Capitolo primo
La filosofia politica
I.
DEI POSSIBILI RAPPORTI TRA FILOSOFIA POLITICA E SCIENZA POLITICA.
Il problema dei rapporti tra filosofia politica e scienza politica è un problema a molte facce, perché, fermo restando il significato di uno dei due termini, cioè di «scienza politica», da intendersi come studio dei fenomeni politici condotto con la metodologia delle scienze empiriche e utilizzando tutte le tecniche di ricerca proprie della scienza del comportamento, se l’altro termine «filosofia politica» viene usato, come di solito accade, in significati tra loro molto diversi, anche i rapporti tra l’uno e l’altro si pongono inevitabilmente in modo diverso.
Lo scopo principale delle pagine che seguono è di mostrare che ad ogni accezione di «filosofia politica» corrisponde un modo diverso di porre il problema dei rapporti tra filosofia politica e scienza politica, e quindi di mettere in guardia chiunque sia tentato di credere che il problema abbia una sola soluzione. Credo che un’impostazione di questo genere possa servire tra l’altro a mettere in evidenza una delle ragioni della confusione che regna in questa materia.
Mi pare si possano distinguere almeno quattro significati diversi di «filosofia politica».
1. Il modo piú tradizionale e piú corrente d’intendere la filosofia politica è d’intenderla come descrizione, progettazione, teorizzazione dell’ottima repubblica o, se si vuole, come la costruzione di un modello ideale di stato, fondato su alcuni postulati etici ultimi, di cui non ci si preoccupa se, quanto, come possa essere effettivamente e totalmente realizzato. Appartengono a questa stessa forma di pensiero anche certe «utopie a rovescio», di cui si sono avuti esempi notissimi soprattutto nell’ultimo secolo, le quali consistono nella descrizione non dell’ottima ma della pessima repubblica o, se si vuole, del modello ideale dello stato che non si deve realizzare.
2. Un secondo modo d’intendere la filosofia politica è di considerarla come la ricerca del fondamento ultimo del potere, che permette la risposta alla domanda: «A chi devo ubbidire? e perché?» Si tratta qui del problema ben noto della natura e della funzione dell’obbligazione politica. In questa accezione la filosofia politica si risolve tutta quanta nella soluzione del problema della giustificazione del potere ultimo, o, in altre parole, nella determinazione di uno o piú criteri di legittimità del potere. Quando ci si riferisce, ad esempio, alla filosofia politica moderna, e vi si comprendono scrittori come Hobbes e Locke, Rousseau e Kant, De Maistre e Hegel, ci si riferisce a teorie che partendo generalmente da presupposti filosofici sulla natura umana, sulla natura della società e della storia, mirano a addurre buone ragioni, anzi le migliori ragioni, per cui il potere ultimo debba (o non debba in determinati casi) essere ubbidito, cioè a dare una giustificazione dell’obbligo politico e a delimitarne l’ambito. Tutte le filosofie politiche secondo questa accezione si potrebbero classificare secondo i diversi criteri di legittimazione del potere che sono stati di volta in volta adottati.
3. Per «filosofia politica» si può intendere anche la determinazione del concetto generale di «politica», come attività autonoma, o guisa o forma dello Spirito, come avrebbe detto un idealista, che ha le sue peculiari caratteristiche che la distinguono tanto dall’etica quanto dall’economia o dal diritto o dalla religione. Allo stesso modo si dice che il compito della filosofia del diritto è la determinazione del concetto di diritto. Ho l’impressione che questa sia stata, per influenza soprattutto di Croce che si richiamava al Machiavelli come allo scopritore della categoria della politica, l’accezione prevalente in Italia. Quando da noi si parla di filosofia politica, il pensiero corre immediatamente, non tanto come farebbe uno studioso inglese al problema dell’obbligazione politica, quanto al problema della distinzione tra politica e morale, tra ragione dell’individuo e ragione dello stato, al problema se la condotta politica abbia le sue proprie leggi, soggiaccia a propri criteri di valutazione, se il fine giustifichi i mezzi, se gli stati si possano governare coi paternostri, o come oggi si direbbe, se vi sia un’etica di gruppo distinta dall’etica individuale, o, seguendo la terminologia weberiana, se l’uomo politico segua l’etica della responsabilità o quella della convinzione, ecc.
4. Il diffondersi dell’interesse per i problemi epistemologici, logici, di analisi del linguaggio, in genere metodologici, ha fatto emergere un quarto modo di parlare di filosofia politica: la filosofia politica come discorso critico, intendo sui presupposti, sulle condizioni di verità, sulla pretesa oggettività, o avalutatività, della scienza politica. In questa accezione si può parlare di filosofia come di una metascienza, cioè di uno studio della politica a un secondo livello, che non è quello diretto della ricerca scientifica intesa come studio empirico dei comportamenti politici, ma quello indiretto della critica e legittimazione dei procedimenti con cui è condotta la ricerca al primo livello. Entra in questa accezione di filosofia politica l’orientamento della filosofia analitica verso la risoluzione della filosofia politica nell’analisi del linguaggio politico.
Non è difficile rendersi conto che il problema dei rapporti tra filosofia politica e scienza politica assume aspetti diversi secondo che venga presa in considerazione l’una o l’altra delle accezioni di filosofia politica sopra illustrate.
Quando per filosofia politica s’intende la teoria dell’ottima repubblica, il rapporto con la scienza politica è di netta opposizione. Mentre la scienza politica ha una funzione essenzialmente descrittiva o esplicativa, la filosofia come teoria dell’ottima repubblica ha una funzione essenzialmente prescrittiva: l’oggetto della prima è la politica quale è (la «verità effettuale»), l’oggetto della seconda, la politica quale dovrebbe essere. In altri termini, si tratta di due modi diversi di considerare il problema politico, di due punti di vista rispettivamente autonomi, o se si vuole di due strade che non sono destinate ad incontrarsi. La proiezione verso il futuro della filosofia come teoria dell’ottima repubblica è l’utopia; la stessa proiezione verso il futuro della scienza politica assume l’aspetto del «futuribile». Il disegno utopico è il progetto di uno stato che deve essere nel senso morale di «deve»; la futurologia è la previsione di uno stato che deve essere nel senso naturalistico di «deve»: lo stato utopico è desiderabile ma potrebbe anche non realizzarsi; lo stato futuro potrebbe anche non essere desiderabile ma è quello che deve necessariamente realizzarsi se la previsione è scientificamente esatta. Nel passaggio dall’atteggiamento filosofico a quello scientifico, l’utopia si risolve in futurologia.
Nella seconda accezione, secondo la quale per filosofia politica s’intende una teoria sulla giustificazione o legittimazione del potere, il rapporto tra filosofia politica e scienza politica è molto piú stretto. Qui il problema filosofico presuppone l’analisi dei fenomeni reali del potere che consideriamo di competenza dello scienziato politico. D’altra parte lo studio realistico del potere non può non sfociare nel problema, che è stato considerato tradizionalmente di competenza della filosofia, dei criteri di legittimità, cioè delle ragioni ultime per cui un potere è e deve essere ubbidito. L’opera di Hobbes, che è per molti aspetti un’analisi empirica del comportamento politico, è stata anche chiamata a ragione una grammatica dell’obbedienza. Nella Filosofia del diritto di Hegel è estremamente difficile separare l’analisi realistica della società e dello stato dalla ideologia politica che la guida, tanto sono strettamente intrecciati il momento della spiegazione di quello che accade e il momento della giustificazione per cui quello che accade deve accadere; o il problema della rappresentazione storica e quello della legittimazione ideale dello stato, o meglio di un certo tipo di stato. È superfluo aggiungere che altro è determinare un criterio di legittimazione, altro descrivere i vari criteri di legittimazione possibili o realmente applicati nei diversi regimi e nelle diverse epoche storiche (il che è opera della scienza politica).
Nel caso del terzo significato di filosofia politica – filosofia politica come determinazione della categoria della politica – il rapporto con la scienza politica è tanto stretto che è difficile stabilire una netta linea di separazione tra l’una e l’altra e dire dove finisce la competenza dello scienziato e dove comincia quella del filosofo. Le due ricerche costituiscono un continuo: non si può pensare ad una ricerca di scienza politica che non si ponga il problema del concetto di politica e quindi della delimitazione stessa del proprio campo di ricerca; ma non si può neppure pensare ad un’analisi del concetto di politica che non tenga conto dei dati raccolti e dei fenomeni esaminati dalla ricerca fattuale. La differenza tra piano della filosofia e piano della scienza non è piú in questo caso d’ordine qualitativo ma esclusivamente d’ordine di grandezza. Non vi è oggi analisi scientifica dei fenomeni politici che non cominci col porre o col presupporre una teoria generale del potere, la quale dovrebbe servire a delimitare il campo della politica da quello dell’economia o del diritto ecc. Piú che di filosofia politica, peraltro, in questo caso, sarebbe meglio parlare di «teoria generale della politica», con lo stesso criterio con cui nel campo del diritto si distingue la teoria generale del diritto dalla scienza giuridica strettamente intesa.
Nel caso della filosofia politica intesa come metascienza, la distinzione tra filosofia e scienza diventa di nuovo molto netta: si tratta di ricerche che hanno oggetto e fini diversi. La scienza è il discorso o l’insieme dei discorsi sul comportamento politico; la filosofia è il discorso sul discorso dello scienziato. Come tale, è una ricerca di seconda istanza. S’intende che la differenza non esclude un tipo ben preciso di rapporto: la metascienza si propone rispetto alla ricerca scientifica uno scopo, com’è stato detto piú volte, terapeutico, e quindi ha bisogno di mantenere un continuo contatto con la ricerca scientifica propriamente detta. La scienza d’altra parte si serve delle riflessioni riguardanti il metodo e il linguaggio per correggere ed eventualmente perfezionare il proprio lavoro e controllarne i risultati.
Volendo riassumere i diversi rapporti che si vengono a stabilire tra filosofia politica nelle sue diverse accezioni e scienza politica si potrebbe dire cosí: a) nel primo caso vi è un rapporto di separazione e insieme di divergenza; b) nel secondo caso il rapporto è pure di separazione ma insieme di convergenza; c) nel terzo caso vi è un rapporto di continuità e quindi sostanzialmente di indistinzione (si tratta, se mai, di una distinzione di comodo); d) nel quarto caso il rapporto è di integrazione reciproca o di reciproco servizio. Osservando questi vari tipi di rapporto, si può fare ancora una considerazione: fermo restando il carattere di «avalutatività» della scienza politica (o la scienza è avalutativa o non è scienza), il maggior distacco tra filosofia politica e scienza politica si verifica là dove la filosofia politica è intesa come assumente un carattere fortemente valutativo. Dalla nostra tipologia appare chiaro che le accezioni in cui la filosofia politica assume un carattere fortemente valutativo sono le prime due, ovvero la filosofia politica come descrizione dell’ottima repubblica e come determinazione di un principio di legittimazione. E sono questi, infatti, i due casi in cui il rapporto tra filosofia e scienza è di separazione piuttosto che d’integrazione.
Lascio ora da parte la quarta forma di filosofia politica, di cui ho parlato da puro cronista che osserva e descrive quello che avviene sotto i propri occhi, perché è stata sinora piú annunziata, promessa e proposta 1 che praticata, e non trova alcun riscontro nella filosofia politica classica da Platone a Hegel. Nelle seguenti considerazioni aggiuntive, mi soffermo soltanto sulle prime tre forme di filosofia politica, esemplarmente rappresentate all’inizio dell’età moderna da tre opere che lasciano una traccia indelebile nella storia delle idee politiche, l’Utopia di Tommaso Moro, il Principe di Machiavelli, e il Leviatano di Hobbes. Queste tre opere possono bene essere assunte a simbolo di tre modi diversi e tipici di filosofare sulla politica: la prima della ricerca della miglior forma di governo, la seconda della ricerca della natura della politica, la terza della ricerca del fondamento dello stato. Il problema fondamentale di Moro è quello di levarsi al di sopra dei malanni, della corruzione, dell’ingiustizia dell’età presente per proporre un modello di stato perfetto, come si legge nel titolo stesso dell’opera, De optimo reipublicae statu. Il problema fondamentale di Machiavelli, almeno in una delle interpretazioni del suo pensiero, l’unica del resto che dà luogo a un «ismo» (il cosiddetto machiavellismo), è di mostrare in che consista la proprietà specifica dell’attività politica e per tal guisa distinguerla dalla morale e dalla religione. Il problema fondamentale di Hobbes è di mostrare la ragione o le ragioni per cui lo stato esiste (ed è bene che esista), e poiché deve esistere per la salvezza degli uomini, gli dobbiamo obbedienza.
Si tratta di tre modi profondamente diversi di accostarsi al problema politico che si possono far corrispondere alle tre tradizionali domande filosofiche:
Che cosa posso sperare?
Come debbo comportarmi?
Che cosa posso sapere?
Il che non toglie che nei dialoghi platonici, ad esempio, si possa trovare una risposta di volta in volta a tutte e tre: nella Repubblica alla prima, nel Critone alla seconda, nel Politico alla terza. La differenza peraltro non esclude la connessione o addirittura la dipendenza delle diverse soluzioni: cominciando dal fondo, dipende dalla risposta che io dò alla domanda sulla natura della politica (se e in quale misura la consideri dipendente o indipendente dalla morale) la risposta al problema dell’obbligo politico, vale a dire se e in quale misura io sia tenuto a ubbidire all’ordine ingiusto. Dipende dall’idea che mi faccio della natura dello stato, dei suoi fini, la risposta che dò alla domanda quali siano le istituzioni politiche migliori (migliori per l’appunto rispetto a quei fini). Nel Secondo trattato sul governo civile di Locke la stretta connessione dei tre problemi appare evidente: a) lo scopo del corpo politico è di dare agli individui la sicurezza della vita, della libertà e dei beni; b) quando il governo non è piú in grado di assicurare la sicurezza, l’obbligo politico, cioè l’obbligo di obbedienza, vien meno; c) il modo migliore per ottenere questa garanzia è un legislativo fondato sul consenso e un esecutivo dipendente dal legislativo. Per fare un esempio-limite: se, marxianamente, considero lo stato unicamente come apparato coercitivo al servizio della classe dominante, cade ogni ragione di discorrere ancora di obbligo politico, perché tra colui che esercita la forza e colui che la subisce non esiste obbligazione ma soltanto costrizione; dalla stessa premessa discende anche la conseguenza che non esiste una forma migliore di stato, e conseguentemente il miglior stato è paradossalmente il non-stato.
Nonostante la marcata differenza tra l’uno e l’altro modo di filosofare sulla politica, tutte e tre le forme di filosofia hanno, oltre che una connessione tra loro, qualche cosa di comune, che giustifica tra l’altro il fatto che consapevolmente o meno le assegnamo alla stessa categoria. Ciò che esse hanno in comune è proprio il poter essere comprese nell’estensione del concetto di filosofia, dove e qualora per «filosofia» s’intenda qualcosa che è diverso e che valga la pena di distinguere da «scienza».
Certamente, si può intendere «filosofia» in modo tale da comprendervi anche la scienza, come faceva Hobbes, quando chiamava philosophia civilis il complesso delle ricerche sull’uomo e sulla società per distinguerle dalla philosophia naturalis. Cosí come si può intendere «scienza» in modo tale da comprendervi anche la filosofia, come quando, parlando di scienza della «società», i marxisti vi includono quella concezione globale della società, quella visione generale del corso storico, che tradizionalmente si suol chiamare filosofia. Va da sé che una discussione intorno alla natura e ai compiti della filosofia politica oggi ha senso soltanto se si accetta la convenzione linguistica secondo cui «filosofia» significhi qualcosa di diverso da «scienza» e si ritenga che vi siano modi cosí diversi di accostarsi a un oggetto che valga la pena di usare due parole diverse per nominarli. E cosí il discorso sulla natura e i compiti della filosofia politica si risolve nel discorso sulla distinzione tra filosofia politica e scienza politica. Effettivamente ognuna delle tre forme di filosofia politica è per l’uno o per l’altro dei suoi caratteri irriducibile all’uno o all’altro dei caratteri propri della scienza politica nella sua accezione piú comune e meno controversa.
Per accezione piú comune e meno controversa di scienza politica mi riferisco a quella che permette di identificare come scienza politica distinta dalla filosofia ogni analisi del fenomeno politico che si valga, nei limiti in cui è possibile, delle tecniche di ricerca proprie delle scienze empiriche, cioè si dica scienza nel senso in cui sono scienze le scienze empiriche (distinte secondo la terminologia carnapiana, che mi sembra tuttora valida, dalle scienze formali). Credo che nessuno oggi sia disposto a chiamare scientifica nel significato pregnante di questo termine una ricerca che non soddisfi o almeno non tenda con ogni sforzo consapevole a soddisfare queste tre condizioni:
a) sottoporre le proprie conclusioni a verifica empirica, o almeno a quel tanto di verifica empirica che è possibile coi dati a disposizione, e comunque, qualora i dati non siano sufficienti, ritiri o affermi come problematiche le conclusioni raggiunte, oppure metta in opera tutte le tecniche piú accreditate e applicabili al caso per aumentare la disponibilità dei dati, cioè per accrescere la sua verificabilità;
b) valersi di tutte quelle operazioni mentali, come formulazioni d’ipotesi, costruzioni di teorie, enunciazioni di leggi tendenziali, che permettano di perseguire l’obiettivo specifico di ogni ricerca scientifica, che è quello di dare una spiegazione del fenomeno che si vuole indagare;
c) non pretendere di dare alcun giudizio di valore sulle cose di cui ci si occupa e quindi di trarre prescrizioni immediatamente utili alla prassi.
Queste tre condizioni fanno capo a tre requisiti fondamentali di ogni ricerca che voglia ambire a farsi chiamare scienza secondo il modello delle scienze per eccellenza, le scienze naturali, e nel senso forte e nobile per cui l’età moderna viene fatta coincidere con l’inizio, con lo sviluppo e col trionfo della rivoluzione scientifica: a) il principio di verificazione come criterio di validità; b) la spiegazione come scopo; c) l’avalutatività come presupposto etico.
Considerando le tre forme di filosofia politica, si può osservare che a ciascuna fa difetto almeno una delle caratteristiche della scienza politica, o, con altre parole, nessuna delle tre adempie a tutte le condizioni di una ricerca che possa dirsi a buon diritto scientifica. La filosofia politica come teoria del miglior governo è orientata secondo valori ed ha carattere nettamente e consapevolmente prescrittivo: non è avalutativa e non pretende di esserlo. Anzi le varie filosofie politiche in questo senso si distinguono in base ai valori assunti come supremi e degni di essere realizzati dalla società politica. Nella filosofia politica come teoria del fondamento dello stato e quindi dell’obbligo politico l’operazione principale e caratterizzante non è la spiegazione ma la giustificazione, intendendosi per «giustificazione» l’operazione mediante la quale si qualifica un comportamento come (moralmente) lecito o illecito, il che non si può fare se non richiamandosi a valori, o a regole date che alla loro volta sono espressioni di valori. Tutta la tematica delle teorie giusnaturalistiche con la classica contrapposizione tra società naturale e società civile ha per scopo la giustificazione dello stato come piú confacente alla vita, o alla libertà, o alla dignità, o al benessere dell’uomo che non lo stato di natura. Infine il problema della filosofia politica come ricerca della natura della politica si sottrae ad ogni possibile verifica empirica nella misura in cui pretende di determinare l’essenza della politica, in quanto appunto l’essenza è per definizione ciò che sta al di sotto o al di là dei fenomeni, delle apparenze, e che i fenomeni stessi presuppongono per poter essere analizzati e interpretati. Ché se poi parlando di «natura» della politica ci si vuol riferire alle definizioni di politica o di stato di cui si valgono i politologi per delimitare l’ambito della propria ricerca (quando si dice, ad esempio, che il regno della politica è il regno della forza organizzata, oppure del potere che in una determinata società non dipende da nessun altro potere, o dell’autorità che assegna i valori ecc.), queste tendono a presentarsi o come mere convenzioni utili per stabilire in anticipo ciò di cui si vuol parlare, oppure sono generalizzazioni tratte dall’esperienza e non hanno nulla a che vedere con la ricerca dell’essenza della politica e con le pretese di questa ad avere valore universale, e come tali fanno legittimamente parte dell’impresa della scienza.
Un’ultima considerazione, per prendere le distanze da quelle correnti filosofiche che sono inclini a lanciare scomuniche contro la scienza politica e a screditare la nozione stessa di avalutatività. Molte volte ho dovuto constatare che non c’è nulla di piú difficile che restare avalutativi quando si affronta il problema dell’avalutatività. Per parte mia dichiaro (se è vero che il miglior modo di difendere l’avalutatività è di riconoscere quanto sia difficile raggiungerla e di non nascondere, ma, come si richiede, di dichiarare, i propri valori) che quando discuto questo problema sono fortemente valutativo.
Appartengo alla generazione che ha visto fare scempio, negli anni della sua formazione, di ogni forma di sapere libero e indipendente ed elevare contro di esso la pretesa che le esigenze della ricerca scientifica debbano cedere alle ragioni del potere. Abbiamo appreso una lezione che non abbiamo piú dimenticata. Se l’avessimo dimenticata, il guasto prodotto nella mente dei giovani dalla stolta polemica di questi ultimi anni contro la scienza avalutativa ce l’avrebbe fatta tornare alla mente: i diversamente pensanti diventati nemici da abbattere col dileggio, col disprezzo, o peggio con la calunnia, il principio di autorità sostituito alla laboriosa ricerca personale, il partito preso anche piú impulsivo scambiato per impegno etico-politico, la frettolosità nel giudicare, l’ostentazione della polemica per la polemica, l’accento messo sul valutare, sul condannare o esaltare, piuttosto che sul capire, sullo spiegare, sul rendersi conto di come siano andate le cose. Ancora una volta, abbiamo appreso quanto sia comodo sbarazzarsi dei vincoli che c’impone il rispetto dei fatti e delle idee altrui, e quanto sia facile, una volta abbandonata la scorta delle regole del buon metodo scientifico, imboccare la via che conduce alla piú sfacciata tendenziosità. So bene che è difficile spogliarsi delle proprie preferenze; ma appunto qui sta la nobiltà dello scienziato. L’avalutatività è la virtú dello scienziato, come l’imparzialità è la virtú del giudice: a nessuno verrebbe in mente di suggerire a un giudice che, essendo difficile essere imparziale, tanto vale non esserlo.
Avviene spesso nelle discussioni la confusione tra il problema di fatto, se la scienza avalutativa sia possibile, e il problema di valore, se, posto che sia possibile, sia anche desiderabile. Certo, coloro che ne affermano la desiderabilità debbono ammetterne la possibilità, cosí come coloro che la combattono tendono a ritenere che non sia neppure possibile. Ciò non toglie che i due argomenti, l’argomento dell’impossibilità e quello dell’indesiderabilità, siano distinti e non possano essere scambiati l’uno per l’altro. Coloro che insorgono contro la pretesa del ricercatore di essere avalutativo, non riescono per lo piú a spingere le loro prove al di là della constatazione che di fatto questa o quella ricerca non è priva di giudizi di valore, non è affatto, come crede o finge o si vanta di essere, wertfrei. La critica dell’avalutatività consiste generalmente in una spietata caccia ai valori nascosti in ogni fase, in ogni piega della ricerca 2. Francamente non sono mai riuscito a capire quale argomento si possa trarre da una constatazione del genere in favore o contro la tesi dell’avalutatività come valore: si tratta di un caso abbastanza cospicuo e perspicuo di fallacia naturalistica. È come se si volesse negare che la salute è desiderabile mostrando che non c’è nessun mortale che sia completamente sano. Il sospetto che la salute sia desiderabile nasce invece dall’osservazione costante che gli uomini fanno di tutto per procurarsela, e tanto piú vi aspirano quanto piú sono in preda alle infermità. Si osservi come si comporta uno studioso che voglia studiare scientificamente un fenomeno sociale: questi fa uso di tutte le tecniche di ricerca che gli permettono per quanto è possibile di eliminare quell’universo del press’a poco in cui s’insinuano piú facilmente le valutazioni personali. Quasi si potrebbe definire l’insieme delle regole cui il ricercatore si assoggetta per fare accettare la propria ricerca come una ricerca scientifica e non come una raccolta di opinioni personali piú o meno geniali, un’immensa impresa per l’eliminazione dei giudizi di valore. Non vedo perché dall’osservazione di come si comporta lo scienziato, non altrimenti che dall’osservazione di come si comporta il malato, non debba nascere il sospetto che l’avalutatività sia una meta cui si desidera giungere, un valore, non diversamente dalla salute.
Per negarle questo valore, cioè per dimostrare che non è desiderabile essere avalutativi, indipendentemente dal fatto che sia possibile, si adducono di solito due argomenti che non mi sono mai sembrati tanto forti. Si dice che l’avalutatività è un pretesto per dissimulare una presa di posizione inconfessata e inconfessabile e per insinuarla piú agevolmente. A questo punto un giurista tirerebbe fuori l’antico adagio: «Adducere inconveniens non est solvere argumentum». In effetti, che l’avalutatività possa anche servire a mascherare giudizi di valore, non vuol dire che serva soltanto a questo, e che venga proclamata e difesa soltanto per trarre in inganno ascoltatori ingenui. È come se si volesse abolire la libertà delle frontiere per evitare il contrabbando: il passaggio sempre piú spedito da una frontiera all’altra non serve soltanto ai contrabbandieri. Per evitare il contrabbando vi sono altri rimedi, come quello di rendere piú severi i controlli, o di richiedere franche dichiarazioni.
Non ci si accorge poi quale formidabile prova sia in favore della desiderabilità di una scienza avalutativa questo argomento dei suoi detrattori: se è vero infatti che una tesi è tanto piú attendibile e accettata quanto piú si presenta sotto le spoglie di una tesi fondata solo su giudizi di fatto, si spiega allora perché anche socialmente (cioè anche prescindendo dal suo valore di verità) sia considerato un fine desiderabile il giungere a presentare le proprie tesi come tesi scientifiche. Anche gli avversari dell’avalutatività quando fanno scienza cercano di mostrare che le loro preferenze personali non c’entrano, che valutativi sono gli altri, non loro. I marxisti piú severi e piú convinti (e sono anche coloro che in un contesto culturale favorevolmente atteggiato verso il sapere scientifico hanno maggiore successo e vengono presi piú sul serio), da Della Volpe ad Althusser, sono quelli che cercano di dimostrare che il marxismo è, o contiene, una teoria scientifica. Che Marx fosse un ideologo o un profeta o un politico, è un’affermazione che i marxisti lasciano volentieri ai non marxisti.
L’altro argomento dei negatori è che l’avalutatività è un modo di sfuggire alla responsabilità della scelta, dell’impegno, mena all’accettazione dello status quo, induce al quieto conformismo. Max Weber, il teorico della Wertfreiheit, era un conservatore (non parliamo di Pareto!) Certamente il ricercatore coscienzioso non vuole, in quanto ricercatore, trasformare il mondo; ma non vuole neppure, in quanto ricercatore, conservarlo. Il suo unico problema è quello di capirlo. Sa una sola cosa con certezza: che la prima regola che egli deve osservare per procedere nella comprensione è quella di non lasciarsi dominare dal suo desiderio di conservare, se è politicamente un conservatore, o di trasformare, se è politicamente un riformatore, l’esistente. A rigore non deve neppure sapere, o se lo sa, deve, nel momento in cui è impegnato nella ricerca, dimenticarlo, se per conservare o trasformare il mondo occorra prima averlo capito.
II.
PER UNA MAPPA DELLA FILOSOFIA POLITICA.
Ho accettato con qualche esitazione il compito di tracciare la «mappa» della filosofia politica, perché è difficile assegnare a questo compito uno scopo diverso da quello strettamente accademico di delimitare i confini di una «disciplina», nel senso restrittivo che viene dato a questa parola da Foucault, nel noto discorso sui «meccanismi sociali di controllo della parola».
Come tutte le delimitazioni di confini tra un territorio e l’altro, anche questa tra discipline può essere pacifica o conflittuale: l’ambito della filosofia politica può essere definito come un ambito che sta «accanto» ad altri oppure come un ambito che sta «contro» altri. Voglio dire che i rapporti fra discipline possono essere armonici o polemici. Si pensi al piú scabroso e controverso di questi rapporti, fonte inesauribile di contese, al rapporto tra filosofia politica e scienza politica. Questo rapporto può essere ostile in entrambe le direzioni, da parte della filosofia nei riguardi della scienza, e viceversa, da parte della scienza nei riguardi della filosofia. Tutti quanti possiamo fare nomi di autori che nella rivendicazione della filosofia, a torto secondo loro negletta, deprimono la scienza o ne riducono al minimo lo spazio, cosí come vi sono altri autori, che abbiamo ben conosciuti negli anni della diffusione presso che universale della «political science», che non solo hanno cercato di restringere lo spazio della filosofia ma l’hanno gettata al di là dei confini del sapere accreditato (e credibile). Per quel che può interessare, come uomo amante della pace, io non sto né con gli uni né con gli altri. Molte di queste polemiche sono pretestuose e sterili.
Pur in questo significato ristretto, entro l’ambito del quale intendo tenermi, ho l’impressione che anche il termine «mappa» non sia del tutto soddisfacente. Esso lascia pensare che vi sia un territorio omogeneo e delimitabile su cui si possa scrivere: «Qui è la filosofia politica». Tutti sappiamo che non è cosí.
Anzitutto, la filosofia politica, in quanto «filosofia», deve essere distinta dalle altre maniere di accostarsi allo stesso oggetto, come la scienza e la storia; in quanto «politica», deve essere distinta dalle altre sfere tradizionali della filosofia pratica, come la morale, l’economia, il diritto. Entrambe le distinzioni sono problematiche. E comunque altre sono le operazioni mentali e le conoscenze che occorrono per distinguere un modo di accostarsi all’oggetto proposto, altre quelle che sono necessarie per distinguere una sfera della vita pratica dall’altra. Esemplificando, non c’è dubbio che la distinzione tra filosofia politica e scienza politica, da un lato, e quella tra politica e morale, dall’altro, appartengono a due mappe diverse, e non sovrapponibili. Provate a cercare una qualche combinazione tra le due distinzioni, e troverete qualche cosa che assomiglia non a una mappa ma a degli incroci (possibili) fra mappe diverse. Almeno due: la mappa degli «approcci» (filosofico, scientifico, storico), e la mappa delle «aree» (politica, etica, giuridica, economica).
La mappa che avevo disegnato a Bari 3 era una mappa filosofica, in quanto riguardava la filosofia politica come filosofia, non come politica. Delle quattro province in cui dividevo la regione «filosofia politica» (per continuare la metafora geografica) – descrizione dell’ottimo stato o della miglior forma di governo, giustificazione (o ingiustificazione) dell’obbligo politico, che è poi lo stesso tema che fuori dall’area del pensiero politico inglese si è sempre chiamato della legittimità, definizione della categoria della «politica», e teoria della scienza politica – già avevo accantonato l’ultima, che rientra piú propriamente nella regione della filosofia della scienza (tanto per fare un esempio, cito il noto pamphlet di David Ricci, The Tragedy of Political Science, 1984, che peraltro ha molti precedenti), anche se in un capitolo di un corso ideale di filosofia politica, il tema della natura e dei limiti della scienza politica dovrebbe trovare il suo posto.
Non ho bisogno di ripetere che, come sono «convenzioni» le discipline, sono altrettanto convenzionali le loro interne divisioni e suddivisioni. Se mai, occorre avvertire che il modo con cui si affermano e finiscono per imporsi le convenzioni è la loro accettazione generalizzata. Non sono in grado di presentare un repertorio di usi moderni e contemporanei dell’espressione «filosofia politica» (ma non dovrebbe essere difficile compilarne uno): basti qualche esempio illuminante.
Cominciando dalla filosofia politica come analisi della categoria del politico o della politica, è invalso l’uso di parlare di filosofia politica a proposito del dibattito che, attraverso la ricomparsa del pensiero di Carl Schmitt, si è svolto intorno alla ben nota definizione schmittiana. Anzi vi è una tendenza molto viva a considerare filosofia politica esclusivamente questo tema. Julien Freund, discepolo di Schmitt, dopo aver detto che lo scopo del suo libro, L’essence du politique (1965), è di comprendere il fenomeno politico nelle sue caratteristiche proprie e distintive, conclude: «Ce dont il s’agit ici, c’est de philosophie politique» 4. Felix Oppenheim, i cui libri sono fra i piú noti tra quelli che s’ispirano in etica alla filosofia analitica (e sono dunque molto distanti da un’ispirazione schmittiana), chiama «political philosophy» i suoi saggi di metaetica con particolare riguardo alla politica.
Passando alla filosofia politica come teoria dell’obbligo politico, mi basti ricordare che nel saggio intitolato Does Political Theory Exists? un autore di grande prestigio internazionale come Isaiah Berlin afferma che la domanda «perché un uomo debba obbedire a un altro» deve ritenersi «la piú fondamentale delle domande politiche» 5. Direttamente derivata dal prevalente pensiero politico inglese era la risoluzione compiuta da d’Entrèves della filosofia politica nella teoria dell’obbligo politico, cui aveva dedicato i suoi primi scritti.
Piú controverso e complicato il tema della filosofia politica come teoria dell’ottimo stato. Nell’articolo What is Political Philosophy? Leo Strauss, dopo aver definito la filosofia politica come il tentativo di conoscere la natura delle cose politiche e l’ordine politico giusto e buono, e dopo aver esaltato la filosofia politica classica in quanto essa era guidata unicamente dalla domanda intorno al miglior governo (il che non è del tutto esatto), ritiene che, a causa dell’invadenza di una scienza politica senza ideali (il che è altrettanto inesatto, tanto che si può sostenere che tutta la scienza politica americana sia anche «educazione alla cittadinanza»), la filosofia politica americana sia «in uno stato di decadenza e forse anche di putrefazione, qualora non sia del tutto scomparsa». Conclude: «Non esageriamo molto affermando che oggi la filosofia politica non esiste piú, se non come oggetto di inumazione, vale a dire per una ricerca storica, oppure come tema di deboli e poco convincenti dichiarazioni di fede» 6.
A parte il fatto che, come si è detto e ripetuto, vi sono altri problemi di filosofia politica oltre quello del buongoverno, e che problemi tradizionali, come quelli dell’obbligo politico e dei limiti dell’obbedienza al potere, hanno continuato ad essere dibattuti anche negli Stati Uniti (la letteratura sull’argomento di questi ultimi anni è soprattutto americana), la ragione per cui il problema del buon governo ha perduto molta della sua attualità può dipendere dal fatto che il problema si è andato spostando dal buon governo alla «buona società». Il problema del buon governo forse interessa di meno non perché si sia improvvisamente ottusa la facoltà di desiderare e di sperare per effetto del positivismo, dello storicismo, dell’empirismo e di altri malefici «ismi», ma perché non si crede piú che per cambiare la società basti cambiare il regime politico, come si poteva credere quando lo stato era tutto e la società fuori dello stato era niente. Sarebbe davvero un grave errore il pensare che un problema non esiste piú unicamente perché si è allontanato dal punto di vista da cui eravamo abituati a considerarlo. Basta guardare un po’ al di là delle mura che ci sono familiari, per accorgersi che il problema della buona società è piú vivo che mai. Ma, per l’appunto, è il problema della buona società e non, limitatamente, del buon governo.
Se mi si chiedesse infatti quali sono i temi e i problemi che hanno suscitato il piú ampio dibattito in questi ultimi anni, non esiterei a rispondere che sono quelli provocati da opere come Una teoria della giustizia di Rawls o Anarchia, stato e utopia di Nozick, cui si può aggiungere Sfere di giustizia di Walzer. Non saprei definire queste opere se non come tentativi di proporre soluzioni, o per lo meno di dare indicazioni, per l’attuazione di una buona o migliore società. Cosí inteso il maggior dibattito contemporaneo di filosofia politica, e non vedo come potrebbe essere inteso altrimenti, uno dei temi tradizionali della filosofia politica, il tema dell’ottimo stato, se pure in una versione moderna, è tutt’altro che esaurito. Direi, al contrario, che è piú vivo che mai.
Sin qui i «diversi modi di trattare» la filosofia politica hanno la loro origine in un universo di discorso in cui vengono presi in considerazione esclusivamente i rapporti, non importa se polemici o no, della filosofia politica con la scienza politica. Tutte e tre le definizioni di filosofia politica fanno riferimento a un «diverso», che è la scienza. Non si spiegano se non partendo dal presupposto (convenzionale) che filosofia e scienza in quanto discipline occupano due aree diverse, che è bene tenere distinte. Nelle tre definizioni di filosofia vengono utilizzate tre contrapposizioni tradizionali usate per distinguere le discipline filosofiche da quelle scientifiche: prescrittivo-descrittivo, giustificazione-spiegazione, generale-particolare.
Ma come si pone il problema della filosofia politica rispetto alla storia, intendo la storia delle idee politiche che è in gran parte una storia della filosofia politica, o di quella che per convenzione si chiama «filosofia politica»? La differenza è tanto netta che potrei sorvolare. Mentre il rapporto tra filosofia politica e scienza politica è problematico, perché, come si è detto, o l’una e l’altra vengono collocate su una linea continua, e allora sorge il problema del punto di demarcazione, oppure l’una tende a sopraffare l’altra, e allora entrano in gioco anche giudizi di valore, difficilmente conciliabili, la distinzione fra filosofia politica e storia delle dottrine politiche non suscita alcun problema di delimitazione di confini o di conflitto di aree. Se c’è (e come c’è!) incomprensione reciproca tra filosofi e storici, questa dipende, piú che da difficoltà oggettive, da contrasto di «mentalità» (e di attitudini): quella che pregia ciò che è costante, propria del teorico (o «teoreta») e quella che pregia ciò che è mutevole, e irripetibile, propria dello storico: «Nihil sub sole novi» o «Panta rei».
Naturalmente c’è storia e storia: quella narrativa (ed erudita) che sembra non tenere in alcuna considerazione l’elaborazione concettuale, e quella che non solo tiene la elaborazione concettuale in massima considerazione ma la ritiene un suo compito specifico secondo il modello insuperato di Max Weber. Ma Max Weber, si dice, è un economista, un sociologo, e anche un giurista. No, Weber è prima di tutto uno storico. Se ci può essere incomprensione da parte dei filosofi nei riguardi della storia narrativa, incomprensione, del resto, ampiamente ricambiata, non c’è né ci può essere nei riguardi della storia attenta ai concetti. Nella storia «analitica» del pensiero politico (che si è esercitata soprattutto su Hobbes), le distanze tra filosofia e storia, che sono abissali nella storia erudita, scompaiono. Un libro, come quello di Warrender su Hobbes, è un’opera di filosofia politica o di storia del pensiero politico?
Se nella mappa «filosofica» non ho registrato molte novità, qualche maggiore novità mi pare di poter rilevare nella mappa «politica». Da alcuni anni, ho ragione di credere dal tempo della diffusione del saggio schmittiano Der Begriff des Politischen, accanto al termine tradizionale «politica» è comparso il termine «politico», nell’espressione «il politico», come sostantivo neutro (e non nel senso del «Politico» platonico). Ignoro se sia stata fatta una ricerca per stabilire in quale senso le due parole siano impiegate e se vengano impiegate sempre nello stesso senso. A mio approssimativo parere, mentre «politica» ha sempre significato sia la scienza della politica sia la politica come oggetto di questa scienza, ora quando si dice «il politico» ci si riferisce soltanto all’oggetto. Mi domando quindi se l’introduzione di questa nuova parola non sia stata l’effetto (inconsapevole) dell’opportunità di distinguere la scienza dal suo oggetto. Ma le cose in realtà sono piú complicate.
L’opera che piú di ogni altra tematizza e teorizza questa differenza è quella, già citata, dello schmittiano Julien Freund, L’essence du politique, che sin dalla prima pagina precisa: «Analyser l’essence du politique, ce n’est pas étudier la politique en tant qu’activité pratique et contingente qui s’eprime dans des institutions variables et dans des événements historiques de toutes sortes, mais c’est essayer de comprendre le phénomène du politique dans ses caractéristiques propres et distinctives qui le différencient d’autres phénomènes d’ordre collectif comme l’économique, le religieux et trouver les critères positifs et décisifs qui permettent de faire la discrimination entre les relations sociales qui sont proprement politiques et celles qui ne le sont pas». Come dichiara sin dall’inizio il titolo, il politico è un’essenza e come tale è permanente e invariabile. La politica è un’attività pratica, storica, e come tale variabile nel tempo e nelle diverse società. Ricorrendo a un’analogia, è come se si distinguessero le varie forme che prende l’azione dei diversi operatori del diritto dalla «giuridicità», come essenza permanente, e quindi implicita in tutte queste attività che possono variare, e variano effettivamente, nel tempo.
Le cose, dicevo, sono forse piú complicate, perché il concetto di politico, almeno nel linguaggio italiano, è stato usato principalmente nell’espressione «autonomia del politico», per confutare la tesi marxiana della subordinazione della politica intesa come sovrastruttura alla base economica. Questa espressione ha creato fra l’altro una certa confusione rispetto alla espressione piú tradizionale «autonomia della politica», con la quale si era sempre inteso riferirsi al tema machiavellico della separazione della politica dalla morale.
Non meno interessante è un’altra innovazione, da quando si è venuta diffondendo l’idea che la categoria della politica o del politico sia ora da intendere come ricoprente un’area maggiore di quella ricoperta dallo stato. E ciò contrariamente alla tradizione classica secondo cui «politica» e «stato» avrebbero avuto sempre la stessa estensione, come si potrebbe provare facilmente dalla trattatistica politica classica, da Aristotele a Hegel, passando per san Tommaso, Bodin, Hobbes, Montesquieu, Rousseau e infiniti altri. Anche per questo tema il riferimento obbligato è a Carl Schmitt. Tutti ricordano le parole iniziali del saggio sul «politico»: «Il concetto di stato presuppone quello di politico». (Una raccolta di scritti su Schmitt è intitolata, non a caso, La politica oltre lo Stato, 1981).
In realtà, a me pare che la maggiore estensione che viene assegnata alla politica rispetto allo stato dipenda non tanto dal rapporto tra una categoria generale, come il «politico», e lo stato, che è una formazione storica, come sarebbe secondo Schmitt, quanto dal fenomeno, tipico della società moderna, dell’emancipazione della società civile dallo stato come istituzione e dallo stato-apparato, e dalla formazione nella società civile, indipendentemente dallo stato-istituzione e dallo stato-apparato, e anzi contro lo stato, di gruppi d’interesse, anche contrapposti fra loro, che contribuiscono a formare le decisioni politiche (e pertanto svolgono attività politica); dove per «decisioni politiche» s’intendono quelle decisioni che vengono prese a nome e per conto dell’intera collettività, e sono per essa vincolanti, e per essere vincolanti debbono essere fatte valere in ultima istanza dalla forza.
Questa emancipazione della società civile avviene gradatamente quando attraverso le costituzioni democratiche viene riconosciuto il diritto di associazione da cui nasce la democrazia pluralistica (poliarchica e policentrica), in contrasto con l’ideale della democrazia monistica o monocratica secondo cui «la sovranità risiede nel popolo: essa è una e indivisibile» (art. 25, Cost. 1793) e «nessuna parte del popolo può esercitare il potere del popolo intero» (art. 26). Non è un caso che il diritto d’associazione negli stati europei, per lunga tradizione autoritari, sia stato l’ultimo a essere riconosciuto. È il diritto che, una volta riconosciuto, trasforma la realtà e di conseguenza anche l’immagine dello stato sovrano, e crea nuovi soggetti, a pieno diritto e nel senso piú pieno della parola, «politici». Via via che la società civile si fa «politica», la sfera della politica si allarga oltre lo stato-istituzione, oltre lo stato-apparato, oltre lo stato nel senso tradizionale della parola, privilegiato oggetto per secoli della trattatistica politica. La democrazia o è pluralistica, nel senso di poliarchica, o non è. È noto quale materia esplosiva abbia offerto la «trasformazione» della democrazia in poliarchia alle ideologie reazionarie (non meno che a quelle rivoluzionarie) per condannare nel pluralismo una intollerabile degenerazione della compagine dello stato, e quindi una perdita forse irrecuperabile della sua unità, faticosamente conquistata dai grandi stati territoriali contro la frantumazione della società medioevale (un vero e proprio «ritorno al Medioevo»). Prescindendo da un giudizio di approvazione o di condanna (perché questa non è la sede), sta di fatto che la nascita dello stato-poliarchico ha scosso la secolare identificazione tra sfera dello stato (come centro del potere sovrano) e sfera della politica, come sfera in cui agiscono i soggetti (individui o gruppi) che prendono parte alle decisioni collettive, e ha allargato quest’ultima alla società civile, rendendo fra l’altro sempre piú incerti i confini tra il «politico» e il non «politico», via via che si andava allargando lo «spazio» politico nella società non politica.
Infine, accenno alla novità, almeno in Italia, piú interessante e sorprendente, tale cioè da far nascere qualche deprecabile confusione se non se ne afferra il senso. In alcuni autori di questi ultimi anni, la parola «politica» nell’espressione «filosofia della politica» è stata usata non tanto nel senso di «politics» quanto piuttosto nel senso di «policy», vale a dire di «direttiva» che proviene da un corpo di esperti e va verso la soluzione o meglio la proposta di soluzione di un problema pratico d’interesse generale. In italiano, dove una parola come «policy» non esiste, userei il plurale di «politica», e direi le «politiche». Ma come sempre, anche in questo caso nulla val meglio, per far capire il senso di una parola, che qualche esempio del suo uso: rispetto ai diversi soggetti, si ponga mente a espressioni come la «politica della Fiat» o della «Banca d’Italia» o della «Cgil» (dove si vede che il soggetto può non piú essere lo stato); rispetto alla materia, ad espressioni come «politica scolastica», «finanziaria», «sanitaria», «ecologica» ecc. Siccome, come ho già detto, c’è posto per tutti là dove non sono scarsi i beni (intendo lo spazio di nuove ricerche, essendo se mai scarse – ma questo è un altro problema – le cattedre), e nessuno ha il monopolio del significato di una parola, ben venga anche la filosofia politica in questo nuovo senso purché ci si renda conto della distanza che la separa dalla filosofia politica tradizionale.
Sono io stesso il primo ad essere convinto della insufficienza della mia mappa. Come sapete, le mappe catastali sono divise in particelle. Sarà il vostro contributo a correggere le particelle sbagliate e a disegnare quelle mancanti.
III.
RAGIONI DELLA FILOSOFIA POLITICA.
Era lecito prevedere che l’istituzione di cattedre di filosofia politica avvenuta al momento della creazione delle nuove facoltà di scienze politiche alla fine degli anni Sessanta provocasse un dibattito sulla natura, i contenuti, gli scopi, della nuova disciplina che si veniva a trovare accanto a due materie tradizionali, la storia delle dottrine politiche e la scienza politica, per non parlare dell’ancor piú nuova sociologia politica. In realtà un dibattito non c’è stato, o è stato di gran lunga inferiore per intensità e vivacità a quello che aveva preceduto e accompagnato il nascere della disciplina.
Fra l’11 e il 13 maggio 1970 si svolse presso la Facoltà giuridica di Bari, per iniziativa del prof. Dino Pasini, un convegno su «Tradizione e novità della filosofia della politica», in cui toccò ad Alessandro Passerin d’Entrèves, il primo titolare della materia, e a me, che sarei stato suo successore due anni dopo, presentare le relazioni introduttive. Nessuno dei due si lasciò attrarre dalla tentazione, cosí frequente in questi casi, di proporre il proprio concetto di filosofia politica, ovvero di cedere alla presunzione di dire che cosa deve essere la filosofia politica. D’Entrèves nella sua relazione intitolata manzonianamente Il «palchetto assegnato agli statisti» si pose il seguente problema: «Ci sono caratteristiche comuni che si ritrovano in tutti i pensatori che vengono comunemente designati come politici?» Posto cosí, il problema richiedeva una risposta fondata sopra una indagine storica, consistente in una serie di giudizi di fatto, non implicava giudizi di valore, anche se presupponeva un accordo tacito, basato su una convenzione largamente condivisa, su che cosa si dovesse intendere per «pensatore politico» o, per riprendere la metafora manzoniana, che cosa dovesse essere collocato nel «palchetto» (in cui «spiccavano» naturalmente Machiavelli «mariolo sí ma profondo», e Botero «galantuomo sí ma acuto»). Gli esempi fatti da d’Entrèves, che andavano da Agostino a Tommaso, da Hobbes a Locke, da Machiavelli a Montesquieu, rispettavano perfettamente la convenzione. Questo procedimento per definire la filosofia politica è il tipico procedimento empirico per estensione ed intensione. Fissato il contenitore (estensione) si trattava di andare a vedere che cosa ci fosse dentro (intensione).
Anche la mia relazione era descrittiva perché, presentando una classificazione dei principali significati lessicali di «filosofia politica», non aveva alcuna pretesa di elevarne uno a significato privilegiato ed esclusivo, e quindi di dare una definizione stipulativa. Questi significati erano i seguenti: descrizione e proposta dell’ottima repubblica, ricerca del fondamento ultimo del potere e quindi del dovere di obbedienza, determinazione del concetto generale di politica, con la conseguente distinzione tra politica e morale, tra politica e diritto, tra politica e religione, ed infine metodologia della scienza politica o metascienza politica. L’esigenza di questa classificazione, che aveva un valore puramente analitico e non aveva nessuna intenzione normativa, nasceva dalla constatazione che alla categoria della filosofia politica si sogliono assegnare opere apparentemente molto diverse tra loro, come la Repubblica di Platone, il Contratto sociale di Rousseau, la Filosofia del diritto di Hegel, e che in questi ultimi tempi, in seguito all’accresciuto interesse per i problemi di filosofia della scienza, e al sospetto che la filosofia tradizionalmente intesa sia un sapere ideologico, per «filosofia» si debba intendere esclusivamente la critica della scienza 7.
Il dibattito italiano era stato preceduto di qualche anno da un analogo dibattito svoltosi per iniziativa dell’Institut international de philosophie politique, in un convegno parigino i cui atti uscirono nel 1965. L’Institut, fondato da Boris Mirkine-Guetzévitch, ma presieduto sin dall’inizio da Georges Davy, aveva inaugurato i suoi convegni annuali con un dibattito sul tema fondamentale, il «potere», i cui atti furono pubblicati in due volumi nel 1956. Il sesto convegno fu dedicato a L’idée de philosophie politique. Delle relazioni due soltanto affrontavano il tema specifico, quella di Paul Bastid, L’idée de philosophie politique, e quella di Raymond Polin, Définition et défense de la philosophie politique 8. Entrambe seguivano la via opposta a quella che sarà seguita nel dibattito italiano: si proponevano di spiegare che cosa fosse la «vera» filosofia politica, e avevano quindi un preciso scopo propositivo. La «vera» filosofia politica era ciò che la filosofia politica doveva essere. Bastid si era limitato a distinguere la filosofia politica dalla filosofia della storia, dalla filosofia morale e dalla filosofia giuridica, che è tradizionalmente un tema accademico, con il quale l’insegnante di una disciplina introduce il discorso sulla propria materia, e a concludere che essa si risolve nella ricerca dei primi elementi o dei principî fondamentali dell’organizzazione sociale. Polin, invece, si proponeva dichiaratamente lo scopo di dare una definizione di filosofia che servisse a «recouvrir» e a «remplacer» le definizioni tradizionali. Dopo averla definita come quella forma di conoscenza superiore che ha il compito di «rendere intelligibile la realtà politica», spiegava che essa era nell’universo della conoscenza insostituibile, e aveva una funzione «critica e normativa», massime quella di prendere in considerazione e favorire «un avvenire di libertà».
Nello stesso convegno Renato Treves svolse una relazione sulla nozione di filosofia politica nel pensiero italiano: constatava che due erano le accezioni prevalenti dell’espressione, essendo intesa, per un verso, come descrizione dell’ottimo stato, e per l’altro verso, come ricerca della natura e degli scopi dell’attività politica da distinguere dalle altre attività dello spirito (il riferimento alla filosofia d’orientamento spiritualistico dominante in Italia era evidente), e soprattutto dall’attività economica e da quella morale.
Questa analisi fu un buon precedente della discussione di Bari: due infatti dei significati di filosofia politica da me elencati corrispondono a quelli rilevati da Treves nel pensiero italiano contemporaneo. Lo stesso poi dichiarava la propria preferenza per un terzo significato, là dove affermava che secondo il suo giudizio la filosofia politica avrebbe dovuto essere considerata come «metodologia della scienza politica, come riflessione sul linguaggio, sui limiti e i fini di questa scienza» 9. Con questa affermazione richiamava l’attenzione su una possibile definizione di filosofia politica che non corrispondeva a quelle tradizionali, e mi suggeriva uno dei quattro significati della mia classificazione. Mancava soltanto l’accezione di filosofia politica come giustificazione dell’obbligo politico o, che è lo stesso, come studio del problema della legittimità del potere.
A questo problema era stato sempre piú sensibile il pensiero politico inglese, che si era interrogato sui limiti del potere, visti ex parte civium, ben piú che il pensiero politico continentale il cui problema fondamentale era stato quello della ragion di stato, ovvero della legittima rottura dei limiti, ex parte principis. Il tema dell’obbligo politico era stato importato in Italia da d’Entrèves che aveva avuto la sua prima e decisiva formazione accademica in Inghilterra. Non a caso nella sua relazione di Bari, dopo aver esposto quelli che riteneva i caratteri comuni alle filosofie politiche tradizionali, concludeva che questi tratti comuni convergono verso un unico problema, che è quello di «rendersi ragione dei vincoli di dipendenza che abbracciano l’uomo dalla culla sino alla tomba», e in definitiva di rendere possibile la risposta alla domanda: «Perché un uomo deve obbedire a un altro uomo?» 10. Occupandosi di questo problema, concludeva, i grandi scrittori politici del passato facevano della filosofia, «erano filosofi e non semplici raccoglitori e ordinatori di dati».
Nel dibattito di Bari non si era potuto tener conto dell’articolo del prof. D. D. Raphael dell’Università di Londra, What is Political Philosophy? uscito lo stesso anno nel volume Problems of Political Philosophy (che cito dalla seconda edizione del 1975). Anche Raphael seguiva l’altra strada, quella di esprimere la propria opinione su ciò che la filosofia politica dovrebbe essere, per distinguerla sia dalla teoria politica perseguita dai sociologi e dagli scienziati politici che si propone di «spiegare» il fenomeno politico, sia dalla ideologia che ha carattere esclusivamente normativo. Il compito della filosofia politica non è, secondo Raphael, la spiegazione ma la giustificazione, il suo scopo non è prescrittivo come quello della ideologia, ma è normativo nel limitato senso che offre buone ragioni per fare accettare o rigettare una proposizione. In breve gli scopi della ricerca filosofica, che valgono naturalmente anche per la filosofia politica, sono, a giudizio di Raphael, essenzialmente due: a) il chiarimento dei concetti; b) la valutazione critica delle credenze. Entrambi questi scopi vengono dall’autore finemente e chiaramente illustrati.
Non è il caso di commentare questa e le altre interpretazioni della filosofia politica. Tot capita tot sententiae. Non c’è da meravigliarsi che la filosofia politica segua la sorte della filosofia generale che continua a interrogarsi su se stessa da quando è nata, tanto che una parte cospicua ormai del sapere filosofico consiste in un sapere riflessivo, nel filosofare sulla filosofia. Qui mi preme mettere in evidenza che anche la filosofia della filosofia, che possiamo chiamare metafilosofia, può avere, al pari della metascienza, carattere descrittivo o prescrittivo. Il dibattito quale si svolse a Bari ebbe prevalentemente carattere descrittivo, in contrasto con il dibattito parigino e con l’articolo di Raphael il cui carattere è prevalentemente prescrittivo. Si può ulteriormente precisare che una metafilosofia descrittiva si orienta verso la scoperta e l’analisi delle definizioni lessicali, che hanno in quanto tali egual diritto ad essere prese in considerazione, mentre una metafilosofia prescrittiva sfocia e non può non sfociare in una definizione stipulativa, che tende a escludere tutte le altre.
Nonostante il graduale espandersi dell’insegnamento della filosofia politica nelle nostre università, le prime discussioni sulla natura, i fini e i limiti della disciplina non ebbero molto seguito negli anni successivi. Occasione per riprenderle è stata la pubblicazione della nuova rivista «Teoria politica», il cui primo numero è apparso all’inizio del 1985. Proponendo di mettere a confronto filosofi della politica e scienziati della politica, e di invitare alla collaborazione e all’interazione filosofi e sociologi, storici, politici e giuristi, la rivista non poteva non provocare discussioni di carattere metodologico. Il primo intervento apparve già nel terzo numero, ad opera di Danilo Zolo, il quale per sviluppare le sue considerazioni partiva dal dibattito del 1970 come se nell’intervallo di tempo, lungo quindici anni, e quindi non tanto breve, non si fosse levata nessuna voce degna di essere ascoltata 11. Anche gli altri scritti cui Zolo si richiamava, di Sartori e di Matteucci, sul tema della natura della scienza politica che non poteva non essere esaminata senza metterla a confronto con la filosofia politica, risalivano a quegli anni. La scienza politica anch’essa al suo primo apparire, o per meglio dire alla sua ricomparsa sotto le mutate vesti di scienza all’americana, circa dieci anni prima, aveva provocato analogo dibattito. Ogni discorso sulla scienza politica chiamava in causa la filosofia politica e viceversa. Nel volume sesto della grande Storia delle idee politiche economiche e sociali, dedicato al secolo ventesimo e apparso nel 1972, si trovano fianco a fianco un saggio di d’Entrèves sulla filosofia politica, con un paragrafo sulla distinzione tra filosofia politica e scienza politica, e uno di Giovanni Sartori sulla scienza politica, con un paragrafo sulla filosofia politica 12. Con un ragionamento simmetrico e inverso, nel primo la filosofia vi appare come non-scienza, nel secondo la scienza vi appare come non-filosofia.
Il rapporto fra filosofia politica e scienza politica era il tema principale dell’articolo di Zolo del 1985, ma considerato piú dal punto di vista della scienza politica di cui criticava la concezione neo-empiristica o neo-positivistica, prevalente in Italia, e da me sostenuta, che non da quello della filosofia politica. Riguardo a quest’ultima si compiaceva che nelle nostre università la filosofia politica si fosse emancipata dalla filosofia del diritto, che aveva una lunga tradizione, e avesse superato il complesso d’inferiorità verso la scienza politica e la sociologia politica. Riprendeva la «mappa» da me disegnata dei vari possibili significati di filosofia politica e vi sostituiva una tesi da approfondire, secondo cui la distinzione fra filosofia politica e scienza politica è riconducibile «probabilmente» a una differenza di gradi, a una tendenziale polarizzazione di stili di pensiero che si traduce in una diversa selezione e impostazione dei problemi. Precisava che «lo stile di pensiero filosofico predilige le teorie molto generali, fortemente inclusive, che operano una riduzione di complessità molto debole e sono perciò molto complesse e difficilmente controllabili» 13, mentre lo stile di pensiero scientifico predilige teorie di raggio piú limitato, capaci di una elevata riduzione della complessità e perciò fortemente specializzate e astratte, grazie ad un uso molto intenso di clausole ceteris paribus.
In questo modo anche Zolo si orientava verso una metafilosofia prescrittiva, proponendo una sola accezione plausibile di «filosofia politica», da preferirsi a tutte le altre, se non addirittura come la sola «probabilmente» vera, un’accezione che ripeteva, senza un esplicito riconoscimento, il concetto della filosofia distinta solo quantitativamente dalla scienza, che era stato proprio del positivismo, di quella filosofia di cui lo stesso Zolo aveva criticato il concetto di scienza, suggerendo in alternativa un approccio post-empiristico alla scienza. Pur ammettendo che la filosofia politica potesse avere anche il compito di metascienza, che era il quarto significato da me posto in evidenza, questo modo d’intenderla era pur sempre, rispetto ai significati tradizionali, limitativo, perché tendeva a eliminare dalla mappa i significati derivati dalla distinzione fra il descrittivo e il prescrittivo, fra la spiegazione e la giustificazione, distinzioni che erano ripetutamente emerse nel dibattito sulla natura della disciplina. La verità è che, conformemente all’idea ispiratrice della nuova rivista, Zolo si proponeva di tracciare le linee di una «teoria politica», che in quanto tale non poteva avere la stessa estensione della filosofia politica naturalmente molto piú ampia. La limitazione del campo della filosofia politica dipendeva dal fatto che ormai si parlava di filosofia politica ma si aveva di mira la teoria politica di cui si trattava di identificare lo status sia rispetto alla filosofia sia rispetto alla scienza.
Che il vero oggetto del contendere fosse la teoria politica risultò chiaro dall’articolo di Michelangelo Bovero, pubblicato due numeri dopo sulla stessa rivista, intitolato Per una meta-teoria della politica. Quasi una risposta a Danilo Zolo. In questione era non tanto la filosofia della politica quanto l’oggetto ancora misterioso che era la teoria politica, come appariva sin dal titolo in cui di metateoria si parlava e non di metafilosofia. Non è qui il caso di soffermarsi su questo tentativo di costruire un modello di teoria politica che desse conto della struttura formale e della intelaiatura delle teorie politiche, perché il tema esce dall’attuale rendiconto, e il problema della natura della teoria politica dovrà essere affrontato in altra sede. Vi ho accennato perché era ormai chiaro che il dibattito su che cosa è la filosofia politica si andava spostando verso il problema circa la natura della teoria politica, che sembrava meno compromesso dalla secolare contesa sul significato di «filosofia» e quindi piú suscettibile di risposte concordi, particolarmente opportune nel momento in cui si stava introducendo una nuova disciplina nell’insegnamento universitario. Che la nuova disciplina si chiamasse filosofia politica non escludeva una sua ridefinizione come teoria politica che sembrava piú adatta a trovare un maggior punto di convergenza di quello che era consentito dalla vecchia espressione filosofia politica, aperta alle piú diverse interpretazioni e contestazioni.
Con queste mie osservazioni non vorrei far credere che io sia disposto a dare alle questioni di metodo e a quelle relative al conflitto delle discipline maggiore importanza di quella che hanno in realtà. Tanto le prime che le seconde sono spesso questioni puramente accademiche, in cui alla puntigliosità delle distinzioni e suddistinzioni non corrisponde sempre una rilevanza pratica. Ciò non toglie la sorpresa nel constatare che la proliferazione delle cattedre di filosofia politica non sia stata accompagnata da una riflessione sul posto della disciplina nella ormai vasta area degli insegnamenti che hanno per oggetto la politica. In un recente censimento delle risposte a un questionario sui programmi dei docenti di filosofia politica è risultato che oggetto prevalente dei corsi è il commento di opere classiche, tanto che il commentatore del censimento è stato costretto a domandarsi se l’oggetto della filosofia politica per i docenti italiani della materia sia la politica in quanto tale, oppure le idee e le teorie filosofiche sulla politica 14. La domanda era chiaramente retorica: è evidente infatti che in questo secondo caso la filosofia politica non sarebbe altro che un doppione della storia delle dottrine politiche che viene insegnata ormai da piú di cinquant’anni nelle nostre università. Se un dibattito sulla natura della filosofia politica c’era stato, questo aveva avuto riguardo soprattutto alla differenziazione della filosofia politica dalla scienza politica, e in seconda istanza dalla filosofia morale e dalla filosofia del diritto. Nessuno si era posto il problema della distinzione fra filosofia politica e storia del pensiero politico perché la differenza fra l’una e l’altra è evidente. E invece ancora una volta si deve constatare, se è lecito parodiare un celebre titolo kantiano, che quello che può essere giusto in teoria non vale per la pratica.
Mancava, è vero, in Italia una tradizione d’insegnamento di filosofia politica, come c’era stata invece per la filosofia del diritto, che nessuno avrebbe pensato di confondere con la storia del pensiero giuridico, anche se, non esistendo un corso di questa materia, i corsi di filosofia del diritto sono in pratica spesso corsi di storia del pensiero giuridico, e i filosofi del diritto si sogliono distinguere in filosofi propriamente detti e storici. Ma nel caso della filosofia politica che veniva ad essere innestata su un tronco in cui uno dei rami frondosi era la storia del pensiero politico, la sovrapposizione e quindi la confusione con la storia non avrebbero dovuto sorgere. Bisogna anche aggiungere che, mentre esiste una lunga tradizione di manuali e trattati di filosofia del diritto, che comprendono se mai, in omaggio al primato del diritto sulla politica, su cui mi soffermerò un po’ piú tardi, anche la filosofia politica (basti l’esempio della Philosophie des Rechts di Hegel), non esiste analoga tradizione nella filosofia politica.
Eppure un esempio di quel che avrebbe potuto essere un insegnamento di filosofia politica distinto dalla storia del pensiero politico era stato offerto da chi aveva ricoperto per primo quella cattedra. Il manuale che d’Entrèves pubblicò nel 1962 sotto il titolo allora accademicamente obbligato di Dottrina dello Stato, ma che poi continuò ad essere adottato quando il titolo della cattedra diventò filosofia della politica, aveva per oggetto un solo tema, il tema del potere, che veniva però affrontato da tre punti di vista, come forza, come potere legittimo, come autorità. Ognuno di questi aspetti era presentato attraverso esempi tratti dallo studio dei classici che egli chiamava con felice espressione «gli autori che contano». In questo modo la storia non era affatto esclusa, ma era messa al servizio di una proposta teorica. Lo stesso autore, quasi a giustificazione del fatto che la cronologia non era rispettata e che «i salti nel tempo sono alle volte paurosi», dichiarava apertamente: «Questo libro non è una storia delle dottrine politiche» (p. XI). Appunto, non era una storia delle dottrine politiche perché era un’opera di filosofia politica.
Successore di d’Entrèves alla stessa cattedra, non dimenticai né l’impostazione del corso, la scelta di un grande tema, da svolgere con continui riferimenti alla storia delle idee, né la lezione dei classici, ovvero degli «autori che contano». Nel dedicare un corso alla teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, scrivevo nella Premessa che «se una ragione d’essere ha un corso di filosofia politica, distinto da quelli di storia delle dottrine politiche e di scienza della politica, questa è lo studio e l’analisi dei cosiddetti temi ricorrenti» 15. Intendevo per temi ricorrenti quelli che attraversano tutta la storia del pensiero politico dai Greci ai giorni nostri (comincio dai Greci, per la mia scarsa conoscenza del pensiero orientale), e che in quanto tali costituiscono una parte della teoria generale della politica. Spiegavo che l’identificazione di questi temi ricorrenti aveva una duplice funzione: da un lato, essa serve a individuare alcune grandi categorie (a cominciare da quella generalissima della politica) che permettono di fissare in concetti generali i fenomeni che entrano a far parte dell’universo politico, dall’altro, permette di stabilire fra le diverse teorie politiche, sostenute in tempi diversi, affinità e differenze. L’ultimo corso lo dedicai, partendo dal libro quinto della Politica di Aristotele sulle «mutazioni», a uno di questi concetti, su cui ormai la letteratura è immensa: la rivoluzione. Per chiunque abbia una qualche familiarità coi classici, non vi è che l’imbarazzo della scelta.
I non sempre buoni rapporti, per non dire la diffidenza reciproca, degli storici delle dottrine politiche e dei filosofi della politica è l’effetto d’incomprensibili (scusate il bisticcio) incomprensioni, se non addirittura di fraintendimenti. La teoria politica senza storia è vuota, la storia senza teoria è cieca. Sono fuori strada tanto i teorici senza storia, quanto gli storici senza teoria, mentre i teorici che ascoltano la lezione della storia e gli storici che sono ben consapevoli dei problemi di teoria che la loro ricerca presuppone, traggono vantaggio dall’aiutarsi reciprocamente. Probabilmente piú che d’incomprensione si tratta di un contrasto di atteggiamenti o di mentalità: quella che pregia ciò che è costante, propria del teorico, e quella che pregia ciò che è perennemente mutevole, propria dello storico. «Nihil sub sole novi» o «Tutto scorre». Il permanere o il mutare. L’eterno ritorno o l’irreversibile fluire. Non ho nessuna difficoltà a confessare che mi sono sentito sempre piú attratto dalla scoperta del ripetuto che non dall’inseguimento dell’irripetibile, ma senza cadere nell’insidia dell’imperialismo disciplinare che mette gli storici contro i filosofi, i giuristi contro i politologi, i sociologi contro gli storici e via confliggendo. Nel vastissimo, sempre piú vasto, universo del sapere, c’è fortunatamente posto per tutti. Non attribuisco molta importanza alle questioni metodologiche, ma una certa utilità possono averla: quella di rendere piú consapevoli, ciascuno nel proprio campo, dei limiti del proprio territorio e del diritto ad esistere di altri territori lontani o vicini. Altro è narrare i fatti, altro riflettervi sopra o per trarne delle leggi, seguendo il giudizio di Machiavelli secondo cui «tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno riscontro con gli antichi tempi», il che procede dall’avere gli uomini «sempre le medesime passioni», onde derivano «di necessità» sempre gli stessi effetti, o per coglierne il senso (la filosofia della storia), accogliendo l’insegnamento di Hegel secondo cui la storia è il teatro del progredire dello spirito del mondo nella coscienza e nell’affermazione della libertà.
Naturalmente c’è storia e storia. A questo proposito Salvadori ha fatto un’osservazione utile: vi sono libri storici, anche grandi, che non stimolano elaborazioni teoriche, altri, invece, molto meno grandi, che propongono categorie d’interpretazione storica che una riflessione teorica non può fare a meno di prendere in considerazione. Per i primi faceva l’esempio del Cavour di Romeo, per i secondi del libro di Charles Maier, La rifondazione dell’Europa borghese, che immette nel dibattito storico e teorico il concetto nuovo, giusto o sbagliato che sia, di corporatismo. In questa seconda categoria collocherei, come esempio tipico, il libro di Alexander Yanov, Le origini dell’autocrazia, rivolto in gran parte a tracciare, con mano maestra, la distinzione fra dispotismo e autocrazia, e a tracciare del dispotismo, vero tema ricorrente da Aristotele a Wittfogel, la storia e le varie interpretazioni.
Non solo c’è storia e storia, ma ci sono anche diverse interpretazioni di quel che dovrebbe essere il compito dello storico. È abbastanza sorprendente che, mentre in Italia il dibattito metodologico, fra storici del pensiero politico, filosofi della politica e scienziati della politica, ha continuato a sonnecchiare, alcuni fra i piú noti e originali storici del pensiero politico in Inghilterra, dove questi studi hanno una tradizione ben piú antica e autorevole che nel nostro paese, abbiano dato vita ad una disputa sui compiti e sul metodo della loro disciplina, di cui soltanto ora si è cominciato a parlare anche da noi 16. I due maggiori protagonisti di questa disputa sono John A. Pocock, autore di The Machiavellian Moment, e Quentin Skinner, cui si deve una delle opere di maggiore risonanza nel campo di questi studi, The Foundation of Modern Political Thought 17.
Uno dei loro bersagli è stata la storia delle idee d’indirizzo analitico, come veniva propugnata ed eseguita negli anni del successo della filosofia analitica, neo-empiristica e linguistica, il cui proposito era stato quello di esaminare il testo classico in se stesso, nella sua elaborazione concettuale e nella sua coerenza interna, indipendentemente da ogni riferimento storico, e da ogni interpretazione-falsificazione ideologica. Personalmente ritengo che questo modo di studiare i classici della filosofia e quelli della filosofia politica abbia dato buoni frutti, specie per una migliore comprensione dei testi e della ricostruzione del sistema concettuale dell’autore studiato. In autori come Hobbes ha portato a risultati nuovi nella delucidazione di temi fondamentali come lo stato di natura, il rapporto fra legge naturale e legge positiva, la natura del contratto di unione, il rapporto fra libertà e autorità, fra potere spirituale e temporale, la teoria delle forme di governo e via discorrendo. Non bisogna poi dimenticare che l’insistenza sullo studio analitico di un testo era una naturale e, a mio giudizio, salutare reazione alle esorbitanze dello storicismo che, collocando quel testo in una determinata situazione storica, ne coglieva spesso soltanto il significato polemico contingente e ne trascurava il valore di elaborazione e costruzione dottrinale, valida in ogni tempo e in ogni luogo, e contro gli eccessi delle interpretazioni ideologiche frequenti nella cerchia degli studiosi marxisti, ma non solo in questa, che aveva condotto al bel risultato di considerare autori diversissimi, da Hobbes a Max Weber, passando per Locke, Rousseau, Kant, Hegel, Bentham, Mill, Spencer, ad onta delle loro tesi contrapposte, come ideologi della borghesia, ora in ascesa, ora in declino, ora in una crisi di transizione, oppure a interpretare Hobbes di volta in volta come autoritario o liberale, Rousseau, come democratico o totalitario, Hegel, come fascista o anticipatore dello Stato sociale. Mentre la interpretazione storica legge un’opera politica, qualsiasi opera politica, grande o piccola che sia, con tutti e due gli occhi rivolti ai problemi politici del tempo in cui fu scritta, Hobbes e la guerra civile, Locke e la gloriosa rivoluzione, Rousseau e la Rivoluzione francese, Hegel e la Restaurazione, cosí mettendo sullo stesso piano un grande testo come il Leviatano e uno dei mille pamphlet di quegli stessi anni in difesa della monarchia, contro le pretese del parlamento, e quindi limitandone la portata teorica, che trascende il tempo, la critica ideologica la legge con tutti e due gli occhi rivolti alle lotte del proprio tempo, sottoponendola a giudizi politici positivi o negativi secondo che sia considerata piú o meno attuale, piú o meno utile alla parte cui si appartiene, in tal modo impoverendone il valore teorico.
Contro queste due concezioni del lavoro storiografico, la scuola analitica ha avuto il merito di mettere in evidenza l’apparato concettuale con cui l’autore costruisce il suo sistema, di studiarne le fonti, di soppesarne gli argomenti pro e contro, e in tal modo di apprestare gli strumenti necessari per la comparazione fra testo e testo, indipendentemente dalla vicinanza nel tempo e dalle eventuali influenze di questo su quello, e per la elaborazione di una teoria generale della politica. Non mi par dubbio che dei diversi metodi di trattare la storia del pensiero politico quello che ha una piú stretta parentela con la filosofia politica sia il metodo analitico. Non arriverei sino al punto di affermare, come hanno affermato alcuni critici dei «revisionisti», che «la metodologia suggerita da Skinner dissolve i testi classici e lascia al loro posto una polverosa erudizione» 18, per la solita ragione che in questioni di metodo le esasperazioni polemiche sono sbagliate. Quando l’«erudizione», come nel caso del libro di Pocock sulla fortuna di Machiavelli in Inghilterra, permette di illuminare aspetti del pensiero politico inglese sinora trascurati, qualunque studioso, analitico o sintetico, filosofeggiante o storicizzante, «revisionista» o «ortodosso», deve rallegrarsene. Posso anche ammettere che vi siano testi che si prestino di piú e testi che si prestino di meno alla metodologia analitica, come si è detto poc’anzi dei libri di storia, che non sono tutti eguali rispetto al sussidio che possono offrire ai teorici, e fra questi testi campeggiano le opere di Hobbes sulle quali si è esercitata in gran parte la scuola analitica. Ma non mi sentirei neppure di accusare gli storici analitici delle idee che «i loro sforzi in direzione di una storia continua rappresentano tentativi deprecabili di mescolare le questioni filosofiche con i problemi sociali, politici e religiosi» 19, e di considerare un errore il fatto che volendo guardare agli scrittori del passato da un punto di vista privilegiato hanno finito per dimenticare il senso della contingenza storica.
Persisto nell’opporre un’ostinata resistenza ad ogni forma di Methodenstreit, spinta sino all’esclusione reciproca. La pluralità dei punti di vista è una ricchezza di cui i fautori del proprio metodo ad esclusione di ogni altro non sanno trarre vantaggio. Metodo analitico e metodo storico non sono affatto incompatibili, anzi si integrano bene a vicenda. Tutto questo non toglie che la filosofia politica, piú vicina agli storici analitici che a quelli eruditi o storicisti, non abbia ancora trovato il suo status, come l’ha trovato la piú antica e accademicamente piú consolidata filosofia del diritto. Per complicare le cose, si aggiunga che al significato tradizionale di «politica», come l’attività o l’insieme di attività che hanno in qualche modo un riferimento alla pólis, intesa come l’organizzazione di una comunità che fa uso per conservarsi in ultima istanza della forza, si è venuto affiancando o addirittura sovrapponendo un altro significato, la politica come direttiva o insieme di direttive che un’organizzazione collettiva, non necessariamente lo Stato, elabora e cerca di applicare per raggiungere i propri fini, significato che si rivela nell’espressione del linguaggio comune, la «politica» della Fiat o della Banca d’Italia. Questa confusione deriva dalla forzata traduzione con una sola parola italiana di due parole inglesi, politics e policy. Ma la mancata consapevolezza di questa confusione ha fatto sí che oggi vi sia chi intende per filosofia politica un discorso di etica pubblica, indirizzato alla formulazione di proposte per una buona o corretta o efficiente «politica» (nel senso di policy) economica o sanitaria o finanziaria o ecologica o energetica. Anche in questo caso, non c’è da meravigliarsi o da scandalizzarsi. Le due filosofie politiche, come teoria generale dello Stato o come etica pubblica, sono entrambe perfettamente legittime. Basta intendersi: stanno fra loro nel rapporto in cui stanno la metaetica e l’etica. La filosofia politica tradizionale è una metapolitica, la filosofia politica come etica pubblica è una politica nel senso di un’etica non dei soggetti individuali ma dei gruppi organizzati.
Non avendo sinora un suo statuto specifico, la filosofia politica lascia inevitabilmente ai suoi cultori una certa libertà. Se posso esprimere la mia preferenza, ma senza alcuna intenzione di presentarla come migliore delle altre, direi che oggi la funzione piú utile della filosofia politica è quella di analizzare i concetti politici fondamentali, a cominciare dal concetto stesso di politica. Piú utile, perché sono gli stessi concetti che vengono usati dagli storici politici, dagli storici delle dottrine politiche, dai politologi, dai sociologi della politica, ma spesso senza andare troppo per il sottile nella identificazione del loro significato, o dei loro molteplici significati. È ben noto che lo stesso fenomeno può essere stato chiamato in modi diversi: nel discorso politico, esempio tipico è la confusione e la sovrapposizione di «repubblica» e «democrazia», per cui ancora Montesquieu nella sua analisi della repubblica, riferendosi a due esempi storici, Atene e Roma, metteva insieme una democrazia nel senso proprio della parola, o che pretendeva di esserlo secondo il celebre epitafio di Pericle, e una repubblica, nel senso di forma di governo contrapposta al governo regio o al principato, come Roma, la quale fu considerata, a cominciare da Polibio, non una democrazia ma un governo misto, ed esaltando gli ideali e le virtú repubblicane esaltava in realtà gli ideali e le virtú democratiche. Viceversa, fenomeni diversi possono essere stati chiamati con lo stesso nome: classico esempio è quello dell’espressione «società civile», che nel corso dei secoli, dalla politiké koinonía di Aristotele alla bürgerliche Gesellschaft di Hegel non solo ha mutato il primitivo significato ma lo ha addirittura capovolto.
Contrariamente a una interpretazione limitativa della filosofia analitica, l’analisi concettuale non si risolve nella pura e semplice analisi linguistica, perché questa è continuamente intrecciata con l’analisi fattuale, vale a dire con l’analisi, da condurre con la metodologia consolidata delle scienze empiriche, di situazioni politicamente rilevanti, di cui si tratta di mettere in evidenza i tratti comuni, indipendentemente dall’aver avuto nel corso dei secoli lo stesso nome. Il fatto che il termine «rivoluzione» abbia avuto per secoli un significato opposto a quello che è andato prevalendo dopo la Rivoluzione francese vuol dire forse che prima della Rivoluzione francese non vi sono mai state situazioni che meritino il nome di «rivoluzione» nel suo significato attuale?
In questa direzione si apre alla giovane (accademicamente) filosofia politica italiana un campo vastissimo e in gran parte inesplorato di studi e confronti.
1 Per esempio da A. J. Ayer nella prefazione a The Vocabulary of Politics di Thomas D. Weldon, e da Renato Treves nel suo contributo alla discussione su L’idée de philosophie politique promossa dall’«Institut international de philosophie politique» nel 1965, pubblicato col titolo La notion de philosophie politique dans la pensée italienne nel volume sesto delle «Annales de philosophie politique», intitolato L’idée de philosophie politique, PUF, Paris 1965, pp. 97-115.
2 Un bell’esempio di questa «caccia ai valori» è il libro di H. STRETTON, The Political Sciences, Routledge and Kegan Paul, London 1969.
3 [Bobbio si riferisce alla relazione presentata al convegno «Tradizione e novità della filosofia della politica», svoltosi a Bari tra l’11 e il 13 maggio 1970. Il testo della relazione (cfr. l’omonimo vol. degli Atti, Laterza, Bari 1971, pp. 23-29) è compreso nella prima sezione del presente capitolo, Dei possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica, alle pp. 3-8. N.d.C.].
4 J. FREUND, L’essence du politique, Sirey, Paris 1965, p. 2.
5 I. BERLIN, Does Political Theory Exists?, in Philosophy, Politics and Society, serie II, Blackwell, Oxford 1962, pp. 1-33.
6 L. STRAUSS, What is Political Philosophy? (1954), quindi pubblicato nel volume What is Political Philosophy and Other Essays, The Free Press, Glencoe Ill. 1959 (trad. it. Che cos’è la filosofia politica?, Argalia, Urbino 1977, pp. 42 e 43).
7 Tanto la relazione di d’Entrèves quanto la mia si trovano nel volume AA.VV., Tradizione e novità della filosofia della politica cit., rispettivamente pp. 7-21 e 23-37. Sono tornato sul tema in Considerazioni sulla filosofia politica, in «Rivista italiana di scienza politica», I, 2, 1971, pp. 367-79. [La sezione prima del presente capitolo («Dei possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica») è costituita da una sintesi dei due scritti di Bobbio qui citati. N.d.C.].
8 Nel volume AA.VV., L’idée de philosophie politique, PUF, Paris 1965, rispettivamente pp. 3-20 e 33-55.
9 R. TREVES, La notion de philosophie politique dans la pensée italienne, ivi, p. 108.
10 AA.VV., Tradizione e novità della filosofia della politica cit., p. 14.
11 D. ZOLO, I possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica. Una proposta post-empiristica, in «Teoria politica», I (1985), 3, pp. 91-109.
12 I due saggi si trovano in Storia delle idee politiche economiche e sociali, a cura di L. Firpo, vol. VI, Il secolo ventesimo, Utet, Torino 1972, rispettivamente alle pp. 587-608 e 665-714. Di G. SARTORI vedi anche La politica. Logica e metodo in scienze sociali, Sugarco, Milano 1979.
13 D. ZOLO, I possibili rapporti cit., p. 104.
14 Cito dal «Bollettino di filosofia politica», numero 0, ciclostilato, che contiene una relazione di M. Bovero sui risultati del questionario, p. 5.
15 La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino 1976, p. 1.
16 Mi riferisco a due articoli usciti quasi contemporaneamente: M. VIROLI, Revisionisti e ortodossi nella storia delle idee politiche, in «Rivista di filosofia», LXXVIII (1987), pp. 121-36; F. FAGIANI, La storia del «discorso» politico inglese dei secoli XVII e XVIII tra «virtú» e «diritti», in «Rivista di storia della filosofia», XLII (1987), pp. 481-98.
17 Cfr. J. A. POCOCK, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton University Press, Princeton 1975 (trad. it. Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, 2 voll., il Mulino, Bologna 1980); Q. SKINNER, The Foundation of Modern Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1978 (trad. it. Le origini del pensiero politico moderno, 2 voll., il Mulino, Bologna 1989).
18 M. VIROLI, Revisionisti e ortodossi cit., p. 129.
19 Ibid., p. 124.