta ricordare che tra cittadini e corpo sovrano s’interpongono associazioni per la formazione dell’opinione pubblica come i partiti (e se il partito è unico, tanto peggio) e che le decisioni vengono prese non all’unanimità come accade ancora nella comunità internazionale dove veramente tutti i membri sono sovrani, ma a maggioranza. L’universalità, nelle società borghesi non meno che in quelle proletarie, è, se vogliamo, un’idea-limite, ma non è e non può diventare, per quante concessioni si facciano al piacere attraente di cullarsi nella descrizione del paese di cuccagna, una realtà.

17. Si può controbattere dicendo che la società fondata sulla «massa organica dei lavoratori» è piú omogenea della «società civile borghese»: che non di universalità, dunque, si tratta, come nelle teorie democratiche alla Rousseau (la volontà di una società democratica è la volontà di tutti), ma di omogeneità (la volontà di una società democratica proletaria è una volontà compatta). Ammettiamolo. Ma qui ci imbattiamo in una tradizionale confusione circa la teoria della separazione dei poteri e bisogna chiarirla. Non è possibile rifare tutta la storia della dottrina, su cui si sono sparsi e si vanno spargendo fiumi d’inchiostro. Ma mi pare necessaria una distinzione netta fra due aspetti della dottrina che mal distinti all’origine continuano ancor oggi, come nel caso della omogeneità, a produrre insigni confusioni.

Con la teoria della separazione dei poteri s’intendono storicamente due dottrine diverse:

1) una teoria delle forme di governo, secondo la quale la miglior forma di governo è quella in cui le varie classi componenti la società partecipano coi loro corpi speciali alla direzione della cosa pubblica. Questa teoria non è di origine borghese essendo vecchia quasi quanto la scienza politica: riproduce la dottrina classica, accolta già dai piú antichi costituzionalisti inglesi, del governo misto, cioè del governo a cui partecipano equilibratamente il re, gli aristocratici e il popolo, e quindi tenendo qualcosa di tutte e tre le forme tradizionali di governo è superiore a ciascuna di esse;
2) una teoria dell’organizzazione statale, secondo cui il miglior modo di organizzare il potere è di fare sí che le varie funzioni statali vengano esercitate da organi diversi. Ciò che qui si distingue non sono piú le classi (monarchia, aristocrazia, democrazia), ma le funzioni (esecutiva, legislativa, giudiziaria).

Le due teorie sono state e continuano ad essere confuse perché storicamente sono state sostenute insieme: la classe borghese in Inghilterra chiedeva la partecipazione al potere contro la monarchia e l’aristocrazia alleate, cioè il governo misto, e insieme l’attuazione di questo governo misto mediante l’attribuzione di una funzione specifica (quella legislativa) all’organo rappresentativo della classe borghese.

Questa simultaneità di fatto ha indotto spesso a identificare la divisione delle classi (borghesia e aristocrazia feudale) con la divisione delle funzioni (legislativa ed esecutiva); e non si può negare che in Hobbes, che rifiuta il governo misto per respingere la divisione delle funzioni, e in Locke, che afferma la divisione delle funzioni per affermare il governo misto, questa confusione ci sia. Ma quando ci si porta su un piano teorico la confusione fra i due problemi è un vero e proprio errore, da cui ci si deve correggere se si vuole ancora continuare a discutere col proposito di intendersi. Ciò che si divide in base alla teoria del governo misto sono le classi o, se si vuole, i poteri, ciò che si divide secondo la teoria della divisione degli organi sono le funzioni. Né ci sentiamo obbligati a far coincidere le classi con le funzioni per una ragione che i giuristi marxisti non dovrebbero aver nessun motivo di rifiutare: che le classi mutano e le funzioni restano. Il problema della divisione delle funzioni è un problema che interessa qualsiasi società indipendentemente dalla sua composizione sociale. Secondo i marxisti attraversiamo un periodo, almeno in certi paesi, di dittatura della borghesia. Ma le funzioni non sono distinte? Eppure non vi è che una sola classe al potere. Ma si può fare un caso piú elementare: un’associazione di cacciatori di marmotte costituisce sociologicamente un gruppo omogeneo. Ma se andate a leggere lo statuto che la regge vedrete quasi certamente che la funzione deliberativa appartiene all’assemblea dei soci, quella esecutiva ad un comitato ristretto che è responsabile di fronte all’assemblea, e quella giudiziaria (s’intende per le controversie che nascono in seno all’associazione) ad un collegio di probiviri. Divisione di organi, divisione di funzioni. Forse che la «massa organica dei lavoratori» costituisce un gruppo piú omogeneo dei componenti il club dei cacciatori di marmotte? Dunque la replica fondata sul fatto dell’omogeneità non costituisce un buon argomento, perché ha di mira soltanto uno dei due modi in cui è stata tradizionalmente intesa la dottrina della separazione dei poteri, ossia la teoria del governo misto, o per lo meno la teoria della divisione delle funzioni in quanto e solo in quanto fondata sulla divisione delle classi.

18. La teoria della separazione dei poteri, nella sua seconda e moderna accezione, dice assai di piú della teoria del governo misto, e quindi non la si può combattere con argomenti come quello della «massa organica» che è rivolto all’accezione piú antica, di cui, a dire il vero, nessuno si preoccupa piú. Sino a che si crede che la teoria della separazione dei poteri affermi la partecipazione al potere in corpi separati di tutte le classi, si ha ragione di controbattere: «Dove non ci sono piú classi, che cosa volete separare?» Ma quando la teoria propone non la divisione delle classi, ma quella degli organi, fondata sulla distinzione delle funzioni, bisogna trovare altri argomenti.

Riprendendo ciò che avevo scritto nell’articolo precedente, per divisione dei poteri oggi s’intende un insieme di apparati o strumenti giuridici che costituiscono il cosiddetto stato di diritto. Come tutti sanno questi mezzi di tecnica giuridica sono la distinzione delle funzioni e corrispondentemente (anche se la corrispondenza non è perfetta) la distinzione degli organi. Questi mezzi si fondano su alcune massime della convivenza umana (quali che siano le classi che la compongono) riducibili a due grandi principî:

1) il principio di legalità;
2) il principio di imparzialità.

Piú precisamente la distinzione delle funzioni, la quale significa la dipendenza della funzione esecutiva e di quella giudiziaria dalla legislativa, serve a garantire il principio di legalità: essa infatti stabilisce che, salvo casi eccezionali, non possono essere create norme generali se non attraverso la procedura formalmente piú rigorosa che è propria degli organi esplicanti la funzione legislativa. La distinzione degli organi, la quale significa l’indipendenza dell’organo giudiziario da quello esecutivo e da quello legislativo, serve ad attuare il principio d’imparzialità: esso infatti stabilisce che le persone chiamate a compiere la funzione giurisdizionale devono essere diverse da quelle che compiono le funzioni legislativa ed esecutiva. L’uno e l’altro principio sono diretti a frenare due abusi di potere che sono caratteristici di ogni società in cui vi sono governanti e governati, e quindi di ogni stato classista o meno: l’abuso derivante dal giudizio arbitrario (non fondato su una norma generale) e quello derivante dal giudizio parziale (dato da una delle stesse parti in causa). Dalla limitazione di questi abusi deriva una duplice garanzia della libertà dell’individuo nei confronti del potere esecutivo, il quale viene ad essere, rispetto al rapporto funzionale, dipendente dal potere legislativo, mentre, rispetto al rapporto personale, il potere giudiziario è da esso indipendente, e quindi il potere esecutivo non può prevaricare rispetto al legislativo per la dipendenza della funzione, né rispetto al giudiziario per l’indipendenza personale di quest’ultimo.

E allora ciò che preoccupa i difensori della liberal-democrazia si risolve in questo unico problema: è o non è lo stato sovietico uno stato di diritto, ovvero uno stato in cui vi sono strumenti atti ad assicurare il principio di legalità e quello d’imparzialità? Se sí, perché accanirsi contro la teoria della divisione dei poteri come se la legalità e l’imparzialità dei giudizi fossero quisquilie che interessano soltanto gli stati borghesi? Ma se non è, spetta ai suoi difensori dimostrare che lo stato sovietico ha messo in atto altri e migliori strumenti per attuare quei principî. Ma per dimostrare ciò non conta il «fondamento dell’autorità», cioè se titolare della sovranità sia la società borghese o la massa organica dei lavoratori. Contano soltanto i «mezzi». Della Volpe dice: «Mutato il fondamento dell’autorità, mutati i mezzi». No. I mezzi mutano se mutano i fini, non già il fondamento. Ma chi avrebbe il coraggio di dimostrare che i fini, cioè legalità e imparzialità, sono mutati, ovvero che legalità e imparzialità non sono piú fini apprezzabili per il cittadino del nuovo stato proletario?

19. Il terzo modo con cui i difensori della dittatura del proletariato rispondono alle preoccupazioni dei liberali è, come si è detto, quello che fa maggiori concessioni agli avversari: gli concede sia l’apprezzamento della libertà come supremo valore, sia la constatazione che di libertà non si può ancora parlare nello stato democratico popolare. La nuova linea di difesa è, se vogliamo, piú arretrata, ma forse piú solida. Si può suddividere in due argomenti:

1) lo stato proletario non si preoccupa della libertà perché il problema della libertà non appartiene allo stato, il quale è l’organo di repressione di classe e, in quanto tale, strumento di violenza e di coercizione, siano al governo i proletari o i borghesi o la classe feudale;
2) la libertà è il fine ultimo della storia ed è un fine che solo attraverso la dittatura del proletariato può essere raggiunto. Lo stato borghese, dunque, nonostante il nome, non è piú liberale di quello proletario; quanto allo stato proletario, esso non è liberale ma è l’unica via possibile per il raggiungimento finale dello stato di libertà (che coincide con l’estinzione dello stato).

Con questi due argomenti si concede agli avversari il valore del fine; ma li si mette in guardia sul disvalore del mezzo che essi hanno messo in atto per raggiungerlo. E, fermo restando il fine (almeno apparentemente), si contrappone il mezzo idoneo al mezzo inidoneo.

Questa tesi si fonda sull’opposizione dei due concetti di stato e libertà, considerati come escludentisi reciprocamente. Essa è, rispetto alla tradizione marxistica, quella piú ortodossa e ha il merito della chiarezza. Si trova esposta in un celebre passo della lettera di Engels a Bebel (18 marzo 1875) a proposito del Programma di Gotha: «Non essendo lo stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno “stato popolare libero” è pura assurdità; finché il proletariato ha ancora bisogno dello stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo stato come tale cessa di esistere» 9. Ripresa da Lenin, il quale ammira Engels per aver colpito implacabilmente «l’assurdo accoppiamento delle parole “libertà” e “stato”», la tesi viene interpretata nel suo significato pregnante di alternativa fra stato e libertà: «Finché esiste lo stato non vi è libertà; quando si avrà la libertà non vi sarà piú stato» 10.

20. Mi preme subito di osservare che tutta la tradizione di pensiero politico liberale e democratico si muove, rispetto al rapporto stato-libertà, nella direzione contraria. Anziché termini opposti, stato e libertà vengono considerati in questa tradizione come termini implicantisi: lo sforzo di ogni dottrina che si muove nell’ambito della tradizione liberale e democratica è di dimostrare che la libertà si può attuare soltanto nello stato (s’intende nello stato liberale o democratico) e che al di fuori dello stato (il cosiddetto stato di natura) o non vi è libertà affatto, ma licenza, o vi è libertà ma non garantita. Questa conciliazione di stato e libertà avviene in due direzioni: quella che va da Locke a Kant, secondo la quale il principale compito dello stato è di garantire la libertà naturale, e quindi di permettere effettivamente quell’esistenza secondo libertà che nello stato di natura resta esigenza sí, ma inappagata, ed è la tradizione piú propriamente liberale per cui il compito dello stato non è quello di sovrapporre proprie leggi a quelle naturali ma di far sí mediante l’esercizio del potere coattivo che le leggi naturali siano realmente operanti. L’altra direzione, che va da Rousseau a Hegel, assegna allo stato il compito di eliminare totalmente la libertà naturale che è la libertà dell’individuo isolato e di trasformarla in libertà civile, cioè nella libertà intesa come perfetto adeguamento della volontà individuale a quella collettiva, ed è la tradizione piú propriamente democratica, in cui l’accento vien posto sulla comunità anziché sull’individuo. Per entrambe l’unica libertà possibile è quella che si instaura nello stato, ma per i primi la vera libertà è la libertà dalla comunità, per i secondi è la libertà nella comunità.

L’alternativa di Lenin – o stato o libertà – si trova al di fuori di questa tradizione: è espressa con forza, ad esempio, dal grande teorico dell’assolutismo, Thomas Hobbes, per il quale la libertà appartiene solo allo stato di natura, mentre è propria dello stato civile la completa soggezione al potere sovrano. Anche per Hobbes, come per Lenin, dove c’è stato non c’è libertà, e dove c’è libertà non c’è stato. La differenza tra Hobbes e Lenin non è nei termini dell’alternativa, ma nel diverso valore che viene ad essi attribuito: ciò che vale per Lenin è la libertà, ciò che vale per Hobbes è lo stato. Mentre per il primo lo stato ideale è quello di libertà (e dunque lo stato tende inevitabilmente alla libertà ed è tanto piú perfetto quanto piú vi tende), per il secondo lo stato perfetto è quello civile (e dunque la libertà anarchica tende allo stato, e lo stato è tanto piú perfetto quanto piú cancella le vestigia dello stato naturale di anarchia). La dottrina marxistica è pur sempre una dottrina della libertà, raggiunta attraverso l’eliminazione dello stato che rappresenta la violenza della lotta di classe, quella di Hobbes è una dottrina della pace, raggiunta attraverso l’eliminazione della libertà naturale che è la violenza degli istinti naturali. Il fine della storia è, in entrambe le teorie, la soppressione della violenza; ma la soppressione della violenza coincide in Lenin con l’eliminazione dello stato, in Hobbes con la sua esaltazione.

Per trovare uno schema analogo a quello marxistico, dove siano equivalenti non solo i termini dell’alternativa ma anche il loro valore, occorre forse risalire alla concezione agostiniana della città terrena come dominio del peccato e quindi della violenza a cui si contrappone la città celeste come regno della grazia e quindi della libertà. La filosofia marxistica, è stato detto piú volte, è la laicizzazione di una concezione escatologica della storia. Qui, nella dialettica di stato e libertà, questa interpretazione diventa trasparente: all’alienazione religiosa (il peccato) che non può essere eliminata che dalla grazia, onde il regno compiuto della libertà non è di questo mondo, sottentra l’alienazione economica (lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo) che può essere eliminata dall’uomo stesso con la soppressione della proprietà privata, e quindi il regno della libertà, vicino o lontano che sia, si avvererà in questo mondo. Il momento della violenza e il momento della liberazione si contrappongono inesorabilmente: dove c’è l’uno non può esserci l’altro; e il destino positivo dell’uomo, là nella trasvalutazione religiosa, qua nella trasformazione terrena, sta nel trapasso dall’uno all’altro stadio.

21. Non a caso ho indugiato su questi riferimenti storici. Me ne sono servito per mettere le mani avanti, per mostrare che anche da questo punto di vista marxismo e liberalismo stanno su due opposte posizioni. E dovendo fare una critica generale (l’amico Della Volpe ha capito dove volevo andare a parare) un liberale comincerebbe col rispondere che quell’alternativa, dove c’è stato non c’è libertà, è troppo perentoria, che la vera libertà è un’idea-limite, su cui si può contendere tra filosofi, ma è di scarso vantaggio in una discussione politica, e che il problema politico che gli uomini ragionevoli si sono sempre posti non è quello di attuare il regno della piú dura violenza per salire a quello della piú pura libertà, bensí quello di contemperare libertà e violenza in una determinata situazione storica.

Oltretutto l’idea che la libertà sarà per risplendere solo quando il regno della violenza sarà terminato, abitua, come tutte le idee messianiche, ad accettare lo stato di fatto e ad attendere inermi il bel giorno. Alla sicurezza fideistica nella libertà perfetta che seguirà necessariamente all’ultimo periodo di dittatura preferisco la vigilanza ragionevole sulle sorti di quella libertà imperfetta che si mescola ogni giorno con la violenza. Trovo questo secondo atteggiamento piú sano e piú utile. Il primo assomiglia a quello del recluso che attende il giorno della scarcerazione e sapendo che non può farci nulla lavora e sospira. Il secondo a quello del marinaio (anch’esso prigioniero nella sua nave) il quale sa che l’arrivare in porto dipende non solo dal decreto del cielo che può mandargli bonacce e burrasche a capriccio, ma anche dalla sua abilità.

Personalmente io credo che il governo sovietico per attuare una maggiore libertà non aspetterà il giorno x della scomparsa dello stato, cioè il giorno in cui non ci sarà piú bisogno di costrizione, ma agirà per forze che già si muovono e spingono nell’interno dello stato medesimo, e si acconcerà a quella libertà meno intera ma piú concreta che reclamarono i liberali contro lo stato assoluto. Abbiamo visto in questi anni i dotti sovietici ritirarsi talora con strepito da posizioni teoriche troppo avanzate e insostenibili: la logica formale, considerata come anticaglia messa in soffitta dalla logica dialettica, torna in onore; il diritto non è piú la sovrastruttura della società borghese, ma un mezzo tecnico necessario alla conservazione anche della società proletaria. Non parlo della linguistica che ha rappresentato una svolta su cui non sono ancora esauriti i commenti. Ho l’impressione che pure la partiticità della cultura, che zelanti esegeti si sono sforzati di spiegare a me incredulo come principio di dottrina mentre è soltanto un espediente politico, stia per tramontare; e, se non prendo un grosso abbaglio, se ne parlerà sempre meno, sino a che qualcuno comincerà a considerarla dottrina reazionaria e a dare addosso ai pervicaci sostenitori.

Non passeranno molti anni – mi si permetta questa innocente profezia – che torneremo ad applaudire come una novità, nei manuali giuridici sovietici, la riapparizione dello stato di diritto.

22. Ma non insisto su questo tipo di argomentazione perché mi rendo perfettamente conto che contrapporre mentalità a mentalità è, tra i modi di argomentare, il piú ozioso, insieme inconcludente e indisponente. Vengo ad argomenti piú particolari. Siccome ciò che è in questione è l’avvento della libertà dopo la scomparsa dello stato, meritano di essere considerati con qualche attenzione ancora due punti:

1) l’estinzione dello stato;
2) il futuro stato di libertà.

Del primo punto non parlerei, tanto mi pare un’ubbia, una specie di fissazione, se Della Volpe non vi desse peso e se, soprattutto, non avessi timore che a non parlarne rischierei di dar fiato a chi per difendere una dittatura che provoca perplessità anche nei ben disposti, ci venisse a dire che bisogna aver pazienza perché essa è la stretta finale prima dell’emancipazione totale, cioè venisse a giustificare un regime totalitario col pretesto che dopo verrà la libertà definitiva. Colui che cascasse nel tranello dell’imperialista che lo persuade a combattere una durissima guerra assicurandogli che è l’ultima, lo terremmo per ingenuo.

Prima di tutto che cosa significa «estinzione dello stato?» Secondo i testi, significa eliminazione graduale della coazione, considerata a ragione come l’elemento caratteristico di quegli apparati di esecuzione di regole generali e individuali in cui consiste lo stato. E la coazione sarebbe, com’è noto, destinata a scomparire con l’appianarsi dei conflitti di classe, per i quali è stata istituita. Questo sillogismo sarebbe impeccabile se la premessa maggiore: «La coazione è stata istituita per reprimere i conflitti di classe» non fosse un’ardita generalizzazione. Basta sfogliare uno dei nostri codici per accorgersi che gli atti illeciti che richiedono l’intervento della coazione sono in numero assai maggiore di quelli che la base classistica della società richiederebbe. Forse che in una società senza classi non vi saranno piú matrimoni infelici, incidenti automobilistici, delitti sessuali? E se vi saranno a chi spetterà il compito di proclamare la separazione o il divorzio, il risarcimento del danno e la pena, se non a un giudice, e a chi di farle eseguire se non a funzionari muniti di forza?

23. Quanto all’idea che i marxisti si fanno dello stato finale di libertà, in cui non vi sarà piú bisogno di coazione, essa contempla una situazione in cui gli uomini ubbidiranno spontaneamente a tutte le regole poste per la reciproca convivenza o, come dice Lenin, «gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale senza violenza e senza sottomissione» 11, o con formula analoga ma piú spiegata: «gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama stato» 12. La nozione principale in questi contesti è evidentemente quella di «abitudine» 13: sembra dunque che lo stato finale dell’umanità possa essere raggiunto quando ciascuno avrà l’abitudine di compiere il proprio dovere. E siccome, secondo la definizione dell’etica classica, nell’abitudine a compiere il proprio dovere consiste la virtú, si può precisare che lo stato scomparirà quando tutti saranno diventati virtuosi. È come dire che del diritto, e quindi dello stato, non ci sarà piú bisogno quando gli uomini saranno tutti morali. Il che non è mai stato messo seriamente in dubbio per la ragione non troppo misteriosa che per definizione l’uomo morale è quegli che fa il proprio dovere senza esservi costretto, donde si ricava senz’altra difficoltà che, se tutti gli uomini diventeranno morali, non ci sarà piú bisogno di costrizione.

Una difficoltà c’è, e si annida nell’asserzione che questo stato di moralità collettiva sia possibile, e che il modo di renderlo possibile sia l’abolizione dei conflitti di classe. Voglio ammettere che sia possibile. C’è ancora da domandarsi: siamo proprio sicuri che lo stato finale, che diamo per raggiungibile, anzi se volete per già raggiunto, sia uno stato desiderabile o per lo meno sia l’unico stato realmente desiderato dall’uomo? Questo stato di libertà, come appare dai testi, è uno stato di non-costrizione. È quello stato di non-costrizione che abbiamo precedentemente identificato con la libertà come autonomia. Ma abbiamo già mostrato che la libertà come autonomia è inscindibile dalla libertà come non-impedimento. E allora ecco l’ultimo nostro dubbio: che cosa accadrà di quest’ultima nell’ipotetico assetto futuro? Confessiamo di esserne preoccupati. Che ciascuno compia spontaneamente il proprio dovere, cioè adempia senza esservi costretto alla funzione sociale che gli è assegnata, è un felice miraggio. Ma anche in una società d’insetti guidata dall’istinto ognuno adempie spontaneamente le proprie funzioni. È questo dunque lo stadio finale dell’umanità? Che cosa distingue la società umana perfetta da una società organica d’insetti? Per me, non vi è dubbio, è la libertà come non-impedimento, vale a dire la presenza, accanto e prima della libertà di fare il proprio dovere, della libertà di agire, almeno in alcune sfere, a proprio talento, cioè di non avere soltanto doveri nella società (anche se graditi), ma anche una sfera piú o meno ampia di diritti verso la società.

24. Il fatto è che vi sono due modi ben diversi di concepire l’estinzione dello stato (ancora una distinzione): quello ipotizzato dai marxisti è uno solo. L’altro emerge in qualche dottrina liberale del secolo scorso (la piú tipica forse è quella di Spencer): lo stato si estingue secondo quest’altra ipotesi (o per lo meno si riduce ai minimi termini) per successiva diminuzione delle materie sulle quali è chiamato a esercitare il suo potere coattivo, prima le attività spirituali, poi quelle economiche, poi via via quelle sfere di comportamenti in cui tradizionalmente l’attività pubblica ha invaso quella privata, sino a che lo stato non sarà che un supremo coordinatore di attività esercitate soltanto dagli individui perseguenti il proprio illuminato interesse. Nella dottrina marxistica il processo di estinzione dello stato avviene per una via completamente diversa: lo stato si estingue in quanto costrizione, lasciando il campo al libero svolgimento dell’autonomia, mentre nella dottrina liberale classica lo stato si estingue in quanto impedimento, aprendo sempre piú larghe zone alla libertà personale. Il termine finale ipotetico della prima forma di estinzione è rappresentato da una società organica in cui ciascuno compie il proprio dovere; della seconda da una società atomistica in cui ciascuno esercita i propri diritti.

Siamo ormai alle strette: sin nella dottrina dell’estinzione dello stato si rivela l’antitesi tra la teoria marxistica e quella liberale classica. Da un lato l’universalismo, per cui la società è il tutto e l’individuo la parte, o addirittura il prodotto, dall’altro l’individualismo classico per cui l’individuo è il tutto che produce con le sue opere la società. Spieghiamoci con un esempio. Lo stato è concepito tanto dagli uni quanto dagli altri come ordine: ma vi sono due modi d’intendere l’ordine, come coordinamento e come subordinazione. Il primo è quello a cui mira l’agente del traffico, il cui scopo non è già di imporre a ciascun guidatore una meta determinata, ma di permettergli di andare senza incidenti dove meglio gli pare. Il secondo è quello cui mira il generale che ha da comporre in unità le varie parti della propria divisione per condurla alla meta che egli solo ha stabilito. Il liberale immagina lo stato piuttosto come una strada in cui ciascuno vada per i fatti propri con il solo obbligo di rispettare le regole della viabilità; il socialista come una divisione militare. Il governo per l’uno dovrebbe esercitare la funzione dell’agente del traffico (proporrei di sostituire alla vecchia e anacronistica espressione di stato-guardiano notturno, quest’altra di stato-vigile urbano); per l’altro quella del generale.

Penso che nessuno dei due abbia completamente ragione. Ma per quel che riguarda in particolare l’estinzione dello stato sembra piú facile immaginare l’estinzione dello stato concepito come agente del traffico che quella dello stato concepito come generale. Il primo può essere sostituito da un semaforo; nessun meccanismo può sostituire il secondo. Voglio dire che per attuare l’attraente disegno dell’estinzione dello stato, la strada dell’universalismo mi pare davvero la piú lunga. Ma non è questa la difficoltà, dal momento che frutto d’immaginazione sono entrambe le mete. La difficoltà seria per me è che giunti dopo tanta pena alla fase finale preconizzata dal marxismo, ci si dovrebbe accorgere che vi è un’altra libertà di cui nessuno ci aveva parlato e senza la quale la libertà di fare il proprio dovere ci sembrerebbe un’austera, sí, ma incompleta conquista: voglio dire la libertà non soltanto di fare quel che si deve, ma anche di fare o non fare quello che non si deve.

25. Credo, e non da oggi, che individualismo e universalismo siano due infruttuose ipostatizzazioni: o per usare termini piú correnti, che lo stato non debba essere solo un agente del traffico o solo un generale, ma possa essere entrambe le cose a seconda delle circostanze. I guai maggiori si hanno quando un governo si mette a fare l’agente del traffico là dove c’è bisogno di un sapiente generale, per esempio nella redistribuzione dei redditi, oppure il generale là dove c’è bisogno di un avveduto e discreto agente del traffico, per esempio nel campo dell’attività culturale. Cosí per quel che riguarda la meta finale non direi che lo stato perfetto sia quello della mancanza di costrizione. Mi pare piú ragionevole dire che sia quello in cui il massimo di non-costrizione si può conciliare col massimo di non-impedimento.

Ma queste sono cose di là da venire. La sola libertà che ci è permessa non è quella perfetta e futura, bensí quella imperfetta quanto si vuole ma realizzabile hic et nunc. Ed è per questo che ogni discorso mirante a farmi credere che la dittatura di oggi è giustificata in vista della maggior libertà di domani mi lascia sospettoso. Ciò che m’interessa è che, lasciate le profezie, ciascuno di noi dia la propria opera a difendere la libertà dovunque è minacciata nel mondo in cui si trova a vivere. Oggi si corre il rischio di soffocare sotto il peso delle catene per troppo sviscerato amore della libertà. Avete mai sentito i lugubri patrocinatori della Destra? «Bisogna instaurare la dittatura per salvare le libertà del passato». Avete mai sentito gli infiammati paladini della Sinistra? «Bisogna rafforzare la dittatura per salvare le libertà del futuro». E la libertà del presente? Forse il succo di tutto questo discorso può essere racchiuso nel pensiero che mi ha suggerito il titolo. Contro i reazionari continuiamo pure a difendere la libertà dei moderni da quella degli antichi. Ma non dimentichiamo che occorre egualmente difenderla, contro i progressisti troppo arditi, da quella dei posteri.

II.
EGUAGLIANZA ED EGUALITARISMO

1. Con la contestazione giovanile sono tornate all’onor del mondo non solo, com’è opinione comune, le dottrine libertarie, ma anche quelle egualitarie. Del resto il rapporto fra le une e le altre è, nella pratica, strettissimo anche se teoricamente conviene distinguerle. A proposito di questa rinascita mi è tornata spesso alla mente una frase di Dostoevskij nei Demoni: «Sigalev è un uomo geniale, un genio del tipo di Fourier; ma piú ardito di Fourier, ma piú forte di Fourier … Egli ha inventato l’eguaglianza». In realtà ciò che aveva inventato Sigalev era non già l’eguaglianza ma l’egualitarismo, o meglio una nuova forma di società egualitaria, nella quale vigeva il sommo principio: «È necessario soltanto il necessario». Certo, l’egualitarismo ha a che fare con l’eguaglianza. Ma quale ideologia politica non ha a che fare con l’eguaglianza? Il problema è se vi siano modi e forme di eguaglianza che permettano di distinguere una dottrina egualitaria da una che non lo è, e quali siano questi modi e queste forme.

Dico subito che le mie osservazioni sono derivate quasi esclusivamente dall’analisi di un testo che considero, non da ora, per la completezza del programma sociale che vi è esposto e per la ricchezza dei particolari con cui è presentato, un prototipo dell’ideologia egualitaria: la Conspiration pour l’égalité de Babeuf di Filippo Buonarroti (1828) 14.

2. Che eguaglianza, come libertà, sia un concetto generico e vuoto, che se non è specificato o riempito, non significa nulla, è risaputo. Invocare o proclamare l’eguaglianza non è molto piú significativo che invocare o proclamare la libertà. Per quanto riguarda la libertà, chi la invoca ha l’obbligo di dare una risposta precisa almeno a queste due domande: a) libertà di chi?, b) libertà da che cosa? È chiaro che (sub a) la libertà per i signori non è la stessa cosa che la libertà anche per gli schiavi; e che (sub b) la libertà dall’oppressione non è la stessa cosa della libertà dal bisogno. Non diversamente si pone la questione per l’eguaglianza. Le domande cui si deve dare una risposta precisa se non si vuole che l’invocazione dell’eguaglianza sia un flatus vocis, sono le due seguenti: a) eguaglianza fra chi?, b) eguaglianza rispetto a che cosa?

Una volta poste queste due domande, e limitando la specificazione per ragioni di economia di discorso alla coppia tutto-parte, sono possibili quattro risposte:

1) Eguaglianza di alcuni in qualche cosa.
2) Eguaglianza di alcuni in tutto.
3) Eguaglianza di tutti in qualche cosa.
4) Eguaglianza di tutti in tutto.

Di queste quattro risposte quella che caratterizza una dottrina egualitaria è la quarta. Ritengo, quindi, che in una prima approssimazione possa dirsi egualitaria quella concezione globale della società (della società umana in generale o di una società determinata) secondo cui è desiderabile che tutti (s’intende tutti gli uomini o tutti i membri di quella determinata società) siano eguali in tutto. Non ho bisogno di aggiungere che si tratta di un ideale-limite. Storicamente e praticamente una dottrina egualitaria può essere ridefinita come quella che chiede l’eguaglianza del maggior numero di individui per il maggior numero di beni. Nella società di eguali prevista da Buonarroti permane come criterio discriminante e quindi come principio di giustificazione di diseguaglianza la differenza fra i sessi: l’educazione delle fanciulle, per esempio, deve essere completamente diversa da quella dei ragazzi (pp. 202 sgg.) 15. Quanto alle cose, Buonarroti chiede l’eguaglianza nel lavoro e nei godimenti, non necessariamente nel tempo dell’ozio o negli svaghi (pp. 162-63).

Delle altre tre risposte, la prima non è particolarmente significativa: qualsiasi norma generale ed astratta, come sono in genere le leggi, stabilisce che alcuni (cioè i componenti di una determinata categoria di destinatari) sono eguali in qualche cosa, cioè nel particolare diritto o dovere previsto da quella norma. In relazione alla seconda risposta si può parlare di egualitarismo parziale o limitato: l’esempio storico piú famoso è la repubblica platonica ove un numero rilevante di principî che caratterizzano generalmente le dottrine egualitarie valgono esclusivamente per una sola classe di membri della repubblica, per la classe dei guerrieri. La terza risposta non ha niente a che vedere con una concezione egualitaria della società: che tutti gli uomini o tutti i cittadini di uno stato siano eguali, per esempio, rispetto alla capacità giuridica o al godimento di certe libertà, o godano dell’eguaglianza di fronte alla legge, sono principî caratteristici di una qualsiasi costituzione liberale e non pretendono affatto di dar vita a una società egualitaria.

3. Ho parlato di una prima approssimazione. Una qualsiasi richiesta di eguaglianza si distingue da un’altra non soltanto in base alla risposta che si dà alle domande «fra chi?» e «rispetto a che cosa?», ma anche in relazione al criterio o ai criteri di giustizia che essa assume in vista dell’attribuzione della «cosa» ai «chi». Che tutti debbano avere un alloggio (che è richiesta caratteristica di ogni dottrina egualitaria) non vuol dire che tutti debbano avere un alloggio eguale. Ma se le cose da distribuire possono essere diverse, con quale criterio debbono essere diversificate? Ritengo – e questa è la mia seconda approssimazione – che fra tutti i criteri di giustizia il criterio egualitario per eccellenza, intendo il criterio che serve a contraddistinguere ulteriormente le dottrine egualitarie, sia il criterio del bisogno. Non occorre ricordare la famosa formula di Marx nella Critica al programma di Gotha: «Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». Ritorno al mio Buonarroti: «Poiché tutti hanno gli stessi bisogni e le stesse facoltà, non ci sia dunque per tutti che una sola educazione, un solo nutrimento. Essi si contentano di un unico sole e di una stessa aria per tutti: perché non dovrebbe bastare a ciascuno di loro la stessa quantità e la stessa qualità di alimenti?» 16.

Non è difficile scoprire la ragione per cui il criterio del bisogno è il criterio egualitario per eccellenza. Si paragoni il principio «A ciascuno secondo il suo bisogno» agli altri due principî di distribuzione dei beni disponibili: «A ciascuno secondo la capacità» e «A ciascuno secondo il lavoro». Appare immediatamente che il bisogno è un criterio che soddisfa piú della capacità e del lavoro gli ideali di un egualitario, perché gli uomini possono essere considerati di fatto piú eguali rispetto alla quantità e alla qualità dei bisogni che non alla quantità e alla qualità della capacità dimostrata in questa o quell’attività o del lavoro prestato in questa o quell’opera. All’affermazione secondo cui gli uomini dovrebbero avere la stessa quantità e la stessa qualità di alimenti si accompagna invariabilmente la constatazione che nessuno ha due bocche o due stomaci 17. Anche ammesso che vi siano differenze fra i bisogni di un bambino e quelli di un adulto, di un uomo o di una donna – lo stesso Buonarroti ammette che «in morale, in politica, ed in economia, l’eguaglianza non è l’identità matematica e non è alterata da piccole differenze» (p. 213) –, queste differenze saranno sempre minori di quelle che la stessa natura ha stabilito fra le diverse capacità degli uomini e di quelle che la società riconosce ripartendo in base alle capacità le diverse forme di lavoro. In altre parole, per una dottrina che tende al maggior livellamento possibile della maggior parte dei membri di una comunità, non pare dubbio che il criterio del bisogno sia rispetto a tutti gli altri criteri quello che permette la differenziazione minore: la natura ha fatto gli uomini piú eguali rispetto ai bisogni che non rispetto alle capacità e alla possibilità che secondo le diverse capacità hanno di compiere questo o quel lavoro utile alla società. Non è un caso che una dottrina per tanti versi antitetica a quella egualitaria, com’è la dottrina liberale, che valuta positivamente le diseguaglianze e ritiene una società tanto piú civile quanto piú diseguale, elevi a criterio fondamentale per la distribuzione delle ricompense non il bisogno ma la capacità.

4. Non è detto che in una dottrina egualitaria il criterio del bisogno sia l’unico criterio ammesso. Nel programma sociale degli Eguali viene accolto anche il criterio della capacità. Però viene accolto per la distribuzione non dei beni ma degli oneri, cioè nella ripartizione dei diversi lavori. Se è vero che tutti debbono lavorare e nessuno stare in ozio – in ciò sta l’eguaglianza rispetto al lavoro –, non ne deriva necessariamente che tutti debbano fare lo stesso lavoro. Con quale criterio allora debbono essere assegnati i diversi lavori? Buonarroti ritorna spesso su questo argomento e ogni volta ribadisce il principio secondo cui l’unico criterio che permette di ripartire equamente i diversi lavori è quello della capacità. Riassumendo i principî della dottrina per difendere l’eguaglianza dagli attacchi dei nemici, cosí si esprime sinteticamente: «L’eguaglianza deve misurarsi dalla capacità del lavoratore e dai bisogni del consumatore» (p. 213). Il contrasto con la dottrina liberale non potrebbe essere piú netto: mentre per la dottrina liberale il criterio meno egualitario, il criterio della capacità, viene invocato per giustificare la diseguaglianza delle fortune, nella dottrina egualitaria lo stesso criterio viene invocato per giustificare la diseguaglianza dei doveri che ciascuno ha di fronte alla società.

Questo contrasto mi consente di giungere a una terza approssimazione. Una dottrina non egualitaria della società è perfettamente compatibile con il principio cosiddetto dell’eguaglianza dei punti di partenza. Anzi l’affermazione dell’eguaglianza dei punti di partenza è la premessa necessaria di una dottrina, come quella liberale, che considera la vita sociale come una grande gara in cui vince chi combatte meglio (il piú capace): in una dottrina siffatta l’unica eguaglianza ammessa è quella che si risolve nel mettere tutti i concorrenti nella condizione di iniziare la corsa dalla stessa linea di partenza. Nella dottrina egualitaria accade proprio il contrario: ciò che conta è l’eguaglianza dei punti di arrivo, non importa poi se questa eguaglianza segua ad una diseguaglianza dei punti di partenza. Si ritorni per un momento ai due criteri della capacità rispetto all’assegnazione dei diversi lavori e del bisogno rispetto alla ricompensa. Che i membri di una comunità lavorino secondo le capacità significa che partono diversi; che vengano ricompensati secondo il bisogno significa che arrivano eguali.

Il contrasto che ho qui presentato come contrasto fra eguaglianza dei punti di partenza ed eguaglianza dei punti di arrivo è stato anche presentato come contrasto fra eguaglianza delle opportunità ed eguaglianza dei risultati, e considerato come rappresentativo del contrasto fra una concezione individualistica e pluralistica e una concezione solidaristica e comunitaria della società 18. Secondo la prima, basta che siano comuni le regole del gioco e che chiunque sia messo nella condizione di poter partecipare al gioco: è piú che naturale che un gioco termini con un vincitore e un vinto. Secondo l’altra, che vi sia un vincitore e un vinto è proprio ciò che bisogna evitare, ma per evitarlo bisogna fare in modo non tanto che tutti possano partecipare al gioco quanto che tutti possano vincere nella stessa misura 19.

5. Uno dei temi ricorrenti negli scritti degli «Eguali» – tema di chiara e del resto riconosciuta derivazione rousseauiana – è quello che si può riassumere nella parola d’ordine: «Point de luxe, point de misère». Si tratta dell’applicazione del principio secondo cui il bene deve essere sempre cercato come qualche cosa che sta fra due mali estremi. Questo principio è tanto generale da poter essere applicato alle piú diverse situazioni: «Che tutti abbiano abbastanza e nessuno abbia troppo» 20; «che nessuno sia condannato a un lavoro opprimente e nessuno possa godere di un’inerzia corruttrice» (cfr. p. 157); «quando non ci fossero piú palazzi non ci sarebbero piú catapecchie» (p. 160). Mi pare che da questo tema si possa ricavare una quarta approssimazione nella ricerca dei caratteri dell’egualitarismo.

Vi sono sostanzialmente due modi di perseguire una maggiore eguaglianza fra i membri di un determinato gruppo sociale:

a) Estendere a una categoria che ne è priva i vantaggi di un’altra categoria (un caso tipico è quello dell’estensione dei diritti politici da coloro che sanno leggere e scrivere agli analfabeti).
b) Togliere a una categoria di privilegiati i vantaggi di cui gode in modo che possano trarne beneficio anche i non privilegiati.

Mentre con la prima operazione la parificazione avviene lasciando intatti i vantaggi della categoria superiore, con la seconda avviene modificando la situazione tanto di coloro che stanno in alto quanto di coloro che stanno in basso. In questo secondo caso si tratta di quella forma di eguagliamento che si chiama anche «livellamento» (si ricordi che furono chiamati «Livellatori» i componenti di una delle ali piú rivoluzionarie della guerra civile inglese). Mentre il primo procedimento è perfettamente compatibile con una dottrina non egualitaria (l’estensione del suffragio è stata accettata anche nell’ambito delle dottrine liberali), il «livellamento» è uno dei caratteri distintivi dell’egualitarismo.

Anche in questo caso non mi pare difficile spiegare la ragione della differenza. L’eguaglianza di cui si fa banditrice ogni dottrina egualitaria, in quanto, come si è detto, persegue l’eguaglianza rispetto al maggior numero dei beni, è l’eguaglianza economica (l’égalité réelle, di cui parla Buonarroti). Ora, se è possibile estendere il diritto di voto ai nullatenenti, agli analfabeti, alle donne senza toglierlo ai proprietari, agli alfabetizzati, ai maschi, non è possibile, per fare l’esempio della piú classica riforma egualitaria che è la riforma agraria, dare la terra ai contadini senza toglierla ai proprietari, né si può redistribuire il reddito in modo che nessuno abbia un reddito superiore a un certo massimo e nessuno lo abbia inferiore a un certo minimo (la determinazione di un massimo e di un minimo nelle fortune è anch’essa una tipica riforma egualitaria) senza dare agli uni e togliere agli altri. In generale si può dire che le riforme egualitarie compatibili con la dottrina liberale, ivi compresa l’eguaglianza delle opportunità, sono del primo tipo; quelle proprie delle varie dottrine egualitarie possono essere anche del secondo tipo ed è anche per questo che appaiono, a differenza delle prime, rivoluzionarie.

6. I caratteri sin qui considerati dell’egualitarismo sono il riflesso di una teoria generale dell’eguaglianza e rispettivamente della diseguaglianza fra gli uomini, dall’esame della quale mi riprometto di ricavare una quinta ed ultima approssimazione.

Tutte le teorie politiche che si sono cimentate con il problema dell’eguaglianza hanno dovuto fare i conti con la differenza fondamentale fra diseguaglianze naturali e diseguaglianze sociali. Di fronte a questa distinzione si possono assumere due atteggiamenti antitetici: l’atteggiamento di chi ritiene che la maggior parte delle diseguaglianze (se non tutte) che caratterizzano il vivere in società siano naturali; l’atteggiamento di chi ritiene al contrario che la maggior parte delle stesse diseguaglianze (se non tutte) che caratterizzano il vivere in società siano d’origine sociale. Alla base di ogni dottrina egualitaria c’è il secondo. Si pensi al principe degli scrittori egualitari, all’autore del Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes: la natura ha fatto gli uomini eguali, ma la società li ha resi diseguali. Si provi ora a considerare il principe degli scrittori inegualitari, l’autore di Al di là del bene e del male: gli uomini sono per natura diseguali e soltanto la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione e della rassegnazione, li ha resi eguali 21. Là dove Rousseau vede diseguaglianze artificiali, e quindi condannevoli, in contrasto con l’eguaglianza naturale, Nietzsche, l’anti-Rousseau, vede una eguaglianza artificiale, e quindi altrettanto condannevole, in contrasto con le diseguaglianze naturali. Anche in questo caso il contrasto non potrebbe essere piú netto: in nome dell’eguaglianza naturale l’egualitario condanna le diseguaglianze sociali; in nome della diseguaglianza naturale l’inegualitario condanna l’eguaglianza sociale. Mentre il primo tende a vedere nelle diseguaglianze sociali un prodotto artificiale, il secondo tende a vedere un prodotto artificiale nella eguaglianza sociale.

Chi voglia avere una conferma dell’atteggiamento tipico di ogni dottrina egualitaria di fronte alle diseguaglianze sociali, pensi ad alcuni argomenti diventati ormai abituali dei vari movimenti per la emancipazione femminile. Per quanto di tutte le diseguaglianze quella fra uomini e donne sia senza dubbio la piú naturale, uno degli argomenti preferiti dalle femministe è che anche la differenza fra uomini e donne è dovuta in gran parte a fattori sociali, cioè è prevalentemente una diseguaglianza sociale. Si potrebbe persino dire che, mentre l’inegualitario considera perfettamente legittime le diseguaglianze sociali in quanto le ritiene un riflesso di diseguaglianze naturali, l’egualitario considera illegittime certe diseguaglianze apparentemente naturali, come quella fra uomini e donne, perché le ritiene il riflesso di diseguaglianze talmente radicate nel costume (il costume, dice Pascal, è una seconda natura) da aver fatto perdere le tracce della loro origine.

Resta a dire quale sia la ragione per cui l’egualitario considera le diseguaglianze un prodotto artificiale della vita in società, là dove, al contrario, l’inegualitario le considera una conseguenza inevitabile delle diseguaglianze naturali. La differenza fondamentale fra le diseguaglianze naturali e quelle sociali è che le prime non possono, le seconde possono, essere eliminate. Una dottrina che tende alla soppressione della maggior parte delle diseguaglianze esistenti fra gli uomini è costretta a sostenere, se non vuol cadere in contraddizione, che la maggior parte di queste diseguaglianze appartengono alla classe delle diseguaglianze eliminabili, cioè sono diseguaglianze sociali.

7. Un’ultima considerazione. Alla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che rendono non sopportabili le società umane sinora costituite siano diseguaglianze sociali corrisponde negli scrittori egualitari la convinzione che gli uomini sono per natura eguali, o che per lo meno sono piú eguali che diseguali, tanto che le diseguaglianze naturali che pur vi sono (e nessuno che non sia cieco le può negare) sono considerate irrilevanti, cioè tali da non giustificare un diverso trattamento nell’assegnazione degli oneri e dei beni essenziali a una felice vita in comune. Una convinzione di questo genere nasce da un’operazione mentale molto semplice: gli uomini vengono considerati non come individui ma come genus, e quindi non per le caratteristiche che differenziano un individuo dall’altro ma per quelle per cui tutti gli uomini appartengono a un unico genere, non importa poi se l’accento cada sulle caratteristiche assiologicamente negative («gli uomini sono tutti peccatori») o su quella positiva («l’uomo è un animale naturalmente sociale»). Perfettamente antitetica è l’operazione mentale che sta alla base delle dottrine liberali, le quali tendono a mettere in evidenza non ciò che gli uomini hanno in comune, in quanto uomini, ma ciò che hanno di diverso, in quanto individui. Non ho bisogno di aggiungere che entrambe le operazioni mentali sono guidate da scelte di valore. Fattualmente, è vero tanto che tutti gli uomini sono eguali, per esempio di fronte alla morte, caratteristica del genus, quanto che tutti gli uomini sono diversi, per esempio rispetto al proprio destino, caratteristica dell’individuo: ragion per cui se è vero che tutti gli uomini muoiono, è altrettanto vero che tutti gli uomini muoiono in modo diverso. È chiaro che il partire da certi fatti piuttosto che da altri, dai dati comuni piuttosto che dai dati individuali, è la conseguenza di un’opzione etica.

Prima di chiudere mi preme mettere ancora in rilievo che strettamente connessa alla considerazione dell’uomo come genus e non come individuo è la tendenza comunitaria o comunistica delle dottrine egualitarie. Storicamente – si pensi alla storia delle utopie, tanto di quelle positive quanto di quelle negative – egualitarismo e comunismo possono essere considerati come due facce della stessa medaglia, in quanto entrambi sono il riflesso di una considerazione dell’uomo non come individuo ma come genus. Per riferirci ancora una volta al nostro Buonarroti, gran parte delle riforme da lui proposte sono ispirate all’idea che i componenti di una nazione costituiscano una totalità organica e che le istituzioni piú atte a reggerla per farla progredire siano quelle che costringono gli individui a vivere e a lavorare in comune. L’organizzazione comunistica o comunitaria della società è la risposta piú coerente che possa essere data ad una concezione dell’uomo come «essere generico». Nonostante Marx chiami «rozzo» l’egualitarismo di Babeuf e compagni 22, non vi sono pagine, forse, piú di alcuni suoi scritti giovanili, in cui appaia con tutta evidenza il nesso fra il comunismo e la considerazione dell’uomo come Gattungswesen 23. Prova a contrario: la critica all’egualitarismo ha sempre trovato il suo punto di forza nella difesa dell’individuo contro la sua riduzione a parte di un tutto. Ancora una volta, per finire, Nietzsche: «…il socialismo è la morale dell’armento pensata fino in fondo: cioè il principio “diritti eguali per tutti” portato alla conseguenza “pretese eguali per tutti”; quindi “un armento e nessun pastore”, quindi “la pecora è uguale alla pecora”» 24.

III.
SULLA NOZIONE DI GIUSTIZIA.
1. I classici e noi.

Un’analisi del concetto di giustizia presuppone un riferimento alla letteratura classica sull’argomento, a cominciare dai Greci. Su questa letteratura, di cui il piú ampio repertorio, ancor oggi di utile consultazione, si trova nel libro, a torto dimenticato, di Giorgio Del Vecchio 25, si possono fare alcune considerazioni generali. Il testo canonico, che è stato tramandato e ripetuto senza grandi sviluppi analitici per secoli, è stato il libro V dell’Etica Nicomachea, con la distinzione dei due concetti di giustizia come legalità e come eguaglianza, con la distinzione fra diverse forme di giustizia di cui le piú importanti sono la correttiva (commutativa) e la distributiva, con la distinzione fra giustizia stretta ed equità. Questa trattazione, come del resto quella delle forme di governo, svolta nei libri III e IV della Politica, è stata accolta come se fosse stato detto una volta per sempre sull’argomento tutto il dicibile, come un patrimonio inesauribile che poteva essere accresciuto ma il cui nucleo essenziale restava immutabile. Ne è derivata una sconfortante monotonia delle trattazioni sulla giustizia nei classici della filosofia medioevale e in parte moderna, che dànno l’impressione di essere una serie di variazioni su un tema o su pochi temi fissi, di non grande valore analitico. Nell’età moderna, la maggior parte dei classici della filosofia politica e giuridica che sono le tappe obbligate del dibattito attuale, tranne Hobbes, non hanno dato grande spazio all’analisi del concetto di giustizia. Mi riferisco a Locke, Kant, Hegel, Marx. La nota trattazione di Hume nel libro III del Trattato sulla natura umana riguarda l’origine della giustizia piú che la sua natura. La costruzione proposta da Bodin di una terza forma di giustizia, la giustizia armonica, forse la piú ardita innovazione rispetto alla teoria tradizionale, non ha avuto alcun seguito e non ha trovato fautori o critici, se non in autori secondari. Infine, al di fuori della analisi aristotelica, le definizioni tradizionali della giustizia non sono analitiche ma persuasive: come «constans voluntas suum cuique tribuere» dei giuristi romani, «caritas sapientis» di Leibniz.

Ritengo che non si possa affrontare di petto, o direttamente, l’analisi della nozione di giustizia. Se la lettura dei classici ci può essere di qualche utilità anche in questo caso, essa ci ha di mostrato che tale nozione appartiene a una famiglia di altre nozioni che si richiamano continuamente l’una con l’altra, e di cui si può dire nella migliore delle ipotesi che quella di giustizia è la capostipite. Si tratta di nozioni che vengono abitualmente definite l’una in funzione dell’altra, la giustizia in funzione di tutte o almeno sempre di una delle altre. Da questo riconoscimento iniziale deriva una conseguenza di metodo o di strategia della ricerca: alla nozione di giustizia è opportuno o prudente arrivare girandoci attorno, con una manovra che nel linguaggio militare si chiamerebbe avvolgente. Le nozioni che io mi propongo di utilizzare in questa marcia di avvicinamento o di coinvolgimento (spero non di travolgimento) sono le seguenti: legge, ordine, eguaglianza.

Dalla connessione e reciproca integrazione di queste quattro nozioni consegue che il discorso sulla giustizia può opportunamente articolarsi nell’analisi di tre coppie principali, di cui uno dei due termini è giustizia, ovvero giustizia-legge, giustizia-eguaglianza, giustizia-ordine, e di tre coppie secondarie, in cui nessuno dei due termini è giustizia, ovvero legge-eguaglianza, eguaglianza-ordine, ordine-legge. Ognuno dei due termini secondari è in relazione con gli altri due:

Il termine principale è in relazione con tutti e tre:

2. Giustizia e legge.

Il nesso fra giustizia e legge era stato già riconosciuto da Aristotele nel celebre passo dell’Etica Nicomachea (1129a, 8), in cui è scritto che «giusto» ha due significati e uno di questi è «conforme a legge» o legale, mentre, rispettivamente, ingiusto significa non conforme a legge o illegale. È stato piú volte osservato che questo significato di giusto vale soprattutto e limitatamente quando viene attribuito a un’azione, in modo particolare ad un’azione umana, ma senza escludere gli atti di enti personificati, come Dio, gli dèi, gli animali in una concezione animistica della natura. Il significato prevalente di azione giusta è infatti quello di azione compiuta in osservanza di una legge.

Meno univoco è il significato di giusto quando è attributo di uomo: un uomo giusto può essere tanto un uomo rispettoso delle leggi, quanto un uomo equanime che distribuisce imparzialmente il torto e la ragione, e in questo caso la nozione di giustizia richiama piuttosto quella di eguaglianza. La stessa ambiguità si può osservare quando «giusto» viene riferito ad atti di soggetti dotati di particolare autorità: «sentenza giusta» può essere tanto la sentenza del giudice che ha osservato rigorosamente la legge quanto la sentenza equa che ha rispettato la regola generale dell’egual trattamento degli eguali. E che dire di una «legge giusta»? Questa domanda è inevitabile nel momento stesso in cui, definita «azione giusta» l’azione conforme a legge, non si può non essere posti di fronte al problema se sia da considerarsi giusta l’azione conforme a una legge ingiusta. Ma, appunto, che cosa significa legge giusta e, rispettivamente, ingiusta? La risposta è duplice: può essere detta giusta tanto una legge (inferiore) conforme a una legge (superiore), e in questo caso viene rispettato il significato di giustizia come legalità, come accade, ad esempio, nel rapporto fra diritto positivo e diritto naturale secondo la prevalente dottrina giusnaturalistica, quanto una legge egualitaria che elimina una discriminazione, sopprime un privilegio, o, per converso, un trattamento odioso. Predominante, invece, nella tradizionale dottrina politica, anzi quasi esclusivo, il secondo significato quando l’attributo viene riferito a coloro che detengono il sommo potere, i governanti: il governo sub lege è una delle attuazioni possibili di quello che è stato chiamato il «buongoverno» contrapposto al governo in cui il potere è esercitato arbitrariamente, a capriccio, «senza leggi né freni» (Montesquieu), mentre giusti governanti sono chiamati coloro che esercitano il potere ispirandosi al principio della equa distribuzione degli oneri e dei benefici, della ragione e del torto, fra i cittadini 26.

Il rapporto fra giustizia e legge si può osservare in molti altri contesti. Si dice potere legittimo il potere che viene esercitato a giusto titolo, dove per «giusto titolo» s’intende che quel potere è stato attribuito al titolare da una legge superiore, sia essa una legge naturale, com’è la norma che prevede l’acquisto di un diritto per prescrizione (rientra in questa categoria una delle tre forme di potere legittimo secondo Max Weber, il potere tradizionale), sia una legge fondamentale dello stato, come la legge salica in una monarchia ereditaria, o come uno o piú articoli di una costituzione scritta rispetto al potere di questo o di quell’organo in uno stato costituzionale. Non diverso è il significato di legittimo proprietario, legittimo rappresentante, legittimo successore.

Ancora piú in generale nella filosofia politica e giuridica processo di giustificazione e processo di legittimazione tendono a coincidere. Il che non si può dire riguardo al discorso etico e tanto meno al discorso scientifico, in cui si usa il termine «giustificazione» per il complesso di argomenti che vengono addotti per sostenere validamente una tesi. Si dice che un licenziamento è avvenuto per giusta causa, e quindi è giustificato, quando è stato disposto secondo una legge che prevede quali sono le cause in base alle quali un dipendente può essere licenziato, onde il titolare della ditta è legittimato a compiere l’atto. Ognuno vede che in un caso come questo, il dire che l’atto è giustificato o legittimato è indifferente. Cosí, per fare un esempio storicamente piú rilevante, il problema della guerra giusta si risolve nel problema se vi siano giuste cause di guerra e quali siano. Ogni teoria della guerra giusta è una teoria che tende ad addurre argomenti per sostenere che alcune guerre sono giustificate e altre no. Ma siccome sono guerre giustificate quelle che obbediscono a qualche regola generale di diritto come vim vi repellere licet, la loro giustificazione coincide con la loro legittimazione. Il dire che vi sono guerre che possono essere condotte a giusto titolo vuol dire che vi sono nel diritto internazionale norme che consentono in determinati casi allo stato di intraprendere una guerra, la quale diventa, in quanto tale, una guerra legittima.

Dalla riduzione del problema della giustizia a problema di legalità (o legittimità) deriva la concezione legalistica della giustizia, secondo cui è giusto ciò che è comandato per il solo fatto di essere comandato (e s’intende comandato da un’autorità superiore che ha il potere legittimo di emanare leggi) e ingiusto ciò che è proibito per il solo fatto di essere proibito. Può essere interpretata in questo senso la teoria hobbesiana secondo cui nello stato di natura, appunto per la mancanza di leggi valide ed efficaci, non vi è alcun criterio per distinguere un’azione giusta da una ingiusta. Solo nello stato civile avrebbe senso parlare di giustizia e ingiustizia, giacché una volta instaurato in base all’accordo dei cittadini un potere legittimo cui viene attribuito il potere di comandare e di proibire, la giustizia consiste nell’osservare la legge, l’ingiustizia nel violarla 27.

3. Legge ed eguaglianza.

Il nesso fra legge e giustizia passa attraverso la seconda nozione del nostro reticolo: l’eguaglianza. Ho parlato sinora di legge per attenermi a un uso del linguaggio tradizionale, classico, secondo cui la legge è una regola di condotta, o, come si dice ormai nel linguaggio giuridico, dalla fine del secolo scorso a oggi, una norma, che ha i due caratteri della generalità e dell’astrattezza: ove per «generalità» s’intende che la direttiva contenuta nella norma è rivolta a una categoria di soggetti o di status (il padre, il figlio, il coniuge, il proprietario, il venditore, il mandatario ecc.), anche nel caso in cui la categoria sia composta da una sola persona (il re, la regina, il presidente della repubblica, il presidente del consiglio), e mai a un soggetto singolo (Tizio, Caio, Sempronio); per «astrattezza», che l’oggetto della regolamentazione è un’azione-tipo (il furto, l’omicidio, il peculato, il mutuo, l’enfiteusi), e piú raramente un’azione singola. Per le direttive generali e concrete, individuali e astratte, individuali e concrete, si usano di solito altri termini, come ordine, provvedimento, decreto (esempio, il decreto di nomina di una persona a un determinato ufficio) 28.

Per quanto si possa dare nel diritto positivo una legge in senso formale rivolta a una persona singola, ed è per questo che i giuristi hanno cura di distinguere la legge in senso formale dalla legge in senso sostanziale, il diritto naturale non conosce altre leggi (le leggi naturali appunto), se non leggi generali e astratte. Cosí si dica per tutti i tipi di leggi di cui si occupa la teoria del diritto: leggi consuetudinarie, fondamentali, costituzionali, civili, penali ecc. Le grandi trattazioni sulle leggi, dai Nomoi di Platone all’Esprit des lois di Montesquieu, passando attraverso i trattati De legibus di Cicerone e di Suárez, considerano prevalentemente, se non esclusivamente, direttive che hanno per destinatari una generalità di soggetti e per oggetto una classe di azioni.

Attraverso le note caratteristiche della generalità e dell’astrattezza una legge, qualsiasi legge, assicura una prima forma di eguaglianza, l’eguaglianza formale, intesa come l’egual trattamento di coloro che appartengono alla stessa categoria. Non a caso il principio generalissimo che prescrive l’egual trattamento degli eguali (e il diseguale dei diseguali) si chiama regola di giustizia. La norma che stabilisce una determinata pena per un determinato reato, che impone un determinato obbligo a chi stipula un contratto, che attribuisce un determinato diritto a chi gode di un certo status, fissa un criterio di giudizio univoco, buono o cattivo che sia, per tutti i soggetti che si trovano nella stessa situazione prevista, e in tal modo consente il loro trattamento eguale.

In mancanza di una legge, ovvero, nel senso tecnico tradizionale della parola di una norma generale e astratta, il giudice sarebbe costretto a giudicare caso per caso. Giudicando caso per caso, potrebbe essere indotto, per noncuranza o per errore o anche per volontà prava, a giudicare lo stesso caso in due modi diversi, o due casi diversi nello stesso modo. Anche la cosiddetta «giustizia del cadí» non è arbitraria, perché tiene conto di norme prestabilite, siano di carattere religioso o morale, siano trasmesse per consuetudine o suggerite da precedenti decisioni di giudici o dalla tradizione di opinioni emesse dal ceto dei giuristi di professione. Anche quando si trova di fronte a un caso nuovo il giudice, prima di rompere totalmente con la tradizione, si vale del ragionamento per analogia il cui presupposto è che sino ai limiti del ragionevole il caso nuovo deve essere risolto come sono stati risolti dalla legge casi simili, e il cui scopo è ancora una volta la non disparità di trattamento di casi che possono essere fatti rientrare in un’unica categoria generale.

Nell’applicazione della regola di giustizia al caso concreto si possono dare due casi anomali: l’equità, intesa come adattamento della norma al caso singolo che non consente una perfetta equiparazione con i casi previsti, e il privilegio, inteso come esenzione da un obbligo generale o attribuzione di un diritto particolare a una persona o categoria singola. La prima permette di correggere una possibile diseguaglianza che risulterebbe dall’applicazione rigida della norma generale, e quindi non viola la regola di giustizia. Il secondo introduce una diseguaglianza non prevista, e quindi viola la regola di giustizia. Nel primo caso la diseguaglianza di trattamento corrisponde a una riconosciuta diseguaglianza di situazione; nel secondo caso alla eguaglianza di situazione contravviene la diseguaglianza di trattamento.

Da questo nesso fra legge ed eguaglianza deriva la concezione, pur essa tradizionale, della superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini. Questa superiorità consiste proprio nel fatto che la legge assicura l’eguaglianza di trattamento, a differenza del governo degli uomini che favorisce il giudizio arbitrario. Una citazione fra molte. Nelle Supplici, Euripide mette in bocca a Teseo, il buon re, queste parole: «Nulla v’è in una città piú nemico che un tiranno, quando non vi sono anzitutto leggi generali, e un uomo solo ha il potere, facendo la legge egli stesso a se stesso; e non v’è affatto eguaglianza. Quando invece vi sono leggi scritte, il povero e il ricco hanno eguali diritti, è possibile ai piú deboli replicare al potente, quando questi li insulta, e il piccolo, se ha ragione, può vincere il grande» (vv. 429-37).

4. L’eguaglianza di fronte alla legge.

Diversa dall’eguaglianza di trattamento inerente alla natura stessa della legge in quanto norma generale ed astratta è l’eguaglianza di fronte alla legge, il cui principio è dato riscontrare nella maggior parte delle costituzioni scritte degli stati contemporanei, a cominciare dalla costituzione francese del 1791. Tale principio non vuol certo affermare che tutti i cittadini sono eguali (ogni eguaglianza è sempre un’eguaglianza secundum quid), ma neppure, in senso stretto, che gli eguali debbono essere trattati in modo eguale. Si può intendere in due modi secondo che, in quanto precetto, lo si consideri rivolto ai giudici o al legislatore.

Rivolto ai giudici può essere tradotto in quest’altra formula: «La legge deve essere eguale per tutti», e vuol dire che la legge deve essere applicata imparzialmente, e deve essere applicata imparzialmente perché soltanto in questo modo assicura l’egual trattamento degli eguali. La legge, in quanto norma generale e astratta, stabilisce quale sia la categoria cui deve essere riservato un determinato trattamento. Spetta al giudice di stabilire di volta in volta chi debba essere incluso nella categoria e chi debba esserne escluso. Il precetto dell’imparzialità è necessario, perché l’applicazione di una norma al caso concreto non è mai meccanica e richiede una interpretazione in cui interviene, in maggiore o minor misura secondo i diversi tipi di legge, il giudizio personale del giudice.

Rivolto al legislatore, il principio è una vera e propria norma costituzionale e può essere riformulato in quest’altro modo: «Tutti debbono avere l’eguale legge». La differenza fra i due significati è resa evidente dalle rispettive negazioni: altro è dire che «la legge non è eguale per tutti», altro che «non tutti hanno eguale legge». La prima espressione mette in evidenza la violazione da parte dei giudici del dovere di imparzialità; la seconda lascia intendere che la società è ancora divisa in ceti, o ordini, o classi, e ogni ceto o ordine o classe ha un proprio ordinamento giuridico che stabilisce diritti e doveri, rispettivamente, diversi. Per capire questo secondo significato bisogna riportarsi al Preambolo della costituzione francese del 1791: «L’assemblea nazionale […] abolisce irrevocabilmente le istituzioni che feriscono la libertà e l’eguaglianza dei diritti». L’elenco delle rivendicazioni espresse in termini negativi che viene subito dopo: «Non c’è piú nobiltà né pari né distinzioni ereditarie, né distinzioni di ordini, né regime feudale ecc.», permette di dare un contenuto all’altrimenti vaga espressione «eguaglianza di diritti». Leggendo infatti tutto insieme l’articolo ci si rende conto che i diritti di cui si afferma l’eguaglianza non sono tutti i diritti (ma poi che senso avrebbe parlare di «tutti i diritti»?), ma solo quelli esplicitamente rivendicati e che questi si riferiscono specificamente alla negazione della discriminazione fra i cittadini fondata sulla nascita (che è la discriminazione caratteristica di una società aristocratica). Originariamente dunque il principio dell’eguaglianza davanti alla legge inteso come il principio secondo cui tutti debbono godere del beneficio della stessa legge, rappresenta il rifiuto di uno dei criteri convenzionali di giustizia, quello della giustizia secondo il rango.

Siccome la discriminazione secondo il rango è una soltanto delle molte e varie discriminazioni che esistono nelle diverse società e anche nella stessa società (motivi di discriminazione sono il sesso, la razza, l’etnia, la classe sociale, la religione ecc.), il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge non ha un significato univoco, e viene riempito di diversi contenuti secondo la maggiore o minore ampiezza delle discriminazioni conservate o eliminate. La discriminazione secondo il rango è la piú antica, la piú stratificata, ed è anche quella che, come la lunga lotta contro la società divisa in ceti o ordini dimostra, ha resistito per secoli al cambiamento. Il che spiega perché l’abolizione della discriminazione secondo il rango, da cui è nato il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge, tanto nella Grecia antica che la esprimeva nel concetto di isonomia, e di cui si può trovare una netta formulazione nelle parole di Solone: «E prescrissi leggi uguali al nobile e al plebeo applicando a ciascuno retta giustizia» (Diehl, fr. 24), quanto nell’età moderna dopo la Rivoluzione francese, possa aver dato l’impressione che, abolite le differenze di rango, gli uomini fossero diventati o ridiventati eguali e si potesse proclamare che, d’ora in poi, gli uomini sarebbero stati eguali davanti alla legge. Ma vi sono ben altre discriminazioni resistenti al cambiamento come quella relativa al sesso. Se non si vuol ridurre il significato del principio al semplice rispetto della legalità, l’unico significato innovativo che si possa ad esso attribuire è che l’ordinamento non tollera discriminazioni ingiuste, dove per ingiusta s’intende una discriminazione dallo stesso ordinamento non prevista (rispetto al diritto posto), ed è aperto alla eliminazione di discriminazioni ancora esistenti via via che le differenze su cui esse si fondano vengano sentite e concepite come non piú rilevanti.

5. I criteri di giustizia.

Il discorso sulle differenze rilevanti o irrilevanti che permettono di giudicare se una diseguaglianza sia giustificata o meno, in altre parole se una diseguaglianza giustifichi o legittimi una discriminazione, costituisce il ponte di passaggio dal concetto puramente formale di eguaglianza, di cui ho parlato sin qui, sotto specie sia della regola dell’egual trattamento, sia del dovere dei giudici di essere imparziali, ai diversi modi di concepire l’eguaglianza secondo i diversi criteri che vengono adottati per distinguere gli eguali dai diseguali. Si tratta del passaggio dalla regola di giustizia ai criteri di giustizia.

La legge stabilisce una categoria entro cui i soggetti e le azioni debbono essere trattati in modo eguale da parte di un giudice imparziale. Ma chi sono gli eguali, chi i diseguali? Come viene definita, stabilita e delimitata una categoria cui vengono attribuiti certi diritti o doveri rispetto a un’altra? Per fare i soliti esempi, rispetto ai diritti politici perché i maschi e non le donne, oppure sia i maschi e sia le donne, perché a 21 anni e non a 18? Rispetto all’obbligo scolastico perché tutti, maschi e femmine, e non soltanto i maschi o soltanto i figli di genitori che hanno un certo reddito? Altro è affermare che è giusto che vengano trattati in modo eguale gli eguali. Altro è dire che gli eguali meritevoli di egual trattamento siano i maschi rispetto al diritto di voto, o rispetto all’obbligo militare. È giusto nel senso legale o formale della parola che votino solo i maschi se la legge attribuisce solo ai maschi questo diritto, e che siano obbligati solo i maschi a prestare il servizio militare se cosí stabilisce la legge. Ma è giusto in un senso diverso da quello legale che solo i maschi vadano a votare, o siano chiamati a prestare il servizio militare? Non vi è miglior prova del diverso significato che diamo nei due diversi contesti al termine «giusto». Ma se è chiaro il primo significato, è altrettanto chiaro il secondo?

Il problema sarebbe enormemente semplificato se tutti gli uomini fossero eguali in tutto come si dice che siano, se pur soltanto in senso metaforico, due palle di biliardo o due gocce d’acqua. In questo caso basterebbe un criterio solo: «A tutti la stessa cosa». Non vi sarebbe bisogno di dividerli in categorie secondo le loro diversità e tutti apparterrebbero a una sola categoria. In un universo in cui tutti gli elementi appartengono alla stessa categoria la regola di giustizia «occorre trattare gli eguali in modo eguale» esaurisce il problema della giustizia. Basta a risolvere il problema, e non è necessario fare intervenire criteri di differenziazione che sono il pomo della discordia, e hanno dato origine alle secolari dispute sul modo di distribuire oneri e onori: ognuno di questi criteri, infatti, divide gli uomini in modi diversi e l’adozione dell’uno o dell’altro è dovuta a giudizi di valore difficilmente comparabili fra loro e sui quali è difficile mettersi d’accordo. Ma gli uomini non sono eguali in tutto, sono eguali e diseguali, e non tutti sono egualmente eguali o egualmente diseguali. Coloro che sono eguali in base a un criterio possono essere diseguali in base a un altro e viceversa.

Si ricorre alle somiglianze (rispettivamente alle differenze) rilevanti per applicare un determinato criterio. Ma quali sono le somiglianze o le differenze rilevanti? Vi sono casi di facile soluzione: la statura non è rilevante per avere il diritto di votare (ma è rilevante l’età); però è rilevante per il servizio militare, e anche per l’esercizio di qualche altra attività. Ma è rilevante per ottenere un qualsiasi pubblico impiego? Il merito è rilevante per l’assegnazione dei voti in un esame o in un concorso, donde l’assurdità della richiesta sessantottesca «A tutti lo stesso voto», mentre il bisogno (e non il merito) è rilevante nella distribuzione di beni necessari in regime di scarsità. Ma vi sono casi difficili, in cui non è immediatamente applicabile un solo criterio, ma sono applicabili o piú criteri contemporaneamente o piú criteri l’uno a esclusione dell’altro. Nella scelta di un criterio piuttosto che di un altro entrano in questi casi giudizi di valore che, oltre a essere indimostrabili e sostenibili soltanto attraverso argomenti pro e contro, sono anche storicamente mutevoli, tanto che sulla loro enunciazione si dividono coloro che sono in genere contro il mutamento (i conservatori) e coloro che lo accettano (i progressisti). Che cosa è accaduto perché il sesso da rilevante per l’esclusione dai diritti politici sia diventato irrilevante? o per l’attribuzione, nel diritto di famiglia, della patria potestà anche alla moglie? Come si spiegherebbe altrimenti che l’essere negro in una società di bianchi sia in certi paesi non piú rilevante per il godimento dei diritti civili e politici, e in altri ancora rilevante?

Tutti sanno che la norma piú tormentata della nostra Costituzione è il primo comma dell’art. 3 per il quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale (che è formula retorica, quant’altra mai vaga, e riempibile dei piú diversi contenuti) e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Che cosa significa questa enunciazione se non che sesso, razza, religione ecc. che in altri tempi hanno rappresentato ragioni sufficienti per discriminare categorie di cittadini e quindi per trattarli in modo diverso rispetto ad altri, non sono piú tali? e che cosa vuol dire la fine di una discriminazione se non che diventa ingiusto un trattamento che prima di quella enunciazione poteva essere considerato giusto? Di fatto le differenze di sesso o di razza non sono state cancellate. Di fatto i sessi e le razze continuano a essere diversi. Ciò che è cambiato è la valutazione che viene data sulla rilevanza di questa differenza rispetto a certi effetti giuridici. Né si deve trarre la conseguenza che, abolite certe differenze che importavano una discriminazione o un diverso trattamento, siano state abolite tutte le possibili differenze rilevanti fra gli uomini e gli uomini siano diventati finalmente eguali in tutto. Da un lato vi sono altre differenze, ad esempio l’età o l’intelligenza o l’abilità nel proprio lavoro, che costituiscono ragioni sufficienti per un diverso trattamento in situazioni specifiche, dall’altra, rispetto alle stesse discriminazioni abolite, come quella del sesso, possono esservi ragioni sufficienti per il loro mantenimento in situazioni in cui l’egual trattamento si risolverebbe in uno svantaggio. Infatti non basta enunciare il principio che d’ora innanzi non vi sarà piú differenza tra i sessi o tra le razze, come fa l’art. 3 della Costituzione, perché gli appartenenti a sessi o razze diverse siano eguali in tutto. Altro è dire chi sono gli eguali, altro rispetto a che cosa sono eguali. La dizione dell’art. 3 citato non lo dichiara espressamente ma lascia intendere che le differenze abolite sono quelle relative al godimento dei diritti civili, sociali e politici, i diritti che possono essere compresi nell’espressione «dignità sociale», e le dànno un senso.

Beninteso, il discorso sulle diseguaglianze che in seguito a un mutamento dei costumi, delle ideologie, delle condizioni storiche, non permettono piú di giustificare un trattamento diverso, vale per il mutamento inverso, cioè per certe eguaglianze che per le stesse ragioni non permettono piú di giustificare l’egual trattamento. Il caso è di fatto piú raro ma non meno attinente al tema della giustizia come eguaglianza: la diversificazione dei diseguali, di coloro cioè la cui eguaglianza non è piú giustificata, non è meno opera di giustizia dell’eguagliamento degli eguali. Un esempio significativo di questa possibile inversione è il dibattito sull’eventuale introduzione di una clausola di sbarramento per l’ammissione dei partiti alla distribuzione dei seggi in parlamento. Qualora la proposta fosse approvata, partiti che erano eguali rispetto al diritto di mandare rappresentanti al parlamento diventerebbero diseguali.

6. Giustizia e ordine.

Da Platone in poi la virtú della giustizia è la virtú che presiede alla costituzione di una totalità composta di parti e in quanto tale consente alle parti di stare insieme, di cum-stare, di non dissolversi e di non tornare nel caos primigenio: e quindi di costituire un ordine. La virtú della giustizia è strettamente connessa con la virtú della concordia (omónoia). L’idea della giustizia sia come una regolatrice del modo diverso delle parti di rapportarsi al tutto (giustizia distributiva) sia come equilibratrice delle parti nei rapporti fra di loro (giustizia commutativa) è inerente a ogni possibile rappresentazione di un ordine. Di qualsiasi ordine: tanto dell’ordine cosmico («giustizia mosse il mio alto Fattore») quanto dell’ordine sociale, entrambi spesso raffigurati l’uno per mezzo dell’altro: il corpo sociale ricostruito a immagine e somiglianza del corpo fisico (secondo la concezione organicistica della società), l’ordinamento del mondo ricostruito a immagine e somiglianza del governo della società (secondo la concezione sociomorfica della natura). E di qualsiasi ordinamento sociale, tanto della società totale e perfetta come lo stato quanto delle società parziali o imperfette che vengono costituite per fini particolari, tanto delle società degli onesti quanto delle società dei malfattori, o dei «masnadieri» (per usare la forte espressione di Romagnosi), secondo una sentenza che si tramanda da autore a autore senza soluzione di continuità.

I due aspetti della giustizia come virtú ordinatrice sono perfettamente rappresentati dalle due massime che si integrano a vicenda: si dia a ciascuno il suo («suum cuique tribuere») e faccia ciascuno ciò che gli spetta («suum agere»). C’è una perfetta corrispondenza tra l’una e l’altra: la prima enuncia il dovere dell’ordinante, la seconda quello dell’ordinato. L’ordinatore può pretendere che ciascuno faccia ciò che deve se egli dà a ciascuno ciò che gli spetta; l’ordinato ha il dovere di fare ciò che gli spetta se riceve ciò che gli è dovuto. Sono, queste massime, due facce della stessa medaglia: la giustizia vista dal punto di vista del tutto al di sopra delle parti e dal punto di vista di ciascuna delle parti. Che sia stata messa in evidenza or l’una or l’altra nelle diverse concezioni della giustizia dipende dalla diversa prospettiva da cui l’uno e l’altro autore si pone: dalla parte di chi costruisce l’ordine e lo deve far rispettare, o dalla parte di chi subisce l’ordine ed è chiamato a conservarlo. Ma la loro corrispondenza rispetto all’idea della giustizia-ordine è perfetta.

Allo stesso modo l’idea della giustizia-ordine ricomprende e illumina l’idea della giustizia-legge e quella della giustizia-eguaglianza. L’ordine è instaurato e conservato attraverso l’emanazione di leggi (l’ordinatore è il legislatore), la cui funzione è quella di istituire e continuamente ricostituire rapporti di eguaglianza fra le parti e fra il tutto e le parti.

La immanenza della nozione di giustizia in quella di ordine e la loro indissolubilità inducono a una riflessione conclusiva sul famoso binomio (o ircocervo) della giustizia e della libertà. La giustizia è un valore (il valore supremo?) per la società rispetto agli individui che la compongono (la giustizia virtú sociale degli antichi). La libertà è un valore (il valore supremo?) per l’individuo rispetto alla società o alle società di cui fa parte. La giustizia è un fine desiderabile da parte di chi si pone dal punto di vista della buona società (iustitia fundamentum regnorum); la libertà è un fine desiderabile da parte di chi si pone dal punto di vista dell’individuo.

Ma proprio perché sono valori attribuibili rispettivamente a due soggetti diversi, sono complementari ma insieme nella loro pienezza incompatibili. L’ideale di un insieme di individui liberi in una società giusta o inversamente di una società giusta composta da individui liberi è un ideale-limite, che storicamente ha dato origine alla scissione fra le dottrine liberali, riprese oggi dalle dottrine neoliberali, che esaltano la libertà di ogni individuo cui non attribuiscono altro limite che l’egual libertà degli altri (si tratta dell’ideale dell’eguaglianza al piú basso livello) e contestano alla società nel suo insieme il diritto di porsi un compito di giustizia distributiva o redistributiva, e le dottrine socialistiche o comunistiche, le quali si occupano del modo di parificare gli individui rispetto non solo alle opportunità iniziali ma anche alle condizioni finali, se pure a prezzo del sacrificio dei diritti individuali di libertà. Le varie forme di socialismo liberale o di liberalismo sociale sono teoricamente ambigue, il che non toglie che il problema di conciliare l’ideale della libertà degli individui con quello della giusta società sia un problema reale. Ma proprio perché è un problema che può essere risolto solo prammaticamente, qualsiasi soluzione non è mai la soluzione ottima e tanto meno quella definitiva.

1 N. BOBBIO, Democrazia e dittatura, in «Nuovi Argomenti», n. 6, gennaio-febbraio 1954, pp. 1-15, rist. in ID., Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 1 a ed. Reprint 1974, ult. rist. 1986, pp. 148-59.

2 G. DELLA VOLPE, Comunismo e democrazia moderna, in «Nuovi Argomenti», n. 7, marzo-aprile 1954, p. 130. Cfr. la trad. it. del saggio di B. CONSTANT, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, in ID., Principî di politica, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 217-39.

3 R. DERATHÉ, Jean-Jacques Rousseau et la science politique de son temps, Vrin, Paris 1950 (trad. it. Jean-Jacques Rousseau e la scienza politica del suo tempo, il Mulino, Bologna 1993).

4 Essay on Liberty, a cura di R. B. McCallum, Oxford 1948, p. 3. La trad. it. cit. nel testo è quella di S. Magistretti, Saggio sulla libertà, prefazione di G. Giorello e M. Mondadori, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 26 (nella nuova ed. 1997, p. 6).

5 De la Démocratie en Amérique, in Œuvres complètes, a cura di J.-P. Mayer, t. I, vol. II, Gallimard, Paris 1951, 2 a ed. 1961, p. 339. La trad. it. cit. nel testo è quella a cura di N. Matteucci, La democrazia in America, in Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968, rist. 1981, p. 828.

6 Cfr. J. L. TALMON, The Origins of Totalitarian Democracy, Secker & Warburg, London 1952 (trad. it. Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna 1967).

7 Cfr. R. TREVES, Spirito critico e spirito dogmatico, Nuvoletti, Milano 1954.

8 H. KELSEN, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945 (trad. it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas Libri, Milano 1994, p. 293).

9 La lettera è cit. in V. I. LENIN, Stato e rivoluzione, in ID., Opere complete, vol. XXV (giugno-settembre 1917), Editori Riuniti, Roma 1967, p. 414. Il corsivo è mio.

10 Stato e rivoluzione cit., pp. 439-40.

11 Ibid., p. 429.

12 Ibid., p. 434.

13 Cfr. ibid., pp. 440 e 444.

14 Che cito dall’edizione italiana, Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf, introduzione e traduzione di Gastone Manacorda, Einaudi, Torino 1971. Le citazioni nel testo si riferiscono a questa edizione. Prescindo completamente dall’importanza storica dell’opera di Buonarroti in cui confluiscono, oltre il corpo di dottrine cosiddette del «babuvismo», le dottrine egualitarie del Settecento (Morelly, Rousseau, Mably) e i fermenti rivoluzionari dell’ala piú radicale della Rivoluzione francese. Le fonti del pensiero egualitario di Babeuf e Buonarroti sono egregiamente illustrate da A. GALANTE GARRONE, Buonarroti e Babeuf, De Silva, Torino 1948.

15 L’autore del Manifesto degli Eguali, Sylvain Maréchal, pubblicò nel 1801 un Projet d’une loi portant la défense d’apprendre à lire aux femmes, ispirato ai principî di Rousseau, ove denuncia «les inconvénients graves qui résultent pour les deux sexes de ce que les femmes sachent lire». Su questo tema F. AUBERT, Les femmes doivent-elles apprendre à lire?, in Studi sull’eguaglianza, a cura di C. Rosso, Editrice libreria goliardica, Pisa 1973, pp. 79-97.

16 Questa frase si trova nel Manifesto degli Eguali, in appendice all’ed. cit., p. 313.

17 Dal Manifeste des plébéiens di Babeuf, cit. nella introduzione di Manacorda, ivi, p. XXII

18 Traggo questa indicazione da una recensione di Anthony Lewis sulla «International Herald Tribune» del 28 novembre 1972, di un libro allora di imminente pubblicazione di Daniel Bell.

19 Chiunque abbia avuto occasione in questi anni di scontrarsi con una delle insistenti rivendicazioni del movimento studentesco, la richiesta del voto unico o del voto di gruppo, non può che confermare questa contrapposizione. Il principio cui si ispira la richiesta del voto unico è quello dell’eguaglianza dei punti di arrivo o dei risultati in contrasto col principio tradizionale del merito, che, pur ammettendo che gli studenti siano messi in condizione di avere gli stessi libri, gli stessi processori, le stesse agevolazioni per la preparazione degli esami, non ritiene ingiusto che il punto di arrivo o il risultato sia diverso da studente a studente. Mi pare indubbio che la richiesta del voto unico sia una tipica manifestazione di egualitarismo connessa a una concezione solidaristica e organica della società, che esalta il gruppo rispetto all’individuo e considera l’individuo solo in quanto membro del gruppo.

20 Questa frase è citata da Manacorda nell’introduzione alla Cospirazione per l’eguaglianza cit., p. XIII.

21 Direttamente contro Rousseau egualitario: «… quel che odio è la sua [della Rivoluzione francese] rousseauiana moralità… la dottrina dell’eguaglianza» (Crepuscolo degli idoli, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano 1970 p. 150).

22 «I babuvisti erano dei materialisti rozzi, incivili…»: cfr. K. MARX, F. ENGELS, La sacra famiglia, in Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 146.

23 L’uomo come «essere generico» o «essere appartenente ad una determinata specie» (Gattungswesen) è uno dei temi centrali, com’è ben noto, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, specie nel capitolo Il lavoro estraniato, nell’ed. a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1949 [nuova ed. 1975], p. 76.

24 Al di là del bene e del male, in Opere cit., vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1968, p. 399.

25 G. DEL VECCHIO, La giustizia, Casa Editrice Studium, Roma 1959 4. Quest’opera, nata da un discorso inaugurale letto a Roma il 19 novembre 1922, stampata sotto forma di libro la prima volta presso la casa editrice Studium di Roma nel 1946, e via via nelle successive edizioni accresciuta, meriterebbe di essere ristampata da qualche cultore volenteroso disposto ad aggiornarne le ricchissime note.

26 Mi sono soffermato piú a lungo su questo tema nei due articoli: Il buongoverno, in «Belfagor», XXXVII, (1982), pp. 1-12 [nel presente volume: parte II, cap. III, sez. III], e Governo degli uomini o governo delle leggi?, in «Nuova antologia», n. 2145, gennaio-marzo 1983, pp. 135-52, poi compreso in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, ult. ed. 1995, pp. 169-94.

27 TH. HOBBES, De Cive, III, 3-5.

28 Kelsen, è vero, ha introdotto l’espressione «norme individuali» per designare ad esempio la sentenza di un giudice, ma questa innovazione terminologica non ha avuto fortuna, tanto piú che le sfugge la distinzione fra la singolarità dei soggetti e la singolarità dell’azione.