Capitolo ottavo

Democrazia: le tecniche

I.
DALL’IDEOLOGIA DEMOCRATICA AGLI UNIVERSALI PROCEDURALI.

Democrazia ed Europa: due temi inscindibili. Non credo di poter essere accusato di «eurocentrismo» se faccio questa affermazione. Se oggi qualcuno vuol fare ancora dell’eurocentrismo, deve farlo sia per gli aspetti positivi sia per quelli negativi della civiltà europea. Un eurocentrismo come quello di Hegel non potrebbe oggi essere sostenuto piú da nessuno. Ma per quel che riguarda la democrazia come la intendiamo ancora oggi, e come la s’intende in tutto il mondo, nel bene e nel male, essa è nata in Europa piú di duemila anni fa. La parola stessa, ormai diffusa ovunque, che significa come tutti sanno potere (krátos) del popolo (démos), è arrivata sino a noi con l’identico significato di quando fu coniata per la prima volta cinque secoli avanti Cristo. Anche se, com’è altrettanto noto, il giudizio che diedero sul governo popolare la maggior parte dei dotti greci fu piú spesso negativo che positivo. Oggi è cambiata la tipologia delle forme di governo: gli antichi contrapponevano la democrazia all’aristocrazia e alla monarchia, oggi la contrapponiamo all’autocrazia, in cui vengono compresi tanto i governi aristocratici quanto quelli monocratici degli antichi, ma la definizione resta la stessa.

Ancora oggi chi voglia dare un’idea di quale sia la natura del governo democratico – nel suo aspetto positivo, nei suoi pregi –, credo non abbia molto da aggiungere a quello che disse Pericle, nel famoso epitaffio tramandato da Tucidide: la nostra forma di governo, dice Pericle, «si chiama democrazia» in quanto «si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. Le leggi regolano le controversie private in modo tale che tutti abbiano un trattamento eguale, ma quanto alla reputazione di ognuno, il prestigio […] non lo si raggiunge in base allo stato sociale di origine, ma in virtú del merito; e poi, d’altra parte, quanto all’impedimento costituito dalla povertà, per nessuno che abbia la capacità di operare nell’interesse della città è di ostacolo la modestia del rango sociale». Subito dopo aggiunge: «La nostra tuttavia è una vita libera non soltanto per quanto attiene i rapporti con la città, ma anche relativamente ai rapporti quotidiani […]: nessuno si scandalizza se un altro si comporta come meglio gli aggrada». Il che vuol dire che contrariamente alla interpretazione tramandata dal primo Ottocento in poi, secondo cui i Greci conoscevano soltanto la libertà politica o pubblica e non quella privata o civile, nel discorso di Pericle sono distinte ed elogiate tutte e due. Il passo culminante di tutto il discorso mi pare il seguente: «La cura degli interessi privati procede per noi di pari passo con l’attività politica, ed anche se ognuno è preso da occupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una buona conoscenza degli affari pubblici. Il fatto è che noi siamo i soli a considerare coloro che non se ne curano non persone tranquille ma buoni a nulla». La condizione preliminare del buon funzionamento di un regime democratico, sembra dire Pericle, è l’interesse dei cittadini alla cosa pubblica e la buona conoscenza di essa che ne può derivare. «Noi non pensiamo – conclude – che il dibattito arrechi danno all’azione; il pericolo risiede piuttosto nel non chiarirsi le idee discutendone, prima di affrontare le azioni che si impongono» 1.

Non ho bisogno di sottolineare che questa visione del governo di Atene è una visione idealizzata, come poteva essere presentata da un grande oratore in una solenne occasione com’era la celebrazione dei caduti in una guerra per la libertà del paese. Anche oggi, del resto, coloro che vivono in uno stato che si proclama democratico si rendono perfettamente conto del divario fra la democrazia ideale e la sua imperfetta realizzazione, piú o meno perfetta secondo i tempi e i luoghi. Resta la constatazione che, dopo piú di due millenni, abbiamo ben poco da aggiungere alla lezione che ci viene da cosí lontano ma con inesauribile e sempre rinnovata attualità.

In tutto il corso del pensiero politico europeo ritorna in ogni epoca un tema fondamentale: la contrapposizione fra l’Europa libera e il resto del mondo, e il resto del mondo è stato, sino all’età moderna, l’Oriente, non libero, governato da regimi dispotici. In altra occasione ho chiamato questa idea ricorrente, nella quale si esprime in forma tipica l’eurocentrismo, l’«ideologia europea», intendendo per ideologia qualcosa di meno irrazionale che mito, di meno definito che teoria, di meno pretenzioso che ideale. Rispetto a un ideale, l’ideologia non esclude, anzi comprende, la «falsa coscienza». La prima formulazione dottrinale di questa ideologia si trova già perfettamente enunciata nella Politica di Aristotele. Nel capitolo dedicato a descrivere le varie forme di monarchia, spiega che vi è una forma di monarchia propria dei popoli «barbari», molto simile alla peggior forma di governo, che per i Greci era la tirannia, anche se presso i popoli in cui esiste appare legittima e trasmessa per eredità. Si tratta della forma di governo che i Greci chiamavano «dispotismo» per significare che chi deteneva il potere supremo lo esercitava con quella assolutezza e quella arbitrarietà con cui esercita il suo potere il padrone di schiavi. Il che dipendeva dal fatto che «avendo per natura i barbari un carattere piú servile dei Greci, e gli Asiatici degli Europei, sottostanno al dominio dispotico senza risentimento» (Politica, III, 1285a). La contrapposizione non poteva essere piú netta: vi erano popoli naturalmente liberi cosí come vi erano popoli naturalmente schiavi. A questi si addiceva il governo dispotico, perché secondo la loro natura servile non avrebbero potuto vivere in un regime libero, come quello descritto da Pericle.

Si tratta di una contrapposizione ricorrente, quasi direi rituale, di cui si trovano infiniti esempi. All’origine dei grandi stati territoriali, il piú famoso scrittore politico del tempo, Machiavelli, proprio all’inizio del Principe introduce la distinzione fra le diverse forme di «principato» (che era il nome per monarchia). Da un lato vi sono le monarchie come quella francese in cui il potere del re è controllato dai «baroni», cioè dall’aristocrazia, e pertanto il potere del sovrano non è illimitato; dall’altro vi sono i principati in cui vi è «uno principe e tutti li altri servi» (Il Principe, IV). Dovendo fare un esempio di questo principato, che mostra di non apprezzare, fa l’esempio dello stato turco. Ancora una volta uno stato orientale. Tutta l’analisi storica di queste due forme di principato è elaborata sulla contrapposizione tra Francia e Turchia, tra un paese europeo e un paese non europeo, da cui anzi l’Europa deve guardarsi come da una grande minaccia alla propria sopravvivenza. Ancora dopo la Rivoluzione francese, il piú grande filosofo dell’età della Restaurazione, Hegel, per alcuni il piú grande filosofo di tutti i tempi, scrive che se la storia umana ha un senso essa è storia della libertà, ovvero conquista graduale, se pure attraverso età di progresso e di decadenza, di sempre maggiore libertà dei popoli e degli individui: questo processo di liberazione – svoltosi attraverso tre tappe, per cui originariamente, negli stati dispotici orientali, uno solo era libero, nelle epoche di mezzo, pochi erano liberi, e soltanto nell’età a lui contemporanea, anche grazie alla riforma protestante prima e alla Rivoluzione francese poi, tutti sono liberi – è avvenuto secondo il movimento del sole, da Oriente a Occidente, ed è giunto ora al suo punto culminante in Europa.

Beninteso, tracciando le linee della cosiddetta ideologia europea, non si vuol nascondere o dimenticare l’altra faccia della civiltà europea, che un grande spirito liberale, uno degli ispiratori della dottrina liberale moderna, Benjamin Constant, nell’età delle guerre napoleoniche, aveva chiamato l’esprit de conquête 2. Ma è certo che l’idea – ripeto l’«idea», cui non sempre corrisponde la realtà o vi corrisponde una realtà molto diversa – di un governo dei cittadini, in cui i singoli o sono o dovrebbero essere, secondo una coerente applicazione del principio, i titolari del potere sovrano, e godere di quelle libertà di parola, di stampa, di riunione e di associazione che permettano l’esercizio effettivo di quel potere, è il filo rosso che passa, quante volte spezzato, ma quante volte di nuovo ricucito, attraverso tutta la storia del continente europeo, tanto da essere considerato nelle diverse teorie del progresso, che sono anch’esse un tipico prodotto dello spirito europeo, come uno dei criteri per distinguere le età progressive da quelle di decadenza.

Nonostante i momenti di ascesa e di ricaduta che si alternano nella storia delle nazioni, i principî iniziali del governo democratico si sono andati estendendo progressivamente e in modo irreversibile almeno in due direzioni: a) nell’attribuzione dei diritti politici; b) nell’ambito della loro applicazione. Dal primo punto di vista, nelle città antiche i diritti politici, quei diritti che facevano di un uomo un cittadino, appartenevano a una minoranza degli abitanti di una città; tutti gli altri, la maggioranza, ne erano privi, ed erano privi non soltanto dei diritti politici ma anche di quelli civili, in quanto schiavi. Nei comuni italiani, che sono stati esaltati come un esempio di democrazia cittadina, si distingueva il popolo grasso dal popolo minuto. In forma lapidaria secondo il suo stile, Machiavelli aveva detto: «Li uomini che nelle repubbliche servono alle arti meccaniche non possono saper comandare come principi quando sono preposti a’ magistrati, avendo imparato sempre a servire» 3. Sappiamo benissimo quale è stato il processo di graduale allargamento del suffragio nel corso dell’ultimo secolo. Quando fu istituito in Italia per la prima volta il regime delle elezioni dei rappresentanti alla camera dei deputati gli aventi diritto al voto erano il 2 per cento. E questo regime durò per piú di trent’anni. Al suffragio universale maschile e femminile si è arrivati soltanto nel 1945, cioè dopo un secolo. È altrettanto noto che anche quella piccolissima parte del paese che aveva acquisito il diritto di votare si accostava ai riti elettorali, com’è stato scritto recentemente, con estrema riluttanza. Alle urne non andavano quasi mai piú della metà degli elettori.

Dal secondo punto di vista, il processo storico della democrazia è avvenuto nel passaggio dalla democrazia delle città a quella dei grandi stati territoriali, ed ora, almeno a cominciare dalla fine della prima guerra mondiale, ai primi tentativi, ancora imperfettissimi ma aperti al futuro, di quella del sistema internazionale. Come per secoli si è ritenuto che solo pochi avessero il diritto di prendere parte attiva alla vita della loro città – non inganni la parola «popolo», che ha sempre significato non la totalità degli abitanti ma solo quella parte che godeva del diritto di decidere o di eleggere chi avrebbe dovuto decidere per essa, tanto che ancora Machiavelli distingueva in Firenze le divisioni fra i nobili, quelle tra i nobili e il popolo e quella essenziale tra il popolo e la plebe (la populace dei Francesi, il Pöbel dei Tedeschi) –, cosí per secoli si è sempre ritenuto che le istituzioni democratiche, anche cosí ristrette, fossero possibili solo nei piccoli stati. Quando all’inizio dell’età moderna si formarono i grandi stati, questi erano rappresentati o da monarchie o da repubbliche aristocratiche, come Genova e Venezia. (Del resto anche la piú piccola repubblica sopravvissuta in Italia, la Repubblica di San Marino, di poche migliaia di abitanti, visse per secoli come repubblica aristocratica e divenne uno stato democratico soltanto in questo secolo 4). Ritengo superfluo aggiungere che l’estensione dell’ambito territoriale ebbe per effetto il passaggio dalla democrazia diretta a quella rappresentativa. Quando parlavano di democrazia gli antichi intendevano la democrazia diretta, del popolo radunato in piazza a sentire gli oratori e a decidere dopo averli ascoltati, cosí com’era diretta la democrazia dei comizi romani o dell’arengo delle città medioevali. Ancora Montesquieu quando nell’Esprit des lois espone la sua teoria della democrazia, e fa l’esempio di Atene, e dice che la democrazia ha bisogno per sopravvivere della virtú dei cittadini (III, 3), ha in mente la piccola città-stato dove le decisioni essenziali possono essere prese direttamente dal popolo radunato in assemblea. Si limita a dire: il popolo, ciò che non può fare da solo, lo rimette ai suoi ministri (II, 2). Ma soltanto ciò che non può fare da solo. Oggi noi diciamo il contrario. Il popolo non può fare niente da solo, ma deve rimettere tutto ai suoi «ministri», ovvero ai suoi rappresentanti. Resta sostanzialmente vero quello che Rousseau, l’ultimo fautore della democrazia diretta, che peraltro riconosceva essere possibile solo in un popolo di dèi, diceva nel Contratto sociale a proposito del popolo inglese: che era libero solo nel momento in cui andava a votare, e subito dopo ridiventava servo (III, 15). Quella che oggi noi chiamiamo democrazia rappresentativa, allora si sarebbe chiamata, con lo stesso Rousseau, «aristocrazia elettiva» (III, 5), che non è cosa molto diversa da quello che oggi chiamiamo «elitismo democratico».

Nulla piú che la democrazia internazionale, di cui l’Organizzazione delle Nazioni Unite è stato il primo grandioso se pure imperfettissimo esempio, dimostra il divario tra ciò che un governo democratico dovrebbe essere e quello che è, tra l’ideale democratico e la democrazia reale o realizzata. E dimostra anche quanto sia errato parlare di democrazia in generale: vi sono nel mondo democrazie molto diverse fra loro, e si possono distinguere in base al diverso grado di approssimazione al modello ideale. La democrazia perfetta non può esistere o di fatto non è mai esistita. E non può esistere almeno per due ragioni, che vorrei brevemente illustrare. I valori ultimi – questa è la prima ragione – cui s’ispira la democrazia, in base ai quali noi distinguiamo i governi democratici da quelli che non lo sono, sono la libertà e l’eguaglianza. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo comincia come tutti sanno con queste sacrosante parole: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». La verità è che gli esseri umani, almeno la stragrande maggioranza, non nascono né liberi né eguali. Sarebbe molto piú esatto dire: «Gli uomini aspirano a diventare liberi ed eguali». La libertà e l’eguaglianza sono non un punto di partenza ma se mai un punto di arrivo. La democrazia può essere considerata come un processo, lento ma inarrestabile, per avvicinarsi a questa meta. Ma la meta è nella sua pienezza irraggiungibile, per una ragione intrinseca ai due principî medesimi della libertà e dell’eguaglianza. Questi due principî sono fra loro, in ultima istanza, condotti cioè alle loro estreme conseguenze, incompatibili. Una società in cui siano protette tutte le libertà, ivi compresa quella economica, è una società profondamente inegualitaria, checché ne dicano i fautori del mercato. Ma nello stesso tempo una società in cui il governo adotta misure di giustizia distributiva tali da rendere i cittadini eguali non solo formalmente o di fronte alle leggi, come si dice, ma anche sostanzialmente, è costretta a limitare molte libertà. L’esperienza di questo ultimo cinquantennio, dominato dal contrasto irriducibile tra le società capitalistiche e le società collettivistiche, ha dimostrato al di là di ogni previsione la realtà di questa incompatibilità, per risolvere la quale, ma sempre in forma provvisoria e continuamente sottoposta a revisione, ad aggiustamenti temporanei, mai definitivi, non possono essere adottate che misure di compromesso.

La seconda ragione del contrasto fra la democrazia ideale e quella reale mi obbliga a un discorso un po’ piú lungo. Parto dal presupposto che il fondamento etico della democrazia è il riconoscimento dell’autonomia dell’individuo, di tutti gli individui, senza distinzione di razza, di sesso, di religione e cosí via. In questo presupposto sta la forza morale della democrazia, ciò che fa idealmente – insisto sull’idealmente – della democrazia la forma piú alta, umanamente piú alta, di convivenza. Però, nonostante le magnifiche parole di Pericle, gli Ateniesi cui si rivolgeva erano una piccola parte della città. Aristotele, come tutti sanno, giustificava la schiavitú. Il riconoscimento della pari dignità di tutti gli uomini avvenne in Europa soltanto col cristianesimo. Questa idea fu poi secolarizzata, nel senso che diventò da idea religiosa principio morale razionale e universale, con le teorie del diritto naturale dell’età moderna. Queste, per ricostruire razionalmente lo stato, la «società civile», come si chiamava, partivano dall’ipotesi di uno stato primitivo dell’umanità, chiamato stato di natura. In questo stato di natura esistono soltanto individui, coi loro diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita, cui seguono via via tutti gli altri, come quelli alla libertà, alla pari dignità, alla sicurezza e cosí via. All’inizio, dunque, secondo questa ipotesi, non c’è l’uomo in società, l’uomo sociale o politico, come dicevano gli antichi, ma l’individuo nella sua singolarità, direi quasi nella sua solitudine. È questo individuo che decide, per sua libera scelta, di dar vita alla società civile, ovvero ad una convivenza regolata, organizzata, pacifica, da cui trarre protezione e un minimo benessere. La società civile non esiste in natura. In natura esistono soltanto individui isolati, indipendenti gli uni dagli altri, e per Rousseau, che ci ha lasciato la descrizione piú minuta di questo stato, anche autosufficienti. La società civile è un prodotto artificiale derivato dall’accordo di individui decisi a vivere insieme e a cooperare fra loro per superare il proprio isolamento. Ciò vuol dire che all’origine dello stato moderno che nasce dal contratto sociale, e quindi dalla libera volontà degli individui, sta l’idea che non l’individuo è il prodotto della società ma è la società il prodotto dell’individuo. E pertanto la società deve essere costruita in modo da essere per l’individuo benefica e non malefica.

In questa inversione consiste nella filosofia pratica la rivoluzione copernicana, parallela a quella che Kant aveva affermato nella teoria della conoscenza. Rivoluzione che possiamo riassumere, in entrambi i campi, come il passaggio dal punto di vista dell’oggetto al punto di vista del soggetto. Nella sfera della politica questo capovolgimento significa che si comincia a guardare la società civile, caratterizzata dal rapporto fra governanti e governati, dal punto di vista dei governati e non piú dei governanti. Di questa inversione del rapporto politico per eccellenza sono la prima grande espressione pratica, politicamente rilevante, le Dichiarazioni dei diritti della fine del Settecento che accompagnano le due rivoluzioni democratiche, quella americana e quella francese. Per riprendere un’immagine di Hegel, quella del «mondo alla rovescia», di cui sarebbe portatrice la filosofia, immagine ripresa da Marx quando disse che Hegel aveva messo il mondo sulla testa ed era venuto il momento di rimetterlo sui piedi, nella sfera della politica il «mondo alla rovescia» rispetto a tutta la tradizione è quello in cui il punto di partenza del rapporto politico non è piú lo stato ma l’individuo.

L’individuo dunque come fondamento etico della democrazia. Ma quale individuo? La risposta che si ricava da tutta la tradizione del pensiero democratico è una sola: l’individuo razionale, razionale nel senso di essere in grado di valutare le conseguenze non soltanto immediate ma anche future delle proprie azioni, e quindi di valutare i propri interessi in relazione agli interessi degli altri, e con questi compatibili, in un equilibrio instabile ma sempre passibile di essere ristabilito attraverso la logica, caratteristica di un regime democratico, del compromesso. Per fare il solito esempio che sta alla base della morale razionale che è quella kantiana: io posso avere interesse immediato a trasgredire un patto, e avvantaggiarmi in questo modo del fatto che l’altro lo ha osservato, ma non posso in quanto uomo razionale voler vivere in un mondo in cui tutti i patti vengano trasgrediti, perché in uno stato cosiffatto sarebbe impossibile qualsiasi forma di convivenza pacifica. Grandemente significativo è il fatto che nello stesso articolo primo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, poc’anzi citata, gli uomini di cui si parla siano chiamati «dotati di ragione e di coscienza».

La giustificazione della democrazia, ovvero la principale ragione che ci consente di difendere la democrazia come la miglior forma di governo o la meno cattiva, sta proprio nel presupposto che l’individuo singolo, l’individuo come persona morale e razionale, sia il migliore giudice del proprio interesse. Ogni altra forma di governo è fondata sul presupposto contrario, vale a dire sul presupposto che vi siano alcuni individui superiori o per nascita o per educazione o per meriti straordinari o perché piú fortunati, o anche un solo individuo, che sono in grado di giudicare quale sia il bene generale della società intesa come un tutto, meglio di quel che possano fare i singoli individui. Tutte le forme di governo che non partono dai diritti e dagli interessi degli individui vengono chiamate «paternalistiche», o «dispotiche». Si tratta di un vecchio problema, ancora recentemente resuscitato da Robert Dahl, in una serie di lezioni pubblicate col titolo Democracy and Guardianship, che prende spunto dalla famosa teoria platonica del governo dei guardiani, ovvero di coloro che sanno, di cui sarebbe una versione contemporanea il governo dei tecnici, la tecnocrazia. Dahl, da buon democratico, difende contro le tendenze tecnocratiche il governo di tutti, introducendo la distinzione fra competenza tecnica, che effettivamente appartiene a pochi nei settori altamente specializzati, come quello delle armi nucleari, e competenza morale, che non è esclusiva di nessuna classe particolare di individui. La convinzione che vi sia questa competenza morale al di sopra della competenza tecnica, è il presupposto ideale della democrazia. Voglio citare almeno alcune parole finali del libro, che in un mondo dominato dalla volontà di potenza di coloro che detengono la maggior parte dei beni della terra, si apre alla speranza: «Lo scopo di questo libro è stato quello di rivitalizzare la speranza che l’antica visione, ormai vecchia di venticinque secoli, del popolo che si autogoverna mediante il processo democratico […] possa essere ancora una volta riadattata ad un mondo drasticamente diverso da quello in cui una tale visione delle cose venne messa in pratica per la prima volta» 5.

Ma esiste questo uomo razionale? L’uomo razionale è un ideale-limite. Proprio per questo anche la democrazia è un ideale-limite. A parte la considerazione che se tutti gli uomini fossero razionali non ci sarebbe neppure piú bisogno di un governo, anche limitatamente alla razionalità puramente strumentale la stragrande maggioranza degli individui manca delle conoscenze necessarie per farsi un giudizio personale e fondato in vista delle decisioni che deve prendere. E poi, anche quelli che potrebbero conoscere meglio le cose, possono essere facilmente ingannati da chi possiede, oltre le conoscenze, i mezzi di propaganda sufficienti per fare apparire i propri interessi o quelli del proprio gruppo come gli interessi di tutti. Insomma, molti non sono in grado di sapere. Molti credono di sapere e non sanno.

Un ideale-limite è già di per se stesso, per definizione, irraggiungibile. Vi possono essere storicamente maggiori o minori approssimazioni a questo ideale. Ma nessun ideale è di questo mondo. Ciò che noi oggi chiamiamo democrazia, in contrapposto ai governi autoritari, alle dittature, agli stati totalitari, non è una meta, è una via, una via di cui siamo forse soltanto all’inizio, nonostante sia stata tentata per la prima volta molti secoli fa, tentata e mille volte interrotta. Il fatto che nonostante le frequenti e brutali interruzioni sia stata sempre ripresa, è per lo meno ragione di speranza. Una via di cui non conosciamo neppure l’esito, come del resto non sappiamo l’esito della storia umana nel suo complesso, ma che almeno come via ci sembra piú praticabile e piú agevole delle altre, o forse soltanto meno disperata. Questa idea della democrazia come via è diventata ormai di dominio comune. È un’idea che serve a fare apparire minore il divario fra la democrazia ideale e quella reale, perché, come ho detto in altre occasioni, è la definizione minima di democrazia quella sulla quale possiamo piú facilmente metterci d’accordo. Una definizione minima e, proprio perché minima, realistica. Una via, un metodo. Si chiama ormai abitualmente concezione procedurale della democrazia, che mette l’accento sulle cosiddette regole del gioco, l’insieme delle regole che debbono servire a prendere le decisioni collettive, le decisioni che interessano tutta la collettività, col massimo di consenso e col minimo di violenza. Si ritrovano oggi intorno a questa definizione alcuni dei maggiori filosofi, economisti e giuristi contemporanei, come Karl Popper, Schumpeter, Alf Ross, Hayek, Kelsen. Democrazia e autocrazia, scrive Kelsen, «sono soltanto metodi per la creazione di un ordine sociale». La democrazia si distingue dalle altre forme di governo per le regole che presiedono alla «scelta dei capi» 6, che consiste nella elezione periodica anziché nella successione ereditaria o nella cooptazione, e per quelle altre regole che stabiliscono il modo di prendere le decisioni collettive, di cui la principale è il principio di maggioranza. La prima è volta ad impedire che una classe politica si perpetui senza sottoporsi al controllo degli individui sui quali esercita il proprio potere, la seconda deve servire a prendere le decisioni collettive col massimo di consenso e pacificamente. Che poi questa classe politica eletta sia la migliore, la regola democratica in quanto tale non lo può garantire, ma, come ha scritto Popper, solo in un regime democratico la classe politica può essere cambiata senza spargimento di sangue 7. Cosí non è affatto garantito che la decisione presa a maggioranza sia la piú saggia. Ma almeno è quella che si può presumere sia a vantaggio dei piú, purché s’intende possa essere cambiata con la stessa procedura.

Questa definizione di democrazia come via, come metodo, come insieme di regole del gioco, che stabiliscono come si debbono prendere le decisioni collettive e non quali decisioni collettive debbono essere prese, è relativamente nuova. Ma se la si confronta con l’orazione di Pericle da cui siamo partiti, ci rendiamo subito conto che le due definizioni non sono tanto diverse e possono essere l’una con l’altra confrontate. Anche il capo ateniese si era limitato a decantare alcuni principî, quello della separazione tra vita privata e vita pubblica, quello della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, del deliberare attraverso la libera discussione, che sono tutti «universali procedurali», come vengono chiamati dai giuristi. Questi universali procedurali che caratterizzano la democrazia si possono fissare in questi punti essenziali: 1) tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprima per lui; 2) il voto di tutti i cittadini deve avere peso eguale; 3) tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto è piú possibile liberamente cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4) debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5) sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato o si consideri valida la decisione, che ottiene il maggior numero di voti; 6) nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare a sua volta maggioranza a parità di condizioni.

Sono regole, a enumerarle, semplicissime, ma tutt’altro che facili da applicare correttamente. Ma sono tutte regole che stabiliscono non già che cosa si deve decidere, bensí soltanto chi debba decidere e come. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere, come ho scritto una volta, che queste regole puramente formali dànno al concetto di democrazia un significato ristretto. Ma è sempre meglio un significato ristretto e chiaro, che uno largo, come quello secondo cui la democrazia è il governo del popolo e per il popolo, ma vago. Confesso che ho una certa difficoltà ad ammettere che quando si parla di democrazia, e ci si voglia intendere, e non ingannarsi a vicenda come spesso accade nelle discussioni politiche, si voglia intendere altro. Chi intende altro sarebbe meglio che lo dicesse chiaramente. Sono anche disposto ad ammettere che affinché uno stato sia veramente democratico, non basta l’osservanza di queste regole, vale a dire riconosco i limiti della democrazia soltanto formale, ma non ho dubbi sul fatto che basta l’inosservanza di una di queste regole perché un governo non sia democratico, né veramente né apparentemente.

Non ho mai guardato alle cose di questo mondo con molto ottimismo. Appartengo a una generazione che ha assistito negli anni della giovinezza a eventi terribili, che hanno lasciato sulla nostra anima il segno per sempre. Ma non vi assisto neppure con inerte rassegnazione. Sul futuro non faccio né previsioni né scommesse. Lasciamo le previsioni agli astrologi, le scommesse ai giocatori d’azzardo. Gli uni confidano nelle catene inesorabili della necessità, gli altri si affidano al caso. L’uomo di ragione si limita a fare delle ipotesi partendo da alcuni dati di fatto. Per lui la necessità prova troppo, il caso troppo poco. Fra i dati di fatto da cui si può partire per fare un’ipotesi, c’è l’allargamento dello spazio occupato dai regimi democratici nel mondo attuale, in Europa dopo la seconda guerra mondiale, e non solo in Europa. Abbiamo ascoltato non molto tempo fa il capo di uno dei due grandi paesi che con la sua potenza ha tenuto nelle proprie mani gran parte delle sorti del mondo, dire che «La democrazia è un valore in sé, perché attraverso essa passa la via alla creazione delle condizioni per lo sviluppo multiforme di ogni personalità, della sua responsabilità e attivismo civile». Una dichiarazione cosí clamorosa sulla bocca di un uomo politico, alla testa di un paese il cui processo di democratizzazione iniziato con una grande rivoluzione liberatrice si arrestò troppo presto, è un buon auspicio che il cammino della democrazia sia irreversibile. Non oso sperarlo ma non mi sentirei neppure di escluderlo.

Ho detto non molto tempo fa con una certa enfasi, che mi è stata rimproverata, che la democrazia è, piaccia o non piaccia, il nostro destino. Mi riferivo al mio paese, che aveva conosciuto un triste periodo di dittatura, e nel quale nonostante tutti i difetti che sarebbe inutile nascondere, la democrazia nata da una dura lotta contro il fascismo sembra aver posto salde radici. Mi riferivo all’Italia ma volgevo lo sguardo all’Europa in cui in pochi anni sono caduti regimi di dittatura che sembravano eterni. Parlando in un paese non europeo che non ha mai dimenticato le sue radici nel vecchio continente, oso formulare l’augurio che la democrazia sia il destino, permettetemi di ripetere questa parola solenne, non solo dell’Europa ma del mondo intero.

II.
LA REGOLA DI MAGGIORANZA: LIMITI E APORIE.
1. Regole di maggioranza e democrazia.

Che i sistemi politici che si sogliono chiamare democratici, o piú frequentemente di democrazia occidentale, siano sistemi in cui vale la regola della maggioranza sia per la elezione di coloro cui è attribuito il potere di prendere decisioni valide per tutta la collettività sia per la formazione delle decisioni dei supremi organi collegiali, non implica che: a) la regola della maggioranza sia esclusiva dei sistemi democratici; b) che le decisioni collettive in questi sistemi vengano prese esclusivamente mediante la regola della maggioranza. In altre parole, nonostante l’opinione comune che un sistema democratico sia caratterizzato dalla regola della maggioranza rispetto ai sistemi autocratici, quasi che democrazia e principio maggioritario siano due concetti della medesima estensione e quindi sovrapponibili, non è vero che: a) solo nei sistemi democratici valga la regola della maggioranza; b) in essi le decisioni collettive vengano prese solo mediante la regola della maggioranza. Ne viene che democrazia e regola della maggioranza, anziché essere due concetti di eguale estensione, hanno soltanto una parte della loro estensione in comune, e quindi sovrapponibile, potendosi dare da un lato sistemi politici non democratici che conoscono la regola della maggioranza sia per l’elezione del supremo organo decisionale sia per la formazione delle supreme decisioni collettive, dall’altro decisioni collettive di sistemi democratici non prese in base alla regola della maggioranza, senza che per questo tali sistemi cessino di essere annoverati tra i sistemi democratici.

Questa sovrapposizione deriva dall’errata interpretazione della definizione classica, e sulla scia dei classici diventata corrente, della democrazia come governo della maggioranza. Quando nella tripartizione classica delle forme di governo la democrazia viene definita come governo della maggioranza in contrapposto alla oligarchia e alla monarchia, si vuol dire che il potere politico è nelle mani dei piú e dei molti in contrapposizione al potere di uno solo o di pochi; non si vuol affatto dire che il potere politico venga esercitato mediante l’applicazione della regola della maggioranza. Per Aristotele la democrazia è il governo di molti, in quanto è il governo dei poveri i quali sono in genere la maggioranza della popolazione, mentre l’oligarchia è il governo di pochi in quanto è il governo dei ricchi i quali sono in genere una minoranza 8. In un contesto di questo tipo, se si vuol parlare di governo della maggioranza per la democrazia se ne parli pure, purché sia chiaro che per «maggioranza» s’intende il soggetto collettivo del potere politico in opposizione ad altri soggetti, quali il monarca, i ricchi, i nobili, ecc.; non s’intende affatto il governo mediante una determinata regola di procedura per l’esercizio del potere. Indica quanti governano, non come governano 9.

L’idea in genere assiologicamente negativa del governo di maggioranza che accompagna la storia della democrazia dall’antichità ai giorni nostri deriva non tanto da una riprovazione della regola della maggioranza quanto dal disprezzo per la massa considerata incapace di governare. Gli stessi scrittori antidemocratici non hanno alcuna difficoltà ad accettare la regola della maggioranza quando questa sia applicata alla formazione delle decisioni di un organo aristocratico come il Senato romano, il Maggior Consiglio della Repubblica di Venezia o il Conclave per l’elezione del pontefice. Mussolini cadde per un voto di sfiducia espresso secondo la regola della maggioranza dal Gran Consiglio del Fascismo, che non era un organo di un regime democratico, era anzi l’organo costituzionale fondamentale di un regime che aveva fatto della lotta contro la democrazia uno dei motivi principali della sua esistenza e del suo successo. Si può dire se mai che da parte degli scrittori antidemocratici avviene il rifiuto della regola formale di maggioranza quando essa permette alla maggioranza sostanziale di prendere il sopravvento. Ma ciò non significa la condanna della regola della maggioranza in quanto tale. Affinché la regola della maggioranza diventi il principio formale attraverso il quale la maggioranza prende il potere occorrono circostanze storiche particolari la cui nascita non dipende generalmente da una decisione presa in base al principio di maggioranza. Al quale quindi non possono essere imputati gli inconvenienti del governo della maggioranza, il quale è sempre stato inteso, lo ripeto, come una forma cattiva di governo non perché in esso valga la regola della maggioranza ma perché governa la maggioranza anche attraverso quell’espediente tecnico che è la regola della maggioranza di cui si servono quando occorre pure i governi delle minoranze.

La storia del principio di maggioranza non coincide con la storia della democrazia come forma di governo. Questa storia è stata raccontata piú volte e non è il caso di ripetere cose note o facilmente conoscibili. Ma alcune informazioni possono essere utilmente richiamate. In linea generale si può dire che dal diritto romano in poi (il diritto romano è stato ritenuto per secoli, e nei giuristi continentali ancora oggi, il punto di partenza di ogni riflessione sul tema) la regola della maggioranza è stata considerata come la procedura necessaria o piú idonea alla formazione di una decisione collettiva nelle universitates, cioè nelle società di persone in cui i singoli membri unendosi dànno vita a una totalità distinta da, e superiore a, le sue parti, e in cui quindi i componenti, essendo chiamati a esprimere il proprio consenso non uti singuli ma uti universi, sono tenuti ad esprimerlo collegialiter e non separatim. Che poi la regola della maggioranza fosse applicata solo nelle collettività di diritto pubblico, in base al principio «refertur ad universos quod publice fit per maiorem partem» (D. 50, 17, 160, 1), e non in quelle di diritto privato, in cui vigeva il principio del rispetto assoluto dell’autonomia del singolo, onde la massima «quod omnes similiter tangit ab omnibus comprobetur» (C. 5, 59, 5); oppure che nel diritto germanico la regola «quod maior pars facit totum facere videtur» vigesse, secondo la nota interpretazione del Gierke, solo nelle Körperschaften e non anche nelle Genossenschaften; che ancora nel diritto moderno si sia continuato a discutere se la regola della maggioranza, sempre contrapposta alla regola dell’unanimità, attribuente a ogni singolo il ius prohibendi, sia da riconoscersi soltanto alle collettività riconosciute come persone giuridiche o anche ad altre 10: sono tutti problemi che non è il caso di approfondire in questa sede perché sono al nostro fine irrilevanti. Sta di fatto però che tutte queste discussioni dimostrano che il secolare dibattito intorno alla natura, alla funzione, alle modalità della regola della maggioranza si svolge in modo completamente indipendente dal dibattito intorno alla democrazia e alle forme di governo, e che il suo campo di applicazione è esclusivamente quello della natura, della funzione, delle modalità di funzionamento dei corpi collegiali, la cui esistenza non è minimamente connessa alla forma di regime politico, ed è perfettamente compatibile con regimi non democratici. Gli organi collegiali romani, ivi compreso il Senato, in cui le decisioni collettive vengono prese a maggioranza, continuano a sopravvivere anche durante il principato. Lo sviluppo delle Körperschaften nel medioevo germanico avviene in un contesto storico generale in cui il problema della democrazia intesa come forma di governo distinta dalla monarchia e dall’aristocrazia non si pone neppure. Che nelle elezioni dell’imperatore del Sacro Romano Impero sia avvenuto gradualmente il passaggio dall’elezione unanime fondata sul liberum veto all’elezione in base al voto della maggioranza dei principi e vescovi elettori, sancita definitivamente dalla Bolla d’Oro (1356), non vuol affatto dire che il sistema politico dell’Impero nel suo insieme sia diventato piú democratico (nel senso in cui da Aristotele in poi s’intende per democrazia il governo della maggioranza e non solo il governo in cui alcuni organi vengono eletti e decidono a maggioranza). Lo stesso si deve dire del passaggio dall’elezione unanime (per acclamazione) alla elezione indiretta del Doge nella Repubblica di Venezia.

2. Argomenti pro e contro.

A riprova di quanto sto dicendo si considerino gli argomenti che sono stati addotti per dare una giustificazione razionale a una regola come quella della maggioranza apparentemente irrazionale (una regola cioè che affida a un criterio quantitativo una scelta, come una elezione o una decisione, eminentemente qualitativa). Questi argomenti possono essere distinti in assiologici e tecnici, ovvero, adottando una nota distinzione weberiana, con alcuni di essi si cerca di dimostrare che la regola è razionale secondo il valore, con altri che è razionale secondo lo scopo 11. Tra i primi sono quelli in base ai quali la regola viene giustificata perché permette meglio di ogni altra la soddisfazione di alcuni valori fondamentali, come la libertà e l’eguaglianza. Tra i secondi, quelli che prendono in considerazione lo scopo che con la regola si vuol raggiungere, che è soprattutto quello di permettere il raggiungimento di una decisione collettiva fra persone che hanno opinioni diverse. Per coloro che argomentano nel primo modo la regola trae la sua validità dal valore o dai valori cui serve, per gli altri vale come utile espediente tecnico.

Di fronte a questa diversa natura dei motivi di giustificazione, la prima osservazione da fare è che gli uni e gli altri valgono in contesti diversi in quanto hanno obiettivi polemici diversi. Chi argomenta in favore della regola di maggioranza facendo appello ai valori della libertà e dell’eguaglianza la difende soprattutto come rimedio alla elezione o decisione dell’autocrate che non rispetta la libertà di scelta dei soggetti né li riconosce come eguali. Chi invece argomenta in favore della regola considerandola come un utile, anzi indispensabile, espediente tecnico di qualsiasi corpo collettivo la difende principalmente come rimedio all’unanimità. Che i campi di applicazione dei due tipi di argomento siano diversi si può dimostrare e contrario da questa osservazione: non si andrebbe tanto lontano dal vero sostenendo che mentre sembra piú razionale, secondo il valore, la regola della maggioranza rispetto al principio autocratico, questo sembra rispetto a quella piú razionale secondo lo scopo; d’altra parte, mentre sembra piú razionale, secondo lo scopo, la regola della maggioranza rispetto a quella dell’unanimità, questa sembra rispetto a quella piú razionale secondo il valore. Infatti se si considera il problema unicamente dal punto di vista dello scopo, del rapporto mezzo-fine, cioè dal punto di vista del modo piú rapido di giungere ad una decisione collettiva, non pare dubbio che il principio autocratico sia piú funzionale che il principio maggioritario; se si guarda al problema dal punto di vista dei valori, della libertà e dell’eguaglianza, non pare dubbio che la regola dell’unanimità li garantisca meglio di quella della maggioranza.

La seconda osservazione è che gli argomenti assiologici sono quelli preferibilmente adottati dagli scrittori democratici, cioè da coloro che stabiliscono un nesso strettissimo fra sistema politico democratico e regola della maggioranza, e considerano la regola della maggioranza come una caratteristica essenziale, se non addirittura esclusiva, della democrazia come forma di governo. Ebbene, questi argomenti, a ben guardare, sono i piú deboli, sono in complesso meno convincenti degli argomenti tecnici o di tecnica dell’organizzazione, che servono a giustificare la regola della maggioranza non tanto come regola fondamentale della democrazia quanto come la miglior regola per la formazione di una volontà collettiva in qualsiasi gruppo organizzato.

Trascelgo come esemplare l’argomentazione di Kelsen, sia per l’autorità dell’autore sia perché si richiama a entrambi i valori democratici per eccellenza. Dice Kelsen, infatti, a conclusione del ragionamento che «il principio di maggioranza, e pertanto l’idea di democrazia [come si vede l’idea di democrazia è fatta dipendere dal principio di maggioranza] è una sintesi delle idee di libertà e di eguaglianza» 12. Mi sbrigo subito del secondo argomento, cioè del rapporto fra il principio di maggioranza e il valore democratico dell’eguaglianza. Tra il principio che tutti gli individui sono «di eguale valore politico», come dice Kelsen, e il principio di maggioranza non c’è un rapporto necessario. Il rapporto c’è, ma solo negli stati democratici in cui è in vigore il suffragio universale maschile e femminile (ma anche là dove è in vigore il suffragio universale vi sono sempre delle eccezioni). In uno stato in cui pur sia in vigore il suffragio universale ma solo maschile, il principio di maggioranza può benissimo essere un principio fondamentale per le elezioni politiche e per le principali decisioni collettive senza che sia in vigore il principio che tutti gli individui hanno eguale valore politico. Ma si possono fare infiniti altri esempi in cui principio di maggioranza e principio di eguaglianza non coincidono: sono tutti quei casi in cui si tiene conto della maggioranza dei voti, ma non tutti i voti sono eguali. Tanto in una grande assemblea di una società per azioni, quanto in una modestissima assemblea di un condominio, ognuno ha un voto proporzionato alla propria quota, il che porta alla conseguenza che la maggioranza si forma con voti diseguali. Anche una ipotetica votazione politica con voto plurimo (ma vige spesso la regola che in caso di parità di voti il voto del presidente conta per due) non contraddirebbe il principio di maggioranza pur non rispettando il principio democratico del valore eguale degli individui. Ciò non vuol dire che non ci sia un nesso fra l’idea democratica dell’eguaglianza e il principio di maggioranza. Ma il nesso c’è nel senso che, una volta accolta quella idea, il principio di maggioranza s’impone; non nel senso opposto che il principio di maggioranza implichi l’idea dell’eguaglianza. Il che è proprio quello che volevasi dimostrare: l’idea di eguaglianza non può essere assunta a ragione giustificatrice del principio di maggioranza.

3. Gli argomenti assiologici.

Rispetto al rapporto fra la regola della maggioranza e l’idea della libertà il discorso è di tutt’altra natura, anche se conduce a risultati non diversi. L’argomento di Kelsen è formulato brevemente in questo modo: intesa la libertà come autodeterminazione, nessun ordinamento sociale potrebbe sussistere col piú alto grado di autodeterminazione, cioè se ogni individuo si autodeterminasse senza tener conto delle autodeterminazioni di tutti gli altri. Per rendere possibile qualsiasi forma di società è quindi necessario limitare l’autodeterminazione. Il principio di maggioranza è quello che permette di limitare l’autodeterminazione pur assicurando il piú alto grado di libertà possibile, intesa la libertà politica come «l’accordo fra la volontà individuale e la volontà collettiva espressa nell’ordinamento sociale» 13. Con espressione tratta dal linguaggio economico, che Kelsen non usa, oggi si direbbe che a favore del principio di maggioranza si può sostenere che esso è la regola la cui applicazione permette la «massimizzazione della libertà», o, con altra espressione analoga, la «massimizzazione del consenso» (giacché una volta intesa la libertà come autodeterminazione «essere liberi» significa ubbidire alle leggi cui si è dato il proprio consenso). Che il principio di maggioranza massimizzi la libertà come autodeterminazione o il consenso, e quindi come tale possa essere fatto valere contro il principio autocratico, si può accettare, e lo si può accettare come argomento assiologico, che fonda, come ho detto poc’anzi, il principio come razionale secondo il valore. Ciò nonostante non si riesce a vedere che cosa questo argomento abbia a che vedere con la democrazia come sistema politico. O per lo meno ha a che vedere nel senso che un sistema democratico non può fare a meno del principio di maggioranza mentre in genere ne fa a meno un sistema politico autocratico. Non ha a che vedere però nel senso che ciò che caratterizza la democrazia è l’autodeterminazione o il consenso del maggior numero, ancora una volta l’essere il governo della maggioranza prima di essere il governo mediante il principio di maggioranza. In altre parole, perché si possa dire che un sistema è democratico non basta sapere che il principio di maggioranza massimizza l’autodeterminazione e quindi il consenso, ma occorre sapere quanti sono coloro che beneficiano di questi vantaggi (posto che siano vantaggi ma possiamo ammettere che lo sono) del principio di maggioranza, quanti sono coloro cui è consentito di autodeterminarsi o di esprimere il proprio consenso mediante il principio di maggioranza. Detto brevemente, ciò che caratterizza un sistema politico democratico non è il principio di maggioranza ma il suffragio universale, o se si vuole il principio di maggioranza applicato a votazioni condotte col suffragio universale 14. Certo, una volta concesso il suffragio universale, è inevitabile che i voti vengano contati ed è opportuno che si applichi la regola della maggioranza per dare loro un effetto. Ma cosí la regola della maggioranza rivela la sua natura di espediente tecnico cui si ricorre abitualmente quando si tratta di contare dei voti, siano tanti o pochi, siano decine di milioni come sono quelli delle elezioni politiche di un grande stato oppure soltanto sette com’erano quelli degli elettori dell’imperatore del Sacro Romano Impero.

Ma è poi proprio vero che la regola della maggioranza assicura la libertà come autodeterminazione, intesa come «l’accordo fra la volontà individuale e la volontà collettiva espressa nell’ordinamento sociale»? Sarebbe vero se la volontà individuale che si esprime col voto e che concorre insieme con altre a formare la maggioranza si fosse potuta determinare liberamente. Ma la libera determinazione della volontà individuale (dove per «libera determinazione» s’intenda una determinazione presa di fronte a diverse alternative possibili attraverso la ponderazione di argomenti pro e contro, e non già in situazioni in cui non ci sono alternative, e comunque non per paura di gravi conseguenze per la propria persona o per i propri beni) presuppone una serie di condizioni preliminari favorevoli (riconoscimento e garanzia dei diritti di libertà, pluralità di formazioni politiche, libero antagonismo fra esse, libertà di propaganda, voto segreto ecc.) che precedono l’espressione del voto e quindi anche l’entrata in funzione della regola della maggioranza che è puramente e semplicemente una regola per il calcolo dei voti. Come espediente tecnico la regola della maggioranza è indifferente al fatto che i voti da computare siano stati dati piú o meno liberamente, per convinzione o per paura, per amore o per forza. Che una decisione collettiva sia presa a maggioranza, che quella determinata decisione collettiva sia la decisione della maggioranza, non prova assolutamente nulla rispetto alla maggiore o minore libertà con cui quella decisione è stata presa. E pertanto attribuire alla regola della maggioranza il potere di massimizzare la libertà o il consenso è attribuirle una virtú che non le appartiene. Spesso, purtroppo, le maggioranze sono formate non dai piú liberi ma dai piú conformisti. Di regola, anzi, tanto piú alte sono le maggioranze, specie quelle che sfiorano l’unanimità, tanto piú sorge il sospetto che l’espressione del voto non sia stata libera. In questo caso la regola della maggioranza ha prestato tutti i servigi che le si possono chiedere ma la società di cui essa è lo specchio non è una società libera.

4. Gli argomenti tecnici.

A questo punto sarebbe persino superfluo osservare che degli argomenti di giustificazione del principio di maggioranza sono piú probanti quelli tecnici che quelli assiologici. Ma si può fare qualche ulteriore osservazione. La regola della maggioranza è nata come regola destinata a permettere la formazione di una volontà collettiva in un’assemblea in base alla massima d’esperienza «universi facile consentire non possunt», o se si vuole in base alla massima d’esperienza contraria, secondo cui l’unica regola alternativa, che è la regola dell’unanimità, ostacola o addirittura preclude la formazione di una volontà collettiva o la permette solo in casi eccezionali quali sono quelli in cui si ricorre o all’acclamazione o al consenso tacito («Se nessuno dissente, la deliberazione s’intende approvata all’unanimità»), in cui peraltro, com’è stato piú volte osservato, non si può esplicare pienamente la libertà del dissenso (non c’è dubbio infatti che tanto nel caso dell’acclamazione quanto in quello del consenso tacito il dissenziente è messo in condizione di non potere esprimere il proprio dissenso con la stessa facilità con cui esprimono la propria volontà i consenzienti). Siccome l’ideale del consenso unanime non è praticamente attuabile (insisto sul «praticamente»), oppure è attuabile soltanto in casi eccezionali in cui peraltro il dissenso è quasi sempre soffocato, la regola della maggioranza viene assunta come regola tecnica o strumentale, cioè come una regola del tipo «se vuoi x, devi y», la cui validità dipende esclusivamente dall’essere un mezzo idoneo, anzi l’unico mezzo idoneo, a raggiungere un determinato fine desiderabile, e piú che desiderabile oggettivamente necessario. Là dove non è possibile il consenso totale ed è possibile solo un consenso parziale, la regola della maggioranza impone di considerare come consenso totale il consenso parziale della maior pars, in base alla semplice e ovvia constatazione secondo cui, se fosse richiesto il consenso totale, non si arriverebbe mai o quasi mai a una decisione collettiva, cioè al risultato necessario al fine della esistenza di un qualsiasi corpo collettivo, e se fosse richiesto un consenso parziale minore di quello manifestato dalla maggioranza, la decisione non potrebbe essere considerata collettiva nella stessa misura in cui lo è una decisione approvata alla maggioranza. Prova ne sia che il passaggio dalla regola dell’unanimità a quella della maggioranza avviene sempre con il costituirsi di un corpo collettivo: nel caso dell’unanimità fondata sul liberum veto si tratta della rinuncia degli aventi diritto al voto al diritto di votare uti singuli (come avviene ancora oggi tra le grandi potenze nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) e il riconoscimento della necessità di votare uti universi, come parti di un tutto; nel caso dell’unanimità per acclamazione si tratta della trasformazione di un gruppo informale in un gruppo istituzionalizzato il cui potere decisionale appartiene all’assemblea quando sia, come dicevano gli antichi giuristi, «legitime congregata et convocata». In entrambi i casi si vede quanto la regola della maggioranza sia strettamente connessa al funzionamento di un corpo collettivo.

Si può obiettare che queste osservazioni non tengono conto delle due facce della regola della maggioranza, l’una rivolta contro la regola dell’unanimità, l’altra rivolta contro il potere monocratico, e che la considerazione della regola della maggioranza come espediente tecnico vale soprattutto nel primo caso e non nel secondo, in cui continua ad avere il suo peso l’argomento assiologico. L’obiezione è giusta ma solo in quanto non si dimentichi che la preferibilità del potere ascendente su quello discendente è, sí, l’ideale fondamentale su cui si regge un sistema democratico, ma, affinché questo ideale si possa attuare, è necessario che il potere ascendente sia esteso al maggior numero, o in altre parole che, anche da parte di chi considera la massimizzazione del consenso un valore, ciò che contraddistingue un sistema democratico rispetto a uno oligarchico è quante persone siano chiamate a esprimere il proprio consenso (o dissenso).

5. Il metodo contrattuale.

Il secondo punto su cui intendo soffermarmi è quello relativo alla non coincidenza di regola della maggioranza e democrazia, considerata non dal punto di vista della validità della regola in sistemi diversi da quello democratico ma dal punto di vista dell’esistenza di altri modi di formazione della volontà collettiva nei sistemi democratici diversi dalla regola della maggioranza.

Mi riferisco in modo particolare alla risoluzione dei conflitti sociali mediante contrattazione (o negoziazione) che si conclude (quando si conclude) in un accordo 15. Mentre la regola della maggioranza svolge la sua funzione all’interno di un corpo collettivo in cui la volontà collettiva è la risultante della somma di parti componenti una totalità organica e quindi come tali dipendenti dal tutto, l’accordo avviene fra parti (individui o gruppi) relativamente indipendenti, le quali giungono alla formazione di una volontà comune attraverso reciproche concessioni in base al principio del do ut des, e quindi si rivela come un modo di risoluzione dei conflitti esterni fra gruppi. Contrariamente all’idea della supremazia della legge, idea dominante fra gli scrittori politici che accompagnano con le loro teorie la formazione dello stato moderno, da Hobbes a Locke, da Rousseau a Hegel, e in seguito fra gli scrittori del diritto pubblico dell’età del positivismo giuridico, da Jellinek a Kelsen, cioè della supremazia di quella espressione della volontà collettiva alla quale si perviene, quando l’assemblea parlamentare diventa l’organo decisionale supremo, mediante l’applicazione della regola della maggioranza, nello stato democratico contemporaneo di una società industriale avanzata, caratterizzato dalla presenza di grandi gruppi organizzati in conflitto fra loro, il contratto, inteso nel suo senso proprio di accordo bilaterale fra partner formalmente eguali, non ha perduto nulla della sua efficacia come strumento per la risoluzione dei conflitti. La contrapposizione tradizionale fra il contratto come istituto di diritto privato, fonte di regole inter partes, e la legge come istituto di diritto pubblico, fonte di regole valide super partes, è schematica e fuorviante. In una società pluralistica i grandi gruppi organizzati si comportano come enti quasi-sovrani che non riconoscono altro modo di risolvere i loro conflitti che la reciproca contrattazione di fronte alla quale il governo si limita a svolgere la funzione di mediatore, di arbitro e, quando la trattativa è compiuta, di garante (spesso impotente) della sua efficacia.

L’idea della supremazia della legge era la necessaria conclusione di una concezione monocentrica dello stato che aveva già trovato la sua piú perfetta formulazione nel Leviatano di Hobbes. A sua volta la concezione monocentrica dello stato era derivata dalla convinzione che lo stato fosse destinato a dominare e financo a sopprimere i sistemi inferiori (Hobbes), le società parziali (Rousseau), i corpi intermedi. Lo sviluppo politico è avvenuto nel senso opposto. Le società parziali non solo non sono state assorbite ma sono cresciute in numero e potenza. Gli Stati contemporanei tanto piú sono economicamente e socialmente progrediti tanto piú sono diventati policentrici (per non dire policratici). Se pure con una certa forzatura si può dire che in uno stato monocentrico la volontà collettiva si esprime nella legge, non importa poi se sia dichiarata e promulgata dal principe o dal popolo (entrambe del resto finzioni giuridiche); in uno stato policentrico, nel contratto.

Dopo aver esposto la sua teoria della maggioranza Kelsen introduce, com’è ben noto, il tema del compromesso come modus vivendi essenziale alla vita della democrazia. Testualmente: «La libera discussione fra maggioranza e minoranza è essenziale alla democrazia, perché questo è il modo di creare un’atmosfera favorevole ad un compromesso fra maggioranza e minoranza, e il compromesso fa parte della natura stessa della democrazia» 16. Sia consentito aggiungere che, se compromesso ha da essere, esso avviene prima che tra maggioranza e minoranza all’interno stesso della maggioranza quando la formazione della maggioranza non avvenga spontaneamente (ma è ben difficile che si formi in questo modo) oppure avvenga per imposizione, per esempio per opera della disciplina di partito (ma è modo contrario alla «essenza» della democrazia).

Non c’è da fare alcuna obiezione a questo accostamento fra principio di maggioranza e compromesso fra le parti, purché si riconosca che si tratta di due procedure diverse per la formazione di una volontà collettiva. Quando Kelsen dice che il compromesso significa la soluzione di un conflitto mediante una norma che «non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell’altra» 17 suggerisce senza precisarla la risposta a chi si domanda quale sia la differenza fra la volontà collettiva formata attraverso l’applicazione della regola della maggioranza e la volontà collettiva formata attraverso un compromesso. Una risposta ce la offre la teoria dei giochi che distingue giochi con esiti a somma zero e giochi con esiti a somma diversa da zero, che può essere positiva o negativa. La decisione a maggioranza è una tipica decisione a somma zero, una decisione in cui c’è chi vince e chi perde, come ai dadi: infatti, rispetto alla posta in gioco la maggioranza vince mentre la minoranza perde, e la minoranza perde quello che la maggioranza vince. Se la posta in gioco è, come in un referendum, monarchia o repubblica, la conclusione lasciata alla regola della maggioranza è o monarchia o repubblica, non può essere né una monarchia repubblicana né una repubblica monarchica. Diversamente, l’esito di un compromesso, la cui forma giuridica tipica è il contratto, è generalmente un esito a somma positiva, cioè un esito in cui entrambi i partner guadagnano qualche cosa, come in un qualsiasi contratto di scambio che viene concluso proprio perché entrambi i contraenti ci trovano il proprio tornaconto. (Dico «generalmente», perché potrebbe anche avere un esito negativo, allorché i due contraenti si siano reciprocamente ingannati 18). Quando la scelta della forma di governo viene affidata non al funzionamento del principio di maggioranza ma a un compromesso fra le parti, per fare un banale esempio storico, fra un monarca assoluto e i nuovi ceti che chiedono una partecipazione al governo, nulla esclude che il risultato sia una monarchia repubblicana (la monarchia costituzionale) o una repubblica monarchica (la repubblica presidenziale).

Ritornando ancora una volta a Kelsen secondo cui «il compromesso fa parte della natura della democrazia» ci si può infine chiedere se sia piú «democratico» il principio della libera contrattazione o il principio di maggioranza. Ho già detto le ragioni per cui credo che il principio di maggioranza sia necessario alla democrazia ma non sufficiente. Lo stesso si può dire del principio della libera contrattazione. Come il principio di maggioranza è democratico a condizione che si applichi al maggior numero, cosí il principio della libera contrattazione è democratico a condizione (una condizione-limite, e quindi difficilmente realizzabile) che i due partner abbiano un potere eguale (inteso il potere come quantità di mezzi idonei a influenzare la controparte). Ciò non toglie l’importanza che ho voluto sottolineare di questo modo di formazione di una volontà collettiva che non è riducibile al principio di maggioranza e che è nello stesso tempo perfettamente compatibile con l’insieme di valori che abitualmente associamo al concetto di democrazia. Voglio dire di piú. L’ideale della democrazia è indissociabile dal principio del contratto sociale, cioè dall’idea dell’accordo di ciascuno con tutti gli altri su alcune regole fondamentali della convivenza, si tratti pur di una sola regola, quella della maggioranza. Ho già avuto altre occasioni di mettere in rilievo la persistenza dell’ideale contrattualistico nel pensiero politico contemporaneo (e non a caso si è parlato di neo-contrattualismo), nonostante le critiche ottocentesche e il suo offuscamento per opera dell’attacco congiunto di scrittori conservatori e rivoluzionari. La ragione di questa persistenza sta nel fatto che è difficile se non impossibile dissociare l’ideale di una società libera dalla pratica, oltre che del principio di maggioranza, esteso al maggior numero, della contrattazione fra individui o gruppi formalmente liberi ed eguali.

6. Limiti di validità.

Le osservazioni fatte sin qui non intendono mettere in discussione la rilevanza del principio di maggioranza per il buon funzionamento di un sistema politico democratico. Intendono semplicemente richiamare l’attenzione sul fatto che il principio di maggioranza è uno soltanto degli elementi per il buon funzionamento di un sistema democratico, sottolineare cioè quelli che si possono chiamare i limiti di rilevanza del principio. Occorre ora fare un passo avanti e analizzare altre specie di limiti cui il principio va incontro, oltre quelli relativi alla sua rilevanza. Se ne possono distinguere tre specie che chiamo rispettivamente di validità, di applicazione e di efficacia.

Per limite di validità intendo il limite che deriva da una risposta negativa alla domanda: «Possono essere ammessi a partecipare a una decisione collettiva da prendersi in base al principio di maggioranza anche coloro che lo rifiutano, cioè coloro che se riuscissero a conquistare la maggioranza si varrebbero della medesima per abolirlo?» Chiamo limite di validità questo tipo di limite, perché il problema viene posto in genere con questa domanda: «Ha il principio di maggioranza una validità assoluta (dove per “validità assoluta” s’intende dire che il principio di maggioranza vale in ogni caso, cioè anche quando la decisione collettiva presa a maggioranza è la decisione di abolire il principio di maggioranza), oppure la stessa regola di maggioranza è sottoposta a un’altra regola superiore che impedisce di prendere a maggioranza la decisione di abolire il principio di maggioranza, e quindi la sua validità non è assoluta?» A una domanda di questo genere sono state date risposte contrastanti. Come sempre accade, anche in questo caso le diverse risposte dipendono dal diverso punto di vista da cui ci si mette. Altro è porre il problema come problema di opportunità politica, altro porlo come problema di principio, anche se è vero che spesso gli argomenti pratici vengono adoperati per rafforzare la tesi di chi si pone dal punto di vista dei principî e viceversa, e si sostiene che è politicamente opportuno che la regola di maggioranza valga anche per gli antimaggioritari, perché solo in questo modo si rispetta il principio di libertà che sta alla base dell’adozione della regola di maggioranza, oppure si sostiene che in linea di principio la regola deve valere soltanto per i maggioritari perché se si ammettesse la sua validità anche per gli avversari, le conseguenze pratiche potrebbero essere disastrose. In realtà tanto con gli argomenti pratici quanto con quelli teorici si sono difese le due tesi opposte, il che dimostra ancora una volta quanto sia aperto all’opinabile il campo dell’argomentazione nelle questioni di valore. Per quel che riguarda gli argomenti pratici si pensi alle diverse soluzioni adottate da un regime di democrazia liberale e da un regime di democrazia protetta. In una costituzione liberale come quella italiana, nessun limite è esplicitamente posto all’esercizio dei diritti politici dei cittadini rispetto alla loro adesione alla regola della maggioranza, mentre nella costituzione della Repubblica federale tedesca, l’art. 18 prevede la perdita dei diritti fondamentali, per coloro che abusano di questi diritti per «combattere i principî del libero ordinamento democratico», fra cui c’è il principio di maggioranza. Le diverse soluzioni dipendono da una diversa valutazione delle condizioni storiche, dei pericoli di sovversione, delle forze in campo ecc. Si tratta infatti di mettere su un piatto della bilancia gli inconvenienti che possono derivare dall’escludere dai benefici del principio di maggioranza cittadini sospetti di non rispettarlo qualora diventassero maggioranza, e gli inconvenienti che possono derivare alla sopravvivenza della libertà da una libertà illimitata. Per quel che riguarda gli argomenti teorici c’è chi sostiene che la regola della maggioranza non possa avere una validità assoluta perché «la vera e propria natura di un principio è di proibire la propria negazione» e c’è chi al contrario sostiene che una volta accolta la regola che la maggioranza è l’autorità assoluta non può essere limitata senza contraddizione 19.

Di fronte alla varietà e alla contraddittorietà delle opinioni, ritengo che l’unico argomento che possa avere una certa forza persuasiva sia quello che si fonda non tanto sul contenuto della regola quanto sul suo status di regola del gioco o di metaregola. A differenza di tutte le altre regole, le regole del gioco debbono essere accettate all’unanimità, per la semplice ragione che la non accettazione di una di esse anche da parte di un solo giocatore rende impossibile lo svolgimento del gioco. Il che significa che l’accettazione di partecipare a una decisione o a un’elezione che si svolge in base alla regola di maggioranza implica l’accettazione della stessa regola come modo per giungere alla decisione o all’elezione. Detto altrimenti, chi accetta di decidere o di eleggere secondo la regola della maggioranza ha accettato non una determinata decisione su un problema specifico che può anche rifiutare, non la rappresentanza di quella determinata persona cui può anche essere avversa, bensí una determinata procedura per la decisione o per l’elezione. Si può anche aggiungere che la maggior forza vincolante delle regole del gioco rispetto a tutte le altre sta nella considerazione che ogni giocatore fa circa la prevalenza dell’interesse generale a mantenere le regole del gioco sull’interesse particolare a far vincere la propria parte in una decisione specifica.

7. Limiti di applicazione.

Per limiti d’applicazione della regola della maggioranza intendo i limiti che derivano dalla esistenza di materie cui la regola generalmente non si applica, anche in questo caso o per ragioni di opportunità o per ragioni di principio. Sono le materie la cui decisione affidata alla regola del maggior numero apparirebbe inopportuna (non adeguata allo scopo) o addirittura ingiusta. Il campo di applicazione di questi limiti è vastissimo e qui non si può far altro che indicarne alcuni fra i piú rilevanti.

Tutte le costituzioni liberali sono caratterizzate dall’affermazione di diritti dell’uomo e del cittadino che vengono detti «inviolabili»: ora l’inviolabilità consiste proprio in questo, che essi non possono essere limitati e tanto meno soppressi da una decisione collettiva anche presa a maggioranza. Proprio per questa loro inattaccabilità da parte di una qualsiasi decisione maggioritaria tali diritti sono stati chiamati diritti contro la maggioranza 20, e vengono in talune costituzioni anche garantiti giuridicamente mediante il controllo costituzionale delle leggi (cioè delle decisioni prese a maggioranza) e la dichiarazione della illegittimità delle leggi che non li rispettano. La vasta sfera dei diritti di libertà può essere interpretata come una specie di territorio, di frontiera, di fronte a cui si arresta la potenza del principio di maggioranza. Volendo trarre un principio generale da questa realtà di fatto si può sostenere che un criterio di distinzione fra ciò che è sottoponibile alla regola della maggioranza e ciò che non lo è sta nella distinzione fra l’opinabile e il non opinabile, distinzione che ne trascina con sé un’altra, tra ciò che è negoziabile e quello che non lo è. I valori, i principî, i postulati etici, e naturalmente i diritti fondamentali, non sono opinabili e quindi neppure negoziabili. Perché tali, la regola del maggior numero che ha a che fare solo con l’opinabile non è competente a giudicarli.

Accanto ai postulati etici che non sono opinabili per definizione (altrimenti non sarebbero postulati), e ai diritti fondamentali cui di solito si attribuisce lo status di postulati etici, vi sono materie indecidibili col criterio della maggioranza per ragioni oggettive e per ragioni soggettive. Per ragioni oggettive sono indecidibili le questioni che dibattono fra di loro gli scienziati o i tecnici: non già perché non siano anch’esse opinabili ma perché una decisione in favore di una tesi o di un’altra si forma attraverso procedimenti diversi e ben piú complessi di quello del conteggio delle persone che la pensano in un certo modo. Nessun congresso scientifico sarebbe disposto a sottoporre a una decisione presa a maggioranza la soluzione di una tesi controversa, mentre è disposto a decidere a maggioranza la elezione del presidente e le modalità relative all’organizzazione del prossimo congresso. Lo stesso vale per le decisioni che riguardano materie tecniche, quali sono in uno stato contemporaneo la maggior parte delle decisioni relative alla politica economica e finanziaria, che infatti appunto per questo vengono rivendicate dagli esperti. Il crescente contrasto fra potere tecnocratico e potere democratico dipende proprio dal riconoscimento che molte decisioni importanti per la regolazione dei conflitti politici sono di natura tecnica e, come tali, male assoggettabili all’opinione del maggior numero. Al limite il trionfo della tecnocrazia sarebbe la sconfitta totale della democrazia. La miglior prova della validità del criterio dell’opinabile come criterio di giustificazione della decisione secondo il numero si può trovare nella giustificazione del governo di una minoranza illuminata, fondata di solito sull’affermazione che la materia delle decisioni politiche non è affatto opinabile perché vi sono leggi naturali del governo delle società che una volta scoperte permettono soluzioni ben piú valide e certe di quelle che si possono prendere attraverso il conteggio delle teste. Vi sono due grandi esempi storici di questa ideologia: la dottrina fisiocratica per cui la miglior forma di governo è il dispotismo illuminato, perché il compito di chi governa è quello di conoscere l’ordine naturale e di assecondarlo; e il comunismo volgare, in difesa del quale si è potuto affermare: «Poiché il socialismo scientifico è la verità stessa, la minoranza che possiede questa verità ha il dovere di imporla alla massa» (per non parlare della «rêve mathématique» di Bucharin) 21.

Per ragioni soggettive sono indecidibili col criterio del maggior numero le questioni di coscienza, dove per «coscienza» s’intende ciò che una volta si chiamava il «foro interno», il tribunale interiore, un tribunale in cui l’unico giudice è il soggetto stesso come portavoce di una legge superiore, sia essa la legge di Dio o la legge morale kantianamente intesa, che nessun’altra legge può abrogare. Per fare un esempio elementare ma espressivo, si può sottoporre a referendum la scelta fra monarchia e repubblica, non si può sottoporre a referendum la scelta fra cristianesimo e ateismo, fra l’obbligo di adorare un Dio o quello di adorarne un altro o di non adorarne nessuno. O per lo meno si può, perché il potere in talune situazioni storiche può tutto, può imporre una religione o una dottrina, ma non potrebbe far credere di non averla imposta e di averla al contrario lasciata scegliere qualora fosse riuscito a imporre una determinata religione o una determinata dottrina facendole approvare mediante una decisione presa a maggioranza. Il principale argomento per cui il principio di maggioranza si arresta di fronte al caso di coscienza non è diverso da quello per cui si arresta di fronte alla verità scientifica. In entrambi i casi si tratta di una soluzione che non appartiene alla sfera dell’opinabile e quindi, come si è detto, del negoziabile, anche se le ragioni della non opinabilità sono diverse nei due casi, dipendendo nel primo dalla natura del procedimento che si ritiene adatto a raggiungere soluzioni condivisibili piú del procedimento di contare le opinioni, dipendendo nel secondo dalla natura dell’autorità cui si fa appello che è l’autorità ultima di fronte alla quale ogni altra autorità deve cedere, sia pure quella della maggioranza. I due casi peraltro sono assimilabili perché le conseguenze pratiche possono essere identiche: il discredito della regola della maggioranza sino alla sua completa soppressione. Ne sono nate infatti due forme classiche di dispotismo che potremmo chiamare il dispotismo degli antichi e il dispotismo dei moderni: l’uno fondato sull’infallibile autorità di Dio, l’altro sull’autorità altrettanto infallibile della Scienza, entrambi su un’autorità la cui credibilità non può essere messa ai voti.

Tra i limiti soggettivi nell’applicazione della regola della maggioranza si può infine far rientrare il limite derivante dall’esistenza di ciò che in termini hegeliani si può chiamare l’ethos di un popolo, ovvero usi, costumi, lingua, tradizioni. Il problema è particolarmente evidente nel caso di minoranze etniche, che, come tali, sarebbero sempre soccombenti se si adottasse rigidamente il principio della maggioranza. Per fare l’esempio piú comune, l’imposizione della lingua della maggioranza a una minoranza linguistica è sempre considerata dalla minoranza come un’imposizione, non importa se la decisione venga presa a maggioranza. Beninteso bisogna distinguere la tutela della minoranza di un corpo collettivo che adotta la regola della maggioranza dalla tutela di una minoranza religiosa o etnica: la tutela della prima consiste nel non precluder le la possibilità di diventare maggioranza, la tutela della seconda, che non potrà mai per ragioni oggettive diventare maggioranza, consiste invece nel precludere alla maggioranza la facoltà d’intervenire in alcune materie riservate come sono appunto quelle che rientrano nell’ethos. Un limite di questo genere all’applicazione della regola della maggioranza è su per giú della stessa natura di quello che deriva dal riconoscimento dei diritti fondamentali: si tratta di un limite che dipende dalla indisponibilità di certe materie piuttosto che dalla inadeguatezza del principio.

8. Limiti di efficacia.

Nella categoria generale dei limiti dell’efficacia della regola della maggioranza comprendo tutti i limiti rilevati da coloro che sostengono che l’applicazione della regola non ha mantenuto e non può mantenere tutte le promesse, in primis la promessa da cui sono nati i regimi democratici piú evoluti, di trasformare radicalmente i rapporti fra le classi sociali, e quindi l’accusano di essere una procedura utile sí ma insufficiente. Si tratta di un tema corrente della pubblicistica politica, specie della sinistra, su cui non mi sembra il caso di indugiare tanto è diffuso, se non per far osservare che nonostante tutto la regola della maggioranza resiste a tutte le critiche perché non si è trovato nulla di meglio.

Mi limito a commentare uno solo di questi limiti, quello che riguarda la irreversibilità di molte decisioni una volta prese ed eseguite. In che senso la irreversibilità degli effetti di una decisione può essere interpretata come un limite all’efficacia della regola della maggioranza? Uno dei luoghi piú comuni sui benefici della regola di maggioranza è che l’applicazione rigorosa e coerente di essa, non ponendo alcun ostacolo formale alla possibilità della minoranza di diventare maggioranza, consente l’alternanza di governo e quindi il mutamento d’indirizzo politico. Poiché abbiamo già citato il Kelsen a proposito della giustificazione della regola della maggioranza possiamo continuare a citarlo anche in questo caso: «Nel momento in cui il numero di coloro che disapprovano l’ordinamento, o una delle sue norme, diventa maggiore del numero di quelli che l’approvano, è possibile un mutamento, mediante il quale ecc.» 22. Ovviamente il considerare beneficio della regola della maggioranza la possibilità di mutamento presuppone un giudizio assiologicamente positivo sul mutamento in quanto tale, il che è piú che opinabile. Ma anche attribuendo un carattere positivo al mutamento, resta a domandarsi in quale misura la nuova maggioranza sia in grado di mutare la situazione creata dal dominio della maggioranza precedente. Kelsen parla di mutamento dell’ordinamento o di una delle sue norme. Ma non si tratta soltanto di mutare l’ordinamento o una delle sue norme. Si tratta di mutare situazioni di fatto create dall’ordinamento precedente o da una delle sue norme che una volta approvate non possono piú essere mutate, sono diventate irreversibili. Ignoro se esista un qualche criterio escogitato per distinguere le situazioni reversibili dalle irreversibili. Ma alcuni esempi mostrano che questa differenza esiste. Reversibili sono, ad esempio, molti dei provvedimenti di politica economica, sociale e fiscale, quali agevolazioni creditizie, aggravamento o alleggerimento degli oneri fiscali, allargamento o restringimento delle assicurazioni sociali; difficilmente reversibili le situazioni create da grandi riforme come la frantumazione del latifondo o la nazionalizzazione di una industria; irreversibili certe trasformazioni del territorio avvenute in seguito a una politica che ha favorito la speculazione edilizia (in Italia nessuna nuova maggioranza anche la piú illuminata potrà salvare il paesaggio là dove è stato irrimediabilmente deturpato). Si può obiettare che qualsiasi classe dirigente al potere crea situazioni irreversibili e non soltanto quella che governa in nome della maggioranza. Giustissimo. Ma nessun altro principio di governo all’infuori di quello fondato sulla regola della maggioranza ha la pretesa di assicurare un regolare e pacifico mutamento. Solo al governo in base alla maggioranza viene attribuito il beneficio del regolare e pacifico mutamento. E pertanto mentre l’esistenza di situazioni irreversibili non costituisce una incongruenza per un governo fondato per esempio sulla conquista, giacché un governo fondato sulla conquista non ha fra le sue premesse quella di non creare situazioni irreversibili (anzi, ha proprio la premessa contraria), costituisce una incongruenza, o, come l’ho chiamata, un’aporia per un governo fondato su una regola fra i cui vantaggi ci dovrebbe essere quello di rendere possibile il mutamento.

9. Alcune aporie.

Un’analisi completa dei problemi relativi alla regola della maggioranza deve tener conto non solo dei limiti cui va incontro la regola, e che ho esaminati sin qui, ma anche delle difficoltà interne all’applicazione della regola considerata unicamente come espediente tecnico, difficoltà che chiamo «aporie», tanto per sottolinearne la differenza dai limiti di cui mi sono occupato sinora. Mentre i «limiti» riguardano essenzialmente la dimensione assiologica del problema, le «aporie» riguardano la sua dimensione tecnica. Queste aporie sono tali e tante che non ho la pretesa di elencarle tutte. Ne esamino qualcuna soprattutto allo scopo di mettere in evidenza la vastità del problema, e la necessità di un’analisi piú esaustiva di quella che propongo nelle pagine seguenti.

a) I votanti. La regola della maggioranza stabilisce unicamente che viene accolta come decisione collettiva la decisione presa dalla maggioranza dei votanti. Ma non dice nulla sulla composizione del corpo chiamato a decidere in base alla regola. Non dà nessuna risposta alla domanda: «Quanti e chi sono i votanti?». Ho già detto nella prima parte che ciò che fa della regola della maggioranza un istituto democratico è il suffragio universale, cioè il numero di coloro che partecipano alle decisioni fondate sul calcolo del maggior numero. Il maggior numero rispetto a chi? Il maggior numero dei cittadini delle antiche città greche, in una società in cui i cittadini liberi erano una minoranza, non è il maggior numero rispetto a uno stato moderno in cui, per dirla con Hegel, «tutti sono liberi»; il maggior numero in uno stato coloniale dove gli indigeni non hanno il diritto di voto, o in un regime di dittatura del proletariato dove non è riconosciuto il diritto di voto ai non proletari, non è il maggior numero di uno stato metropolitano dove non vi sono discriminazioni razziali, o di uno stato di democrazia formale dove, per lo meno rispetto al diritto di voto, non vi sono discriminazioni di classe. In un sistema di democrazia formale in cui esiste il suffragio universale maschile e femminile sembra che il problema di far coincidere la regola della maggioranza con il principio della democrazia sia risolto. Ma è proprio vero? Certamente è risolto per quel che riguarda il maggior numero dei cittadini di questo stato. Ma quando le decisioni collettive dei cittadini di questo stato interferiscono con gli interessi o coi diritti di altri stati, per quale mai ragione il collegio chiamato a decidere non dovrebbe essere costituito anche dai cittadini dell’altro stato? Non si tratta anche in questo caso di una discriminazione non diversa da quella che esclude gli indigeni in uno stato coloniale, i non proletari in uno stato proletario, i non abbienti in uno stato borghese? Si ricordi che il principale argomento in favore della limitazione dei diritti politici ai proprietari e della esclusione dei nullatenenti è sempre stata l’affermazione della mancanza d’interesse di costoro nella amministrazione della cosa pubblica. Come si fa a sostenere che i cittadini di un altro stato non sono interessati alla decisione di invadere il loro territorio presa dai cittadini aggressori, anche se presa a maggioranza? Mi rendo perfettamente conto di forzare i termini del problema, ma lo faccio unicamente per far toccare con mano che il rapporto fra maggioranza e minoranza è destinato a cambiare solo che si cambi la composizione del corpo collettivo o, piú brutalmente, che il problema del «chi vota?» non è meno importante del «come si vota?» Volendo lasciare il campo delle ipotesi e venire ad un esempio storico che ci riguarda da vicino: quando dopo la Liberazione si discusse se in Italia la scelta fra repubblica e monarchia dovesse essere affidata all’assemblea costituente oppure al referendum popolare, ciò che era in discussione non era la regola della maggioranza ma chi dovesse essere chiamato a prendere la decisione a maggioranza. Il dibattito fu accanito perché, se il corpo elettorale fosse stato costituito dai membri dell’assemblea costituente, il risultato favorevole alla repubblica era scontato; se fosse stato costituito dai cittadini elettori, il risultato era incerto (e infatti la soluzione repubblicana passò per il rotto della cuffia). La regola della maggioranza è un docile strumento: può dare infatti risultati opposti secondo che sia piú aperta o piú chiusa la porta d’accesso degli utenti. Ma l’aprire di piú o di meno la porta può benissimo non essere una decisione dipendente dall’applicazione della regola della maggioranza: spesso è una decisione di vertice o è la conseguenza di un compromesso fra le forze sociali in conflitto (e qui ritorna il problema ineludibile della contrattazione come mezzo alternativo di decisione collettiva).

b) I non votanti. Sinora si è parlato di maggioranza come se l’idea della maggioranza fosse un’idea chiara e distinta. E invece non lo è. Tralascio tutte le questioni relative alle diverse forme di maggioranza, relativa, assoluta, qualificata ecc. Ma anche considerando soltanto la maggioranza assoluta e non qualificata il computo di una maggioranza in qualsiasi corpo collettivo non è cosí semplice come sembra e ha dato sempre molto filo da torcere ai compilatori e commentatori di regolamenti di assemblee. Sarebbe semplice, anzi semplicissimo, se si realizzassero sempre queste due condizioni: a) che votino tutti gli aventi diritto; b) che la questione sottoposta al voto sia proposta in modo che non si possa rispondere che sí o no, oppure i votanti siano obbligati a rispondere sí o no. Nella realtà le due condizioni non si realizzano quasi mai: generalmente non tutti coloro che hanno diritto al voto se ne valgono, e generalmente le questioni non sono proposte in modo da non consentire altra soluzione che quella positiva o quella negativa, e ai votanti è lecito esprimere la propria volontà nella forma dell’astensione presentando una scheda bianca.

Comincio dalla prima questione. Come il risultato della votazione cambia cambiando il corpo elettorale, cosí cambia, pur restando identico il corpo elettorale, secondo la maggiore o minore partecipazione al voto. Di qua deriva che ogni computo della maggioranza presuppone l’accordo su alcune regole preliminari circa le modalità del computo. C’è una bella differenza rispetto ai risultati secondo che il computo della maggioranza venga fatto tenendo conto degli aventi diritto (e quindi anche di quelli che pur avendo diritto di votare non votano) oppure dei votanti. In questo secondo caso occorre ancora una regola preliminare per rendere possibile il computo, la regola che stabilisce quanti debbano essere i votanti perché la votazione sia valida. Se si stabilisce che la decisione o l’elezione sono valide quando abbia votato la maggioranza degli aventi diritto al voto, si ha un’applicazione della regola della maggioranza per decidere della validità della votazione a maggioranza. Un caso-limite è quello degli statuti di associazioni in cui in seconda convocazione l’assemblea dei soci è valida quale che sia il numero dei presenti: un caso-limite perché dimostra che il principio di maggioranza può essere osservato formalmente anche quando se ne vanifica completamente la funzione che è quella di assicurare che la decisione collettiva corrisponda il piú possibile alla volontà dei componenti il corpo collettivo. Il fenomeno del non esercizio del diritto di voto è uno dei fenomeni piú vistosi delle piú vecchie e consolidate democrazie. Per non giungere alla conclusione che la democrazia come governo fondato sulla partecipazione popolare è in crisi o è venuto meno al suo compito, si giustifica il grande e crescente non esercizio del voto con la presunzione che chi non va a votare sia non già uno che rifiuta il metodo democratico in generale, ma sia uno che nel caso specifico è indifferente alle due alternative messe ai voti, indifferente nel senso che quale che sia l’alternativa vincente egli si ritiene soddisfatto. In altre parole il non votante sarebbe colui per il quale «questa e quella» per lui «pari sono». Non sceglie non perché non voglia scegliere ma perché non sa che cosa scegliere e non sa che cosa scegliere perché entrambe le scelte sono egualmente buone ed egualmente cattive.

c) Gli astenuti. Qui intendo per «astenuti» non già coloro che si astengono dal voto, di cui ho parlato precedentemente, ma coloro che votano ma si astengono dall’esprimere la loro volontà in favore dell’una o dell’altra alternativa (sono coloro che votano scheda bianca) 23. Le due situazioni sono diverse anche se spesso si usa la stessa parola «astensione» per entrambe. Ricollegandomi alle ultime parole del punto precedente si può dire che mentre l’astensione del non votante è interpretabile come uno stato di indifferenza di fronte a entrambe le alternative, l’astensione di chi vota scheda bianca ha da essere interpretata al contrario come uno stato di ostilità nei riguardi dell’una e dell’altra. In altre parole, il non votante dice di sí al presidente X e al presidente Y, giacché l’uno o l’altro non fa differenza (di qua la sua indifferenza); colui che vota scheda bianca manifesta chiaramente il suo giudizio negativo su entrambi: la sua logica è quella del né-né, non è quella dell’aut-aut che è invece la logica di due potenziali maggioranze tendenti a escludersi a vicenda. Nelle inchieste di opinione chiunque percepisce la differenza fra il non esprimere la propria opinione non rispondendo al questionario e l’esprimere un’opinione diversa dal sí o dal no mettendo una crocetta nella casella riservata alla terza risposta «non so». Superfluo aggiungere che la chiara distinzione fra non votanti e astenuti ha conseguenze pratiche rilevanti nel caso in cui la maggioranza venga computata in base al numero dei votanti fra cui sono compresi gli astenuti o in base al numero degli aventi diritto al voto. Il dibattito sul modo di risolvere il problema del computo delle schede bianche rischiò di compromettere la nascita della repubblica italiana. Il problema sollevato subito dai fautori della monarchia dopo che fu conosciuto il risultato del referendum istituzionale fu il seguente: per il conteggio della maggioranza favorevole alla repubblica il totale dei voti doveva comprendere la somma dei voti favorevoli e di quelli contrari oppure anche i voti di coloro che avevano votato scheda bianca (oltre che dei voti nulli)? Era evidente che aumentando il totale aumentava anche il limite della maggioranza richiesta sino al punto da rendere incerta la vittoria dei fautori della repubblica. Contrariamente alla communis opinio dei giuristi, che piú volte si era pronunciata in favore della distinzione fra il non votante e il votante che si astiene, la Corte di Cassazione subito investita del problema respinse la distinzione ed equiparò ai non votanti tutti coloro che avevano votato ma non avevano espresso la loro volontà in favore dell’una o dell’altra alternativa, in tal modo abbassando il totale dei voti da conteggiare per il computo della maggioranza e conseguentemente anche il limite della maggioranza richiesta. Il suo principale argomento fu espresso con queste parole: «Le schede bianche rappresentano forme di astensione dal voto; ed è manifesta la giuridica equivalenza tra l’inerzia di chi si astiene completamente dal presentarsi all’urna e la posizione di chi non esercita il suo diritto di voto, non manifestando volontà alcuna nella scheda presentata» 24.

Che il comportamento di chi si astiene votando non debba essere equiparato a quello di chi si astiene non votando sembra pacifico, nonostante il giudizio storico della Corte di Cassazione. Non è altrettanto pacifico che, una volta considerato come voto valido, il voto dell’astenuto debba essere conteggiato coi voti negativi anziché coi voti positivi. Si tratta infatti di stabilire se, date le due posizioni opposte del consenso e del dissenso, l’astensione debba essere considerata piuttosto come non-consenso o come non-dissenso. È chiaro che quando la si computa fra i voti negativi si è voluto sottolineare la sua natura di non-consenso. Ma non possono darsi dei casi in cui, sottolineandosi la sua natura di non-dissenso, il voto degli astenuti dovrebbe essere computato fra i voti positivi? Si può porre la stessa domanda anche in questi termini: perché una deliberazione di un collegio possa essere accolta come l’espressione della volontà collettiva è necessaria la maggioranza dei consensi o basta quella dei non-dissensi? La questione è tutt’altro che oziosa. L’art. 94 della nostra Costituzione dice che «il governo deve avere la fiducia delle due Camere». Il problema si è posto nella recente prassi del nostro parlamento in questi termini: affinché il governo possa svolgere legittimamente le sue funzioni è necessaria la fiducia delle due Camere oppure basta la non-sfiducia? Una diversa risposta a questa domanda implica una diversa valutazione dei voti degli astenuti. Se l’obiettivo della votazione è la fiducia, i voti degli astenuti sono voti negativi; se è la non-sfiducia, sono voti positivi. Poiché l’astenuto è insieme un non-consenziente e un non-dissenziente, se prevale la richiesta del consenso, esso è fuori, se prevale la richiesta del non-dissenso, è dentro. Per godere della fiducia il governo deve avere la maggioranza assoluta dei voti favorevoli e i voti degli astenuti non sono tali; per avere la non-sfiducia basta che non abbia la maggioranza assoluta di voti contrari, e i voti degli astenuti non essendo tali non vengono computati fra quelli dei dissenzienti. Chi si astiene, come si è visto, è insieme un non-consenziente e un non-dissenziente: nel primo caso viene preso in considerazione come non-consenziente, nel secondo come non-dissenziente.

d) La maggioranza è sempre possibile? Fra tutte le aporie della regola della maggioranza questa è certamente quella piú evidente. Tanto evidente che non vi è bisogno di spendere molte parole per illustrarla. Se per maggioranza s’intende (e si sottintende) la maggioranza assoluta, questa è possibile soltanto quando le soluzioni proposte o i candidati a una carica sono due. Quando sono piú di due, una maggioranza assoluta può esserci e non esserci. In questi casi, la formazione di una maggioranza assoluta è il frutto di un accordo. Ma una maggioranza concordata presuppone quel metodo della contrattazione fra parti in conflitto che è una procedura per la formazione di una volontà comune diversa da quella della regola della maggioranza e alternativa ad essa. Il che dimostra ancora una volta l’insufficienza della regola della maggioranza anche come espediente tecnico, considerata di per se stessa. Si può dire soltanto che la regola della maggioranza è un momento della formazione di una volontà collettiva, se pure il momento finale.

10. Conclusione.

Limiti e aporie della regola della maggioranza debbono essere distinti dalle critiche che sono state a essa rivolte dalle varie teorie minoritarie, che vanno dalla dottrina medioevale della sanior pars alle moderne teorie elitistiche. Le osservazioni sin qui fatte non intendono mettere in discussione l’importanza del principio per il buon funzionamento di un sistema politico democratico: non appartengono al genere delle critiche. Intendono semplicemente richiamare l’attenzione sul fatto che il principio di maggioranza è uno soltanto degli elementi per il buon funzionamento di un sistema democratico: è un procedimento che non sempre funziona (i limiti) e non sempre, quando funziona, è facile farlo funzionare (le aporie). Certamente le difficoltà segnalate costituiscono un ostacolo al buon funzionamento di un sistema democratico ma non sono tali da metterlo da sole in crisi. Vi sono ben altre ragioni di crisi della democrazia che non dipendono dai limiti e dalle aporie del principio di maggioranza, ma fortunatamente vi sono infinite altre ragioni per preferire un governo democratico a uno autocratico nonostante questi limiti e queste aporie.

III.
RAPPRESENTANZA E INTERESSI.
1. Attualità del problema.

Pur nel prevalere della rappresentanza cosiddetta politica nei sistemi di democrazia rappresentativa, la discussione sulla rappresentanza degli interessi non è mai venuta meno. Accenno ad alcune ragioni per cui il tema è tornato di attualità:

a) il successo che ha incontrato in anni recenti, specie nella cultura politica americana, l’interpretazione economica della democrazia, per cui questa sarebbe caratterizzata dall’esistenza di un mercato politico accanto a quello economico nel quale avviene, nel rapporto tra elettori ed eletti, rapporto caratteristico della democrazia rappresentativa, un continuo scambio tra due beni, il sostegno sotto forma di voto da parte degli elettori e benefici di vario genere, patrimoniali o di status, da parte degli eletti 25;

b) la buona accoglienza fatta, almeno in Italia, alla teoria dello scambio politico, proposta alcuni anni addietro da Pizzorno, ripresa ed illustrata recentemente da Rusconi 26. Secondo questa teoria molti dei maggiori conflitti che insorgono in una società industriale avanzata vengono risolti non attraverso i meccanismi della rappresentanza politica ma attraverso contrattazioni tra le grandi organizzazioni, con particolare riguardo ai problemi del mercato del lavoro: dove è chiaro che lo scambio è politico non per i soggetti ma per l’oggetto dello scambio, che non è un bene economico, ma il potere (la capacità di determinare il comportamento altrui), che nel sistema democratico ha sempre bisogno della legittimazione attraverso il consenso (a differenza di quel che accade in regimi diversi da quello democratico in cui il potere può derivare dal puro esercizio della forza oppure dal peso della tradizione oppure dal fascino del capo, per riprendere la nota tipologia weberiana del potere legittimo);

c) il dibattito sul neo-corporativismo 27, verso il quale si orienterebbero gli stati fortemente influenzati da partiti ispirati all’idea dello stato sociale o del benessere, dibattito che mette ulteriormente in evidenza l’importanza della negoziazione tra rappresentanti di interessi contrastanti, che in quanto tali presentano tutte le caratteristiche della rappresentanza degli interessi distinta dalla rappresentanza politica.

Questa interpretazione dei rapporti di potere come rapporti di scambio (e quindi come rapporti fra eguali) piú che come rapporti di dominio (come rapporti cioè fra un superiore e un inferiore), in una società di democrazia pluralistica, dove i principali soggetti politici non sono tanto gli individui singoli quanto i gruppi organizzati, deriva dalla riflessione che si è venuta svolgendo in questi ultimi venti o trent’anni sulla profonda trasformazione del potere dello stato, come si era venuto raffigurando nelle teorie politiche che hanno accompagnato la formazione dei grandi stati territoriali, secondo le quali, da Machiavelli a Bodin, da Hobbes a Hegel, dai grandi teorici tedeschi del diritto pubblico, lungo la linea che va da Jellinek a Kelsen, sino a Max Weber, il carattere fondamentale dello stato, a differenza e in contrasto con tutti gli altri enti territoriali, è la potestà d’imperio che si manifesta essenzialmente attraverso la titolarità e l’esercizio del potere legislativo, vale a dire del potere di prendere le decisioni collettive vincolanti tutta la società e di imporle con la forza.

Questa raffigurazione dello stato, e del potere sovrano che lo caratterizza, si era fondata essenzialmente sulla contrapposizione fra legge e contratto, rappresentante la prima un potere in direzione verticale dall’alto in basso, il secondo un potere orizzontale, da eguale a eguale, e nella indiscussa priorità della legge sul contratto, o del diritto pubblico sul diritto privato, priorità che nel tradizionale sistema delle fonti del diritto equivale a dire che la legge fonda la legittimità del contratto (valido è soltanto il contratto secundum legem), mentre il contratto, che vale come fonte di diritto fra privati, non può derogare alla legge. È bensí vero che la dottrina contrattualistica, che è parte integrante della teoria dello stato moderno, aveva posto a fondamento del potere politico un patto fra eguali, sia che lo si concepisse come un patto fra i singoli individui sia che lo si concepisse come un patto fra gli individui riuniti in un corpo unitario e il sovrano, come un vero e proprio «scambio politico» nel senso che si dà oggi a questa espressione. Ma è anche vero che, una volta costituito il potere sovrano, la volontà del sovrano si sarebbe manifestata unicamente attraverso la legge, definita abitualmente come «volontà del superiore», e solo da questa volontà avrebbero tratto forza vincolante i contratti (e anche le consuetudini). Non bisogna mai dimenticare che nel pensatore in cui culmina la teoria dello stato moderno, Hegel, la teoria della sovranità del potere statale va di pari passo con la critica radicale delle teorie del contratto sociale, in base all’argomento classico che un istituto del diritto privato non ha mai forza sufficiente di vincolare il potere pubblico.

La grande trasformazione dello stato che abbiamo sott’occhio consiste invece in una crescente estensione ed espansione della produzione giuridica sotto forma di accordi tra i grandi gruppi di interesse all’interno dello stato e tra questi gruppi e lo stato, considerato da questi grandi gruppi, che sono cresciuti nella società civile ed estendono ormai le loro propaggini anche al di fuori dello stato, come un partner. Sia che si contrapponga a una concezione monocratica del potere una policratica, sia che si metta in rilievo la nascita di governi parziali che debilitano il governo centrale, sia che si parli addirittura di un «doppio stato», ovvero della presenza contemporanea di due sistemi paralleli per la formazione della volontà collettiva – il vecchio sistema in cui predomina la forma dell’imposizione, e il nuovo (che è poi piú vecchio del vecchio), in cui parte della volontà collettiva si forma mediante accordi, che il primo sistema si limita a ratificare come vengono ratificati i trattati internazionali e i concordati –, sia che si rappresenti questa trasformazione come rivincita della società civile sullo stato, o addirittura come fine della sfera della politica in quanto sfera coincidente con quella dello stato, è ormai di dominio comune la constatazione del progressivo depotenziamento della sovranità dello stato, intesa nell’antica maniera come «summa potestas». Sarebbe peraltro un errore interpretare questa trasformazione come un segno di riduzione della sfera politica in rapporto alla sfera sociale, o, peggio ancora, come si legge talora in analisi un po’ troppo sbrigative, di fine della politica. Al contrario, la sfera della politica si è allargata. Una delle caratteristiche della forma democratica di governo è l’aumento dei soggetti che agiscono politicamente, vale a dire che collaborano direttamente o indirettamente alla formazione delle decisioni collettive, il che ha reso piú ampio, ancorché piú fluido o meno definito e dai confini piú incerti, lo «spazio politico».

Per tornare al nostro tema, fa parte di questa trasformazione dello spazio politico il fenomeno, su cui ho sin dall’inizio richiamato l’attenzione, della rinnovata fortuna della rappresentanza degli interessi. Uno dei maggiori responsabili della discussione di questi ultimi anni sul fenomeno del neo-corporativismo, da distinguere come corporativismo democratico dal corporativismo statalistico dei fascisti, considera giustamente il rapporto di tipo corporativo come una forma di rappresentanza degli interessi, se pure non istituzionalizzata, proprio quella forma di rappresentanza che lo stato rappresentativo, sorto sulla dissoluzione dello stato di ceti – quando la sovranità come elemento costitutivo dello stato non veniva messa in discussione, e la sfera della politica si riteneva coincidesse, o dovesse coincidere, in tutto e per tutto, con la sfera dello stato –, aveva ritenuto di aver superato per sempre.

2. Questione di parole.

Nonostante l’attualità del dibattito, il concetto di rappresentanza degli interessi merita ancora qualche chiarimento sia per la nota ambiguità del concetto di rappresentanza sia per la genericità del concetto di interesse.

«Rappresentare» significa tanto, in senso tecnico-giuridico, «agire in nome e per conto di un altro», quanto, nel linguaggio comune e nel linguaggio filosofico, «riprodurre» o «rispecchiare» o «riflettere», simbolicamente, metaforicamente o mentalmente o in quanti altri mai modi, una realtà oggettiva, indipendentemente dal fatto che questa realtà non possa essere che «rappresentata», oppure possa anche essere data in sé. A questi due significati di «rappresentare» corrispondono in italiano due parole, «rappresentanza» e «rappresentazione», mentre, sfortunatamente, ne corrisponde una sola in inglese (la lingua franca del linguaggio politico): representation (anche in francese représentation).

Malgrado la possibilità che ha l’italiano di usare due parole, anche se un solo verbo e un solo aggettivo («rappresentativo»), i due significati vengono continuamente sovrapposti e confusi, se pure inconsapevolmente, per cui si dice che il parlamento rappresenta il paese tanto nel senso che i suoi membri agiscono in nome e per conto degli elettori, quanto nel senso che lo riproduce, lo rispecchia, lo raffigura, lo riflette (del resto frequente è la metafora del parlamento come «specchio» del paese). Nel suo significato originario «stato rappresentativo» significa stato in cui esiste un organo per le decisioni collettive composto di «rappresentanti», ma via via assume anche l’altro significato di stato in cui esiste un organo decisionale che attraverso i suoi componenti rappresenta le diverse tendenze ideali e i vari gruppi di interesse del paese globalmente considerato. Il passaggio dall’uno all’altro significato comincia a diventare sensibile quando si pone in Inghilterra, verso la metà dell’Ottocento, il problema di sostituire al sistema elettorale per collegi uninominali il sistema proporzionale in base all’argomento che è piú «rappresentativo», dove «rappresentativo» è l’aggettivo derivato non da «rappresentanza» ma da «rappresentazione». Nell’espressione «democrazia rappresentativa» l’aggettivo ha ormai acquistato stabilmente i due sensi: una democrazia è rappresentativa nel duplice senso di avere un organo in cui le decisioni collettive vengono prese da rappresentanti, e di rispecchiare attraverso questi rappresentanti i diversi gruppi d’opinione o di interessi che si formano nella società. Questi due significati diventano evidenti quando si contrapponga la democrazia rappresentativa alla democrazia diretta. Rispetto al primo significato la democrazia diretta è quella in cui le decisioni collettive vengono prese direttamente dai cittadini, nel secondo è quella che ponendo ai cittadini quesiti in termini alternativi, rende impossibile o meno probabile la rappresentazione della società. Paradossalmente, la democrazia diretta è, nel senso della «rappresentazione», meno rappresentativa della democrazia indiretta.

Nella contrapposizione fra rappresentanza degli interessi e rappresentanza politica acquistano particolare rilievo entrambi i significati di rappresentanza e di rappresentazione, il primo nella differenza fra mandato vincolato e mandato libero; il secondo nella differenza fra la rappresentazione dei soli interessi organizzati oppure di tutti gli interessi, anche di quelli non organizzati.

Tanto ambiguo il concetto di rappresentanza, altrettanto generico il concetto di interesse. Che è concetto d’uso comune in diverse discipline, e quindi rintracciabile in diversi universi linguistici (economia, diritto, politica) e di difficile definizione (tanto che Bentham sosteneva non essere definibile perché non sussumibile in una categoria superiore). Chi ne voglia una prova non ha che da scorrere l’amplissimo repertorio di frammenti raccolto da Lorenzo Ornaghi 28, una vera miniera di materiali preziosi per qualsiasi ulteriore ricerca sul tema. Siccome i buoni libri non nascono mai a caso, il fatto che uno studioso abbia avvertito l’esigenza di compilare un’opera di questo genere, accompagnata da una ricca bibliografia, è la miglior prova dell’attualità del problema, cui sono interessati non solo i politologi ma anche i sociologi, gli economisti, i giuristi, gli psicologi ed altri. I brani scelti sono tratti da scrittori politici (Botero), teologi (Bossuet), filosofi (Hume), economisti (Pareto), giuristi (Jellinek), sociologi (Bentley). Da questi brani di cinquanta autori, da Botero ai contemporanei, risulta chiaramente quanto sia generico il concetto di interesse, e quanto il termine corrispondente sia usato come termine del linguaggio comune senza il minimo tentativo di darne una definizione (o lessicale o stipulativa) che ne precisi e delimiti il significato. Il che accade proprio per le parole del linguaggio comune. Sono invece frequenti, e continuamente ripetute, pseudo-definizioni o definizioni persuasive – come «l’interesse è il piú grande monarca della terra» (Montesquieu) oppure «il principio del movimento della società è dato dall’interesse» (von Stein) – dalle quali si desume tutt’al piú quale sia la funzione, espressa oltretutto in termini retorici, di questo oggetto misterioso che è l’interesse. Come molti termini che si riferiscono al mondo culturale umano, anche «interesse» può significare tanto una situazione oggettiva, ovvero una cosa, un atto, un evento da cui si ha buone ragioni di credere che si possa trarre un vantaggio o un beneficio (per esempio, la soddisfazione di un bisogno, come nella frase «fare il mio interesse»), quanto uno stato soggettivo ovvero una disposizione favorevole verso quella cosa o atto o evento (come nella frase «avere un interesse a…»).

Ciò che specifica il concetto generico, vago, mal definibile e indefinito, di «interesse» sono gli aggettivi che gli vengono attribuiti, come «privato» o «pubblico», «particolare» o «generale», «locale» o «nazionale», «individuale» o «collettivo», «frazionale» o «globale», «immediato» o «mediato», «presente» o «futuro», e via dicendo. Tutta la storia del concetto di interesse, quale è raccontata nell’opera di Ornaghi, è in realtà la storia del contrasto fra un certo tipo di interessi e un altro, della preferenza data dall’uno all’altro autore a questo o quel tipo di interesse, del vario modo di superare il contrasto, identificando l’uno nell’altro, e cosí via. Questa storia, in altre parole, non è la storia del concetto di interesse ma del contrasto fra determinati interessi ed altri, tanto che nella maggior parte dei contesti la parola «interesse», sempre usata in modo generico, potrebbe essere sostituita da altre analoghe, come «bene» (bene proprio e bene comune) o «vantaggio» (vantaggio mediato o immediato, presente o futuro) o «utilità» (individuale o collettiva).

Queste osservazioni dovevano essere fatte perché, quando si parla di «rappresentanza degli interessi», la parola «interessi» è presa non nel suo senso generico, che senza una specificazione è troppo vago per significare alcunché, ma nel senso specifico di interessi parziali o locali o corporativi o frazionali contrapposti agli interessi generali, nazionali, collettivi, comuni, e non si vuol dire affatto che la rappresentanza politica non sia anch’essa una rappresentanza di interessi. Anche la rappresentanza politica è una rappresentanza di interessi, con la differenza che resta sottinteso che si riferisce a interessi generali, cosí come nell’espressione «rappresentanza di interessi» resta sottinteso che si riferisce a interessi particolari o di gruppo. L’espressione «rappresentanza degli interessi» è ormai entrata nell’uso per indicare ciò che è stato detto altrimenti e in altri tempi «rappresentanza organica» o «funzionale». Ma sia ben chiaro che essa non si contrappone a una rappresentanza che non sia di interessi. In quanto l’aggettivo «parziale» si dà per sottinteso, si contrappone a una rappresentanza di interessi diversi che sono anch’essi degli interessi secondo il senso generico della parola. In conclusione, entrambe le forme di rappresentanza sono rappresentanze di interessi: la differenza sta nella contrapposizione fra interessi parziali e generali, fra gli interessi di gruppi particolari e l’interesse dell’intera nazione come è stato generalmente chiamato l’interesse generale nelle Carte degli stati rappresentativi, dalla Rivoluzione in poi.

Ma l’interesse generale può veramente essere rappresentato nel senso proprio della parola, nel suo senso tecnico-giuridico? Questo è il problema. Ma se è cosí, la differenza fra la rappresentanza degli interessi e quella politica non sta nel fatto che l’una riguarda gli interessi e l’altra qualche cosa di diverso dagli interessi, ma nel fatto che l’una è propriamente parlando una rappresentanza e l’altra no.

3. Mandato libero o mandato vincolato?

Il carattere distintivo delle due forme di rappresentanza sta nell’essere, la prima, costituita con mandato vincolato, la seconda con mandato libero. Ma chi agisce per conto di un altro senza essere vincolato dalla volontà del mandante, può ancora essere chiamato propriamente rappresentante? Com’è ben noto, Kelsen definí «grossolana finzione» quella contenuta nella teoria già sviluppata nell’assemblea nazionale francese del 1789, «secondo la quale il parlamento, nella sua essenza, non sarebbe altro che un rappresentante del popolo, la cui volontà si esprimerebbe soltanto negli atti parlamentari» 29. Fra l’altro Kelsen osserva che l’avere attribuito al parlamento un potere di rappresentanza che esso, in base al divieto di mandato imperativo, non detiene, ha avuto il funesto effetto di provocare la critica del parlamentarismo, considerato dalle correnti antiparlamentari di destra e di sinistra, alleate contro il comune nemico, come falsamente e ingannevolmente rappresentativo della volontà del popolo, mentre la rappresentanza è soltanto un espediente tecnico-istituzionale che permette di prendere decisioni collettive dove non sarebbe né possibile né auspicabile la democrazia diretta.

Tutt’al piú si può notare che, se «grossolana finzione» fu la rappresentanza con mandato libero, essa risale molto piú addietro. È di prammatica citare a questo punto un famoso brano del discorso di Burke ai suoi elettori del collegio di Bristol (1774), dove è già detto molto chiaramente che «il parlamento è un’assemblea deliberativa di una nazione, con un solo interesse, quello della comunità» 30, onde il membro del parlamento non può ricevere istruzioni che sia tenuto ad osservare. Ma analoga affermazione di principio si può leggere in un passo di un secolo prima, tratto dal Patriarcha del Filmer: «Non mi consta che il popolo che col suo voto ha eletto i rappresentanti delle contee e dei borghi, chieda conto a coloro che esso ha eletto. […] Se il popolo avesse questo potere sui propri rappresentanti si potrebbe ben dire che la libertà del popolo è un malanno […]. Esso deve limitarsi a eleggere e a rimettersi ai suoi eletti che facciano a loro arbitrio» (III, 14). Una delle piú compiute illustrazioni di questa tesi si trova nella Filosofia del diritto di Hegel: «Poiché la deputazione avviene per la deliberazione sugli affari generali, essa ha il senso che dalla fiducia vi vengono destinati individui tali che s’intendono di questi affari meglio dei deputanti, come pure ch’essi fanno valere non l’interesse particolare di una comunità, corporazione, contro l’interesse generale, bensí essenzialmente questo» (§ 309). Spiega subito dopo che proprio perché il loro rapporto con gli elettori è fondato sulla fiducia (Zutrauen) essi non sono mandatari (Mandatarien). Pur appartenendo ad autori che sono vissuti in tre secoli diversi e pur essendo stati enunciati in contesti storici e sociali differenti, i tre brani coincidono nell’affermare che il rappresentante, una volta eletto, recide il rapporto di mandato, nel senso tecnico della parola, con l’elettore e deve occuparsi degli affari generali del paese, onde consegue che non può essere revocato per non aver eseguito le «istruzioni» di coloro che lo hanno eletto. Con maggiore o minore accentuazione, tutti e tre gli autori lasciano intendere che la principale ragione della rappresentanza sta nel fatto che il popolo, o non è in grado per mancanza di conoscenze specifiche e per incompetenza di trattare gli affari generali, oppure è portato per inclinazione naturale ad anteporre i propri interessi e quelli della propria categoria agli interessi generali. In entrambi i casi non ha nessun diritto di controllare l’opera dell’eletto, a differenza di quel che accade nel rapporto di mandato in diritto privato, dove è dato per presupposto che il mandante conosca quali sono i propri interessi, la cui gestione affida al mandatario.

Per rendersi conto della differenza fra rapporto privato e rapporto pubblico di rappresentanza non è trascurabile inoltre la considerazione, di solito trascurata, che la designazione del rappresentante pubblico avviene col procedimento dell’elezione, vale a dire con la scelta della persona di fiducia fatta contemporaneamente da piú individui ma indipendentemente l’uno dall’altro in base al principio di maggioranza, per lo meno nelle elezioni a collegio uninominale, cui si riferiscono in genere gli scrittori non contemporanei. Nella maggioranza possono confluire diversi interessi, tutti quanti particolari, fra i quali l’interesse che deve prevalere non può essere deciso, a suo talento e assumendosene tutte le responsabilità, se non dall’eletto.

Al di là delle ragioni sociali e tecniche che possono aver condotto all’affermazione del principio della rappresentanza politica come rappresentanza senza vincolo di mandato, c’è una ragione sostanziale che riguarda il problema fondamentale della politica, il problema di chi detiene il potere ultimo o sovrano in un determinato gruppo sociale organizzato. Una delle possibili definizioni di sovrano è proprio questa: sovrano è colui che, quale che sia la forma di governo, monarchica o repubblicana, autocratica o democratica, è in grado di prendere decisioni collettive, valide per tutti i membri di quel gruppo organizzato, senza vincolo di mandato. Parlo di una delle possibili definizioni di sovranità perché vi confluiscono tanto la definizione tradizionale, «summa potestas superiorem non recognoscens», quanto quella schmittiana secondo cui sovrano è colui che decide dello stato d’eccezione, giacché lo stato d’eccezione può essere deciso solo da chi nella scala gerarchica di poteri dal basso verso l’alto può alla fine prendere una decisione senza esserne autorizzato da qualcuno al di sopra di lui.

Il processo di concentrazione del potere sovrano nello stato moderno termina quando avviene il passaggio dallo stato di ceti alla monarchia assoluta attraverso la graduale conquista da parte del potere centrale del diritto di decidere senza vincolo di mandato. Quando Luigi XVI convocò gli stati generali pretese che i delegati non fossero vincolati da un mandato degli elettori in modo che le assemblee non fossero bloccate riguardo al potere di prendere decisioni dai «pouvoirs restrictifs». Il re chiese sempre agli stati «pleins pouvoirs», «pouvoirs suffisants», la rinuncia a legare la loro coscienza. La tesi che al parlamento sono affidati esclusivamente la protezione o la soddisfazione degli interessi generali, senza riguardo agli interessi di corpo (o corporativi), è la tesi fondamentale che appare tanto nel celebre testo di Sieyès, Que-est-ce-que le Tiers Etat?, quanto nel suo discorso all’assemblea dell’8 luglio: «L’assemblea dichiari che, essendo la Nazione francese sempre legittimamente rappresentata dalla pluralità dei suoi deputati, né mandati imperativi, né l’assenza volontaria di alcuni membri, né le proteste della minoranza potranno mai interrompere la sua attività […] o attenuare la forza delle sue decisioni ecc.» 31. Questa tesi viene accolta nell’art. 7 (tit. III, cap. II, sez. 3) della Costituzione del 1791: «I rappresentanti eletti nei dipartimenti non sono rappresentanti d’un dipartimento particolare, ma della nazione intera, e non potrà essere dato loro alcun mandato». Inutile dire che questa idea del parlamento rappresentante di interessi generali e non corporativi va di pari passo con l’ostracismo dato ai corpi intermedi considerati come residui del vecchio stato di ceti e con l’affermazione che non vi deve piú essere alcuno «spazio politico» tra i singoli cittadini e il sovrano: la sovranità si trasferirà dal re al parlamento di fronte al quale i cittadini sono puri e semplici committenti.

Da allora, non solo il divieto di mandato imperativo è diventato un principio costante dello stato rappresentativo, ma è sempre stato denunciato come una violazione del principio il tentativo da parte dei corpi intermedi, delle società parziali, di riprendere i loro antichi poteri rispetto alle assemblee di ceto, e di corrodere la sovranità del parlamento in cui si era ormai risolto l’antico potere del re. Mi basti citare un passo di un discorso che Tocqueville pronunciò alla Camera dei deputati il 27 gennaio 1848, dove è chiaramente espressa la tendenza alla prevaricazione degli interessi particolari: «Mi permetterei ancora di domandare se […] in questi ultimi cinque o dieci o quindici anni non sia cresciuto incessantemente il numero di coloro che li votano per interessi personali o particolari; e se il numero di chi li vota sulla base di un’opinione politica non decresca altrettanto incessantemente» 32. Qui Tocqueville sembra dar la colpa della degenerazione del sistema parlamentare piú agli elettori che agli eletti, come si potrebbe veder meglio nel seguito del brano, mentre oggi saremmo piú propensi a dar la colpa agli eletti. La verità è che la scarsa efficacia del divieto di mandato imperativo, oggetto di una ricorrente lamentazione degli osservatori politici, è sempre dipesa dall’interesse reciproco, tanto degli elettori quanto degli eletti, a violarlo.

4. La rivincita della rappresentanza degli interessi.

Nella difesa della sovranità del parlamento, la dottrina della democrazia rappresentativa, e piú in generale dello stato rappresentativo non ancora democratico, ha sempre sostenuto la rappresentanza politica contro quella degli interessi, e ha sempre risposto polemicamente a tutti coloro che cercarono di riesumare e di riproporre, sotto diverse forme, quest’ultima. Tra le varie ragioni addotte in difesa della rappresentanza politica, Kelsen adduce anche una ragione tecnica insuperabile per chi si metta dal punto di vista di una corretta interpretazione della democrazia parlamentare come quella in cui vige il principio di maggioranza per le decisioni collettive. Come si può applicare, si domanda Kelsen, il principio di maggioranza, che presuppone l’eguaglianza dei votanti (una testa un voto) ai rappresentanti di interessi particolari di categoria? Mentre c’è un presupposto etico, se non proprio ontologico, nella considerazione che tutti gli individui sono eguali (salvo gli infanti) rispetto al diritto di partecipare, se non altro indirettamente, alla presa delle decisioni collettive, esiste una qualsiasi ragione di considerare eguali nel peso del voto tutte le categorie interessate? E se una categoria è diversa da tutte le altre, e di conseguenza si dovrebbe adottare un voto ponderato, chi determina il grado d’importanza di ogni gruppo di interessi? e con quale criterio? È ben noto che, nonostante la ricorrente richiesta da parte dei grandi stati di un voto ponderato nell’assemblea delle Nazioni Unite, una delle difficoltà nel rispondere positivamente alla richiesta sta proprio nella molteplicità dei criteri che si possono assumere per stabilire il «peso» di ciascun membro dell’assemblea. La conclusione di Kelsen è chiara e netta: «Se nell’assemblea rappresentativa è la maggioranza che […] decide contro la minoranza, è molto piú sensato stabilire un tale parlamento su un sistema di nomina che consideri ogni elettore non semplicemente come membro di una determinata professione, ma come membro dello stato nel complesso e che lo supponga interessato non soltanto a questioni professionali ma per principio a tutte quelle questioni che possano costituire oggetto di regolamentazione da parte dello stato» 33.

Tra rappresentanti di interessi particolari, di cui ciascuno è un delegato dal suo gruppo di interesse e quindi vincolato al mandato ricevuto, un conflitto non può essere risolto se non attraverso una negoziazione che termina, se termina, in un accordo, e pertanto non a maggioranza ma all’unanimità, giacché la decisione collettiva, se deve essere vincolante per i due o piú contraenti, deve essere accettata da tutti. Nei piú caratteristici conflitti di interesse delle società contemporanee, i conflitti di lavoro, la soluzione avviene mediante accordo, ovvero non in base al principio di maggioranza ma all’unanimità. Quando le parti non riescono a mettersi d’accordo, solo allora può intervenire il potere pubblico, al di sopra, almeno in linea di principio, delle parti, e decidere a maggioranza (com’è avvenuto in Italia nella questione dei tagli alla scala mobile): una decisione a maggioranza che presuppone, sempre in linea di principio, che la questione sia considerata non piú come una questione di interessi particolari ma di interesse generale. Solo una questione che si presuppone sia di interesse nazionale, e non di categorie contrapposte, legittima il voto di maggioranza, s’intende della maggioranza di coloro cui i cittadini hanno affidato il compito di prendere le decisioni relative agli interessi generali.

Max Weber aveva colto bene questa differenza fra il metodo dell’accordo, il solo adatto a risolvere i conflitti di interessi contrapposti, e il principio di maggioranza, che può essere applicato solo per la soluzione di conflitti in cui sono coinvolti interessi generali. Riflettendo sulla differenza fra lo stato di ceti precedente alla formazione dello stato assoluto e lo stato parlamentare che lo segue, aveva osservato: «Il voto non può avere alcun posto in tali corpi [i ceti]», «si ha invece o il compromesso pattuito tra gli interessati, oppure il compromesso imposto dal signore, previa audizione della posizione delle varie parti interessate». Subito dopo, affermando che la questione della rappresentanza dei ceti professionali è tornata di moda, osserva ancora che «per lo piú si tralascia di considerare che qui il solo mezzo adeguato sono i compromessi, non già le decisioni a maggioranza». Non diversa da quella addotta da Kelsen è la ragione tecnica di questa affermazione: «non si può trovare un’espressione numerica per l’importanza di una professione», e «una votazione finale per la composizione di elementi cosí eterogenei per classe o per ceto costituisce un’assurdità meccanica» 34.

In difesa della rappresentanza degli interessi sono scese sempre in campo correnti diverse da quella liberaldemocratica, che ha dominato negli stati retti a democrazia rappresentativa. Mi limito a ricordare tanto il cristianesimo sociale, in sostegno di una concezione organica della società, quanto il socialismo delle «gilde», in nome dei diritti dei gruppi di lavoro organizzato. Anche il fascismo riprese e rivalutò la concezione organica della società in contrapposizione alla concezione individualistica, o atomistica in senso deteriore, della società, propria del liberalismo classico. Ma il sistema corporativo da esso escogitato non aveva piú alcun carattere rappresentativo, giacché le corporazioni furono trasformate in organi dello stato e i loro rappresentanti erano nominati dall’alto.

Se poi si considera il mandato libero come un istituto caratteristico della democrazia rappresentativa, si dovrà convenire che la critica piú radicale di esso è venuta dal movimento operaio d’ispirazione marxistica sulla scia delle famose rivendicazioni di una rappresentanza vera e propria, e quindi con potere di revoca del mandato da parte del mandante, fatta da Marx stesso nel commento ai fatti della Comune di Parigi. La revoca del mandato è stata introdotta nelle successive costituzioni sovietiche, dopo essere stata proclamata nel momento dell’abbattimento dell’antico potere il solo istituto che la democrazia rappresentativa operaia avrebbe potuto consentire, avvicinandola alla democrazia diretta. Cosí il movimento operaio rivoluzionario faceva tornare in onore un istituto che la democrazia «borghese» aveva soppresso avendolo reputato anacronistico. Ma rispetto alla società di ceti, la società industriale era, o veniva concepita da chi aveva interesse a trasformarla, una società di classe, anzi la società che aveva fatto nascere la classe universale i cui interessi non erano piú, come quelli delle corporazioni o dei ceti, particolari ma erano, e sarebbero diventati sempre piú, l’interesse dell’intera società rinnovata. Mentre in una società di ceti o in una società pluralistica di gruppi di interessi organizzati, come quella attuale nei paesi industrialmente sviluppati, la rappresentanza degli interessi è, e non può non essere, una rappresentanza di interessi particolari, in una società, reale o ipotetica non importa, in cui l’interesse dell’intera società coincida con l’interesse di una sola classe, che si autodefinisce la classe universale, la rappresentanza degli interessi è in realtà la rappresentanza dell’unico interesse che conta, e dunque è la rappresentanza generale. Nelle due situazioni della vecchia società che la rivoluzione borghese aveva spazzato via e della nuova che avrebbe dovuto a sua volta spazzar via la società borghese, l’istituto del mandato vincolato era lo stesso, ma la sua funzione era antitetica: là impediva l’unità del potere sovrano, qua avrebbe esaltato il potere sovrano del popolo una volta identificato il popolo nella classe dei produttori. La rappresentanza senza vincolo di mandato che aveva eliminato il particolarismo dei corpi intermedi, in nome di un preteso interesse generale, in realtà aveva favorito, secondo l’interpretazione della sinistra rivoluzionaria, la rappresentanza della classe che aveva sostituito il proprio potere a quello del monarca. Il ritorno alla rappresentanza con mandato vincolato non era affatto un ritorno a una situazione predemocratica ma, anzi, era la sostituzione della democrazia diretta, nell’unico modo in cui la democrazia diretta è ancora possibile nei grandi stati, alla democrazia indiretta.

Nonostante gli attacchi che provennero dalle piú diverse parti al sistema rappresentativo, il pensiero liberaldemocratico non ha mai voluto rinunciare alla rappresentanza politica, e l’ha difesa con maggiore o minore convinzione sino ai giorni nostri. Mi sia concesso richiamare alla memoria il contrasto che si svolse, quando il fascismo era ormai alle porte, fra due nostri eminenti scrittori liberali. Nel libro sui Diritti di libertà scritto su invito di Piero Gobetti nel 1926, Francesco Ruffini auspicava la riforma del Senato in modo da trasformarlo in camera a rappresentanza organica ancor piú di quel che fosse secondo la lettera e lo spirito dello Statuto (il cui art. 33 elencava le categorie di alti funzionari e di benemeriti entro le quali il re aveva la facoltà di nominare i senatori). Fatto l’elogio del sistema proporzionale che aveva impedito la spaccatura del paese tra un Nord socialista e un Sud conservatore, osservava che esso aveva accentuato il carattere sempre piú atomistico, da un lato, e politico, dall’altro, del suffragio. Riteneva che non potesse esservi altro rimedio che quello di «creare una rappresentanza non piú soltanto atomistica del corpo sociale, ma organica» o «differenziata», non piú soltanto delle idee politiche e delle forze politiche ma di tutte le altre idee e di tutte le altre forze esistenti nella nazione 35.

La rappresentanza politica fu invece difesa con fermezza da Luigi Einaudi in un saggio nel quale si possono ancora trovare riassunti e chiaramente fissati tutti i classici argomenti contro la rappresentanza degli interessi. Anzitutto, la rappresentanza degli interessi non rappresenta mai la generalità degli interessi presenti perché rappresenta soltanto gli interessi dei gruppi organizzati; in secondo luogo, non rappresenta gli interessi futuri; infine non difende gli interessi generali. La conclusione sembrava ripetere la dichiarazione cosí spesso citata di Burke: «Si consultino gli interessati, tutti gli interessati, ma deliberi il parlamento». La rappresentanza degli interessi viene giudicata «un regresso spaventoso verso forme medioevali, verso quelle forme da cui per perfezionamenti successivi si svolsero i parlamenti moderni» 36.

5. Rappresentanti e partiti.

Nonostante i ripetuti assalti provenienti da varie parti, sia dai critici della rappresentanza politica sia dai critici della democrazia tout court, il principio del mandato non vincolato ha vittoriosamente resistito: un autorevole storico delle istituzioni ha ancora recentemente affermato che il divieto di mandato imperativo è da considerarsi come un elemento strutturale della democrazia rappresentativa, essendo una condizione necessaria «per rendere possibile l’attività rappresentativa, intesa come agire per il popolo nella sua totalità» 37.

Ma una cosa sono le affermazioni di principio, un’altra il reale svolgimento dei fatti. Certo, il principio del mandato libero ha resistito formalmente. Ha resistito anche sostanzialmente? La concezione originaria della democrazia non aveva mai tenuto conto della esistenza dei partiti. Anzi, in una delle piú appassionate difese della democrazia rappresentativa, come quella del Federalist, uno dei benefici della democrazia rappresentativa rispetto a quella diretta era considerato la eliminazione delle fazioni perché il cittadino, l’atomo sociale, nella sua indipendenza e nella sua singolarità, veniva messo direttamente, senza intermediari, in contatto con l’organo detentore del sommo potere di prendere le decisioni collettive vincolanti per tutta la società. In realtà la democrazia rappresentativa, che non poteva avanzare se non col progressivo aumento della partecipazione elettorale sino al limite del suffragio universale maschile e femminile, non solo non eliminò i partiti ma li rese necessari. Sono essi, specie mediante il sistema elettorale proporzionale, ma non soltanto con esso, come credono o fingono di credere i novelli fautori del collegio uninominale, che ricevono dagli elettori quella «autorizzazione» ad agire, in cui Hobbes vedeva l’essenza della rappresentanza politica.

La formazione e la continua crescita dei partiti, che si sono interposti per forza di cose, e non per mala volontà di questo o quel gruppo avido di potere, tra il corpo elettorale e il parlamento, piú in generale tra il titolare della sovranità e chi questa sovranità deve di fatto esercitare, hanno finito per spezzare il rapporto diretto fra elettori ed eletti, dando vita a due rapporti distinti, l’uno fra elettori e partito, l’altro tra partito ed eletti, che rendono sempre piú evanescente il rapporto originario e caratteristico dello stato rappresentativo fra il mandante e il mandatario, o, hobbesianamente, fra l’autore e l’attore. La presenza di questi due rapporti, di cui il partito è il termine medio, il termine comune a entrambi, passivo nel primo, attivo nel secondo, ha questa conseguenza: l’elettore è soltanto autore, l’eletto è soltanto attore, mentre il partito è attore rispetto all’elettore, autore rispetto all’eletto. Nulla meglio di questa duplice funzione serve a far capire la centralità che il partito è venuto assumendo nei sistemi rappresentativi, quali si sono venuti raffigurando dopo il suffragio universale, che, moltiplicando il numero degli elettori senza poter moltiplicare in modo corrispondente il numero degli eletti, ha reso necessaria la formazione di quei gruppi intermedi aggregatori e semplificatori che sono appunto i partiti. Contrariamente a quel che si può immaginare e alle solite critiche senza fondamento allo stato dei partiti, l’intermediazione del partito fra elettori ed eletti, con la conseguente nascita di due rapporti al posto di uno, non ha complicato il sistema della rappresentanza ma lo ha semplificato e semplificandolo lo ha reso di nuovo possibile.

Beninteso, semplificandolo lo ha anche alterato, sia per quel che riguarda la contrapposizione fra rappresentanza degli interessi e rappresentanza politica, sia per quel che riguarda la contrapposizione fra mandato vincolato e mandato libero, sia infine per quel che riguarda la convinzione tramandata circa il rapporto ferreo fra rappresentanza degli interessi e mandato vincolato, da un lato, e rappresentanza politica e mandato libero, dall’altro.

Dei due rapporti di cui si deve tener conto, il secondo, quello fra partito ed eletti, è sempre meno caratterizzato dal mandato libero, via via che si è venuta rafforzando la disciplina di partito e si viene affermando l’esigenza dell’abolizione del voto segreto, considerato come ultimo rifugio della libertà del rappresentante. Nel primo rapporto, quello fra partito ed elettori, il mandato libero ha perso molta della sua efficacia a causa dell’irruzione degli interessi particolari di cui qualsiasi partito, in un sistema di mercato politico concorrenziale sempre piú frantumato, è costretto a tener conto per conservare ed eventualmente accrescere il suo potere che dipende dal maggiore o minor numero di voti.

Se, come si è detto, una delle caratteristiche del potere sovrano è il potere di decidere senza vincolo di mandato, rispetto al rapporto fra partito ed eletti, sovrani non sono i deputati. Sovrani sono i partiti, la cui direzione politica guida, dirige e vincola il gruppo parlamentare. Il termine «partitocrazia» riflette questo stato di cose, piaccia o non piaccia, vale a dire una situazione in cui chi prende le decisioni in ultima istanza non sono i rappresentanti come mandatari liberi degli elettori ma i partiti come mandanti imperativi dei cosiddetti rappresentanti, cui dànno «istruzioni» nel senso peggiorativo che la parola ha sempre avuto in bocca ai fautori della rappresentanza politica contrapposta alla rappresentanza degli interessi. Parlo di «partitocrazia» senza alcuna malizia, poiché in questa parola, nonostante l’abituale connotazione fortemente negativa, è contenuta una realtà di fatto incontrovertibile. La sovranità dei partiti è il prodotto della democrazia di massa, dove «di massa» significa semplicemente a suffragio universale. La democrazia di massa non è propriamente la «crazia» della massa, ma è la «crazia» dei gruppi piú o meno organizzati in cui la massa, per sua natura informe, si articola e articolandosi esprime interessi particolari.

Sovrani sono i partiti, ma come i sovrani di tutti i tempi, in stati in cui esiste una costituzione, anche i partiti non sono sovrani assoluti. La loro sovranità è limitata, perché condizionata dalle scelte degli elettori che i partiti debbono sapere interpretare. In ultima istanza i sovrani sono, anche se non lo sanno, i cittadini, se pure uti singuli, e quindi con un potere minuscolo perché frazionato. Proprio perché il potere del cittadino singolo è frazionato deve trovare luoghi piú grandi di aggregazione. Questi sono i partiti. I quali diventano cosí il luogo dove si concentra il maggiore potere di decisione, sia rispetto agli elettori sia rispetto agli eletti.

Da qualsiasi punto di vista si consideri lo stato dei partiti, risulta evidente la rivincita della rappresentanza degli interessi sulla rappresentanza politica sia per quel che riguarda la decadenza dell’istituto tipico della rappresentanza politica, che è il mandato non vincolato, sia per quel che riguarda, in una democrazia altamente competitiva, la pressione attraverso i partiti degli interessi frazionali. Ciò può spiegare perché il tradizionale e ricorrente dibattito sulle istituzioni a rappresentanza di interessi (particolari) da affiancare alle istituzioni a rappresentanza politica, si sia illanguidito sino a sembrare ormai anacronistico. La differenza, che è stata considerata per secoli decisiva, fra rappresentanza degli interessi particolari e rappresentanza politica è diventata sempre piú evanescente e meno visibile. Allo stesso modo è diventata via via sempre meno effettiva l’indipendenza degli eletti dai partiti e dei partiti dagli elettori in un gioco complesso delle parti che ha messo in discussione almeno due concetti classici della teoria dello stato rappresentativo: quello dell’indipendenza degli eletti dagli elettori, se pure attraverso i partiti, e quello dell’interesse generale contrapposto agli interessi particolari.

1 TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, II, 37 e 40, che cito dall’ed. a cura di L. Canfora, Einaudi-Gallimard, Torino 1996, pp. 231 e 235.

2 B. CONSTANT, De l’Esprit de conquête et de l’usurpation dans leur rapports avec la civilization européenne (1814) (trad. it. di C. Dionisotti, Conquista e usurpazione, Einaudi, Torino 1944, 1983 2).

3 Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, a cura di F. Flora e C. Cordié, Mondadori, Milano 1950, vol. II, p. 555.

4 [Cfr. N. BOBBIO, La leggenda di San Marino, in «Nuova Antologia», n. 2162, 1987, pp. 65-81].

5 R. A. DAHL, Controlling Nuclear Weapons. Democracy versus Guardianship, Syracuse University Press, Syracuse N.Y. 1985 (trad. it. Democrazia o tecnocrazia? Il controllo delle armi nucleari, il Mulino, Bologna 1987, p. 123).

6 Questo è il titolo del cap. VIII del saggio Vom Wesen und Wert der Demokratie (1929), da cui è tratta anche la precedente citazione: cfr. la trad. it. in H. KELSEN, La democrazia, il Mulino, Bologna, nuova ed. 1998, p. 137.

7 K. R. POPPER, The Open Society and Its Enemies, George Routledge & Sons, London 1945, trad. it. La società aperta e i suoi nemici, 2 voll., Armando, Roma 1973-74, rist. 1977, vol. II, pp. 199-200.

8 Le tre forme di governo vengono definite da Aristotele come governo di uno, di pochi e di molti (Politica, 1279a). La confusione nasce spesso dalle traduzioni: «i molti» compare nella traduzione di R. Laurenti (Laterza, Roma-Bari 1995, p. 84); «i piú» nella traduzione di C. A. Viano (Utet, Torino 1955, rist. 1992, p. 156). Ciò non esclude che nei governi democratici le deliberazioni vengano prese a maggioranza, come risulta da Politica, 1317b. Non lo esclude ma non lo implica. Il termine classico che significa insieme: a) numero, gran numero, quantità; b) popolo, massa popolare; c) regime democratico è plêthos. Vedi R. RONCALI e C. ZAGARIA, Lessico politico. Plêthos, in «Quaderni di storia», n. 12, luglio-dicembre 1980, pp. 213-21.

9 Il che era già perfettamente chiaro ad Aristotele, come risulta da un noto passo in cui, dopo aver parlato dell’aristocrazia, dell’oligarchia e della democrazia, aggiunge: «La maggioranza come regola di governo è presente in tutti i tipi di costituzione, perché nell’aristocrazia, nell’oligarchia, nella democrazia ciò che pare alla maggior parte di quelli che prendono parte al governo è sanzionato dall’autorità» (Politica, 1294a). Per questi riferimenti storici mi sono valso dei contributi fondamentali di E. RUFFINI, Il principio maggioritario (1927), nuova ed. Adelphi, Milano 1976, e La ragione dei piú, raccolta di saggi scritti tra il 1925 e il 1927, ripubblicati con una nuova introduzione, il Mulino, Bologna 1977, e dell’ampia bibliografia quivi citata.

10 Per queste notizie mi sono valso anche dell’opera di F. GALGANO, Il principio di maggioranza nelle società personali, Cedam, Padova 1960.

11 Per un’analisi e una critica degli argomenti in favore della regola della maggioranza in alcuni autori contemporanei si veda W. FACH, Demokratie und Mehrheitsprinzip, in «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie», LXI, 1975, pp. 201-22. Vedi anche B. LEONI, Decisioni politiche e regola di maggioranza, in «Il Politico», n. 4, 1960, pp. 711-22 (ora in ID., Scritti di scienza politica e teoria del diritto, Giuffrè, Milano 1980, pp. 41-53).

12 H. KELSEN, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1945 (trad. it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello stato, Etas Libri, Milano 1994, p. 292).

13 Ibid., p. 292.

14 Ciò che fa della repubblica italiana uno stato almeno formalmente democratico è l’art. 48 della Costituzione secondo cui «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età».

15 Su questo tema mi sono soffermato piú ampiamente nell’articolo Le contrat social aujourd’hui, in Le public et le privé, Istituto di studi filosofici, Roma 1979, pp. 62-68. Quindi nel saggio Il contratto sociale oggi, Guida, Napoli 1980.

16 KELSEN, General Theory of Law and State (trad. it. cit., p. 293).

17 Ibid.

18 Si veda a questo proposito G. SARTORI, Tecniche decisionali e sistema dei comitati, in «Rivista italiana di scienza politica», IV, n. 1, 1974, pp. 22 sgg. (ripubblicato con variazioni col titolo di Tecniche decisionali in ID., Elementi di teoria politica, il Mulino, Bologna 1987, nuova ed. 1990, pp. 287 sgg.).

19 Mi riferisco in particolare ai due articoli di H. MCCLOSKY, The Fallacy of Absolute Majority Rule, in «The Journal of Politics», XI, n. 4, 1949, pp. 637-54, e di W. KENDALL, Prolegomena to any Future Work on Majority Rule, in «The Journal of Politics», XII, 1950, pp. 694-713, dei quali il primo sostiene la prima tesi, il secondo argomenta in favore della tesi contraria.

20 «La Costituzione, e in particolare il Bill of Rights, è finalizzata a proteggere singoli cittadini e gruppi contro determinate decisioni che una maggioranza potrebbe assumere, anche quando questa maggioranza agisce in nome di ciò che ritiene sia l’interesse generale della comunità». Cosí R. R. DWORKIN, Taking Rights Seriously, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1977 (trad. it. I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 1982, p. 241).

21 Questa frase è di Charles Naine ed è citata da J. MARTOV, Bolscevismo mondiale, Einaudi, Torino 1980, p. 37.

22 H. KELSEN, General Theory of Law and State (trad. it. cit., p. 291).

23 Il tema dell’astensione è uno di quei temi che ha sempre scatenato la passione dei giuristi per le controversie sottili che paiono talora essere fini a se stesse e invece hanno effetti pratici rilevanti. Indicazioni bibliografiche sul tema si trovano nel volume AA.VV., Il regolamento della Camera dei Deputati, Camera dei Deputati, Roma 1968, pp. 779 sgg.

24 La tesi contraria fu sostenuta allora con forti e ben fondati argomenti da C. ESPOSITO, La maggioranza nel referendum, in «Giurisprudenza italiana», parte I, sez. 1, dispensa 11, 1946, commentando l’ordinanza della Corte di Cassazione, emanata il 18 giugno 1946.

25 Questa interpretazione si fa risalire al libro di A. DOWNS, An Economie Theory of Democracy, Harper & Row, New York 1957, trad. it. Teoria economica della democrazia, il Mulino, Bologna 1988.

26 Cfr. A. PIZZORNO, Scambio politico e identità collettiva nel conflitto di classe, in C. CROUCH, A. PIZZORNO (a cura di), Conflitti in Europa, Etas libri, Milano 1977, poi ripubblicato in A. PIZZORNO, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 1993; G. E. RUSCONI, Scambio, minaccia, decisione. Elementi di sociologia politica, il Mulino, Bologna 1984.

27 Cfr. M. MARAFFI (a cura di), La società neo-corporativa, il Mulino, Bologna 1981.

28 L. ORNAGHI, Il concetto di «interesse», Giuffrè, Milano 1984.

29 H. KELSEN, Vom Wesen und Wert der Demokratie (1929) (trad. it. cit., p. 78).

30 Il discorso di Burke si legge in trad. it. in D. FISICHELLA (a cura di), La rappresentanza politica, Giuffrè, Milano 1983. La citazione è a p. 66.

31 E.-J. SIEYÈS, Opere e testimonianze politiche, tomo I, Scritti editi, a cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffrè, Milano 1993, vol. I, p. 345 (trad. modificata).

32 A. DE TOCQUEVILLE, Discorso sulla rivoluzione sociale, in ID., Scritti politici, a cura di N. Matteucci, vol. I, La rivoluzione democratica in Francia, Utet, Torino 1969, rist. 1977, p. 271.

33 H. KELSEN, Wom Wesen und Wert der Demokratie, (trad. it. cit., p. 98).

34 M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft, a cura di J. Winckelmann, Mohr, Tübingen 1976 5 (trad. it. Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1974, 3 nuova ed. in 5 voll., 1980, vol. I, pp. 273, 274, 296).

35 Vedi ora F. RUFFINI, Diritti di libertà, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 6.

36 L. EINAUDI, Parlamento e rappresentanza di interessi, in «Corriere della Sera», 29 novembre 1919, ora in ID., Il buongoverno, a cura di E. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1973, vol. I, pp. 33, 30.

37 E.-W. BÖCKENFÖRDE, Democrazia e rappresentanza, in «Quaderni costituzionali», V, n. 2, 1985, p. 247.