Capitolo settimo

Democrazia: i fondamenti

I.
LA DEMOCRAZIA DEI MODERNI PARAGONATA A QUELLA DEGLI ANTICHI
(E A QUELLA DEI POSTERI).

La differenza fra la democrazia degli antichi e quella dei moderni è diventata ormai un tema di scuola, non meno di quello celeberrimo di Benjamin Constant sulla libertà. E come questa, riguarda tanto l’uso descrittivo della parola quanto il suo uso valutativo. Tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni spiccano infatti due differenze, l’una analitica, l’altra assiologica 1.

Nel suo uso descrittivo, per democrazia gli antichi intendevano la democrazia diretta, i moderni, la democrazia rappresentativa. Quando noi parliamo di democrazia la prima immagine che ci viene alla mente è la giornata delle elezioni, lunghe file di cittadini che aspettano il loro turno per gettare la scheda nell’urna. Caduta una dittatura, si è instaurato un regime democratico? Che cosa ci mostrano le televisioni di tutto il mondo? Un seggio elettorale e l’uomo qualunque, o il primo cittadino, che esercitano il proprio diritto o compiono il proprio dovere di eleggere chi dovrà rappresentarli.

Insomma, il voto con cui si suol far coincidere l’atto rilevante di una democrazia d’oggi è il voto non per decidere ma per eleggere chi dovrà decidere. Quando descriviamo il processo di democratizzazione avvenuto lungo il secolo scorso nei diversi paesi che oggi si chiamano democratici, ci si riferisce all’allargamento progressivo, piú rapido o piú lento secondo i diversi paesi, del diritto di eleggere i rappresentanti, oppure all’estensione del procedimento elettivo in parti dello stato, come la Camera alta, in cui i membri erano abitualmente nominati dal sovrano. Niente di piú. Uno dei maggiori teorici della democrazia moderna, Hans Kelsen, considera elemento essenziale della democrazia reale (non di quella ideale, che non è in nessun luogo) il metodo della selezione dei capi, ovvero l’elezione. Esemplare, a questo proposito, tanto esemplare da sembrare inventata, l’affermazione di un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti in occasione di un’elezione del 1902: «La cabina elettorale è il tempio delle istituzioni americane, ove ognuno di noi è un sacerdote, cui è affidata la cura dell’arca dell’alleanza e ognuno officia dal proprio altare». Che poi coloro che vi entrano non siano sempre la maggioranza, è cosa che accade in tutte le chiese.

Per gli antichi l’immagine della democrazia era completamente diversa: parlando di democrazia essi pensavano a una piazza oppure a un’assemblea in cui i cittadini erano chiamati a prendere essi stessi le decisioni che li riguardavano. «Democrazia» significava quel che la parola designa letteralmente: potere del démos, non, come oggi, potere dei rappresentanti del démos. Che poi il termine démos, inteso genericamente come la «comunità dei cittadini», fosse definito nei modi piú diversi, ora come i piú, i molti, la massa, i poveri contrapposti ai ricchi, e quindi democrazia fosse definita ora come potere dei piú o dei molti, ora come potere del popolo o della massa o dei poveri, non modifica in nulla il fatto che il potere del popolo, dei piú, dei molti, della massa o dei poveri, non era quello di eleggere chi avrebbe dovuto decidere per loro ma di decidere essi stessi, come scrive Moses Finley, «della guerra e della pace, della finanza, dei trattati, della legislazione, delle opere pubbliche, in breve dell’intera gamma dell’attività governativa» 2. Nel celebre epitaffio di Pericle si lodano le persone che si occupano non solo del loro interessi privati ma anche degli affari pubblici, e si biasimano come cittadini inutili quelli che non si curano dei secondi.

Nella prima difesa del governo democratico che la storia ci abbia tramandato, quella del principe persiano Otane nella disputa sulla miglior forma di governo narrata da Erodoto, l’istituto proposto per la nomina dei magistrati non è l’elezione ma il sorteggio.

Per secoli i due concetti di democrazia e di elezione non confluiscono in un concetto unitario come avviene oggi, perché la democrazia per gli antichi non si risolve nelle procedure elettorali, anche se non le esclude, e all’inverso le procedure elettorali sono perfettamente conciliabili con le altre due forme classiche di governo, la monarchia e l’aristocrazia. Si è disputato per secoli se fosse migliore la monarchia ereditaria o quella elettiva: nessuno ha mai pensato che una monarchia per il fatto di essere elettiva non fosse piú monarchia. Scrive Kelsen: «Non è poi tanto grande la differenza fra l’autocrazia di un monarca ereditario legittimata con la formula della rappresentanza, e la pseudodemocrazia di un imperatore eletto» 3. Menesseno, celebrando le antiche istituzioni di Atene, usa la parola «aristocrazia» e subito dopo aggiunge: «Chi la chiama democrazia, chi in altro modo a suo piacere; ma veramente è un’aristocrazia con l’approvazione del popolo» (238d). Isocrate chiama regime misto di democrazia e aristocrazia quello in cui l’assegnazione delle cariche avviene non per sorteggio ma per elezione tra candidati precedentemente designati 4. Un ammiratore delle istituzioni antiche come Rousseau distingue tre forme di aristocrazia, quella naturale, quella ereditaria e quella elettiva, e dichiara che la migliore è quest’ultima 5. L’aristocrazia di Rousseau, la forma di governo in cui una «minoranza», diremmo oggi un’élite, forma il corpo dei magistrati per elezione corrisponde a quello che oggi chiameremmo «elitismo democratico», dove per «democrazia» s’intende nulla di piú e nulla di meno che il procedimento di nomina attraverso elezioni. Cambiano le parole molto piú rapidamente che le cose, sebbene il cambiamento delle parole faccia credere che siano cambiate anche le cose. Non diverso era il concetto di cittadino che avevano i Romani rispetto ai Greci: il ius suffragii non era il diritto di eleggere un candidato come lo s’intende oggi, quando si parla di estensione del suffragio, del suffragio femminile, del suffragio universale, ma era il diritto di votare nei comizi. Coloro che erano esclusi dal voto, i semi-liberi, erano chiamati cives sine suffragio.

Chi oggi voglia difendere la democrazia diretta contro quella rappresentativa, dove troverà il migliore argomento, la motivazione piú forte, irresistibile, la ragione delle ragioni? Le troverà nel famoso apologo di Protagora, tramandato dall’omonimo dialogo platonico: Mercurio incaricato di portare agli uomini l’arte politica domanda a Giove come questa debba essere distribuita, se debba essere distribuita come le altre arti, tra i competenti. Giove risponde che l’arte politica deve essere distribuita a tutti. E di fatto «gli Ateniesi, come gli altri, ove trattisi di competenza nelle costruzioni e nelle arti, credono che pochi siano capaci di dar consigli, e se prende la parola uno al di fuori di quei pochi non lo sopportano; e con ragione a mio credere. Quando invece trattisi di una deliberazione politica che deve procedere per le vie della giustizia e della temperanza, tollerano che parli chiunque, essendo naturale che di queste tutti siano partecipi, altrimenti non esisterebbe città» (323a). La differenza fra l’arte politica e le altre arti è che non s’insegna, e non s’insegna perché è patrimonio di tutti, e ciò spiega perché tutti abbiano il diritto di partecipare al governo della città.

Con questo non si vuol dire che i governi popolari non abbiano mai conosciuto l’istituto dell’elezione dei magistrati. Ma l’elezione era considerata una necessaria e utile correzione del potere diretto del popolo, non come accade oggi nelle democrazie moderne, per le quali l’elezione costituisce una vera e propria alternativa rispetto alla partecipazione diretta, salvo l’introduzione, in casi specifici espressamente dichiarati, del referendum popolare. Nelle due forme di democrazia il rapporto fra partecipazione ed elezione è invertito. Mentre oggi l’elezione è la regola e la partecipazione diretta l’eccezione, un tempo la regola era la partecipazione diretta, l’elezione l’eccezione. Si potrebbe anche dire cosí: la democrazia di oggi è una democrazia rappresentativa talora integrata da forme di partecipazione popolare diretta; quella degli antichi era una democrazia diretta talora corretta dall’elezione di alcune magistrature. Ancora pochi decenni prima della prima grande costituzione di democrazia rappresentativa che fu quella degli Stati Uniti, esponendo i principî della democrazia Montesquieu scriveva: «Il popolo che gode del potere supremo deve fare da solo tutto ciò che può far bene; e ciò che non può far bene deve affidare ai suoi ministri». Aggiungeva anche, con una fiducia nella saggezza del popolo che sfida la nostra attuale incredulità: «Il popolo sceglie in maniera ammirevole coloro ai quali deve affidare parte della propria autorità» 6. Un dotto commentatore dell’Esprit des lois scrive: «Montesquieu non sospetta quel che saranno le democrazie dei nostri giorni. La sua concezione è derivata dallo studio delle democrazie antiche. Si spiega cosí che in questo capitolo non ci sia la minima allusione al sistema moderno, secondo il quale il popolo esercita la sovranità attraverso l’intermediazione dei suoi rappresentanti» 7.

Proprio perché la democrazia è sempre stata concepita unicamente come governo diretto del popolo e non mediante rappresentanti del popolo, il prevalente giudizio su questa forma di governo è stato, a cominciare dall’antichità, negativo. I due caratteri che distinguono la democrazia degli antichi e dei moderni, quello analitico e quello assiologico, sono fra loro strettamente connessi. Il modo di valutarla, negativo o positivo, dipende dal modo d’intenderla.

Al giorno d’oggi «democrazia» è un termine con una connotazione fortemente positiva. Non c’è nessun regime, anche il piú autocratico, che non ami farsi chiamare democratico. A giudicare dal modo con cui ogni regime si autodefinisce, si direbbe che regimi non democratici oggi non esistano piú in tutto il mondo. Se le dittature esistono, esistono solo, a detta degli autocrati, allo scopo di restaurare nel piú breve tempo possibile la «vera» democrazia, che dovrà essere naturalmente migliore di quella soppressa con la violenza. Al contrario, nella tradizionale disputa sulla miglior forma di governo, la democrazia è stata quasi sempre collocata all’ultimo posto, proprio in ragione della sua natura di potere diretto del popolo o della massa, cui di solito sono stati attribuiti i peggiori vizi della licenziosità, della incontinenza, della ignoranza, della incompetenza, dell’insensatezza, della aggressività, della intolleranza. La democrazia nasce, secondo un luogo classico, dalla violenza e non può conservarsi se non attraverso la violenza. Basti ricordare la descrizione, fatta da Platone nell’ottavo libro della Repubblica, della disgregazione sociale di cui è responsabile il governo popolare: un modello per i tiranni di tutti i tempi, il cui compito è quello di ristabilire l’ordine, non importa se col ferro e col fuoco. Aristotele non è da meno: nella distinzione tra forme di governo buone e cattive, il termine «democrazia» serve a designare il governo popolare cattivo. Là dove descrive il popolo in preda ai demagoghi, suoi adulatori e corruttori, la democrazia vi appare governo non migliore di quello tirannico. Il popolo corrotto dai demagoghi è un tema classico della polemica antidemocratica: un tema sul quale Hobbes ha scritto pagine vigorose, un vero e proprio modello del pensiero reazionario di tutti i tempi.

Nei suoi Discorsi sopra Cornelio Tacito, Scipione Ammirato, riprendendo la lezione degli antichi, scrive: «Assomiglia Platone il volgo ad una grandissima bestia… Bisogna questa bestia tenerla a freno». Il brano si conclude con questa sequenza: essere il volgo «un mostro terribile, leggero, pigro, pauroso, precipitoso, desideroso di cose nuove, ingrato, e insomma un mescolamento di vizi senza compagnia d’alcuna virtú». Una volta definita la democrazia il governo dei poveri, ecco che questa definizione sarà una occasione per sostenere che i poveri, proprio perché non posseggono nulla, non hanno il diritto di governare; e quando riescono ad acciuffare il potere producono disastri. Trattando Della repubblica fiorentina Donato Giannotti ripete: «I poveri, ancora che desiderino libertà, non di meno vivendo per la povertà vili e abietti, son atti a servire; e per ciò, quando fussero ne’ magistrati ariano difficoltà nel saperli amministrare» 8. Resterà la povertà sino al secolo scorso una ragione di esclusione del godimento dei diritti politici. Machiavelli lo aveva già detto in forma lapidaria, secondo il suo stile: «Li uomini che nelle repubbliche servono alle arti meccaniche non possono sapere comandare come principi quando sono preposti a’ magistrati, avendo imparato sempre a servire. E però si vuole torre per comandare di quelli che non hanno mai ubbidito se non a’ re e alle leggi, come sono quelli che vivono delle entrate loro» 9.

Delle due differenze fra la democrazia moderna e quella antica, la prima fu l’effetto naturale di mutate condizioni storiche, la seconda, invece, fu l’effetto di una diversa concezione morale del mondo. La sostituzione della democrazia rappresentativa alla democrazia diretta fu dovuta a una questione di fatto; il diverso giudizio sulla democrazia come forma di governo implica una questione di principio. La mutata condizione storica fu il passaggio dalla città-stato ai grandi stati territoriali. Lo stesso Rousseau, che pur aveva fatto l’elogio della democrazia diretta, riconobbe che una delle ragioni per cui una vera democrazia non era mai esistita, e mai esisterà, era che essa richiedeva uno stato molto piccolo «in cui sia facile per il popolo radunarsi, e in cui ogni cittadino possa facilmente conoscere tutti gli altri» 10.

Perché si potesse dare un giudizio positivo sulla democrazia bisognava sgombrare il campo definitivamente dal riferimento a un corpo collettivo come il démos, che si presta ad essere interpretato in senso peggiorativo quando lo si scambi, com’è accaduto per lunga tradizione, con la «massa», il «volgo», la «plebe» e simili. La monarchia è la persona del monarca, l’aristocrazia è composta dagli áristoi, e nel linguaggio dei nostri scrittori politici del Cinquecento, dagli ottimati, che non sono un nome collettivo ma il plurale di un nome che designa un ente singolo, l’áristos o l’ottimate. Solo la democrazia, tra le forme di governo, nacque come termine indicante il potere (il krátos) di un corpo collettivo. Vien fatto persino di sospettare che la parola «democrazia» sia sorta già sin dall’inizio con un significato polemico, contrapposta ad «aristocrazia» come governo dei migliori. Certamente polemico è il significato di governo dei poveri contrapposto al governo dei ricchi, per il quale gli antichi già conoscevano il termine piú appropriato «plutocrazia» (in Senofonte), che con un significato polemico viene usato anche nei giorni nostri. Nel famoso libello anti-democratico, una volta attribuito a Senofonte, sulla costituzione di Atene, la penía, la povertà, è considerata un vizio che spinge coloro che ne sono infetti alla turpitudine 11.

L’idea del démos come corpo collettivo deriva dall’immagine della piazza o dell’assemblea quando le si guardino dall’alto. Ma se ci si avvicina, ci si accorge che la piazza o l’assemblea sono composte da tanti individui che, quando esercitano il loro diritto, approvando o disapprovando le proposte degli oratori, contano singolarmente per uno. Dunque anche la democrazia, non diversamente dalla monarchia e dall’aristocrazia, è composta da individui. Ma il nome collettivo occulta la realtà e finisce di far credere che, mentre nei primi due tipi di governo il potere risieda proprio nei soggetti indicati dal nome, nel terzo risiederebbe in un corpo unico, il démos. Di fatto il démos in quanto tale non decide nulla, perché i decisori sono singolarmente presi gli individui che lo compongono. La differenza fra aristocrazia e democrazia non sta nella differenza fra i pochi (individui) e la massa (un ente collettivo), ma fra i pochi (individui) e i molti (individui). Che in una democrazia siano i molti a decidere non trasforma questi molti in una massa che possa essere considerata globalmente, perché la massa, in quanto tale, non decide nulla. L’unico caso in cui si può parlare di decisione di massa è quello dell’acclamazione, che è esattamente l’opposto di una decisione democratica. Un’assemblea popolare è composta di individui né piú né meno di un’assemblea aristocratica.

Nonostante questa tradizione avversa alla democrazia, non manca nel pensiero greco l’idea che il punto di partenza della miglior forma di governo sia l’eguaglianza di natura o di nascita, l’isogonía, che ha fatto tutti gli individui eguali e ugualmente degni di governare. Nel Menesseno platonico c’è un famoso passo in cui Socrate rievoca la vecchia costituzione ateniese, contrapponendola alle altre costituzioni che, presupponendo la disuguaglianza degli uomini per cui alcuni sono servi e altri padroni, hanno dato origine a tirannie o a oligarchie: «Noi e i nostri – conclude –, nati fratelli dalla stessa madre, non pretendiamo d’essere fra noi servi e padroni, ma l’eguaglianza della nascita ci costringe a cercare anche l’eguaglianza legale e a non cedere a nessun altro, fuorché nel pregio della virtú e dell’intelligenza» (239a).

Che quest’idea dell’eguaglianza di natura, l’isogonía, stia a fondamento della democrazia moderna, che sia il fondamento ideale del governo democratico, in quanto governo fondato sopra la concezione radicatissima (anche se continuamente contestata) di una natura che ha fatto gli uomini originariamente eguali, non ha bisogno di commento. Al suo ulteriore radicamento nel pensiero politico dell’Occidente contribuí l’idea cristiana degli uomini fratelli in quanto figli dell’unico Dio: idea, questa della fratellanza degli uomini che, secolarizzata attraverso la dottrina della comune natura umana, giunse sino a costituire uno dei tre principî della Rivoluzione francese. Non a caso queste idee trovarono la loro espressione razionale o razionalizzata nella dottrina giusnaturalistica, le cui riflessioni ebbero inizio partendo dall’individuo singolo come persona morale, dotata di diritti che le appartengono per natura e come tali sono inalienabili e inviolabili.

Merita, invece, se non un commento, una sottolineatura, il fatto che il giudizio positivo sulla democrazia dei moderni dipende essenzialmente dal riconoscimento di questi diritti dell’uomo. La filosofia politica degli antichi non è in prevalenza una filosofia individualistica, e tanto meno atomizzante. La sua ispirazione dominante è quella ben espressa nella tesi aristotelica dell’uomo originariamente animale sociale che vive sin dalla nascita in una società naturale come la famiglia. Questa idea starà alla base della teoria organicistica che ha avuto lunga vita nel pensiero politico dell’Occidente e ha contribuito a mantenere in vita il concetto di popolo come un tutto superiore alle parti, sino alla filosofia romantica tedesca. Da questa, che è l’esatto opposto della filosofia utilitaristica sorta negli stessi anni in Inghilterra, sono nati tanto il Volksgeist della Scuola storica tedesca, quanto la «totalità etica» di Hegel, giú giú sino alla Volksgemeinschaft di triste memoria, non tanto lontana negli anni da poter essere dimenticata, che ha rappresentato la sfida estrema a ogni idea di governo libero fondato sul principio della dignità e della responsabilità individuale 12.

Indipendentemente dal pensiero romantico e neo-romantico, l’idea della sovranità del popolo ebbe origine, e fu tenuta in vita, dalla contrapposizione alla sovranità del principe. Oggi che questa contrapposizione non ha piú ragion d’essere, giacché si tende a non riconoscere altro principio di legittimazione che quello che viene dal basso – tranne in alcuni regimi teocratici, che la coscienza civile contemporanea considera residui del passato –, anche il concetto della sovranità popolare potrebbe essere tranquillamente abbandonato.

Se ancora si vuole parlare, rispetto alla democrazia moderna, fondata sul principio del potere ascendente, di sovranità, intesa come potere originario, principio, fonte, misura di ogni altra forma di potere, la sovranità non è del popolo ma dei singoli individui, in quanto cittadini. «Popolo» non solo è un concetto ambiguo, proprio perché non esiste se non per metafora un tutto chiamato «popolo» distinto dagl’individui che lo compongono, ma è anche un concetto ingannevole: si è sempre parlato di «popolo», a cominciare dal populus romano per passare attraverso il popolo delle città medioevali e arrivare ai governi popolari dell’età moderna, anche quando i diritti politici appartenevano a una minoranza della popolazione. Nella dottrina del diritto pubblico moderno si chiama «popolo» uno degli elementi costitutivi dello stato, abbiano o non abbiano gli individui che lo compongono il diritto activae civitatis. Il popolo è stato considerato sovrano anche quando coloro che partecipavano al potere politico in prima persona o per l’interposta persona del rappresentante, erano una minoranza della popolazione. Di sovranità del popolo si potrebbe parlare appropriatamente soltanto da quando è stato istituito il suffragio universale, ma se n’è parlato anche nei secoli precedenti, a proposito del démos greco e del populus romanus, a proposito di comunità politiche in cui esistevano addirittura gli schiavi, che non avevano nonché i diritti politici neanche quelli civili, dei governi popolari delle città italiane dove popolo era soltanto il popolo grasso distinto dal popolo minuto, del popolo degli stati rappresentativi ben prima che i diritti politici fossero attribuiti a tutti i cittadini maggiorenni d’entrambi i sessi. Come ha scritto uno studioso americano alcuni anni or sono in un libro dedicato al popolo semisovrano: «La definizione classica di democrazia come governo del popolo è in origine predemocratica, fondata su concezioni della democrazia sviluppate da filosofi che non hanno mai avuto l’opportunità di vedere in funzione un sistema democratico» 13.

Per giustificare la non corrispondenza del nome alla cosa si è ripetutamente ricorsi all’espediente di distinguere il vero popolo dal falso popolo, il démos dall’óchlos, il populus dalla plebs, il peuple dalla populace, reintroducendo una maggiore distinzione, quella fra una parte buona e una parte cattiva della società, sulla quale è sempre stata fondata la legittimità dei governi aristocratici. Nelle Istorie fiorentine Machiavelli scrive: «Di Firenze in prima si dividono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe» 14.

Nella democrazia moderna il sovrano non è il popolo ma sono tutti i cittadini. Il popolo è un’astrazione, comoda ma anche, come ho detto, fallace; gli individui, coi loro difetti e coi loro interessi, sono una realtà. Non a caso stanno a fondamento delle democrazie moderne le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, sconosciute alla democrazia degli antichi. La democrazia moderna riposa sopra una concezione individualistica della società. Che poi questo individualismo sia proposto e rivendicato in nome della teoria utilitaristica della felicità del maggior numero oppure della teoria dei diritti dell’uomo, per accennare rapidamente alla disputa di questi anni fra chi ha accolto e difeso i principî dell’utilitarismo e chi protesta mettendo innanzi i diritti «da prendere sul serio», è un tema che qui può essere trascurato, perché ciò che mi preme mettere a fuoco è il posto centrale che occupa l’individualismo nel dibattito contemporaneo, quale che ne sia il fondamento.

Da ricordare, se mai, che all’origine dell’individualismo è sia un’ontologia sia un’etica: un’ontologia, in quanto s’incardina su una concezione atomistica della società, quale compare tanto nella ricostruzione dello stato di natura che precede lo stato civile nella filosofia politica da Hobbes a Kant, quanto nella fondazione della nuova scienza, l’economia politica, il cui attore principale è l’homo oeconomicus, deriso da Marx che individualista non era; un’etica, preciso, in quanto all’individuo umano, a differenza da tutti gli altri esseri del mondo naturale, viene attribuita una personalità morale che, per esprimersi in termini kantiani, ha una dignità, e non un prezzo.

Ora, messi da parte questi presupposti diventati ostici a una concezione laica della società, la concezione individualistica ha indossato le vesti piú dimesse dell’individualismo metodologico, ovvero della dottrina secondo cui la prevalente concezione prammatica della scienza prende le mosse per analizzare la società dalle azioni degli individui piuttosto che dalla società considerata come un tutto superiore alle sue parti. Individualistici in questo senso sono due fra i piú complessi sistemi sociologici del nostro secolo, quello di Pareto e quello di Weber. Oggi l’individualismo sta alla base dello studio delle decisioni collettive: le scelte di questo o quel gruppo vengono analizzate partendo dalle scelte dei singoli decisori. Sarà bene a ogni modo non dimenticare, per prevenire ogni indebita assolutizzazione di un metodo, che l’individualismo metodologico è nato in seno agli studi economici, e qui ha la sua forza operativa (non a caso Pareto e Weber erano due sociologi economisti) e che non può essere trapiantato in altri campi dove fenomeni collettivi, come il linguaggio e in parte anche il diritto, non possono essere spiegati a partire dall’individuo e dalle sue scelte, e in quanto tali hanno sempre alimentato e legittimato, con un’assolutizzazione in senso contrario e altrettanto scorretta, teorie organicistiche.

Mi s’intenda bene, la concezione individualistica di cui stiamo parlando nelle tre diverse dimensioni, ontologica, etica, metodologica, non prescinde dalla considerazione che l’uomo è anche un essere sociale, né considera l’individuo isolato, micro e macrocosmo insieme, alla maniera di Stirner, in generale dell’anarchismo filosofico. C’è individualismo e individualismo. C’è l’individualismo della tradizione liberale-libertaria e quello della tradizione democratica. Il primo recide il singolo dal corpo organico della società e lo fa vivere fuori dal grembo materno immettendolo nel mondo sconosciuto e pieno di pericoli della lotta per la sopravvivenza, dove ognuno deve badare a se stesso, in una lotta perpetua, esemplificata dall’hobbesiano bellum omnium contra omnes. Il secondo lo ricongiunge ad altri individui simili a lui, che considera suoi simili, perché dalla loro unione la società venga ricomposta non piú come il tutto organico da cui è uscito ma come un’associazione di individui liberi. Il primo rivendica la libertà dell’individuo dalla società. Il secondo lo riconcilia con la società facendo della società il risultato di un libero accordo tra individui intelligenti. Il primo fa dell’individuo un protagonista assoluto, al di fuori di ogni vincolo sociale. Il secondo lo fa protagonista di una nuova società che sorge dalle ceneri dell’antica, in cui le decisioni collettive sono prese dagli stessi individui o dai loro rappresentanti.

Su quale sia la democrazia del futuro, uno storico, in generale uno scienziato sociale, che non solo non pretende ma non vuole neppure correre il rischio di fare profezie, può avanzare soltanto qualche timida previsione. La profezia è categorica, la previsione è ipotetica. A differenza della storia che non si può fare coi «se», la previsione si può fare soltanto coi «se». La sola affermazione lecita allo studioso dei fenomeni, sociali (esito sempre a parlare di «scienziato» sociale perché le cosiddette scienze sociali sono ancora immerse nell’universo del press’a poco) è che, se si avverano certe condizioni, è probabile che ne derivino certe conseguenze. Ma sull’avverarsi delle condizioni, che dipende dalla continuità, dalla costanza, dalla linearità di una determinata tendenza che si è creduto di scoprire e si è riusciti anche a determinare con una certa precisione, la scienza sociale deve procedere, se non vuole andare incontro a clamorosi insuccessi, coi piedi di piombo. Per fare un esempio di attualità, si può stabilire un nesso fra crescita demografica e aumento del consumo delle risorse necessarie alla sopravvivenza, e pronunciarsi sulle conseguenze che potrebbero derivare da uno sviluppo ineguale dei due processi, ma sarebbe rischioso asseverare la ineluttabilità delle due tendenze. Di fatto le previsioni compiute in anni recenti sui limiti dello sviluppo non hanno avuto piena conferma. Piú che previsioni si sono rivelate profezie (sbagliate).

Rispetto alle due differenze fondamentali fra democrazia degli antichi e dei moderni, di cui ho discorso sinora, si può timidamente prevedere che la democrazia del futuro goda dello stesso giudizio di valore positivo della seconda pur tornando in parte, attraverso l’allargamento degli spazi della democrazia diretta, reso possibile dalla diffusione dei calcolatori elettronici, alla prima 15.

Eppure nel suo ultimo scritto prima di morire Gino Germani si era posto la domanda: «Può la democrazia sopravvivere?» 16. Rispondeva mettendo in evidenza quattro ragioni per cui era lecito affermare che i regimi democratici erano in zona di pericolo. Di queste ragioni tre sono interne, una esterna. Le tre interne sono, secondo Germani, l’eccesso di mutamento, la vulnerabilità del sistema, il paradosso tecnocratico. Per eccesso di mutamento intendeva la contraddizione fra il continuo mutamento delle regole di comportamento, caratteristico delle società secolarizzate (le sole in cui si sono imposti regimi democratici duraturi) in confronto con le società tradizionali, e la necessità in cui ogni società si trova di mantenere un nucleo di principî fissi attraverso i quali possa avvenire quel tanto di integrazione sociale senza la quale nessuna società può sopravvivere. La vulnerabilità della democrazia dipenderebbe dalla frammentazione del potere che consente a piccoli gruppi organizzati di inferire colpi mortali alla società costretta per difendersi ad autonegarsi. Parlando di paradosso tecnocratico, Germani si riferiva alla contraddizione crescente fra l’esigenza del controllo popolare, su cui si regge un regime democratico, e la necessità che ogni società avanzata ha di prendere decisioni in materie che richiedono conoscenze sempre piú specialistiche, inaccessibili alle masse.

I pericoli denunciati sono tutti reali, chi potrebbe negarlo? Sta di fatto però che da quando Germani scrisse il saggio, non solo le democrazie esistenti non sono crollate, neppure le piú fragili come quella italiana, ma è avvenuto in molti paesi dell’Europa, ed è in corso nell’America latina, il passaggio da regimi autoritari a regimi democratici. E poi, che cosa rappresentano i moti di rivolta che hanno scosso e continuato a scuotere l’impero sovietico se non richieste di rinnovamento democratico?

Perché questo divario fra previsione e accadimenti reali? Le nostre osservazioni che sembrano ragionevoli sotto forma d’ipotesi, di se-allora, o non tengono conto di tutte le condizioni, vale a dire di tutti i «se», perché scegliamo quelli che ci permettono di trarre le conclusioni emotivamente preferite (la conclusione catastrofica anziché quella a lieto fine o viceversa), oppure accade che tra le ipotesi e le conclusioni intervengano processi di autoregolazione o di adattamento che non sono stati previsti.

Quanto al fattore esterno, dipendente dal sistema internazionale, Germani riteneva che la sempre piú estesa e inevitabile internazionalizzazione della politica estera favorisse piú le soluzioni autoritarie che non quelle democratiche. Dei pericoli cui va incontro la democrazia, probabilmente questo è il maggiore. La politica interna è oggi piú che mai determinata dalla politica internazionale e dalla costellazione d’interessi delle potenze egemoni nell’ambito delle quali gli stati non egemoni sono costretti a vivere: dico «costretti», perché la collocazione di uno stato non egemone in una certa sfera d’influenza non è quasi mai oggetto di libera scelta del governo di quello stato e tanto meno del popolo o dei cittadini. Tutti gli argomenti che si vogliono addurre per sottolineare la ingovernabilità delle democrazie appaiono quasi irrilevanti di fronte alla ingovernabilità del sistema internazionale. La quale ha inevitabilmente un contraccolpo sulla struttura del sistema interno.

È nostra esperienza di tutti i giorni che il settore delle decisioni politiche maggiormente sottratte al dibattito pubblico, che contraddistingue la democrazia, è quello che riguarda gli affari internazionali. La politica estera è rimasta una sfera riservata, di fatto se non di diritto, all’esecutivo, ed è anche quella in cui hanno maggiore libertà di movimento i servizi segreti che sono collegati, segretamente, com’è naturale, a servizi segreti di altre nazioni in un reticolo di canali sotterranei il cui accesso è precluso al cittadino qualunque, che decade in questa situazione da sovrano a suddito. Di tutto ciò che si decide, o si trama, in questo sottosuolo il popolo sovrano non sa assolutamente nulla, e quello che sa è quasi sempre sbagliato. Vi sono due modi per non far conoscere agli altri le proprie intenzioni: non manifestarle o mentire. Sta diminuendo la fiducia nell’efficacia dell’opinione pubblica che dovrebbe essere il baluardo della democrazia. A maggior ragione c’è da dubitare dell’efficacia dell’opinione pubblica negli affari internazionali. Quando arriva a scoprire uno scandalo arriva in ritardo.

La vera sfida alla democrazia del XX secolo è quella che viene dall’esterno. Non tanto per le ragioni addotte in un libro provocatorio come quello di François Revel, secondo cui le democrazie non sanno difendersi 17 (nei riguardi del fascismo e del nazismo si sono difese benissimo e li hanno sconfitti), ma per una ragione ben piú sostanziale. Sino a che uno stato democratico vive in una comunità cui appartengono stati non democratici ed è essa stessa non democratica, anche il regime degli stati democratici sarà solo una democrazia incompiuta.

Il fondamento di una società democratica è il patto di non aggressione di ognuno con tutti gli altri e l’obbligo di obbedienza alle decisioni collettive prese in base alle regole del gioco di comune accordo prestabilite, delle quali la principale è quella che permette di risolvere i conflitti di volta in volta sorgenti senza ricorrere alla violenza reciproca. Ma tanto il patto negativo di non aggressione quanto quello positivo di obbedienza, per essere, oltre che validi, anche efficaci, debbono essere garantiti da un potere comune. Col patto di non aggressione reciproca gli individui escono dallo stato di natura; col patto di obbedienza alle regole di comune accordo stabilite costituiscono una società civile. Ma solo istituendo un potere comune dànno vita a uno stato (che non è necessariamente democratico).

Nel sistema internazionale si può ben dire che alla base dello statuto delle Nazioni Unite c’è stato un patto di non aggressione, in un primo tempo fra le potenze vittoriose, poi a poco a poco esteso a tutti gli stati della terra, compresi i vinti, e aggiungere che nel momento in cui ogni stato entra a far parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite s’impegna a ubbidire alle decisioni che verranno prese dagli organi statutari a ciò delegati. Ma non ha avuto alcun successo l’istituzione di un potere comune al di sopra delle parti contraenti. Là dove c’è la comunanza come nell’Assemblea in cui tutti gli stati hanno lo stesso diritto di voto, non c’è il potere. Là dove ci potrebbe essere il potere, nel Consiglio di sicurezza, non c’è la comunanza (la comunanza esclude il diritto di veto). Senza potere comune non vi è alcuna garanzia che il patto di non aggressione sia rispettato e l’obbedienza alle decisioni assicurata.

Una società tendenzialmente anarchica, come quella internazionale, che poggia ancora sul principio dell’autodifesa in ultima istanza, favorisce il dispotismo interno dei suoi membri, o per lo meno ne ostacola il processo di democratizzazione. Mentre il principio cui s’ispira o dovrebbe ispirarsi lo stato democratico è quello della garanzia della massima libertà di ognuno dei suoi cittadini compatibile con la massima libertà di ogni altro, il principio cui è costretto a conformare la propria condotta uno stato in una società di stati non democratica è «salus reipublicae suprema lex», un principio in base al quale la libertà del tutto (leggi «indipendenza») ha la precedenza sulla libertà di tutti. Che poi oggi una grande potenza adduca, invece che la salvezza dello stato, gli «interessi vitali», la cosa non cambia. Quando Machiavelli scrive che là dove è in gioco la salute della patria «non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto», perché quel che conta «posposto ogni altro rispetto» è «seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà» 18, si riferisce alla libertà dello stato non a quella dei cittadini, anzi «posposto ogni altro rispetto» significa anche «posposto il rispetto» della libertà dei cittadini.

Se si accetta questa ipotesi, secondo cui la minaccia a questo o a quello stato attualmente democratico dipende dall’essere ognuno di questi parte di un universo nel suo insieme non democratico, la sfida alla fine del secondo millennio non può essere vinta se non in queste due direzioni: l’ampliamento della sfera degli stati democratici e la democratizzazione del sistema internazionale nel suo complesso. Due processi interdipendenti sia nel senso che dovrebbero rinforzarsi a vicenda, sia nel senso che l’incompiutezza dell’uno determina l’incompiutezza dell’altro.

L’idea del vecchio Kant (vecchio d’età quando scrisse il suo famoso opuscolo sulla pace perpetua, ma non di mente), per cui la condizione preliminare di una pace perpetua diversa da quella dei cimiteri fosse che tutti gli stati avessero egual forma di governo e questa fosse la «repubblica» – quella forma di governo in cui per decidere della guerra occorre l’assenso dei cittadini –, non era il sogno di un visionario. Era una previsione fatta nella forma di ipotesi: se-allora. La pietra d’inciampo è quel «se». Se tutti gli stati fossero repubblicani… Sfortunatamente qui sta uno dei paradossi del nostro tempo (di tutti i tempi), o se volete, il «grattacapo». Gli stati potranno diventare tutti democratici soltanto in una società internazionale democratizzata. Ma una società internazionale democratizzata presuppone che tutti gli stati che la compongono siano democratici.

A questo punto finisce la previsione e comincia la profezia. Per la quale, non essendo di spirito profetico dotato come l’abate Gioacchino, dichiaro la mia completa incompetenza.

II.
DEMOCRAZIA E CONOSCENZA.

Le definizioni di democrazia, come tutti sanno, sono molte. Fra tutte io preferisco quella che la presenta come il «potere in pubblico». Uso questa espressione sintetica per indicare tutti quegli espedienti istituzionali che costringono i governanti a prendere le loro decisioni alla luce del sole e permettono ai governati di «vedere» come e dove le prendono.

Nella memoria storica dei popoli europei la democrazia si presenta la prima volta attraverso l’immagine dell’agorà ateniese, l’adunanza all’aria aperta dove si riuniscono i cittadini ad ascoltare gli oratori e quindi ad esprimere la loro opinione alzando la mano. Nel passaggio dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa (dalla democrazia degli antichi a quella dei moderni) scompare la piazza ma non l’esigenza della «visibilità» del potere, che viene soddisfatta in altro modo, con la pubblicità delle sedute del parlamento, con la formazione di una pubblica opinione attraverso l’esercizio della libertà di stampa, con la sollecitazione rivolta ai leader politici a fare le loro dichiarazioni attraverso il mezzo delle comunicazioni di massa. Con una fiducia che forse oggi non possiamo piú condividere, François Guizot, il primo grande storico del governo rappresentativo, aveva scritto: «La pubblicità dei dibattiti nelle Camere sottopone i poteri all’obbligo di cercare la giustizia e la ragione sotto gli occhi di tutti, allo scopo che ogni cittadino sia convinto che questa ricerca è stata fatta in buona fede» 19. La stessa rappresentanza, com’è stato detto autorevolmente, «può svolgersi solo nella sfera della pubblicità. Non c’è nessuna rappresentanza che si svolga in segreto e a quattr’occhi»; «rappresentare significa rendere visibile […] un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente» 20.

La definizione della democrazia come potere in pubblico non esclude naturalmente che essa possa e debba essere caratterizzata anche in altri modi. Ma questa definizione coglie bene un aspetto per cui la democrazia rappresenta un’antitesi a tutte le forme autocratiche di potere. Il potere ha una tendenza irresistibile a nascondersi. Elias Canetti ha scritto in forma lapidaria: «Il segreto sta nel nucleo piú interno del potere» 21. Si capisce anche perché: chi esercita il potere è tanto piú sicuro di ottenere gli effetti desiderati quanto piú si rende invisibile a coloro sui quali intende dominare. Uno dei temi principali della trattatistica politica dei secoli in cui prevalgono forme di governo autocratiche è quello degli arcana imperii. La ragione principale della asserita necessità del potere di sottrarsi agli sguardi del pubblico sta nel disprezzo del popolo, considerato incapace di capire i supremi interessi dello stato (che sarebbero, a giudizio dei potenti, i suoi propri interessi) e facile preda dei demagoghi. Uno dei temi ricorrenti della critica alla democrazia, che percorre tutta la storia del pensiero politico, dalle famose pagine della Repubblica di Platone sino a Nietzsche, è l’incapacità del volgo di mantenere i segreti che sono necessari alla miglior conduzione della cosa pubblica.

Quando parlo di «potere in pubblico» mi riferisco, sia ben chiaro, al pubblico attivo, informato, consapevole dei suoi diritti, a quel pubblico della cui nascita e del cui sviluppo dall’età dell’illuminismo in poi ha ricostruito la storia Jürgen Habermas in un’opera molto nota e discussa 22, al pubblico nel significato in cui Kant parlava, in un celebre scritto sull’illuminismo, del diritto e dovere dei filosofi di fare un «uso pubblico della propria ragione» 23. Anche il monarca assoluto, l’autocrate, il dittatore moderno, si presenta in pubblico, perché ha bisogno di mostrare i segni visibili della propria potenza. Ma il pubblico cui si presenta è una folla anonima, indistinta, chiamata ad ascoltare e ad acclamare, non a esprimere un’opinione ma a compiere un atto di fede. A questa visibilità puramente esteriore del signore della vita e della morte dei propri sudditi deve far riscontro l’opacità delle decisioni dalle quali la loro vita e morte dipendono.

A questo radicale rovesciamento tra potere visibile e invisibile, concorre un mutamento altrettanto radicale, tipico della filosofia illuministica, nella sfera della conoscenza e dell’atteggiamento dell’uomo di fronte agli arcana naturae, non meno impenetrabili degli arcana imperii. Kant sintetizzò l’essenza della nuova filosofia nel motto oraziano, già riesumato da Gassendi, «Sapere aude», e l’aveva felicemente tradotto cosí: «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» 24. Questa disposizione dell’uomo di ragione si contrapponeva alla disposizione dell’uomo di fede, bene espressa nel detto paolino: «Noli autem sapere sed time» (Rom., 11, 20). Il timor di Dio era servito per secoli a giustificare il timore del sovrano, gli arcana imperii erano stati considerati come una copia degli arcana Dei. La trasgressione del segreto divino e del segreto naturale non poteva non aver per conseguenza la trasgressione del segreto politico. Gran parte della storia del pensiero politico può essere interpretata come un continuo tentativo da parte dei sudditi di strappare i veli o le visiere o le maschere dietro cui si nascondono i detentori del potere, di estendere l’area del potere visibile rispetto a quella del potere invisibile. Muovendo dalla definizione di democrazia da cui sono partito si potrebbe ridefinirla idealmente come quella forma di governo in cui anche le ultime fortezze del potere invisibile sono state espugnate e il potere, come la natura, non ha piú segreti per l’uomo. Sappiamo che questa mèta ideale è irraggiungibile. Appartiene all’essenza stessa del potere di occultarsi. Ma ciò non toglie che la diversa estensione delle due sfere, rispettivamente del potere visibile e del potere invisibile, sia uno dei criteri che permette una netta distinzione fra governo democratico e autocratico.

Alla strategia del potere autocratico appartiene non soltanto il non dire, ma anche il dire il falso: oltre il silenzio, la menzogna. Quando è costretto a parlare, l’autocrate può servirsi della parola non per manifestare in pubblico le proprie reali intenzioni ma per nasconderle. Può farlo tanto piú impunemente quanto piú i sudditi non hanno a disposizione i mezzi necessari per controllare la veridicità di ciò che gli è stato detto. Fa parte della precettistica dei teorici della ragion di stato la massima che al sovrano è lecito mentire. Che al sovrano fosse lecita la «menzogna utile» non lo aveva detto soltanto il «diabolico» Machiavelli. Ma anche Platone, ma anche Aristotele, anche Senofonte. Una delle virtú del sovrano è sempre stata considerata quella di saper simulare, cioè di far apparire quello che non è, e di saper dissimulare, cioè di non far apparire quello che è. Jean Bodin, che pure si professa ardentemente antimachiavellico, riconosce che Platone e Senofonte permettevano ai magistrati di mentire come si fa «coi bambini e coi malati» 25. Il paragone dei sudditi coi bambini e coi malati si commenta da sé. Le due immagini piú frequenti in cui si riconosce il governante autocratico è quella del padre o del medico: i sudditi non sono cittadini liberi e sani. Sono o dei minorenni da educare o dei malati da curare. Ancora una volta l’occultamento del potere trova la propria giustificazione nella insufficienza se non addirittura nella indegnità del popolo. Il popolo, o non deve sapere, perché non è in grado di capire, o deve essere ingannato, perché non sopporta la luce della verità.

Affinché si potesse indirizzare alla scoperta degli arcana imperii il comandamento «Sapere aude», occorreva un completo rovesciamento dell’immagine del potere: bisognava cominciare a guardarlo non piú dall’alto in basso ma dal basso in alto.

Sarebbe un errore credere che il governo autocratico escluda ogni forma di sapere rivolta allo studio della società e dello stato. In realtà è sempre vero che il sapere è potere, che ognuno piú può quanto piú sa. Ma resta pur sempre aperta la domanda: il potere di chi? Per secoli, gli scrittori politici hanno osservato il fenomeno del potere piú dal punto di visita del governante, che non da quello del governato, ex parte principis piú che ex parte populi. La cosiddetta scienza della politica è stata piú che una scienza nel senso odierno della parola, vale a dire una ricerca disinteressata, wertfrei, oggettiva e condotta con metodo, un’arte di governo, vale a dire una serie di precetti indirizzati ai detentori del potere sul miglior modo di conquistarlo e di conservarlo dopo averlo conquistato. I problemi classici della politica, a cominciare da Platone, passando per Aristotele, Cicerone, gli scrittori medioevali, sino a Machiavelli, Bodin, Hobbes, i teorici della ragion di stato, e perché no? sino a Hegel, sino agli elitisti contemporanei, riguardano essenzialmente i diritti e i doveri dei governanti, la natura e la distribuzione delle diverse cariche dello stato, la stabilità o instabilità dei governi, e i diversi modi di assicurare la prima o di evitare la seconda. Alla trattazione dei diritti e dei doveri dei sovrani non corrispondeva di solito un’altrettanto accurata trattazione dei diritti e dei doveri degli individui. Il problema dei limiti del potere sovrano veniva esaminato non tanto rispetto agli eventuali diritti dei singoli individui quanto rispetto ad altri poteri sovrani come sono quelli degli altri stati o, nella lunga controversia medioevale sulle due Potestà, della Chiesa come istituzione anch’essa dotata di sovranità.

Per fare qualche esempio, la scienza regia cui Platone dedica il dialogo Il Politico è la scienza che deve insegnare al sovrano come esercitare il potere rendendo giustizia: il governante è paragonato al tessitore, cioè a un artigiano il cui successo dipende esclusivamente dalla propria abilità. Il paragone corrente del governante col timoniere illustra ancor meglio sia l’assimilazione dell’agire del politico a quello di chi ha acquisito una particolare abilità, ovvero la convinzione diffusa che la politica sia una tecnica e come tale si possa insegnare e trasmettere, sia la natura del rapporto fra chi ha il diritto di comandare perché conosce il mestiere e chi non ha altro dovere che quello di eseguire gli ordini. Se il governante è il nocchiero, i governati sono la ciurma. Vi è un celebre passo nel sesto libro della Repubblica, dove Platone descrive efficacemente che cosa succede quando i marinai vogliono sostituirsi al loro comandante. Hobbes si occupa dei sudditi solo per mettere in guardia il sovrano contro la sfrenatezza del popolo e per suggerire il miglior modo di mettergli la briglia sul collo: Hobbes ritiene di essere stato il primo a costruire una scienza politica vera e veramente dimostrata (doctrina civilis vera et vere demonstrata) e vorrebbe che fosse insegnata in tutte le università per mettere finalmente al bando le teorie sediziose che incitano il popolo alla disobbedienza. Come si vede, a una concezione assolutistica del potere si accompagna una concezione assolutistica del sapere. Nelle sue lezioni di filosofia del diritto all’Università di Berlino, Hegel, che presenta la sua filosofia come un sapere assoluto, afferma che con la parola «popolo» si designa una parte specifica dei componenti di uno stato, «la parte che non sa quel che vuole»: il sapere ciò che si vuole «è il frutto di profonda conoscenza e intellezione, che appunto non son cose del popolo» 26.

Affinché la scienza politica cominciasse a guardare al problema del potere anche dall’altra parte, ovvero dalla parte degli individui, fu necessaria una vera e propria rivoluzione copernicana, la stessa rivoluzione copernicana che avvenne nel campo della scienza naturale quando si cominciò a guardare alla natura non dal punto di vista di Dio che ne è il creatore e il padrone ma dal punto di vista dell’uomo che si sforza di decifrarne il mistero. Il capovolgimento fu prima di tutto morale, prima morale che intellettuale, anche se vi recò il suo contributo la prima scienza sociale, l’economia politica, il cui punto di partenza non fu piú la società nel suo complesso di cui lo stato, nella prevalente concezione organicistica della società, è la testa o la mente o l’anima, ma il singolo individuo, l’homo oeconomicus, che viene in rapporto con gli altri individui per scambiare i propri beni e provvedere al proprio sostentamento. Questo rivolgimento morale ebbe origine col cristianesimo e trovò la sua espressione filosofica o razionale nelle dottrine giusnaturalistiche, le cui riflessioni ebbero inizio partendo dall’individuo singolo come persona morale, dotata di diritti che gli appartengono per natura e come tali sono inalienabili e inviolabili, in contrasto con le dottrine politiche degli antichi che partivano dall’uomo sociale, vivente sin dall’origine in una società naturale come la famiglia. La prima conseguenza di questo diverso punto di partenza fu la concezione dello stato non come un fatto naturale ma come il prodotto della volontà concorde degli individui che liberamente decidono di farlo nascere e di sottoporvisi volontariamente. Considerato lo stato come il prodotto artificiale di una volontà comune, segue che d’ora innanzi il vero protagonista del sapere politico sarà non piú lo stato ma l’individuo.

Su questa base individualistica nasce la democrazia moderna. All’origine l’individualismo è un’ontologia e un’etica: un’ontologia in quanto s’incardina in una concezione atomistica della società (e della natura) contrapposta alla concezione organicistica prevalente, un’etica in quanto l’individuo umano, a differenza di tutti gli altri enti del mondo naturale, ha un valore morale, per esprimerci in termini kantiani, una dignità e non soltanto un prezzo. All’arrivo, cioè ai giorni nostri, l’individualismo è diventato un metodo (mi riferisco al cosiddetto «individualismo metodologico» difeso da sociologi ed economisti in questi anni), vale a dire l’espressione della preferenza, con tutte le conseguenze che ne derivano, per lo studio dei fenomeni sociali partendo dalle azioni individuali piuttosto che dalle varie forme di società nel loro insieme. Qui m’importa soprattutto sottolineare che nell’una o nell’altra di queste forme la teoria individualistica della società accompagna la formazione della democrazia moderna. Una teoria della democrazia è, a mio parere, inscindibile da una concezione individualistica della società. Che poi questo individualismo si esprima nella teoria dei diritti dell’uomo oppure nella teoria utilitaristica della felicità del maggior numero, per accennare brevemente all’antica demolizione compiuta da Bentham delle Dichiarazioni dei diritti e alla disputa di questi anni tra chi ha ripreso e approfondito i principî dell’utilitarismo e chi protesta in nome dei diritti che debbono essere «presi sul serio» 27, è un problema che qui può essere tralasciato, perché non ha particolare incidenza sul tema che sto discutendo. Basti dire che tanto la dottrina dei diritti dell’uomo quanto la filosofia utilitaristica sono le due vie maestre attraverso le quali si giunge a porre i fondamenti teorici della democrazia moderna.

Il potere autocratico ostacola la conoscenza della società, il potere democratico, invece, in quanto è esercitato dall’insieme degli individui cui una delle principali regole del regime democratico attribuisce il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle decisioni collettive, la esige. Il cittadino deve «sapere», o per lo meno deve essere messo in condizioni di sapere. Se pure con una certa enfasi, alla scienza politica, nel momento della sua nascita, in un momento di entusiasmo illuministico, che oggi si è in parte spento, è stato attribuito addirittura il compito di «educazione della cittadinanza». Non è un caso che il complesso di conoscenze, raccolte con i metodi propri della «scienza», dall’economia all’antropologia, dalla politica alla sociologia, che oggi comprendiamo sotto il nome di scienze sociali, si sia sviluppato e diffuso in concomitanza dello sviluppo e della diffusione dei governi liberi, a cominciare dall’Inghilterra, dove John Stuart Mill scrisse nel 1843 il primo grande trattato di logica induttiva 28 in cui accolse ed esaminò accanto alle scienze fisiche piú antiche le piú recenti scienze morali (come allora si chiamavano). Fu in Inghilterra che Marx scrisse la sua opera fondamentale di critica della società capitalistica. Nell’età contemporanea, i paesi che hanno avuto governi autoritari sono i paesi in cui le scienze sociali non si sono sviluppate o, anche là dove erano sorte da tempo, il loro sviluppo è stato arrestato. Quando vengono insegnate, vengono trasformate in strumenti di propaganda, e cosí deviate dai loro fini naturali, in una parola pervertite. (Quando ero studente, nelle nostre università la scienza politica era stata sostituita dalla dottrina del fascismo, il cui esame era obbligatorio, e non solo per gli studenti delle facoltà umanistiche. Nei paesi sottoposti ai regimi comunistici s’insegna il marxismo-leninismo).

Ho parlato sinora soprattutto di scienza politica, ma non l’ho fatto soltanto per una deformazione professionale. Per secoli la sola scienza sociale è stata la scienza politica, il cui nome risale ai Greci. Il termine «sociologia», come tutti sanno, è apparso con Comte all’inizio del secolo scorso. In realtà per i Greci non c’era differenza fra il «politico» e il «sociale». La pólis era la società per eccellenza. Dei gruppi sociali, delle società particolari, che oggi costituiscono il principale oggetto della sociologia, Aristotele si occupa nel capitolo dell’Etica Nicomachea dedicato all’amicizia. Gli scrittori medioevali a cominciare da san Tommaso traducono l’espressione «politikòn zóon» in «animal politicum et sociale». La società politica o civile è stata per secoli la società per eccellenza. Vi si contrapponeva non una società naturale ma lo stato di natura asociale, come se fra la società senza stato e lo stato non vi fosse alcuna sfera intermedia. L’unica società intermedia conosciuta era la famiglia, interpretata come uno stato in nuce, mentre lo stato veniva interpretato a sua volta come una famiglia in grande. Accanto alla scienza politica l’unica altra scienza riconosciuta era l’economia, intesa appunto come scienza del gruppo familiare e sempre considerata, da Aristotele a Hegel, come un capitolo della scienza o della filosofia politica. Per Hegel il punto di vista politico era ancora cosí esclusivo da indurlo a tracciare le linee generali della filosofia della storia secondo la successione delle forme di governo (dispotismo, repubblica, monarchia), quando ormai era stata tracciata un’altra storia delle fasi attraverso cui sarebbe passata l’umanità dal punto di vista delle forme economiche (pastorale, agricola, mercantile).

La nascita della scienza sociale, come distinta in un primo tempo dalla scienza politica e in un secondo tempo (ad esempio con Marx) comprensiva anche della scienza politica, avviene con l’emancipazione della società borghese dallo stato, la cui prima manifestazione è costituita dal formarsi della scienza economica, non piú intesa come scienza della casa o della famiglia. Quale contributo abbia dato Marx a questa operazione è ben noto, senza dimenticare da un lato Saint-Simon, il sansimonismo e lo sviluppo del libero associazionismo che sorge in antitesi al prepotere statale, dall’altro le famose analisi di Tocqueville sulla importanza delle associazioni volontarie nella formazione della democrazia americana. Ma questa emancipazione è avvenuta lentamente, tanto lentamente che ovunque sono state istituite, nel secolo scorso e in questo, facoltà universitarie dedicate allo studio dei fenomeni sociali, distinte dal tradizionale studio del diritto, sono state generalmente chiamate facoltà di Scienze politiche, come in Italia. In realtà le facoltà di Scienze politiche sono oggi, e non possono non essere, facoltà di scienze sociali e politiche.

L’impossibilità di distinguere il politico dal sociale è una mia vecchia convinzione. Quando nel 1972 fui invitato a tenere un discorso in seguito alla istituzione in Italia delle facoltà di Scienze politiche 29, lamentavo che tutti gli «indirizzi» in cui vennero articolate fossero stati presentati come una specificazione della categoria politica in generale («politico-amministrativo», «politico-economico» e cosí via). Dissi che insegnando scienza politica avevo sempre sentito il bisogno di fare un passo indietro verso la società sottostante, non diversamente dagli storici che erano passati dalla storia soltanto politica alla storia sociale. Sottolineavo il fatto che uno dei caratteri della società moderna, in modo particolare delle società democratiche, che avevano favorito il sorgere dello studio dei fenomeni sociali, era la caduta del «primato» della politica. Spiegavo che «caduta del primato della politica» non significa affatto affievolimento, e tanto meno estinzione dello stato, secondo quello che avevano affermato concordemente tutte le dottrine utopistiche del secolo scorso. Volevo dire che i rapporti di potere esistenti in una qualsiasi società non sono soltanto rapporti di potere politico e le istituzioni politiche costituiscono soltanto una rete che stringe insieme le varie componenti sociali. Se si vuole percepire che cosa sia una società umana nella sua storia e nella sua struttura, non basta guardare il vertice, ma occorre scendere dalla cosiddetta «classe politica» alle classi sociali. Non basta studiare i meccanismi istituzionali, ma occorre osservare in quali condizioni essi lavorino, e se la dinamica di questi meccanismi non sia resa molto piú difficile da capire per la reale influenza di poteri non immediatamente visibili ma sostanzialmente determinanti.

Ciò che accomuna tutte le scienze sociali, donde nasce l’opportunità, se non la necessità, di comprenderle tutte insieme nell’universo di una facoltà o di un dipartimento, è il modello di scienza cui esse s’ispirano, che è il modello tradizionale delle scienze empiriche, riveduto e corretto attraverso le critiche che l’epistemologia empiristica ha ricevuto da varie parti senza esserne stata, a mio parere, travolta. Quando parlo di modello delle scienze empiriche non lo intendo nel senso del vecchio positivismo per cui «il fatto è divino». Oggi sappiamo benissimo che «nel sapere scientifico i dati non sono separabili dalle teorie né può parlarsi di un linguaggio osservativo rigorosamente distinto dal linguaggio teorico» 30, e pertanto i dati possono essere diversamente interpretati secondo le teorie che vengono adottate. Se ciò deve indurci ad abbandonare la fiducia cieca nei risultati del sapere scientifico, che ha costituito tanta parte della filosofia della scienza nell’età moderna, dal razionalismo del Sei e Settecento al positivismo ottocentesco, non deve spingerci a rinunciare a questa grande avventura del pensiero umano cui diamo il nome di scienza, e tanto meno al modello delle scienze empiriche la cui, anche imperfetta, attuazione ci permette di uscire da quello che è stato chiamato l’universo del «press’a poco», e di non affidare le nostre decisioni pratiche all’intuizione, all’opinione, alla verità accettata per pura fede. In questi anni si è passati con troppa facilità, con troppa disinvoltura, con troppa furia iconoclastica, dalla critica di questa o quella tesi che pretendeva di essere scientifica alla critica della scienza in generale. La crisi del positivismo, del suo ideale di scienza, e del marxismo per effetto delle sue previsioni fatte in nome di una pretesa scienza infallibile, non hanno niente a che vedere con la proclamata crisi del sapere scientifico. Positivismo e marxismo sono due filosofie o concezioni del mondo, che possono aver guidato l’impresa scientifica in una direzione piuttosto che in un’altra ma non l’hanno alterata. La scienza in quanto tale non è né positivistica né marxistica. Un «ismo», quale che sia, non si addice alla scienza: l’«ismo» è statico, la scienza è sempre in movimento. L’ismo fa appello alla nostra facoltà di desiderare, la scienza unicamente al nostro desiderio di conoscere. Che la ricerca scientifica possa essere utilizzata per fini immorali (ma ciò riguarda piú la tecnica che la scienza) non dipende dalla scienza che è un insieme di regole per ben condurre la nostra intelligenza, ma da questo o quel gruppo di scienziati che applica o anela ad applicare le tecniche della ricerca scientifica allo studio di problemi la cui soluzione può avere effetti socialmente dannosi.

Tutto ciò che si è detto e scritto sulla non-avalutatività della scienza a me è sempre parso un cumulo d’insensatezza. La scienza è per definizione l’insieme delle tecniche di ricerca che debbono servire a restringere al massimo grado l’intervento delle nostre preferenze o dei nostri giudizi di valore. Che per lo scienziato sociale questo atteggiamento sia piú difficile che per un fisico o un biologo, non vuol dire che le scienze sociali possano pretendere alla qualifica di scienza presupponendo o includendo surrettiziamente giudizi di valore. Che poi lo scienziato sociale abbia i suoi ideali e utilizzi i risultati della ricerca per difenderli o per combattere quelli degli avversari, è un problema totalmente diverso che non riguarda la scienza ma i risultati pratici che se ne possono trarre.

I risultati pratici. Questo è il grande problema. Sul quale vorrei terminare il mio discorso. L’ideale di una politica scientifica, vale a dire di un’azione politica guidata dalla scienza, percorre tutta la storia del pensiero politico. A cominciare da Platone che vagheggiava, salvo a ricredersi dopo le disillusioni in Sicilia, il governo dei filosofi. Nel secolo scorso vi credettero fermamente tanto i positivisti, da Comte ai darwinisti sociali, quanto Marx e i marxisti. L’ideale della politica scientifica era strettamente legato al mito del progresso irreversibile, di cui la prova irrefutabile era il progresso della scienza che si credeva fosse la condizione necessaria del progresso politico e morale dell’umanità. Gaetano Mosca, che era filosoficamente un positivista, credeva che i progressi delle scienze storiche e sociali fossero ormai giunti a tal punto, da «rendere possibile alla generazione presente e a quelle immediatamente successive […] la creazione di una vera politica scientifica» 31. Alla scienza politica attribuiva due compiti, uno negativo, sgombrare il campo della politica dalle dottrine erronee, corruttrici e sobillatrici, uno positivo, consistente nel formulare proposte fondate sull’indagine scrupolosa dei fatti che permettessero alla maggioranza governata di chiedere e alla minoranza governante di concedere soltanto riforme ragionevoli. Alla scienza politica cosí intesa Mosca attribuiva una funzione essenzialmente antirivoluzionaria. In un pensiero della tarda vecchiaia quando l’Italia aveva avuto l’esperienza amara di un passaggio repentino da una rivoluzione minacciata a una controrivoluzione riuscita si abbandonò a questo vero e proprio «sogno di un visionario»: «Finalmente il secolo ventesimo, e forse anche il ventunesimo, potranno far progredire talmente le scienze sociali che si troverà il modo di trasformare lentamente una società senza che essa decada ed evitando le crisi violente che spesso accompagnano la decadenza» 32. Non ignorava però che la lezione della storia andava in senso opposto. Infatti, diceva anche: «È certo che tutte le dottrine religiose e politiche, che hanno cambiato la storia del mondo […], non sono state fondate sulla verità scientifica. La causa vera del loro trionfo o della loro rapida diffusione bisogna piuttosto cercarla nell’attitudine che hanno avuto a soddisfare certe tendenze intellettuali e morali delle masse» 33. Non riesco a capire come potesse conciliare la fiducia nella politica scientifica con la convinzione che le masse si muovono soltanto spinte da miti irrazionali. In realtà, le due affermazioni non sono conciliabili: la seconda esprimeva una certezza, la prima soltanto una speranza.

Piú che una speranza, un’illusione. Non esiste un rapporto immediato tra conoscenza e azione, fra teoria e prassi. Lo scienziato e il politico hanno tempi diversi: il primo può concedersi tempi lunghi; il secondo deve quasi sempre decidere in stato di necessità e di urgenza. Anche le loro responsabilità sono diverse. La responsabilità dello scienziato è quella di chiarire i termini di un problema, quella del politico è di risolverlo con una decisione, che non può essere rinviata all’infinito (in genere la decisione di non decidere non è una buona decisione, anche se frequentemente praticata). Lo scienziato può permettersi di dire: questo problema è allo stato delle nostre conoscenze insolubile, oppure è risolvibile ma mi occorrono anni di ricerca. Il politico è costretto dalle circostanze a prendere una decisione qualunque essa sia; spesso meglio una cattiva decisione che nessuna decisione. Ma una soluzione di questo genere è totalmente contraria all’etica dello scienziato. Soprattutto è diversa la loro funzione: quella del politico è di risolvere conflitti, che, non risolti, conducono una società alla perdizione; quella dello scienziato è non soltanto di chiarire i termini di un problema, ma anche di educare direttamente coloro che si dedicano a questi studi, e indirettamente il pubblico in generale, al giudizio ponderato, alla libera critica, al rifiuto delle idee tramandate, all’esigenza di conoscere prima di deliberare. Che è compito, come tutti possono vedere, a lunga scadenza, i cui effetti non sono né immediatamente né facilmente valutabili.

Diffidente nei riguardi dell’utopia platonica del filosofo-re, ma anche di quella contraria del re-filosofo, mi sono sempre inchinato con rispetto di fronte all’affermazione kantiana: «Non c’è da attendersi che i re filosofeggino o i filosofi diventino re, e neppure da desiderarlo, poiché il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione» 34. A me questa affermazione pare molto bella. Il possesso della forza (e ancora di piú l’uso) corrompe. È bene che in ogni società vi siano persone che possano fare libero uso della loro ragione senza possedere altra forza che quella che deriva dai buoni argomenti. Sono i «profeti disarmati» che Machiavelli derideva. Sommamente auspicabile è quella società in cui i profeti disarmati non solo sono tollerati ma sono protetti dalle pubbliche autorità. Ma quale pubblica autorità li può veramente tollerare e proteggere se non quella che è fondata sul riconoscimento dei diritti dell’uomo, di cui il primo, onde tutti gli altri derivano, è la libertà di opinione?

È vero, il rapporto fra libera scienza e politica non è immediato. Ma governo democratico e libera scienza non possono stare l’uno senza l’altra. La democrazia consente il libero sviluppo della conoscenza della società, ma la libera conoscenza della società è necessaria alla esistenza e al consolidamento della democrazia per una ragione fondamentale. John Stuart Mill scrisse che mentre l’autocrazia ha bisogno di cittadini passivi, la democrazia sopravvive solo se può contare su un numero sempre maggiore di cittadini attivi. Personalmente sono convinto del contributo decisivo che possono dare le scienze sociali alla formazione di questi cittadini e quindi in definitiva al buon funzionamento di un regime democratico.

Ho cominciato dicendo che si può definire la democrazia come il potere in pubblico. Ma c’è pubblico e pubblico. Riprendendo l’affermazione sprezzante di Hegel secondo cui il popolo non sa quello che vuole, si potrebbe dire che il pubblico di cui ha bisogno la democrazia è quello composto da coloro che sanno quel che vogliono.

III.
DEMOCRAZIA E SEGRETO.
1. Il segreto è l’essenza del potere.

Per secoli è stato considerato essenziale all’arte di governo l’uso del segreto. Uno dei capitoli che non poteva mancare nei trattati di politica, nell’età che dura piú secoli (da Machiavelli a Hegel) e si suole chiamare della ragion di stato, riguardava i modi, le forme, le circostanze, le ragioni della segretezza. L’espressione, che ora suona sinistra, arcana imperii, risale a Tacito, che aveva narrato, come scrive all’inizio delle Storie, una vicenda «densa di eventi, atroce per guerre, discordie e sedizioni, crudele anche nella pace» 35. Alla fine del Cinquecento Tacito era diventato, in politica, il nuovo «maestro di color che sanno». Vico l’avrebbe considerato uno dei suoi «quattro autori». Chi volesse raccogliere massime sulla necessità del segreto di stato nelle opere politiche di tutti i tempi, e non soltanto nell’età della ragion di stato, non avrebbe che l’imbarazzo della scelta.

In quel mirabile libro che è Massa e potere Elias Canetti scrive un capitolo su «Il segreto», che comincia con questa perentoria affermazione: «Il segreto sta nel nucleo piú interno del potere». E ne descrive alcune tecniche: «Il potente, che si serve del proprio segreto, lo conosce con esattezza e sa bene apprezzarne l’importanza nelle varie circostanze. Egli sa a che cosa mira se vuole ottenere qualcosa, e sa anche quale dei suoi collaboratori impiegare nell’agguato. Egli ha molti segreti poiché vuole molto, e li combina in un sistema entro il quale si preservano a vicenda: un segreto confida a questo, un altro a quello, e fa in modo che i singoli depositari di segreti non possano unirsi fra loro. Chiunque sappia qualcosa viene controllato da un altro il quale però ignora quale sia in realtà il segreto del sorvegliato». Di qua la conseguenza che solo il potente «ha la chiave dell’intero complesso di segreti, e si sente in pericolo quando deve renderne interamente partecipe un altro» 36.

Una corrispondenza impressionante di quest’uso del segreto, da Canetti descritto astoricamente, in una realtà storica a noi vicina si può leggere nell’opera del dissidente sovietico Alessandro Zinov´ev, Cime abissali 37: nella repubblica di Ibania, allegoria dell’Unione Sovietica, lo spionaggio è elevato a principio generale di governo, a suprema regola non solo dei rapporti fra governanti e governati, ma anche dei governati tra di loro, cosí che il potere autocratico si fonda oltre che sulla sua capacità di spiare i sudditi anche sull’aiuto che gli viene dai sudditi terrorizzati che si spiano fra loro. Canetti prosegue: «È caratteristica del potere una ineguale ripartizione del vedere a fondo. Il detentore del potere conosce le intenzioni altrui, ma non lascia conoscere le proprie» 38. Fa l’esempio di Filippo Maria Visconti, cui, secondo le cronache del tempo, nessuno fu pari nell’abilità di celare il proprio intimo.

Il potere nella sua forma piú autentica è sempre stato concepito a immagine e somiglianza con quello di Dio, che è onnipotente proprio perché è l’onniveggente invisibile. Si corre subito con la mente al Panopticon di Bentham, che Foucault ha definito come una macchina per dissociare la coppia «vedere - essere visto»: «Nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale si vede tutto senza mai essere visti» 39. Lo stesso Bentham riteneva che questo modello architettonico, escogitato per le carceri, sarebbe potuto essere esteso ad altre istituzioni.

Esteso, come Bentham, scrittore democratico, non avrebbe mai pensato di estendere, alla istituzione globale, vale a dire allo stato, il modello del Panopticon sarebbe stato pienamente attuato nell’impero del Grande Fratello, descritto da Orwell, dove i sudditi sono continuamente sotto lo sguardo di un personaggio di cui non sanno nulla, neppure se esista. Ma oggi, in seguito all’accresciuta capacità di «vedere» i comportamenti dei cittadini, attraverso l’informazione pubblica di centri sempre piú perfezionati ed efficaci, ben al di là di quel che Orwell aveva potuto prevedere (l’intervallo fra la fantascienza e la scienza è, per il progresso vertiginoso delle nostre conoscenze, sempre piú breve), il modello del Panopticon diventa minacciosamente attuale.

Donde la domanda classica della filosofia politica: quis custodiet custodes? Bentham, da buon democratico, aveva dato la sua risposta: l’edificio dovrà essere sottoposto a continue ispezioni non solo da parte di ispettori ma anche da parte del pubblico. Con questa risposta Bentham anticipava in qualche modo il problema attualissimo del diritto dei cittadini all’accesso alle informazioni, che è una delle tante forme del diritto che uno stato democratico riconosce soltanto ai cittadini, o considerati uti singuli o presi nel loro insieme come «popolo», di custodire i custodi.

Ma proprio per questo, chi ritiene che la segretezza sia connaturata all’esercizio del potere è stato sempre fautore dei governi autocratici. Per limitarmi ad una sola citazione esemplare, una delle ragioni per cui Hobbes ritiene la monarchia superiore alla democrazia è per l’appunto una maggiore garanzia di sicurezza: «Le deliberazioni delle grandi assemblee soffrono di questo inconveniente, che le pubbliche decisioni, la cui segretezza è assai spesso di grande importanza, vengono a conoscenza dei nemici prima ancora di essere tradotte in pratica» (Hobbes, De Cive, X, 14).

Considerato il potere sovrano nelle sue due facce tradizionali, quella esterna e quella interna, la ragione principale della segretezza rispetto alla prima è, come dice chiaramente Hobbes, il non far sapere al nemico le proprie mosse, la convinzione che una qualsiasi mossa è tanto piú efficace quanto piú costituisce per l’avversario una sorpresa; rispetto alla seconda, invece, soprattutto la sfiducia nella capacità del popolo di capire quale è l’interesse collettivo, il bonum commune, la convinzione che il volgo persegue i propri interessi particolari e non ha occhi per vedere le ragioni dello stato, la «ragion di stato». I due argomenti sono in un certo senso opposti: nel primo caso il non far sapere dipende dal fatto che l’altro è in grado di capire troppo; nel secondo caso, il non far sapere è in relazione al fatto che l’altro capisce troppo poco, e potrebbe fraintendere le vere ragioni di una deliberazione e opporvisi in modo scriteriato. Guicciardini in uno dei suoi Avvertimenti civili sentenzia: «È incredibile quanto giovi a chi ha amministrazione che le cose sue siano secrete» 40. Nel Breviario dei politici del cardinal Mazzarino, l’àncora di salvezza, come dice Giovanni Macchia nella sua prefazione, che deve permettere all’uomo di poter non naufragare è il «culto del segreto» 41.

C’è però un ulteriore argomento: solo il potere segreto riesce a sconfiggere il potere segreto altrui, la cospirazione, la congiura, il complotto. Accanto agli arcana dominationis ci sono gli arcana seditionis. Nella Teoria del partigiano Carl Schmitt ha parlato di uno spazio di profondità tipico della guerra partigiana, fatta di agguati piú che di combattimenti a viso aperto, e l’ha paragonata alla guerra marittima con i sottomarini, che sembrò, quando apparve in tutta la sua pericolosità nella guerra tedesca contro l’Inghilterra, venir meno all’idea della guerra come scontro su un grande palcoscenico (si pensi alla metafora del «teatro di guerra») 42.

Il potere autocratico, inoltre, non solo pretende di essere in grado di sventare il segreto altrui meglio del potere democratico, ma quando è necessario lo inventa, per potersi rafforzare, per poter giustificare la propria esistenza. Il potere invisibile diventa un pretesto, una minaccia intollerabile che deve essere combattuta con ogni mezzo. Dove c’è il tiranno, c’è il complotto: se non c’è, lo si crea. Il congiurato è la necessaria controfigura del tiranno. Come sarebbe felice e benefico il tiranno se il potere tenebrose che lo minaccia non si nascondesse in ogni angolo del palazzo, sin dentro alla sala del trono, dietro le sue spalle. In uno dei suoi ultimi racconti Calvino descrive il «re in ascolto», seduto sul suo trono, immobile, cui giungono tutti i rumori, anche i piú piccoli, della reggia, e ogni rumore è un avvertimento, un segnale di pericolo, l’indizio di chi sa quale sovvertimento: «Le spie sono appostate dietro tutti i tendaggi, le cortine, gli arazzi. Le tue spie, gli agenti del tuo servizio segreto, che hanno il compito di redigere rapporti minuziosi sulle congiure di palazzo. La corte pullula di nemici, tanto che è sempre piú difficile distinguerli dagli amici: si sa per certo che la congiura che ti detronizzerà sarà formata dai tuoi ministri e dignitari. E tu sai che non c’è servizio segreto che non sia infiltrato di agenti del servizio segreto avversario. Forse tutti gli agenti stipendiati da te lavorano anche per i congiurati, sono essi stessi congiurati; ciò ti obbliga appunto a continuare a stipendiarli per tenerteli buoni il piú a lungo possibile». Ma anche il silenzio è minaccioso: «Da quante ore non senti il cambio delle sentinelle? E se il drappello delle guardie a te fedeli fosse stato catturato dai congiurati?» 43.

Lo stalinismo può essere interpretato anche come la scoperta che il tiranno fa, e solo il tiranno è in grado di fare, dell’universo come un immenso complotto, come la realtà profonda del mondo reale, che domina il mondo apparente di cui solo il tiranno svela l’inconsistenza liberando i comuni mortali dalla paura del regno delle tenebre. Un tipico esempio di caccia alle streghe. Ma quando la caccia alle streghe fa la sua apparizione in una società democratica, la libertà è in pericolo, e la democrazia rischia di convertirsi nel suo contrario.

Non so se esista un’opera sulla tecnica del potere segreto. Sono costretto a limitarmi a qualche rapida annotazione. Sono connaturate all’azione politica, tanto a quella del potere dominante quanto a quella del contropotere, due tecniche specifiche, che si completano a vicenda: sottrarsi alla vista del pubblico nel momento in cui si prendono deliberazioni d’interesse politico, e mettersi la maschera quando si è costretti a presentarsi in pubblico. Negli stati autocratici il luogo delle decisioni ultime è il gabinetto segreto, la camera segreta, il consiglio segreto. Quanto al mascheramento, esso può intendersi tanto in senso reale quanto in senso metaforico. In senso reale il mettersi la maschera trasforma l’agente in un attore, la scena in un palcoscenico, l’azione politica in una rappresentazione. L’idea della politica come spettacolo è tutt’altro che nuova. Quando Hobbes introduce il discorso sul tema della rappresentanza stabilisce un’analogia immediata tra la rappresentanza e la rappresentazione. Anzi il tema della persona che ne rappresenta un’altra, e che Hobbes chiama «attore», sarebbe stato trasferito in politica dal palcoscenico «per indicare chiunque rappresenti parole ed azioni, tanto nei tribunali quanto nei teatri» (Leviatano, XVI). Come dice Canetti, la maschera trasfigura il volto umano perché lo irrigidisce: «Essa sostituisce ad un gioco di espressioni mai quieto, perennemente mobile, l’esatto opposto: una perfetta rigidità e costanza». «Dietro la maschera – dice ancora Canetti – comincia il mistero […]. Non si deve sapere che cosa si nasconde dietro di lei […]. Poiché non è possibile leggere su di lei il mutare dell’animo come su un volto, si sospetta e si teme dietro di lei l’ignoto» 44. Ma l’uomo può cambiare maschera all’infinito e quindi apparire diverso da quello che è infinite volte. Nulla può confondere l’avversario piú che il non poter riconoscere il vero volto di chi gli sta di fronte. Una delle tante analogie di cui si sono serviti gli scrittori politici per raffigurare una delle forme del potere è Proteo o il camaleonte che si rende irriconoscibile mutando continuamente il proprio aspetto.

In senso metaforico, il mascheramento avviene soprattutto attraverso il linguaggio che ti consente, opportunamente usato, di celare il tuo pensiero. Questo nascondimento può avvenire in due modi: o usando un linguaggio per iniziati, esoterico, comprensibile soltanto a quelli della tua cerchia, oppure usando il linguaggio comune per dir l’opposto di quel che pensi o per dare informazioni sbagliate o giustificazioni distorte.

Qui si apre il campo vastissimo, che è anche il piú esplorato, della legittimità del «mendacio», che risale fino alla «nobile menzogna» di Platone, e della dissimulazione, su cui è tornato Rosario Villari nel libro Elogio della dissimulazione, dedicato a scrittori politici dell’età barocca, da cui traggo questo significativo brano della Politica di Giusto Linsio: «Spiaccia questo a qualche bell’anima, e griderà: “Siano dalla vita umana bandite simulazione e dissimulazione”. Dalla vita privata, è vero, dalla pubblica non cosí, né altrimenti può fare chi abbia in mano tutta la repubblica» 45.

Virtú politica per eccellenza è sempre stata considerata la «prudenza», la frónesis aristotelica, se pure variamente interpretata 46. Appartiene alla regola della prudenza il dire e non dire, il dire non tutto ma soltanto in parte, il tacere, il sottacere, la reticenza. Si tratta di una serie di comportamenti che stanno tra la prudenza e l’astuzia, raffigurate da due animali simbolici del discorso politico, il serpente e la volpe. Uno dei personaggi de El Criticón (1651) di Baltasar Gracián dice: «I serpenti sono maestri di ogni sagacità. Essi ci mostrano il cammino della prudenza» 47. Per quel che riguarda la volpe, basti ricordare il celebre capitolo XVIII del Principe, in cui Machiavelli dice che il principe deve usare la volpe ed il leone, e che un signore «prudente», non è obbligato a mantenere la parola data, quando «tale osservanzia li torni contro». Un altro personaggio de El Criticón ai suoi interlocutori che cercano una guida nel «labirinto cortigiano» consiglia: «Sappiate che pericoloso mare è la Corte, con la Scilla dei suoi inganni e la Cariddi delle sue menzogne» 48.

2. La sfida democratica.

In un articolo del 1981, intitolato L’alto e il basso. Il tema della conoscenza proibita nel Cinquecento e Seicento, Carlo Ginzburg prese lo spunto dal passo paolino (Lettera ai Romani, 11, 20), che nella vulgata suona «Noli autem sapere, sed time», interpretato via via sempre piú nel senso di un invito alla rinunzia alla superbia intellettuale e quindi come un ammonimento contro la eccessiva curiosità del sapiente, per fare qualche riflessione sui limiti assegnati alla nostra conoscenza dalla presenza di tre sfere invalicabili: gli arcana Dei, gli arcana naturae e gli arcana imperii, strettamente connessi tra di loro. Chi aveva trasgredito quei limiti era stato punito: esempi classici, Prometeo e Icaro. Ma potremmo aggiungere, forse il piú familiare, almeno alla tradizione culturale italiana, Ulisse dantesco. Le grandi scoperte astronomiche del Cinquecento rappresentarono una prima trasgressione del divieto di penetrare gli arcana naturae. Quali ripercussioni avrebbe avuto questa prima trasgressione della prescrizione di arrestarsi di fronte a una delle tre terre proibite, rispetto alla analoga prescrizione nelle altre due? Alla metà del Seicento, racconta Ginzburg, il cardinale Sforza Pallavicino acconsentí a riconoscere che era lecito penetrare i segreti della natura perché le leggi naturali sono poche, semplici e inviolabili. Ma non ammise che ciò che valeva per i segreti della natura valesse anche per i segreti di Dio e per quelli del potere, ritenendo che fosse un atto di temerità violare l’imperscrutabilità della volontà del sovrano non altrimenti che quella di Dio. Negli stessi anni Virgilio Malvezzi ripeté analogo concetto dicendo che «chi per isciogliere i fisici avvenimenti adduce Iddio per ragione è poco filosofo, e chi non lo adduce per iscioglimento di politici, è poco christiano» 49.

Per contrasto, il pensiero illuministico adottò come suo motto l’oraziano «Sapere aude». Alcuni anni or sono si svolse sulla «Rivista storica italiana» un dotto dibattito sull’origine del motto (di cui io avevo trovato un altro esempio nel saggio in difesa della codificazione scritto da Thibaut nel 1814) tra Luigi Firpo e Franco Venturi 50. Firpo risali a Gassendi, citato dal Sorbière nel suo Diario. Com’è noto, il motto campeggia nello scritto sull’illuminismo di Kant, che Kant traduce cosí: «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza». È in questo saggio che Kant afferma che l’illuminismo consiste nell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso e che alla base dell’illuminismo sta la piú semplice di tutte le libertà, la libertà di far uso pubblico della propria ragione: «Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero […], ed esso solo può attuare l’illuminismo fra gli uomini» 51. Conducendo alle logiche conseguenze questa affermazione, si scopre che vengono a cadere i divieti tradizionali posti a guardia degli arcana imperii. Per l’uomo uscito di minorità, il potere non ha, non deve piú avere, segreti. Perché l’uomo diventato maggiorenne possa fare pubblico uso della propria ragione è necessario che egli abbia una conoscenza piena degli affari di stato. Perché egli possa avere una piena conoscenza degli affari di stato, è necessario che il potere agisca in pubblico. Cade una delle ragioni del segreto di stato: l’ignoranza del volgo che faceva dire dal Tasso a Torrismondo: «I segreti de’ regi al folle volgo ben commessi non sono» 52. Spetta a Kant il merito di aver posto con la massima chiarezza il problema della pubblicità del potere e di averne dato una giustificazione etica.

È interessante osservare che Kant svolge il tema a proposito del diritto internazionale. In un’appendice al saggio Per la pace perpetua, pone il problema del possibile accordo della politica con la morale, problema che gli sta particolarmente a cuore. Sostiene che l’unico modo per garantire che questo avvenga è la condanna della segretezza degli atti di governo e la istituzione della loro pubblicità, vale a dire una serie di regole che obblighino gli stati a dare conto delle loro decisioni al pubblico e a rendere cosí impossibile la pratica degli arcana imperii, che ha caratterizzato gli stati dispotici. La soluzione del problema viene formulata in questo modo: «Tutte le azioni relative ai diritti di altri uomini, la cui massima non è compatibile con la pubblicità, sono ingiuste». Qual è il significato di questa affermazione? Cosí Kant la spiega: «Una massima che io non posso rendere pubblica senza con ciò rendere vano lo scopo propostomi, che deve essere tenuta assolutamente segreta per riuscire, che io non posso confessare pubblicamente senza provocare la resistenza immediata di tutti contro il mio proposito, una tale massima non può spiegare questa reazione necessaria e universale di tutti contro di me […] altrimenti che per l’ingiustizia di cui essa minaccia ciascuno» 53. E come dire che nei rapporti umani, sia tra individui, sia tra stati, il tenere segreto un proposito, e il tenerlo segreto in quanto non si può dichiararlo in pubblico, è già di per se stesso la prova del fuoco della sua immoralità.

Per chiarire il principio Kant fa esempi tratti dal diritto pubblico interno e dal diritto pubblico esterno, cioè dal diritto internazionale. Rispetto a quest’ultimo gli esempi sono i seguenti:

1) può uno stato che ha promesso qualcosa ad un altro, sciogliersi della parola data nel caso che lo richieda la salvezza dello stato? Ma a uno stato che rendesse pubblica questa massima, non accadrebbe che ognuno degli altri stati lo fuggirebbe o farebbe lega con gli altri stati per resistere alle sue pretese? Ciò non prova, conclude Kant, che quella massima, una volta resa pubblica, perderebbe il suo effetto, e deve considerarsi ingiusta?
2) può ammettersi un diritto di potenze minori di unirsi per attaccare una potenza vicina cresciuta sino ad essere diventata formidabile? Ma uno stato che facesse intravedere una simile massima, non si attirerebbe piú sicuramente e piú presto il male che esso cerca di allontanare da sé? Ancora una volta, conclude Kant, «questa massima della prudenza politica, quando sia resa pubblica, distrugge necessariamente il suo proprio scopo e quindi è ingiusta» 54;
3) se un piccolo stato, per la sua posizione, spezza la continuità di uno stato maggiore, non avrà lo stato maggiore il diritto di assoggettare lo stato minore e unirlo al suo territorio? Ma potrebbe mai lo stato maggiore rendere pubblica questa massima? No, perché gli stati minori si coalizzerebbero per tempo o altre potenze gli contrasterebbero la preda, con la conseguenza che tale massima non potrebbe attuarsi proprio per la sua pubblicità.

Il presupposto di questo discorso kantiano è chiaro: il tener segreto un proposito, o anche un patto, o se mai fosse possibile un qualsiasi provvedimento pubblico, è già per se stesso una prova della sua illiceità. Se mai è da osservare che Kant non trae tutte le conseguenze politiche da questa premessa. Affinché questo principio della pubblicità possa essere non solo dichiarato dal filosofo ma attuato dal politico, in modo che, per esprimerci ancora una volta con Kant, non si dia ragione al detto comune «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», occorre che il potere pubblico sia controllabile. Ma in quale forma di governo questo controllo può avvenire se non in quella in cui il popolo ha il diritto di prendere parte attiva alla vita politica? Kant certamente non è uno scrittore democratico nel senso che per «popolo» intende non tutti i cittadini ma solo i cittadini indipendenti, ma quale sia il valore che egli attribuisce al controllo popolare sugli atti del governo risulta ancora una volta in tema di diritto internazionale là dove, affermando che la pace perpetua può essere assicurata soltanto da una confederazione di stati che abbiano la stessa forma di governo repubblicana, ne dà la ragione col celebre argomento che solo con il controllo popolare la guerra cesserà di essere un capriccio dei principi, o con l’espressione kantiana, una «partita di piacere».

Sino a che il potere del re era considerato come derivante dal potere di Dio, gli arcana imperii erano una diretta conseguenza degli arcana Dei. In uno dei suoi discorsi Giacomo I, principe assoluto e teorico dell’assolutismo, definí la prerogativa, cioè il potere regio non sottoposto al potere del parlamento, come un «mistero di stato» comprensibile solo ai principi, ai re-sacerdoti che, come dèi in terra, amministrano il mistero del governo. Un linguaggio come questo in cui l’appello al mistero svolge un ruolo essenziale, e si sottrae ad ogni richiesta di spiegazione razionale sul fondamento del potere e del conseguente obbligo di obbedienza, è destinato a scomparire via via che il discorso del governo si sposta dall’alto al basso, e, per restare in Inghilterra, dalla prerogativa del re ai diritti del parlamento.

Il linguaggio esoterico e misterico non si addice all’assemblea di rappresentanti eletti periodicamente dal popolo, e quindi responsabili di fronte agli elettori, pochi o molti che siano, ma non si addiceva del resto neppure alla democrazia degli antichi, quando il popolo si riuniva in piazza ad ascoltare gli oratori e quindi a deliberare. Il parlamento è il luogo dove il potere viene rappresentato nel duplice senso che esso è il luogo dove si riuniscono i rappresentanti e dove, nello stesso tempo, avviene una vera e propria rappresentazione, che in quanto rappresentazione ha bisogno del pubblico e deve quindi svolgersi in pubblico. Coglie bene questo nesso tra rappresentanza e rappresentazione Carl Schmitt quando scrive: «La rappresentanza può svolgersi solo nella sfera della pubblicità. Non c’è nessuna rappresentanza che si svolga in segreto e a quattr’occhi […]. Un parlamento ha carattere rappresentativo solo finché si crede che la sua vera e propria attività abbia luogo nella pubblicità. Sedute segrete, accordi e discussioni segrete di un qualsiasi comitato possono essere assai importanti e significative, ma non hanno mai un carattere rappresentativo» 55.

Con ciò non si vuol dire che ogni forma di segretezza debba essere esclusa: il voto segreto può essere in certi casi opportuno; la pubblicità delle Commissioni parlamentari non è riconosciuta. C’è anche chi, come Giovanni Sartori, nella nuova edizione, aggiornata ed arricchita, della sua teoria della democrazia, condanna la richiesta di una politica sempre piú visibile, come poco consapevole delle conseguenze che la maggiore visibilità comporta 56. Ma non si può non riconoscere con Schmitt che «rappresentare» significa anche «rendere visibile […] un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente» 57.

Possiamo concludere questa riflessione con Richard Sennett che nel suo aureo libretto sull’autorità afferma: «Tutte le idee di democrazia che abbiamo ereditato dal XVIII secolo sono basate sulla nozione di un’autorità visibile». E cita il detto di Jefferson: «Il dirigente deve agire con discrezione ma non gli deve essere concesso di tenere per sé le sue intenzioni» 58.

3. Chi vincerà la sfida?

Tra le promesse non mantenute dalla democrazia, di cui ho parlato in uno scritto di alcuni anni fa, la piú grave, e piú rovinosa, e, a quanto sembra, anche la piú irrimediabile, è proprio quella della trasparenza del potere. Credo di non dover addurre esempi. Tanto piú che sugli arcana dominationis della nostra democrazia, cui fanno riscontro gli arcana seditionis, gli scritti non mancano.

Commentando la sentenza istruttoria sulla strage della stazione di Bologna, scrivevo che la tendenza del potere a nascondersi è irresistibile. Ripeto ancora una volta con Canetti: «Il segreto sta nel nucleo piú interno del potere». Ma non vorrei dimenticare le osservazioni di Max Weber sull’uso che fa la burocrazia del segreto d’ufficio per accrescere il suo potere. Il concetto di «segreto d’ufficio» è la scoperta specifica del potere burocratico, secondo Weber. «Se la burocrazia si contrappone a un parlamento, essa lotta con sicuro istinto di potenza contro ogni tentativo che questo compie per procurarsi con mezzi propri […] nozioni specialistiche dagli interessati: un parlamento male informato, e perciò impotente, è naturalmente gradito alla burocrazia» 59. E che dire del segreto commerciale? Il segreto è sempre uno strumento di potere. L’analogia tra segreto d’ufficio e segreto commerciale è fatta dallo stesso Weber: «Esso è paragonabile, nella sua relazione col sapere specializzato, ai segreti commerciali dell’impresa nel loro rapporto coi segreti tecnici» 60. Rispetto al sapere tecnico, inoltre, la ragione del segreto sta non soltanto nel mantenere la superiorità che dà una conoscenza specifica che il concorrente non ha, ma anche nell’incapacità del pubblico di afferrarne la natura e la portata. Il sapere tecnico sempre piú specializzato diventa sempre piú un sapere di élites, inaccessibile alla massa. Anche la tecnocrazia ha i suoi arcana, è per la massa anch’essa una forma di sapere esoterico, che è incompatibile con la sovranità popolare per gli stessi motivi per cui in regime autocratico si ritiene il volgo incompetente ed incapace di capire le questioni di stato. Il contrasto tra democrazia e tecnocrazia da questo punto di vista è il tema di un noto saggio di Robert Dahl 61.

C’è anche chi, a proposito degli Stati Uniti – il princeps, nel senso di capofila, degli stati democratici –, ha parlato di un «doppio stato», quello visibile che è retto dalle regole della democrazia che prescrivono la trasparenza, e quello invisibile 62. Il che non vuol dire confondere una democrazia con una autocrazia, dove il vero stato è uno solo, quello invisibile, dove è tanto sentita e richiesta la necessità della trasparenza quanto è sentita e richiesta in uno stato democratico la denunzia della mancanza di trasparenza. Metaforicamente, nei due sistemi il rapporto tra luce e tenebre è invertito: là il regno delle tenebre minaccia l’area luminosa, qua la luce sta faticosamente avanzando per cominciare a rischiarare almeno una parte dell’area oscura.

La resistenza e la persistenza del potere invisibile sono tanto piú forti, anche negli stati democratici, quanto piú si prendono in considerazione i rapporti internazionali. Chiunque conosca la letteratura sulla ragion di stato sa che essa ha trovato il terreno piú fertile nella politica estera, là dove si pone in modo eminente il problema della sicurezza dello stato, della salus rei publicae, che faceva dire a Machiavelli che quando è in gioco la «salute della patria» non deve esserci alcuna considerazione «né di giusto né di ingiusto, né di piatoso né di crudele» 63. Per un autore come Kant che condanna la ragion di stato, ossia la subordinazione della morale alle pretese della politica, il richiamo ai principî morali vale in primo luogo nei rapporti internazionali, dove la violazione è piú frequente e palese. Tra gli stratagemmi disonesti, cui lo stato in guerra non dovrebbe ricorrere, perché rendono impossibile la reciproca fiducia nella pace futura, Kant annovera l’assoldare sicari, avvelenatori, spie, il ricorso a forze occulte: «arti infernali», egli dice, che «non si manterrebbero a lungo nei confini della guerra, come l’uso delle spie […], ma si estenderebbero anche allo stato di pace le cui finalità sarebbero quindi interamente annullate» 64.

Senza bisogno di risalire molto indietro nel tempo, quello che è avvenuto pochi anni or sono negli Stati Uniti (che non si può negare appartengano al novero dei paesi democratici), dove si è scoperto che il presidente della repubblica aveva condotto per anni una politica estera segreta in contrasto con la politica estera pubblica, è una prova illuminante del fatto che la potenza del segreto è, specie nei rapporti internazionali, irresistibile. Che una volta fatta la scoperta, la violazione della pubblicità sia, in un sistema democratico, condannata dall’opinione pubblica e sia anche passibile di sanzioni politiche, dimostra che il controllo democratico può avere una certa efficacia, ma prova altresí che la sfera piú esposta all’abuso è quella dei rapporti internazionali, ed è anche quella dove è piú facile addurre pretesti e farli accettare invocando lo stato di necessità, gli interessi vitali del paese, le esigenze della difesa, il principio di reciprocità, insomma tutti gli argomenti tradizionali della ragion di stato che mirano a giustificare deroghe ai principî morali e giuridici.

Le ragioni di questo venir meno della trasparenza democratica anche negli stati democratici, soprattutto, ripeto, nei rapporti internazionali, non sono difficili da scoprire. Sono essenzialmente due: 1) la presenza nel sistema internazionale di stati non democratici, in cui il segreto è regola e non eccezione; 2) il fatto che il sistema internazionale nel suo insieme è un sistema non democratico, o per lo meno è un sistema democratico in potenza sulla base dello Statuto delle Nazioni Unite, ma non in atto, perché in ultima istanza l’ordine internazionale riposa ancora sul sistema tradizionale dell’equilibrio. Sino a che uno stato democratico vive in una comunità cui appartengono a pieno diritto stati non democratici, e sono la maggior parte, e sino a che il sistema internazionale è esso stesso non democratico, anche il regime degli stati democratici sarà una democrazia imperfetta. Una società tendenzialmente anarchica come quella internazionale che si regge sul principio dell’autodifesa, se pure in ultima istanza, favorisce il dispotismo interno dei suoi membri o per lo meno ne ostacola la democratizzazione. Non si può combattere il potere invisibile se non con un potere invisibile eguale e contrario, le spie altrui se non con le spie proprie, i servizi segreti degli altri stati se non coi servizi segreti del proprio stato.

Posso aggiungere, per addurre ancora un argomento in favore della differenza fra politica estera e politica interna, che, mentre i servizi segreti sono tollerati da un’opinione pubblica democratica quando l’ambito delle loro operazioni è la sfera internazionale, lo sono molto meno quando si scopre che svolgono la loro attività anche nei riguardi dei cittadini. In sostanza la diplomazia chiusa non si può combattere se non con una diplomazia altrettanto chiusa. Siccome conosco il mio totale analfabetismo in materia di spionaggio, mi affido all’autorità di un super-competente come Walter Laqueur, il quale in un’opera molto bene informata, Un mondo di segreti, che ha per sottotitolo nella traduzione italiana Impieghi e limiti dello spionaggio, dopo aver osservato che una democrazia come quella americana non può svolgere che una diplomazia aperta, tanto che della Cia si sa piú di quanto si sappia di qualsiasi altro servizio segreto in tutto il mondo, si pone la domanda «se un servizio segreto possa funzionare efficacemente in queste condizioni», vale a dire rispetto agli stati che riescono a conservare il piú perfetto segreto sui loro servizi segreti 65.

Tra gli arcana imperii, duri a morire, o forse addirittura imperituri, di uno stato democratico, rientra il trattato segreto, la cui legittimità è un tema discusso. Un tema nel quale non entro, perché non mi ci considero particolarmente versato. Siccome peraltro ho considerato il tema del potere occulto soprattutto con riferimenti storici, mi sia permesso, avviandomi alla conclusione, evocare almeno uno dei maggiori avversari dei trattati segreti, che è poi uno degli autori da cui ho preso le mosse, ed è anche uno dei maggiori scrittori politici democratici del secolo scorso, le cui opere sono ben lontane dall’essere state esaurientemente esplorate.

Nel saggio quarto dei Principî di diritto internazionale, intitolato Progetto di pace universale e perpetua, Bentham, partendo dal presupposto che la guerra è male e la pace è bene, in contrasto con la politica estera generalmente praticata dal suo paese, in cui la guerra è la «mania nazionale», una mania per cui la pace viene sempre troppo presto e la guerra troppo tardi, fissa alcune condizioni che ritiene essenziali per stabilire una pace duratura. Tra queste condizioni, una è cosí formulata: «È opportuno e necessario non tollerare piú la segretezza nell’operato del Ministero degli Esteri d’Inghilterra, tale segretezza essendo altrettanto inutile quanto ripugnante agli interessi della libertà e a quelli della pace». E cosí commenta: «Non può, né deve essere permesso che in alcune situazioni negoziali, cosí come in alcune fasi di essa, il Gabinetto di questo paese conduca negoziati, tenendo quanto piú possibile all’oscuro il pubblico. Ancor meno si può e si deve permettere che ne sia tenuto all’oscuro il Parlamento, specie a seguito di un’interrogazione parlamentare». Ancora: «Qualsiasi cosa possano affermare i negoziati preliminari, non si può né si deve permettere che un segreto di tal genere venga mantenuto al riguardo di trattati effettivamente conclusi» 66.

La ragione di queste clausole deve essere ricercata, secondo Bentham, nella considerazione che la segretezza dei trattati è a un tempo nociva e inutile. Nociva, perché in un sistema democratico fondato sul controllo del potere da parte del pubblico, è chiaro che non si può esercitare alcun controllo su misure delle quali non si sappia niente, con la conseguenza che una nazione può trovarsi in guerra senza averlo né saputo né voluto. Inutile perché la posizione dell’Inghilterra la premunisce da ogni sorpresa. «Sorpresa e segreto sono, – commenta infine, – le risorse della disonestà e della paura, dell’ambizione ingiusta associata alla debolezza». Riferendosi ad una situazione diversa, a quella delle monarchie in cui il monarca gode di una prerogativa in politica estera (di cui del resto godeva il re anche nelle monarchie costituzionali, come risulta dall’art. 5 dello Statuto albertino), esplode in questa deprecazione: «Se si considera l’interesse del primo servitore dello stato [allusione a Federico II] come distinto e opposto a quello della nazione, la clandestinità può rivelarsi […] favorevole ai progetti dei ladri e briganti coronati» 67.

Detto tutto il male possibile del segreto negli affari dello stato, occorre anche dire che vi sono casi in cui esso può essere ritenuto legittimo. Non c’è regola senza eccezione. Nel dominio dell’etica, e quindi del diritto in quanto esso costituisce una sfera particolare dell’etica, l’unica regola senza eccezione è che non vi sono regole senza eccezione. Naturalmente l’eccezione, in quanto deroga a un principio dato per vero, deve essere giustificata sulla base di altri principî dati essi pure per veri, oppure traendo argomento dalle conseguenze della sua applicazione in un caso specifico. Nel primo caso ci si trova di fronte a un contrasto fra principî, a una incoerenza del sistema normativo; nel secondo invece, si tratta della situazione cui si dà il nome di «summum ius summa iniuria», vale a dire di quella situazione in cui l’applicazione della regola nel caso specifico porta a conseguenze contrarie a quelle previste.

In linea generale si può dire che il segreto è ammissibile quando esso garantisce un interesse protetto dalla costituzione senza ledere altri interessi ugualmente garantiti (o perlomeno occorre fare un bilanciamento degli interessi). Naturalmente quello che vale negli affari pubblici di un regime democratico in cui la pubblicità è la regola e il segreto è l’eccezione, non vale negli affari privati, cioè quando è in gioco un interesse privato. Anzi nei rapporti privati vale esattamente il contrario: il segreto è la regola, contro l’invadenza del pubblico nel privato, e la pubblicità è l’eccezione. Proprio perché la democrazia presuppone la massima libertà degli individui singolarmente considerati, questi debbono essere protetti nei riguardi di un eccessivo controllo da parte dei pubblici poteri della loro sfera privata, e proprio perché la stessa democrazia è quel regime che prevede il massimo controllo dei pubblici poteri da parte degli individui, questo controllo è possibile soltanto se i pubblici poteri agiscono col massimo di trasparenza. È insomma nella logica stessa della democrazia che il rapporto tra regola ed eccezione sia invertito, rispettivamente, nella sfera pubblica e nella sfera privata.

Un dibattito dedicato al segreto nella sfera pubblica non può svolgersi se non sul versante dell’eccezione e non della regola. E si troverà di fronte a due classici paradossi che rendono ogni discorso morale ambiguo: a) il paradosso della incompatibilità o dell’antinomia dei principî, nel caso specifico l’antinomia tra il principio di sicurezza dello stato e quello della libertà dei singoli individui; b) quello dell’eccezione alla regola che è consentita perché permette di salvare la regola stessa, come avviene riguardo alla liceità della legittima difesa, che viola la regola che proibisce l’uso della violenza ma è nello stesso tempo l’unico modo, in determinate circostanze, di ottenerne il rispetto.

Un caso davvero esemplare di questo paradosso ci è offerto proprio dal sistema democratico: abbiamo visto che la democrazia esclude in linea di principio il segreto di stato, ma l’uso del segreto di stato, attraverso l’istituzione dei servizi di sicurezza, che agiscono nel segreto, viene giustificato tra l’altro come uno strumento necessario per difendere, in ultima istanza, la democrazia. La stessa legge che detta norme sulla condotta di questi servizi parla di «politica informativa e di sicurezza nell’interesse e per la difesa dello stato democratico». Il serpente si mangia la coda. Ma il serpente, come abbiamo visto, è sempre stato considerato come l’emblema della prudenza, virtú politica per eccellenza, e perché no?, anche dei giuristi la cui scienza non a caso è stata chiamata iurisprudentia.

1 Sul tema, e in genere sulla storia della parola democrazia con relativa bibliografia, preziose indicazioni in G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited, Chatam House Publishers, Chatam N.J. 1987, in particolare pp. 278 sgg. Sartori accentua la differenza fra la democrazia dei moderni e quella degli antichi tanto da affermare che il concetto odierno di democrazia ha «only a very slight resemblance» con quello sviluppato nel v secolo a. C. A me pare che il famoso discorso di Pericle, che cito poco oltre, permetta di attenuare una affermazione cosí recisa.

2 M. I. FINLEY, Democracy Ancient and Modern, Rutgers University Press, New Brunswick 1972, trad. it. La democrazia degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 19.

3 H. KELSEN, La democrazia, il Mulino, Bologna 1981, p. 123, nuova ed. 1998, p. 131.

4 A. TEDESCHI, Lessico politico. Aristocratia, in «Quaderni di storia», n. 15, gennaio-giugno 1982, p. 222.

5 J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, III, 5, Einaudi, Torino 1994, p. 95.

6 MONTESQUIEU, De l’Esprit des lois (1748), II, 2 (trad. it. a cura di S. Cotta, Utet, Torino 1973, vol. I, pp. 66 e 67).

7 Cosí Robert Derathé nel commento all’Esprit des lois, Garnier, Paris 1973, I, p. 427.

8 Traggo queste citazioni, ma ne potrei trarre molte altre, da R. DE MATTEI, L’istanza democratica nel pensiero politico italiano del Cinque e del Seicento, in Studi in onore di C. Esposito, Cedam, Padova 1973, pp. 2339-57.

9 Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, a cura di F. Flora e C. Cordié, Mondadori, Milano 1950, vol. II, p. 555.

10 J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale cit., III, 4, p. 93.

11 Che cito dalla traduzione di L. Canfora, ANONIMO ATENIESE, La democrazia come violenza, Sellerio, Palermo 1982 (il titolo con cui lo scritto è stato tramandato è La costituzione ateniese). Per dare un’idea del tono del libello bastino le prime righe: «A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto un sistema politico, che consenta alla canaglia di star meglio della gente per bene» (p. 15).

12 Sul significato di «popolo» nella storia, indicazioni e suggerimenti in G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited cit., pp. 21 sgg. A proposito della concezione organica o olistica del popolo osserva giustamente che «non conduce in alcun modo alla democrazia» (p. 23).

13 E. E. SCHATTSCHNEIDER, The Semisovereign People. A Realist’s View of Democracy in America, Holt, Rinehart and Winston, New York 1960, p. 130 (trad. it., Il popolo semi-sovrano. Un’interpretazione realistica della democrazia in America, Ecig, Genova 1998, p. 178).

14 N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, Proemio (ed. cit., vol. II, p. 6).

15 Ma anche questo è un tema su cui non mi avventuro, sebbene la letteratura sull’argomento si sia venuta estendendo in questi ultimi anni. Resta sempre la domanda: posto che la democrazia diretta diventi possibile anche nei grandi stati, grazie al perfezionamento dei mezzi tecnici di trasmissione delle opinioni, è desiderabile?

16 G. GERMANI, Autoritarismo e democrazia nella società moderna, in I limiti della democrazia, a cura di R. Scartezzini, L. Germani, R. Gritti, Liguori, Napoli 1985, pp. 1-40, seguito da un mio commento: Può sopravvivere la democrazia?, pp. 41-49.

17 J.-F. REVEL, Comment les démocraties finissent, Ed. Grasset & Fasquelle, Paris 1983 (trad. it. Rizzoli, Milano 1984).

18 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, III, 41, ed. a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1983, pp. 504-5.

19 F. GUIZOT, Histoire des origines du gouvernement représentatif en Europe (1821-22), Société Typographique Belge, Bruxelles 1851, t. I, p. 84.

20 C. SCHMITT, Verfassungslehre, Duncker u. Humblot, Berlin 1928 (trad. it. a cura di A. Caracciolo, Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano 1984, pp. 275 e 277).

21 E. CANETTI, Masse und Macht, Claassen Verlag, Hamburg 1960 (trad. it. Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 350).

22 J. HABERMAS, Strukturwandel der Oeffentlichckeit, Luchterhand, Neuwied 1962 (trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 1971).

23 Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784), in I. KANT, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, 2 a ed. 1965, p. 143.

24 Ibid., p. 141.

25 J. BODIN, Les six livres de la République (1576), IV, 7 (trad. it. a cura di M. Isnardi Parente e D. Quaglioni, I sei libri dello Stato, Utet, Torino 1988, vol. II, p. 574).

26 G. W. F. HEGEL, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821), § 301 (trad. it. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1987).

27 Cfr. R. DWORKIN, Taking Rights Seriously, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1977 (trad. it. I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 1982).

28 J. S. MILL, A System of Logic Ratiocinative and Inductive (1843) (trad. it. a cura di M. Trinchero, Sistema di logica deduttiva e induttiva, Utet, Torino 1988).

29 Cfr. N. BOBBIO, Gli studi sociali e politici nell’ università italiana, oggi, in «Il politico», XXXVIII, n. 2, 1973.

30 D. ZOLO, I possibili rapporti fra filosofia politica e scienza politica. Una proposta postempiristica, in «Teoria politica», I, n. 3, 1985, p. 99.

31 G. MOSCA, Elementi di scienza politica (Parte seconda, 1923), in ID., Scritti politici, a cura di G. Sola, Utet, Torino 1982, vol. II, p. 1082.

32 ID., Ciò che la storia potrebbe insegnare. Scritti di scienza politica, Giuffrè, Milano 1958, p. 733.

33 Ibid., p. 653.

34 I. KANT, Per la pace perpetua (1795), in ID., Scritti politici cit., p. 316.

35 TACITO, Storie, a cura di A. Arici, Utet, Torino 1970 2, rist. 1976, p. 15.

36 E. CANETTI, Masse und Macht (trad. it. cit., pp. 350 e 353).

37 In 2 voll., Adelphi, Milano 1978-79.

38 E. CANETTI, Masse cit. (trad. it. p. 353).

39 M. FOUCAULT, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, trad. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire, Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 220. che si riferisce a J. BENTHAM, Panopticon; or the Inspection House (1791), trad. it. Panopticon, ovvero la casa d’ispezione, Marsilio, Venezia 1983.

40 F. GUICCIARDINI, Opere, vol. I, a cura di E. Lugnani Scarano, Utet, Torino 1970, p. 808.

41 G. MACCHIA, Le vie del potere, in Breviario dei politici secondo il Cardinale Mazzarino, Rizzoli, Milano 1981, p. XXVIII.

42 Cfr. C. SCHMITT, Theorie des Partisanen, Duncker u. Humblot, Berlin 1963 (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1981, p. 54).

43 I. CALVINO, Un re in ascolto, in ID., Sotto il sole giaguaro, Garzanti, Milano 1986, nuova ed. Mondadori, Milano 1995, pp. 55-56 e 60.

44 E. CANETTI, Masse cit., pp. 453 e 455.

45 Cfr. R. VILLARI, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 19.

46 Il tema sembra tornato di attualità a giudicare dal fascicolo dedicato ad esso dalla rivista «Filosofia politica» (anno I, 1987, n. 2), con articoli che ne illustrano la storia attraverso l’analisi di testi di diverse epoche.

47 Traggo la citazione da F. GAMBIN, Conoscenza e prudenza in Baltasar Gracián, in «Filosofia politica», I, 1987, n. 2, p. 278.

48 Ibid., p. 275.

49 Cfr. C. GINZBURG, L’alto e il basso. Il tema della conoscenza proibita nel Cinquecento e Seicento, in «aut aut», n. 181, 1981, pp. 3-17, ora in ID., Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1992 2, pp. 107-32. La citazione di Malvezzi si trova alla p. 119.

50 Cfr. F. VENTURI, Contributi ad un dizionario storico. I. Was ist Aufklärung? Sapere aude!, in «Rivista storica italiana», LXXI, 1, 1959, pp. 119-28; L. FIRPO, Ancora a proposito di «sapere aude!», in «Rivista storica italiana», LXXII, 1, 1960, pp. 114-17.

51 I. KANT, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (1784), in ID., Scritti politici cit., pp. 141 e 143.

52 Traggo la citazione da L. FIRPO, Introduzione a T. TASSO, Tre scritti politici, Utet, Torino 1980, p. 27.

53 I. KANT, Per la pace perpetua. Progetto filosofico (1795), in ID., Scritti politici cit., p. 330.

54 Ibid., p. 333.

55 C. SCHMITT, Verfassungslehre cit. (trad. it. cit., p. 275).

56 Cfr. G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited cit., pp. 244-45.

57 C. SCHMITT, Verfassungslehre cit. (trad. it. cit., p. 277).

58 R. SENNETT, Authority, Vintage Books, New York 1980 (trad. it. Bompiani, Milano 1981, p. 154).

59 M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft, a cura di J. Winckelmann, Mohr, Tübingen 1976 5 (trad. it. Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1974 3, nuova ediz. in 5 voll., 1980, vol. IV, p. 92).

60 Ibid., vol. I, p. 219.

61 Si tratta di Controlling Nuclear Weapons. Democracy versus Guardianship, Syracuse University Press, Syracuse N.Y. 1985 (trad. it. Democrazia o tecnocrazia? Il controllo delle armi nucleari, il Mulino, Bologna 1987).

62 Cfr. il cap. VI di A. WOLFE, The Limits of Legitimacy. Political Contradictions of Contemporary Capitalism, The Free Press, New York 1977 (trad. it. I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, De Donato, Bari 1981).

63 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio cit., pp. 504-5.

64 I. KANT, Per la pace perpetua. Progetto filosofico (1795), in ID., Scritti politici cit., p. 288.

65 W. LAQUEUR, A World of Secrets, Basic Books, New York 1985 (trad. it. Un mondo di segreti, Rizzoli, Milano 1986, p. 254).

66 Il Progetto si può leggere in trad. it. in D. ARCHIBUGI, F. VOLTAGGIO (a cura di), Filosofi per la pace, Editori Riuniti, Roma 1991; le citazioni di questo capoverso si trovano rispettivamente alle pp. 199, 185, 186.

67 Ibid., p. 192.