Capitolo decimo
Pace e guerra
I.
LA PACE: IL CONCETTO, IL PROBLEMA, L’IDEALE.
Il problema della definizione.
Il concetto di pace è cosí strettamente connesso a quello di guerra che i due termini «pace» e «guerra» costituiscono un tipico esempio di antitesi, come gli analoghi «ordine-disordine», «concordia-discordia», «armonia-disarmonia». Due termini antitetici possono essere fra di loro in rapporto di contraddittorietà, per cui l’uno esclude l’altro e tutti e due escludono un terzo, oppure di contrarietà, per cui l’uno esclude l’altro ma entrambi non escludono un terzo intermedio. Mentre i termini delle tre coppie analoghe sono contraddittori, e ne è una prova la stessa forma linguistica, non autonoma, del secondo termine, i due termini dell’antitesi pace-guerra possono essere, secondo i diversi contesti, ora contraddittori, qualora per pace s’intenda lo stato di non guerra e per guerra lo stato di non pace, oppure contrari, qualora lo stato di pace e lo stato di guerra siano considerati come due stati estremi, tra i quali siano possibili e configurabili stati intermedi, come dalla parte della pace lo stato di tregua, che non è piú guerra e non è ancora pace, e dalla parte della guerra lo stato di guerra non guerreggiata, di cui è tipico esempio la cosiddetta guerra fredda, che non è piú pace ma non è ancora guerra. Nel linguaggio tradizionale, peraltro, sia colto sia corrente, prevale l’uso della coppia ove i due termini sono l’uno rispetto all’altro contraddittori: dove c’è guerra non c’è pace e viceversa. Cosí si spiegano titoli di opere celebri, come De iure belli ac pacis di Ugo Grozio (1625), Guerra e pace di Tolstoj (1869), Paix et guerre entre les nations di Raymond Aron (1962).
Di ognuna di queste coppie, e quindi anche della coppia guerra e pace, bisogna distinguere l’uso classificatorio, secondo cui i due termini vengono usati nel loro significato descrittivo, dall’uso assiologico o prescrittivo, secondo cui i due termini vengono presi in considerazione nel loro significato emotivo e valutativo. L’uso descrittivo è quello caratteristico in generale del linguaggio giuridico, storico, delle relazioni internazionali; l’uso assiologico è quello caratteristico della teologia o della filosofia morale, del moralista, dello scrittore politico. Il giurista, lo storico, lo studioso di relazioni internazionali usano i termini «guerra» e «pace» per descrivere un certo stato di cose; il teologo, il filosofo morale, il moralista, lo scrittore politico, per approvare o condannare, per promuovere o per scoraggiare, a seconda del sistema di valori cui si ispirano, questo o quello stato di cose significato dai due termini.
Nel loro uso descrittivo i due termini di un’antitesi possono essere definiti l’uno indipendentemente dall’altro, oppure, piú frequentemente, l’uno per mezzo dell’altro, circolarmente, come quando si definisce il moto come assenza di quiete e la quiete come assenza di moto. In questo caso i due termini acquistano il loro significato non dall’essere singolarmente definiti, ma dal solo fatto di presentarsi in coppia. Si dà anche il caso in cui uno dei due termini viene sempre definito per mezzo dell’altro. In questo caso si dice che, dei due termini, quello che viene definito è il termine forte, l’altro, quello che viene definito unicamente come la negazione del primo, è il termine debole. Nella coppia guerra-pace il termine forte è il primo, il termine debole il secondo, sia nel linguaggio colto sia nel linguaggio corrente. Il che ha per conseguenza che la nozione di pace presuppone quella di guerra, o, piú in generale, ogni discorso sulla pace presuppone il discorso sulla guerra. Si può anche dire con altra espressione che nella coppia guerra-pace il primo è il termine indipendente, il secondo è quello dipendente. Prova ne sia che nella millenaria letteratura sul tema della guerra e della pace si possono trovare infinite definizioni di guerra, mentre si trova di solito una sola definizione di pace, come fine o cessazione o conclusione o assenza o negazione della guerra, quale che ne sia la definizione.
Se dei due termini di una coppia uno è sempre il termine forte o indipendente, l’altro è sempre il termine debole o dipendente, ciò dipende dal fatto che i due stati di cose designati dai due termini non sono esistenzialmente rilevanti allo stesso modo. Il termine forte è quello che denota lo stato di cose esistenzialmente piú rilevante. Si pensi ad esempio alla coppia dolore-piacere: l’uomo comincia a riflettere sul piacere partendo dallo stato di dolore, e questo fa sí che il piacere venga abitualmente percepito e quindi definito come assenza di dolore e non, al contrario, il dolore come assenza di piacere. (Nel linguaggio comune il termine «sofferenza» non è in coppia con un termine che indichi lo stato contrario, il quale viene definito come non sofferenza, che è altra cosa dal godimento, stato effimero di breve durata, inconfrontabile con gli stati di dolore o di sofferenza, che possono essere di lunga durata, come del resto lo stato di non sofferenza). Cosí l’uomo ha cominciato a riflettere sulla pace partendo dallo stato di guerra, da quello stato in cui viene messa a repentaglio la sua vita, minacciato il possesso dei beni, rese precarie le condizioni di esistenza proprie e dei propri vicini. Ha cominciato ad aspirare ai benefici della pace partendo dagli orrori della guerra.
Che la storiografia, a cominciare da Tucidide, sia stata prevalentemente sinora un racconto di guerre, non è un capriccio degli storici. Una storia senza racconti di guerre, come quella che gli educatori alla pace vorrebbero fosse insegnata nelle scuole, non sarebbe la storia dell’umanità. Per quanto la guerra in tutte le sue forme susciti generalmente orrore, non possiamo cancellarla dalla storia perché il mutamento storico, il passaggio da una fase all’altra dello sviluppo storico, sono in gran parte il prodotto delle guerre, delle varie forme di guerra, le guerre esterne tra gruppi relativamente indipendenti e le guerre interne fra parti in conflitto di uno stesso gruppo per la conquista del potere. Piaccia o non piaccia, ne siamo o no consapevoli, la nostra civiltà, o ciò che noi consideriamo la nostra civiltà, non sarebbe quello che è senza tutte le guerre che hanno contribuito a formarla. Gli umanisti si gloriavano di essere eredi della civiltà di Roma, che pure era stata fondata su una serie interminabile di guerre atroci. I nostri padri liberali si reputavano eredi della Riforma, che aveva scatenato guerre sanguinosissime durante piú di un secolo, e della Rivoluzione francese, che pur aveva instaurato un regime di terrore e aveva provocato le guerre napoleoniche. Oggi di fronte alla sollevazione dei paesi del Terzo Mondo ci battiamo il petto in segno di contrizione: eppure, possiamo immaginare una storia diversa da quella che ha avuto corso, una storia in cui i grandi imperi dell’America Centrale, o i vecchi stati dell’Asia, o gli ancora piú vecchi gruppi tribali nell’Africa, non fossero stati assoggettati col ferro e col fuoco dai popoli europei? Con un esempio che ci tocca da vicino: la nostra Costituzione repubblicana che ci regge da quarant’anni e che contiene addirittura in uno dei suoi articoli (l’art. 11) l’affermazione che la guerra è ripudiata «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», non è venuta dopo uno dei periodi piú tragici della storia europea, caratterizzata dalla guerra piú estesa e piú sanguinosa di tutta la storia umana? Confrontiamo gli effetti della guerra con gli effetti dei periodi piú o meno lunghi di pace, e non potremo piú avere dubbi sulla ragione per cui, dei due termini della coppia guerra-pace, il termine forte è il primo; esso è, appunto, il termine che indica, come dolore rispetto a piacere, sofferenza rispetto a non sofferenza, lo stato di cose esistenzialmente piú rilevante in quanto suscita emozioni piú profonde.
Analogo argomento si può trarre dalla storia della filosofia. È stato osservato piú volte che è sempre esistita una filosofia della guerra, mentre è ben piú recente la filosofia della pace, di cui il primo grande esempio è Kant. Gran parte della filosofia politica è stata una continua riflessione sul problema della guerra (e della rivoluzione, come guerra civile): quali ne siano le cause, quali i rimedi, quali le conseguenze sull’evoluzione o sull’involuzione delle società umane. Il tema della pace o, che è lo stesso, dell’ordine (interno) è sempre stato trattato di riflesso rispetto al tema della guerra o del disordine; la pace come lo sbocco, uno dei possibili sbocchi, della guerra (l’ordine, come sbocco della rivoluzione). La grande filosofia della storia dell’età moderna, che trapassa dall’illuminismo al positivismo, dallo storicismo al marxismo, e giunge sino al nostro secolo con Spengler e Toynbee, sino ai nostri giorni con una delle ultime opere di Jaspers (Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, 1949), nasce dalla domanda «quale sia il significato della guerra nel movimento storico generale», giacché è il fenomeno della guerra, di una guerra sempre piú distruttiva e sempre meno comprensibile nei suoi fini e nei suoi effetti (la guerra capriccio dei principi, dalla Querela pacis di Erasmo alla voce Guerre del Dictionnaire philosophique di Voltaire), che richiede una qualche spiegazione e una giustificazione: la guerra, non la pace. È principio ben noto e non controverso della teoria dell’argomentazione quello secondo cui il comportamento che ha bisogno di essere giustificato è quello che contrasta con le regole della morale corrente, il comportamento deviante, non quello regolare (conforme a regola): non ha bisogno di essere giustificato il rispetto del principio di non uccidere, ma sí la trasgressione di questo principio, per esempio nel caso di legittima difesa o di stato di necessità; non ha bisogno di essere giustificato il principe che mantiene fede ai patti stabiliti, ma sí colui che non li mantiene, in soccorso del quale Machiavelli ebbe a sostenere che solo hanno fatto «gran cose» i principi che della fede hanno tenuto poco conto. Di fronte alla guerra sempre piú percepita come evento tragico eppure immanente alla storia umana, ecco nascere i vari tentativi di dare una risposta alla domanda: perché la guerra e non la pace? Dalle diverse risposte a questa domanda è costituita in gran parte la filosofia della storia: che può essere considerata, nelle sue varie versioni e nelle varie soluzioni che dà al problema, come la trasposizione alla sfera delle vicende umane dei grandi interrogativi sulle ragioni o non ragioni del male nel mondo: la guerra come male minore, la guerra come male necessario, la guerra come male apparente, per non parlare, in una concezione teologica e fideistica persistente, pur durante la grande stagione della filosofia razionalistica, della guerra come castigo divino. A queste concezioni globali che tendono a dare una giustificazione della guerra in quanto tale si affiancano i tentativi, in cui si sono esercitati per secoli teologi e giuristi, di distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste.
Pace negativa e positiva.
Partendo dalla constatazione che dei due termini della coppia il termine forte è guerra e quello debole pace, lo stato di pace può essere definito solo definendo preliminarmente lo stato di guerra. Si può dire che esiste uno stato di guerra quando due o piú gruppi politici si trovano fra loro in un rapporto di conflitto la cui soluzione viene affidata all’uso della forza. Uso nel senso weberiano l’espressione «gruppo politico», che è piú ampia di «stato», per comprendervi anche quei gruppi indipendenti, comunque dotati di forza propria, che non possono essere fatti rientrare nella nozione tecnico-giuridica di stato, con la quale si tende a comprendere l’ente territoriale nato dalla dissoluzione della società medioevale, caratterizzato non solo dal monopolio della forza, ma anche da un apparato amministrativo stabile. Si ha una situazione di conflitto ogniqualvolta i bisogni o gli interessi di un individuo o di un gruppo sono incompatibili con quelli di un altro individuo o di un altro gruppo, e quindi non possono essere soddisfatti se non a danno o dell’uno o dell’altro. Il caso piú tipico è quello della concorrenza di piú individui o gruppi per il possesso di un bene scarso, che si trovi nel territorio dell’altro. Questo motivo di conflitto è tanto diffuso che è stato ampiamente analizzato anche dagli studiosi del comportamento animale, i quali hanno osservato che ogni animale ha un proprio territorio, piú o meno vasto, e lo difende dagli attacchi degli altri animali: un fenomeno cui è stato dato il nome di «territorialismo». Il territorialismo è a sua volta una forma particolare della difesa del proprio ambito spaziale cui ogni individuo è interessato, il posto in treno, a teatro, in una coda, e che è disposto a difendere in casi estremi anche con la forza (la difesa del posto è una delle possibili occasioni di rissa). Un altro motivo di conflitto, che può degenerare in rissa o in guerra, secondo la gravità del caso e la quantità degli individui coinvolti, è la difesa del rango, della preminenza, della gerarchia che permette a chi occupa i gradi piú alti di godere di certi privilegi. Naturalmente non tutti i conflitti sono destinati ad essere risolti con il ricorso alla forza. La guerra, in quanto risoluzione di un conflitto fra gruppi politici attraverso l’uso della forza, è uno dei modi di risoluzione di un conflitto, cui si ricorre generalmente quando i modi pacifici non hanno avuto effetto.
La distinzione fra situazioni in cui i conflitti vengono risolti abitualmente con accordi e situazioni in cui i conflitti vengono risolti anche con l’uso della forza corrisponde alla distinzione fra stato agonistico, retto da regole sostanziali e procedurali che prevedono varie forme di conflitto e i modi della loro pacifica risoluzione (si pensi alle norme consuetudinarie o autoritativamente poste che regolano i contratti nel diritto civile oppure alle norme della Costituzione che regolano i conflitti di competenza fra diversi organi dello stato), e stato polemico che, pur prevedendo regole per la soluzione delle controversie, non esclude il ricorso all’uso della forza, se pure esso stesso in alcuni casi disciplinato da regole. Ma altro, come ognun vede, è la regolamentazione del conflitto in modo da non permettere l’uso della forza da parte dei due enti in conflitto, altro è la regolamentazione degli atti di forza che vengono usati per risolverlo; non si può confondere l’esclusione della forza, considerata come illecita, dalla limitazione del suo uso, una volta riconosciutane la liceità. Questi due stati sono esemplarmente rappresentati dal modo con cui vengono risolti i conflitti all’interno di un gruppo politico, ove esiste un apparato per l’esercizio del monopolio della forza, e nei rapporti esterni fra gruppi, dei quali nessuno possiede rispetto a tutti gli altri tale monopolio. Con questo non si vuol dire che nei rapporti internazionali non vi siano anche regole per la risoluzione pacifica delle controversie (si tratta del cosiddetto diritto internazionale pattizio), ma tali regole sono meno efficaci delle norme relative ai contratti nel diritto civile, proprio perché non esiste un potere coercitivo superiore ai contraenti tale da ottenere con la costrizione il rispetto dell’accordo, e la loro minore efficacia è la ragione principale del ricorso in ultima istanza all’uso unilaterale della forza (riconosciuto come esercizio del diritto di autotutela).
Quando in simili contesti si parla di forza, s’intende l’uso di mezzi capaci d’infliggere sofferenze fisiche, e pertanto non vi rientra né la violenza psicologica, ovvero l’uso di mezzi di manipolazione della volontà altrui allo scopo di ottenere gli effetti desiderati, né la violenza istituzionale o strutturale, ovvero la violenza che deriva dal rapporto di dominio all’interno di certe istituzioni, come la fabbrica, la scuola, l’esercito, per non parlare delle cosiddette istituzioni totali, come il manicomio, le carceri, le organizzazioni di gruppi fanatici religiosi o politici, regolati da una disciplina ferrea tutta tesa a escludere qualsiasi comportamento non diretto allo scopo. Non vi è solo la violenza fisica, ma solo la violenza fisica è quella che contraddistingue la guerra da altre forme di esercizio del potere dell’uomo sull’uomo, anche se sono d’uso corrente espressioni come guerra dei nervi, guerra psicologica e simili, ma sono espressioni metaforiche. Perché poi la violenza fisica quando è usata in questi contesti venga chiamata forza, non è solo un artificio verbale dovuto al fatto che il termine «violenza» ha una connotazione assiologicamente negativa che forza non ha. Si chiama forza la violenza, anche fisica, che viene usata da chi è autorizzato a usarla da un sistema normativo che distingue in base a regole efficaci uso lecito e uso illecito dei mezzi che infliggono sofferenze e anche in casi estremi la morte: la morte quando è procurata dall’assassino è un atto di violenza, quando è procurata dal boia è un atto di forza. Non diversamente accade per quel che riguarda la guerra nei rapporti internazionali, ove esistono regole che la rendono lecita in determinate circostanze e ne disciplinano la condotta dopo che è iniziata. Se mai si deve osservare che nei rapporti interni i limiti tra forza e violenza sono molto meglio definiti che nei rapporti internazionali, proprio per il fatto che sono piú chiaramente definiti i criteri di distinzione fra violenza lecita e violenza illecita.
Per caratterizzare la guerra come modo di risolvere conflitti non basta fare riferimento all’uso della forza intesa come violenza lecita e autorizzata (lecita perché autorizzata). La guerra è sempre in primo luogo una forza esercitata collettivamente: come tale viene tradizionalmente distinta dal duello, che mette di fronte due individui singoli, cui peraltro viene assimilata perché come il duello anche la guerra è un esercizio della forza disciplinato da regole e ha lo scopo di risolvere una controversia attraverso la ragione delle armi (non con le armi della ragione). In secondo luogo, perché si possa parlare di guerra occorre che non si tratti di violenza, pur tra gruppi politici indipendenti, sporadica, discontinua, senza rilevanti conseguenze sull’assetto territoriale dei due combattenti: un incidente di frontiera non è una guerra; può essere l’occasione o il pretesto per una guerra, ma se non dà origine a uno scontro di piú vasta portata, nonostante morti e feriti vittime di violenza, non può essere considerato una guerra, mentre un conflitto breve, come la guerra cosiddetta dei sei giorni fra Israele ed Egitto, è una vera e propria guerra nel piú pieno senso della parola. Infine la violenza collettiva e non accidentale della guerra presuppone sempre in qualche modo un’organizzazione, un apparato predisposto e addestrato allo scopo: la presenza di tale apparato, anche se rudimentale, è ciò che distingue la guerriglia (la quale è una specie di guerra) dalla sommossa, pur condotta con armi.
Una volta definito lo stato di guerra, ne deriva la definizione dello stato di pace, in quanto stato di non guerra. Due gruppi politici si trovano in stato di pace quando tra loro non esista un conflitto alla cui soluzione entrambi provvedano facendo ricorso all’esercizio di una violenza collettiva, durevole e organizzata. Ne discende che due gruppi politici possono essere in permanente conflitto fra loro senza essere in guerra, lo stato di pace non escludendo il conflitto, ad esempio la concorrenza commerciale, ma solo quel conflitto la cui soluzione viene affidata all’impiego della forza attuale. Non basta la forza potenziale, ovvero la minaccia della forza, perché questa è una caratteristica permanente dei rapporti internazionali ed è considerata se mai condizione di pace, come vuole la massima «Si vis pacem para bellum». Né sono sufficienti atti di forza reale ma sporadica, sia di tipo difensivo, come l’abbattimento di un aereo che ha presuntivamente violato i confini dello spazio aereo, o l’affondamento di un sottomarino che ha travalicato i limiti delle acque territoriali, sia di tipo offensivo, come un atto terroristico o anche una serie di atti terroristici.
Accanto a questo significato generale di «pace», che sta a indicare uno stato nei rapporti internazionali antitetico allo stato di guerra e definito di solito negativamente, il termine «pace» ha anche un significato specifico, e in questo caso positivo, quando venga usato per indicare la fine o la conclusione di una determinata guerra, come nelle espressioni «pace di Nicia», «pace di Augusta», «pace di Basilea». In questa particolare accezione, «pace» viene definita positivamente come l’insieme di accordi coi quali due gruppi politici, cessate le ostilità, delimitano le conseguenze della guerra e regolano i loro rapporti futuri. Diverso e, a mio parere, discutibile è invece il significato che al termine positivo «pace» viene dato in alcuni ambienti della peace research, con particolare riguardo agli studi, sotto molti aspetti di grande rilievo, che J. Galtung ha condotto negli ultimi vent’anni soprattutto attraverso la rivista «Journal of Peace Research». Galtung parte, anche lui, dall’osservazione che le scienze sociali hanno dedicato maggiore attenzione alla guerra che alla pace, come è accaduto alla psicologia che ha studiato piú le malattie mentali che non la creatività della mente umana, e in base a questa osservazione condanna la tendenza a definire la pace come non guerra, non riconoscendo in tal modo le buone ragioni, su cui mi sono soffermato precedentemente, di questo modo tradizionale e a mio parere perfettamente comprensibile e giustificato di porre il problema della pace. Insoddisfatto della definizione puramente negativa di pace, sovrappone a essa una definizione positiva, che deriva dall’intendere estensivamente «pace» come negazione non tanto di guerra quanto di violenza. Distinguendo quindi due forme di violenza, la violenza personale, in cui rientra quella forma specifica di violenza che è la guerra, dalla violenza strutturale o istituzionale, distingue due forme di pace, quella negativa che consiste nell’assenza di violenza personale, e quella positiva, che consiste nell’assenza di violenza strutturale. In quanto assenza di violenza strutturale, che è la violenza che le istituzioni di dominio esercitano sui soggetti al dominio, e nel concetto della quale rientrano l’ingiustizia sociale, l’ineguaglianza fra ricchi e poveri, fra potenti e non potenti, lo sfruttamento capitalistico, l’imperialismo, il dispotismo ecc., la pace positiva è quella che si può instaurare soltanto attraverso un radicale cambiamento sociale e che, per lo meno, deve procedere di pari passo con il promovimento della giustizia sociale, con lo sviluppo politico ed economico dei paesi sottosviluppati, con l’eliminazione delle diseguaglianze.
Non ho nessuna difficoltà a rendermi conto dei limiti di una ricerca della pace intesa unicamente come non guerra. Ma ritengo che l’unico modo di superare questi limiti sia di rendersene consapevoli, cioè di rendersi conto che il problema della pace è uno dei grandi problemi che gli uomini sono chiamati di volta in volta a risolvere, non è il problema unico, il problema dei problemi, la cui soluzione liberi una volta per sempre l’umanità dai mali che l’affliggono e possa renderla definitivamente felice. Il problema dei problemi non esiste. Il che non toglie che il problema della pace, pur nel senso negativo del termine, come problema della limitazione e addirittura dell’eliminazione della guerra, sia uno dei maggiori problemi cui gli uomini hanno cercato di dare, se pure sinora invano, una soluzione. Che cosa sono i movimenti pacifisti, che dall’inizio del secolo scorso hanno sino a oggi svolto, se pure ispirati a diverse ideologie, opere di elaborazione d’idee, di propaganda e di agitazione, se non movimenti il cui scopo fondamentale è quello della guerra alla guerra? Nessun movimento pacifista ha mai voluto essere confuso con il partito liberale o democratico o socialista, anche se vi è stato un pacifismo liberale, un pacifismo democratico, un pacifismo socialista. Che il pacifista ritenga di dare la preminenza al problema della pace, non vuol dire affatto che il problema della pace sia il problema che assomma in sé tutti gli altri problemi. Si può ben capire l’insoddisfazione che deriva dai limiti delle ricerche sulla pace, limiti che probabilmente il pacifista attivo, tutto preso dal suo ideale, non coglie. Ma non si capisce altrettanto bene perché il modo migliore per superare lo stato d’insoddisfazione sia quello di allargare il significato del termine «pace» e di riempirlo di significati che storicamente e lessicalmente non gli spettano. Dalle polemiche di questi pacifisti radicali contro i pacifisti tradizionalisti si ha l’impressione che essi si siano accorti che il valore della pace non è il valore ultimo (ma esiste il valore ultimo? o non esistono solo valori primari tra loro alternativi e incompatibili?) e che una volta eliminata la guerra, posto che sia possibile e desiderabile, l’umanità non sarà entrata nel paradiso terrestre, ma si troverà di fronte ad altri problemi non meno gravi e difficili, quali la giustizia sociale, la sovrappopolazione, la fame, la libertà.
Fatta questa scoperta, invece di riconoscere che accanto al problema della pace vi sono altri problemi che debbono essere risolti, in primo luogo il problema dello sviluppo, costoro preferiscono sostenere, e far credere, che occupandosi dei problemi dello sviluppo continuano a occuparsi dei problemi della pace, purché per «pace» s’intenda non piú soltanto lo stato di non guerra, come si è inteso da sempre e come l’intendono coloro che continuano a farsi chiamare «pacifisti», ma ogni forma di lotta contro la violenza in tutti i suoi aspetti, ciò che chiamano, non si sa bene perché, pace positiva. Ma cosí essi cercano di coprire un mutamento di rotta nelle ricerche sulla pace con un’indebita e impropria estensione del concetto di pace, facendo cioè della pace non l’antitesi della guerra ma della violenza, di ogni forma di violenza, mentre il concetto di guerra ha un’estensione piú limitata e ha note caratteristiche che ne fanno una forma, se pure estrema, di esercizio della violenza. Con ciò non si vuol negare che il problema della pace e quello dello sviluppo siano attualmente connessi tanto da essere interdipendenti: il problema dei rapporti Est-Ovest riguarda il modo di stabilire fra le grandi potenze una pace durevole: il problema dei rapporti Nord-Sud riguarda soprattutto il modo di diminuire il divario fra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. A chiunque applichi la propria intelligenza non offuscata da pregiudizi ideologici ai grandi problemi del nostro tempo appare chiaro che la prima condizione per la soluzione del problema Nord-Sud è la fine della corsa agli armamenti e la fine di una fragile pace fondata esclusivamente sull’equilibrio del terrore. Ma ciò non toglie che i problemi della pace internazionale e della giustizia internazionale siano due problemi diversi e che la loro diversità non venga cancellata facendo rientrare i problemi dello sviluppo in quelli della cosiddetta pace in senso positivo.
La pace come valore.
Nel suo uso assiologico la coppia guerra-pace congiunge due termini carichi di significati emotivi, in modo tale che la connotazione positiva dell’uno rinvia alla connotazione negativa dell’altro. Vi sono coppie di termini antitetici, come piacere-dolore, ordine-disordine, in cui uno dei due termini ha sempre un significato emotivo positivo, l’altro sempre un significato emotivo negativo. Chi sostenesse che il dolore è bene e il piacere è male, o che il disordine è piú desiderabile dell’ordine sarebbe considerato per lo meno un eccentrico, un paradossale, per non dire uno stravagante che non merita molta attenzione. Come stanno le cose per quel che riguarda la coppia pace-guerra? A prima vista si direbbe che stanno nello stesso modo, ossia che il primo termine rappresenta sempre il momento positivo, il secondo sempre il momento negativo. In realtà non è cosí. Nella storia del pensiero filosofico, accanto agli autori che vengono chiamati irenisti o fautori di pace ve ne sono altri che possiamo chiamare polemisti in quanto fautori di guerra (non cambia nulla se non l’etimologia, se li chiamiamo rispettivamente pacifisti e bellicisti).
Il giudizio politico, ossia il giudizio sulle azioni che rientrino nella sfera della politica, è generalmente fondato sul principio secondo cui il fine giustifica i mezzi. Ciò significa che azioni politiche come la guerra e la pace vengono giudicate di solito non come valori finali o intrinseci, ma come valori strumentali o estrinseci. È in base a tale giudizio che non sempre la guerra viene condannata, non sempre la pace viene esaltata: condanna o esaltazione dipendono dal giudizio di valore positivo o negativo del fine, cui la guerra e la pace servono secondo le circostanze. Riflettendo sull’immensa letteratura pro o contro la guerra, si possono distinguere tre situazioni tipiche in cui un fine al quale si attribuisce un valore positivo consente di dare un giudizio positivo della guerra come mezzo, e per il rapporto di antitesi fra guerra e pace un giudizio negativo, nello stesso tempo, sulla pace. Indico queste situazioni sotto forma di rapporto fra due termini, in cui la guerra figura come mezzo e l’altro termine del rapporto è il fine: a) guerra e diritto; b) guerra e sicurezza; c) guerra e progresso.
Il rapporto fra guerra e diritto è molto complesso. Vi è almeno un’accezione di diritto per cui la guerra appare come l’antitesi del diritto. Si tratta dell’accezione per cui il diritto, come insieme di regole poste da un’autorità dotata degli strumenti idonei a farle valere anche contro i recalcitranti, ha per scopo principale (se pure non esclusivo) la soluzione dei conflitti che sorgono all’interno di un gruppo sociale e di quelli che sorgono nei rapporti fra diversi gruppi sociali e pertanto di stabilire e mantenere la pace interna e quella esterna. Certo la pace è il fine minimo del diritto, ma appunto perché minimo può essere considerato (vedi la teoria pura del diritto di Kelsen) come il fine comune di ogni ordinamento giuridico, non raggiungendo il quale un insieme di regole di condotta non potrebbe essere chiamato appropriatamente un ordinamento giuridico. Nell’ambito di un ordinamento giuridico possono essere perseguiti altri fini, pace con libertà, pace con giustizia, pace con benessere, ma la pace è la condizione necessaria per il raggiungimento di tutti gli altri fini, e dunque la ragione stessa dell’esistenza del diritto.
Data la definizione di guerra come violenza organizzata di gruppo che si prolunga per un certo periodo di tempo, che la guerra sia l’antitesi del diritto ne è una conseguenza: il diritto infatti può essere definito come l’ordinamento pacifico di un gruppo e dei rapporti di questo gruppo con tutti gli altri gruppi. Proprio per il rapporto di opposizione fra guerra e pace, qui ripetutamente messo in rilievo, là dove il concetto di diritto è strettamente congiunto con quello di pace, è nello stesso tempo disgiunto da quello di guerra.
Vi sono peraltro due situazioni in cui guerra e diritto non si presentano come termini antitetici. Lo scopo principale del diritto, si è detto, è di stabilire la pace, ma per stabilire la pace occorre in certe circostanze usare una forza per ridurre a ragione coloro che non rispettano le regole: nei rapporti internazionali questa forza è la guerra. Come tale, cioè come strumento per il ristabilimento del diritto violato, la guerra assume un valore positivo: assume lo stesso valore positivo della sanzione nel diritto interno, vale a dire dell’atto con cui il titolare del potere sovrano, in quanto detentore del monopolio della forza legittima, ripara un torto o punisce un colpevole, ristabilendo l’impero del diritto. La definizione della guerra, in determinate circostanze, come sanzione è stata uno degli elementi costanti della teoria della guerra giusta, secondo cui la guerra può essere sottoposta a due giudizi di valore opposti: negativo, se essa viene condotta in spregio del diritto delle genti, positivo, se essa viene condotta per ristabilire il diritto delle genti violato da uno dei membri della comunità internazionale. Per quanto vari siano stati i criteri in base ai quali sono state distinte le guerre giuste dalle ingiuste, la communis opinio si è venuta orientando e consolidando nel riconoscimento della legittimazione di questi tre tipi di guerre, che la riconducono al concetto di sanzione: a) la guerra di difesa; b) la guerra di riparazione di un torto; c) la guerra punitiva. La seconda situazione in cui guerra e diritto non sono antitetici è esattamente opposta a quella testé presentata: si tratta della guerra intesa non come mezzo per restaurare il diritto stabilito, ma come strumento per instaurare un diritto nuovo, ovvero la guerra come rivoluzione, intendendosi per rivoluzione, nel senso tecnico-giuridico del termine, un insieme di atti coordinati allo scopo di abbattere il vecchio ordinamento giuridico e d’imporne uno nuovo. Chiamo questo modo d’intendere positivamente la guerra «guerra come rivoluzione», perché la guerra cosí intesa sta ai rapporti internazionali come la rivoluzione sta ai rapporti interni: allo stesso modo che la rivoluzione può essere presentata sotto l’aspetto della guerra civile, la guerra eversiva dell’ordine internazionale può essere presentata sotto l’aspetto della rivoluzione nei rapporti fra stati. La differenza fra guerra restauratrice e guerra instauratrice sta nel diverso diritto cui l’una e l’altra rispettivamente fanno appello: la prima al diritto positivo (consuetudinario e convenzionale), la seconda al diritto naturale. Guerre rivoluzionarie sono le guerre di liberazione nazionale: quando scoppiarono, nel secolo scorso, in Europa, i loro fautori si richiamarono al diritto naturale di autodeterminazione dei popoli cosí come la Rivoluzione francese si era richiamata al diritto naturale alla libertà degli individui. Ma questa differenza non toglie che la legittimazione della guerra avvenga attraverso il diritto e che attraverso questa legittimazione la guerra assuma un valore positivo e per contrasto la pace, sia in quanto passiva accettazione di un torto subito, sia in quanto mantenimento forzato di un ordine ingiusto, assuma un valore negativo.
Non si è forse riflettuto sinora abbastanza sull’importanza che ha il valore della sicurezza per la comprensione dell’azione politica, sia rivolta all’interno del gruppo politico e quindi ai rapporti tra governanti e governati, sia all’esterno e quindi ai rapporti dei gruppi politici fra loro. Il punto di partenza obbligato per una storia del concetto di sicurezza e del suo rilievo nella teoria politica è Hobbes, com’è stato ancora recentemente ricordato. Nello stato di natura, per la mancanza di un potere superiore che stabilisca chi ha ragione e chi ha torto e sia in possesso della forza necessaria a far rispettare la decisione presa (ciò che Hobbes chiama la spada della giustizia per distinguerla dalla spada della guerra), il singolo individuo è insicuro e di conseguenza decide di comune accordo con altri individui, come lui per le stesse ragioni insicuri, di rinunciare ai propri diritti potenzialmente immensi ma fattualmente inesigibili per dar vita a un potere comune che sia in grado di proteggere coloro che gli si sono affidati: l’essenza del contratto politico sta nello scambio fra protezione e obbedienza. La protezione ha due facce: verso l’interno il sovrano deve proteggere ogni suddito nei riguardi di tutti gli altri; verso l’esterno li deve proteggere dagli attacchi che possono venire dagli altri sovrani. Il diritto alla sicurezza compare nelle prime Dichiarazioni dei diritti, quelle americane e quella francese del 1789, e arriva sino alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Si è esteso ben al di là della protezione della vita e della libertà nello stato sociale contemporaneo, tanto da essere diventato, spesso anche a scapito di altri diritti, l’oggetto primario dell’azione dello stato. Nel frattempo non è mai venuto meno, per quanto generalmente non dichiarato nelle carte costituzionali, il dovere dello stato di garantire la sicurezza dei suoi cittadini nei riguardi degli attentati che possono venire ai loro beni e alle loro libertà da parte di altri stati. Lo stesso diritto di sicurezza che il cittadino ha nei riguardi dello stato, il singolo stato ha nei riguardi di tutti gli altri stati. Anzi la sicurezza dello stato come ente collettivo deve servire in ultima istanza a garantire la sicurezza dei propri cittadini. Allo stesso modo che la garanzia del rispetto del diritto di sicurezza dei cittadini sta nel diritto che lo stato ha di punire coloro che la minacciano, cosí la garanzia del diritto di sicurezza dello stato nei riguardi degli altri stati sta nel diritto che lo stesso stato ha di ricorrere in ultima istanza alla forza punitiva della guerra. Guerra e sicurezza (nel suo aspetto esterno) sono dunque strettamente connesse, ed è proprio questa connessione che conferisce alla guerra, se pure in casi limite, una dignità assiologica che la pace, in quegli stessi casi, non ha. È pur vero che uno stato è tanto piú sicuro quanto piú è in pace (la guerra è il regno dell’insecuritas). Ma è anche vero che la pace tra enti sovrani è tanto piú stabile quanto piú uno stato, secondo il principio dell’equilibrio, è in grado di minacciare il ricorso alla guerra per difenderla. La massima fondamentale dell’etica politica, di un’etica per cui vale il principio che il fine giustifica i mezzi, come si è detto, è salus rei publicae suprema lex. La salvezza dello stato è la legge suprema per i governanti, ma di riflesso anche per i governati. In quanto legge suprema (suprema significa che legge superiore a essa non v’è, almeno nella condotta politica) essa impegna i governanti e di riflesso i governati a fare tutto ciò che serve allo scopo: i governanti hanno il diritto di chiedere ai cittadini anche il sacrificio della vita, e i cittadini hanno il dovere, il «sacro dovere», cosí recita la Costituzione di uno stato laico come la repubblica democratica italiana (art. 52), di difendere la patria.
Alla formulazione di un giudizio positivo sulla guerra e negativo, per contrasto, sulla pace il maggior contributo è stato dato dalla teoria del progresso, intesa, secondo la formula kantiana, come quella concezione della storia per cui l’umanità è in «costante progresso verso il meglio». Dal punto di vista della teoria del progresso nelle sue diverse formulazioni, l’esecrazione della guerra è l’espressione di un sentimento soggettivo che non ha alcun contenuto razionale. Per l’uomo di ragione la guerra è un evento che non può essere giudicato indipendentemente da un giudizio globale sul corso storico dell’umanità nel passaggio obbligato, necessario, dalla barbarie alla civiltà. A chi non si limiti a giudicare la guerra dal punto di vista dei propri interessi e delle proprie preoccupazioni personali, ma la inserisca come un evento ordinario nel movimento storico universale, la guerra appare come un fattore di progresso e di converso la pace come un fattore, in certe situazioni, di regresso. In primo luogo, che la guerra sia stata necessaria, e lo sia ancora, al progresso tecnico è un luogo tanto comune che è persino stucchevole il ripeterlo. In un’età protesa verso l’esaltazione dei successi della scienza H. Spencer scriveva: «Nel corrispondere alle imperiose richieste della guerra, l’industria fece grandi progressi e guadagnò molto in capacità e destrezza. Davvero è da porsi in dubbio se in assenza dell’esercizio dell’abilità manuale destata primamente dalla costruzione delle armi, sarebbero mai stati costruiti gli strumenti richiesti dall’agricoltura e dalle manifatture» 1. Se non ci fosse stata la necessità di sconfiggere la Germania nazista, gli scienziati americani avrebbero mai scoperto la fissione dell’atomo e una nuova forma di energia che ha inaugurato una nuova epoca nella storia umana? Che la guerra sia un fattore di progresso tecnico dipende dal fatto che l’intelligenza creatrice dell’uomo risponde con maggior vigore e con piú sorprendenti risultati alle sfide che il contrasto con la natura e con gli altri uomini le pongono di volta in volta, e la guerra è certamente una delle maggiori sfide che un gruppo sociale debba affrontare per la propria sopravvivenza. In secondo luogo, la guerra è sempre stata considerata come necessaria al progresso sociale dell’umanità, perché rende possibile l’unificazione di sempre piú vasti aggregati umani. Scriveva Cattaneo: «[…] la guerra è perpetua sulla terra. Ma la guerra stessa con la conquista, colla schiavitú, cogli esilii, colle colonie, colle alleanze pone in contatto fra loro le piú remote nazioni […]; fonda il diritto delle genti, la società del genere umano, il mondo della filosofia» 2. Quantunque inferiori allo scopo per cui sono sorte, la Società delle Nazioni e l’Organizzazione delle Nazioni Unite – i primi tentativi di associazione permanente e universale degli stati – non sono state un prodotto diretto delle due guerre mondiali? Infine, sebbene possa apparire al giorno d’oggi incongruo se non addirittura grottesco, quando la potenza sterminatrice delle armi può agire a distanza di migliaia di chilometri, quante volte la guerra è stata esaltata per il contributo che ha dato al progresso morale dell’umanità! quante volte è stato ripetuto che la guerra sviluppa energie che in tempo di pace non hanno la possibilità di manifestarsi e induce gli uomini all’esercizio di virtú sublimi, quali il coraggio, il sacrificio di sé, l’amor di patria, che un lungo periodo di pace mortifica! Per una citazione non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ma quando si tratta di «rovesciamento di valori» insuperabile è Nietzsche: «Per ora non conosciamo altri mezzi [oltre le guerre], mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell’ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l’esistenza propria e quella delle persone care e quel cupo, sotterraneo scotimento dell’anima, in modo altrettanto forte e sicuro, come lo fa ogni grande guerra» 3.
L’ideale della pace perpetua.
La filosofia della pace nasce quando ormai la filosofia della guerra ha esaurito tutte le sue possibilità e insieme ha dimostrato rispetto all’aumento quantitativo e qualitativo delle guerre tutta la sua impotenza. Parafrasando uno dei detti piú celebri di Marx, si potrebbe dire che una filosofia della pace nasce quando ci si comincia a rendere conto che non si tratta piú di interpretare la guerra ma di cambiarla, o in altre parole non si tratta piú di trovare sempre nuove e piú ingegnose giustificazioni della guerra, ma di eliminarla per sempre. Anche se ha avuto dei precedenti, tra i quali il piú importante è certo il progetto dell’abate di Saint-Pierre (1713), il primo grande filosofo della pace nel senso qui inteso è stato Kant, il quale pubblica nel 1795 sotto forma di trattato internazionale un progetto Per la pace perpetua.
Chi voglia far intendere il significato storico di questa operetta deve far cadere l’accento non tanto sull’idea della pace quanto sul progetto di renderla perpetua, vale a dire di rendere per la prima volta possibile un mondo in cui la guerra sia cancellata per sempre come modo per risolvere le controversie fra gli stati.
Proprio in quanto la pace è sempre stata considerata come la negazione della guerra, il problema della pace era sempre stato posto come il problema di una pace parziale che avrebbe dovuto porre termine a una guerra parziale o a un periodo limitato nel tempo di guerre in una parte della terra, come fine di una determinata guerra o di una serie di guerre limitate, non come fine di tutte le guerre possibili. La pax romana, l’unica pace duratura conosciuta nel mondo antico, era la pace imposta da una potenza imperiale entro i limiti in cui si era esteso il proprio dominio. Non diverso è il concetto della pax britannica o americana (o sovietica) nell’età moderna e contemporanea. L’ideale della pace universale era contenuto nel messaggio cristiano ma era, per un verso, un ideale fuori della storia, o per meglio dire era il concetto di una storia profetica (che è una storia soltanto sperata o immaginata, rivelata da una potenza che è fuori della storia), per un altro verso esso pretendeva di essersi realizzato nella creazione dell’impero concepito come una monarchia, se non concretamente, tendenzialmente universale. Dissoltosi l’universalismo religioso con la Riforma e con la moltiplicazione delle confessioni e delle sette cristiane e contemporaneamente venuta meno la pretesa universalità dell’impero con la formazione dei grandi stati territoriali, l’ideale della pace universale fu abbandonato. La soluzione degli inevitabili conflitti fra stati sovrani fu affidata all’equilibrio delle forze, che peraltro non escludeva, anzi in un certo senso includeva, la guerra come rimedio all’eventuale, prevedibile e sempre tenuto presente, squilibrio e come causa di un nuovo equilibrio. Durante il dominio della teoria dell’equilibrio, uno dei bersagli polemici fu costantemente proprio l’idea di una monarchia universale, considerata come una perenne minaccia all’indipendenza degli stati. L’idea della pace universale non solo perdette vigore, ma fu condannata, non concependosi altro modo con cui potesse essere attuata che un grande stato dispotico.
Al di fuori della dottrina dell’equilibrio delle potenze, per cui la pace è sempre uno stato provvisorio, e la guerra non solo è sempre possibile ma è, in caso di rottura dell’equilibrio, necessaria, il tema della pace fu oggetto di sermoni o prediche morali, produsse una vasta ma inascoltata letteratura di invettive contro i disastri e i lutti delle guerre, di esecrazione della violenza sfrenata, in nome dei principî della morale evangelica, di esaltazione dei benefici della concordia e della convivenza tranquilla. Una letteratura tanto piú diffusa e tanto emotivamente piú intensa quanto piú gli orrori della guerra erano prossimi e udibili i lamenti delle vittime.
Una soluzione razionale del problema della pace universale poteva nascere soltanto dall’ipotesi hobbesiana di uno stato primordiale dell’umanità caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti, uno stato tanto perverso che da esso l’uomo doveva assolutamente uscire: l’antitesi radicale della guerra di tutti contro tutti non avrebbe potuto essere razionalmente che la pace di tutti con tutti, appunto la pace perpetua e universale. Ma Hobbes non trasse tutte le conseguenze dalla premessa. La prima e fondamentale legge naturale, che impone all’uomo, secondo Hobbes, di uscire dallo stato di guerra e di cercare la pace, induce gli individui naturali a dar vita a quelle comunità parziali che sono gli stati, in cui il titolare del diritto di usare la spada, cioè la forza coattiva, e quindi del potere d’impedire all’interno della propria sfera di comando le guerre private, è uno solo, il sovrano. Ma i sovrani continuano a vivere nei loro reciproci rapporti nello stato di natura, e quindi in uno stato perenne di guerra, se non attuale, potenziale. Quali siano le ragioni per cui Hobbes non abbia prospettato neppure in un lontano avvenire il superamento dello stato di natura fra gli stati mediante quello stesso patto di unione che aveva fatto uscire dallo stato di natura i singoli individui, può essere soltanto oggetto di congetture: l’unica affermazione che si può fare con certezza è che nell’età in cui visse Hobbes l’ideale della pace perpetua non poteva apparire se non come una chimera.
Il tema hobbesiano è presente alla mente di Kant. La pace perpetua può essere conseguita soltanto quando anche gli stati saranno usciti dallo stato di natura nei loro rapporti reciproci cosí come sono usciti gli individui. Per ottenere lo scopo debbono stipulare un patto che li unisca in una confederazione permanente (foedus perpetuum). A ben guardare anche Kant si ferma a mezza strada: il patto che dovrebbe unire gli stati non è, secondo Kant, il pactum subiectionis in base al quale i contraenti si assoggettano a un potere comune: è un pactum societatis, che in quanto tale non dà origine a un potere comune al di sopra dei singoli contraenti. Giuridicamente è una confederazione, che Pufendorf aveva fatto rientrare nella categoria delle respublicae irregulares, non uno stato federale, di cui il primo esempio nella storia furono gli Stati Uniti d’America, la cui nascita, avvenuta pochi anni prima della pubblicazione del suo opuscolo, Kant non ignorava. Usando le stesse categorie kantiane, lo stato giuridico di una confederazione, proprio per la mancanza di un potere comune, avrebbe continuato a essere uno stato di diritto provvisorio, e non si sarebbe trasformato in uno stato di diritto perentorio. Quale sia la ragione per cui Kant si sia fermato alla società di stati e non sia giunto a proporre uno stato di stati, risulta abbastanza chiaramente dal testo: anche Kant era dominato dalla stessa preoccupazione che aveva indotto i fautori dell’equilibrio delle potenze a paventare la formazione di una monarchia universale. Lo stato di stati era visto anche da Kant come una nuova e ineluttabile forma di dispotismo.
A correggere peraltro la soluzione incompleta dal punto di vista di una teoria generale dello stato, Kant introduce come garanzia dell’efficacia del patto una condizione sino allora non prevista e che per la sua novità costituisce ancor oggi un tema di dibattito: gli stati che stabiliscono il patto di alleanza perpetua debbono avere la stessa forma di governo e questa deve essere repubblicana. Che cosa intendesse realmente Kant per repubblica si può qui omettere, se pure con l’avvertenza che non bisogna confondere il significato kantiano di repubblica con quello attuale. Essenziale era per Kant una forma di governo in cui il popolo potesse controllare le decisioni del sovrano, in modo da rendere impossibili le guerre come atto arbitrario del principe, o, per ripetere le sue stesse parole che ancor oggi non hanno perduto nulla della loro efficacia: «Se […] è richiesto l’assenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta, nulla di piú naturale pensare che, dovendo far ricadere sopra di sé tutte le calamità della guerra […], essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un cosí cattivo gioco» 4. A ogni modo, quale che fosse la forma di governo auspicata, nella condizione posta da Kant per l’instaurazione di uno stato di pace stabile viene fatta valere anche l’esigenza, tutt’altro che trascurabile, dell’omogeneità degli stati contraenti rispetto al loro regime interno, un’esigenza che risponde a un principio di eguaglianza dei contraenti, non solo estrinseca in quanto essi debbono essere enti sovrani, ma anche intrinseca, in quanto debbono essere enti sovrani retti da costituzioni simili. Naturalmente tale esigenza non solo spostava la realizzazione della prospettata confederazione molto lontano nel tempo, ma ne limitava la possibile estensione, come la limita anche oggi. L’unione attuale degli stati è quasi universale, ma proprio per il fatto di comprendere potenzialmente tutti gli stati non è omogenea, essendo irrilevante nel diritto internazionale la forma di governo ai fini del riconoscimento di una comunità politica come stato, conformemente al principio di effettività.
L’idea tipicamente illuministica che la principale causa di guerra fosse il dispotismo, il potere incontrollabile del principe, l’idea che aveva suggerito a Kant il primo articolo del suo trattato per una pace perpetua, era destinata a fare molta strada nel secolo successivo, dando origine a una delle principali correnti di pacifismo, al pacifismo cosiddetto democratico, secondo cui solo l’abbattimento dei troni e l’instaurazione di stati fondati sulla sovranità popolare avrebbe liberato l’umanità dal flagello della guerra, o, per usare la popolarissima formula mazziniana, la pace sarebbe stata assicurata soltanto quando alla Santa Alleanza dei re si fosse sostituita la Santa Alleanza dei popoli. Questa formula è stata male interpretata quando si è voluto disconoscerla osservando che la storia di questo secolo ha dimostrato che anche gli stati democratici hanno condotto guerre lunghe e sanguinosissime. Ciò che Kant aveva voluto affermare, o per lo meno ciò che si può ancora ricavare di utile dalla proposta di Kant, è che gli stati democratici, o comunque omogenei rispetto alla forma di governo, giungono nei loro rapporti reciproci piú difficilmente allo stato di guerra che non gli stati dispotici o non omogenei.
Questa tesi è stata ripresa recentemente, se pure con intenti apologetici, per sostenere l’impossibilità di una guerra fra gli stati che appartengono al blocco delle cosiddette democrazie occidentali, ed è stata ripresa proprio partendo dal pensiero di Kant.
La stessa tesi, del resto, dell’impossibilità di guerre tra paesi a regime omogeneo è stata sostenuta anche per quel che riguarda i paesi socialisti, se pure con un argomento diverso: la ragione principale delle guerre moderne non sarebbe tanto il dispotismo, ovvero il regime politico, quanto il capitalismo, specie nella fase estrema dell’imperialismo, vale a dire il regime economico e sociale. Di conseguenza l’eliminazione della guerra dipenderebbe non dal passaggio dal dispotismo alla democrazia, ma dalla vittoria del socialismo sul capitalismo. Per quanto lo storico debba astenersi da facili e quasi sempre imprudenti generalizzazioni, l’esperienza di questi ultimi decenni succedutisi dalla fine della seconda guerra mondiale indurrebbe a dare piú ragione ai sostenitori del pacifismo democratico che a quelli del pacifismo socialista: alcune guerre tra paesi socialisti, come quella, se pure soltanto iniziata, tra Unione Sovietica e Cina, quella tra Unione Sovietica e Cecoslovacchia e quella tra Vietnam e Cambogia, hanno posto degli interrogativi cui gli stessi marxisti hanno piú volte cercato di dare una risposta, talora correggendo o reinterpretando i testi canonici per farli corrispondere ai fatti, talora correggendo o reinterpretando i fatti per farli corrispondere ai testi.
Pacifismo istituzionale e pacifismo etico.
Tanto il pacifismo democratico quanto quello socialista possono farsi rientrare nella categoria piú ampia del pacifismo istituzionale, vale a dire in quella teoria o complesso di teorie che considera come causa precipua delle guerre il modo con cui sono regolati e organizzati i rapporti di convivenza tra individui e tra gruppi, che sono pur sempre al limite rapporti di forza ovvero rapporti in cui la soluzione decisiva del conflitto spetta in ultima istanza alla forza.
L’istituzione per eccellenza contro la quale si rivolgono entrambe le dottrine pacifistiche, se pure in una diversa prospettiva e con diversi effetti, è, nel periodo storico attuale, lo stato. Con questa differenza: il bersaglio dell’una è lo stato dispotico, una forma particolare di stato, non lo stato in generale; il bersaglio dell’altra è lo stato capitalistico, una forma particolare di stato che peraltro rappresenterebbe nella sua massima esplicazione l’essenza stessa dello stato come strumento di dominio di una classe sull’altra.
Da questa diversa posizione del problema derivano conseguenze molto diverse, alla fin fine opposte. Il pacifismo democratico non mira all’eliminazione dello stato, ma alla sua trasformazione in modo che il potere dei governanti sia controllato dai governati, nella fiducia o nell’illusione che, qualora tutti gli stati fossero governati democraticamente, il conflitto tra uno stato e l’altro non potrebbe mai giungere alla fase finale del conflitto armato. Il pacifismo socialista – partendo dalla convinzione che ogni stato è per sua natura dispotico, è sempre una ‘dittatura’ di una classe sull’altra, anche lo stato di transizione, in quanto dittatura del proletariato – mira invece non tanto alla trasformazione di un determinato tipo di stato, quanto all’eliminazione o estinzione dello stato in quanto tale, a una società senza stato.
La logica conclusione del primo è la società universale degli stati, anzi nelle teorie piú avanzate che sono andate oltre il progetto di Kant, una federazione di stati, in cui il rapporto fra lo stato universale e i singoli stati dovrebbe essere dello stesso tipo del rapporto fra stato centrale e stati membri in uno stato federale democratico, come gli Stati Uniti; la logica conclusione del secondo è invece la scomparsa di ogni forma di stato. Il primo vede la soluzione definitiva del problema della guerra fra stati in un processo di graduale e sempre piú ampia statalizzazione, ovvero nella formazione di stati sempre piú ampi e di leghe di stati sempre piú salde, nello stesso tipo di processo che ha caratterizzato lo sviluppo delle società storiche dalla tribú primitiva ai grandi stati attuali, che sono spesso non a caso essi stessi agglomerati di precedenti stati minori. Il secondo vede la soluzione del problema nel processo inverso di destatalizzazione sino all’instaurazione di una forma di convivenza non mai vista prima d’ora, tenuta insieme non piú dalla forza, se pure regolata e limitata, ma dalla concordia naturale conseguente all’abolizione dei conflitti di classe. Al termine del primo processo, che è concepito come un processo evolutivo, insito nella stessa natura delle cose, ci sarebbe non la fine del regno della forza, ma l’espansione del regno della forza, se pure tenuta a freno dal controllo popolare, sino a comprendere non solo i rapporti interni degli stati ma anche i loro rapporti esterni. Al termine del secondo processo, che è concepito come un processo rivoluzionario, un vero e proprio salto qualitativo e insieme un totale cambiamento di rotta rispetto al corso storico dell’umanità, ci sarebbe la trasformazione del regno della forza nel regno della libertà.
Si può far rientrare nel pacifismo istituzionale anche il movimento per la pace che, particolarmente vivo nel secolo scorso ma non del tutto spento ancor oggi, si ispirò all’idea caratteristica del pensiero liberale, secondo cui il ricorso alla forza per risolvere i conflitti internazionali sarebbe automaticamente cessato quando l’esprit de commerce, o dello scambio, per riprendere le parole stesse di Benjamin Constant, avrebbe a poco a poco preso il sopravvento sull’esprit de conquête, o del dominio, quando, con altra immagine, cara ai teorici del libero-scambismo, nei rapporti internazionali il mercante avrebbe preso il posto del guerriero. Nella filosofia della storia di Spencer, che rappresentò l’espressione piú conseguente della dottrina liberale, secondo cui lo stato deve governare il meno possibile, all’espansione della società civile lasciata libera dalle pastoie governative deve corrispondere un graduale restringimento dei poteri e delle funzioni dello stato. L’idea del pacifismo mercantile si rivela nella tesi che l’età delle società militari, che aveva contrassegnato la storia millenaria dell’uomo, sarebbe stata sostituita gradualmente dall’età delle società industriali, la cui caratteristica saliente sarebbe stata proprio quella di non aver bisogno di ricorrere alla violenza dello scontro bellico per risolvere i problemi essenziali dello sviluppo economico e civile. Anche questa sorta di pacifismo è di tipo istituzionale, perché anch’esso trova il rimedio allo scatenamento delle guerre in un mutamento dell’istituzione statale, consistente nella drastica riduzione dei suoi poteri tradizionali. Anche per esso il bersaglio principale è lo stato, l’istituzione che nel passato deve essere considerata come la causa principale di tutte le specie di guerre, comprese le guerre civili o infrastatali, se pur avendo riguardo non alla forma di governo, come il pacifismo democratico, non al sistema di dominio in quanto tale, come il pacifismo socialista, ma al rapporto fra la società da lasciare espandere e lo stato da ridurre ai minimi termini, vale a dire alla maggiore o minore estensione dei poteri dello stato.
Riassumendo, il pacifismo istituzionale ha preso queste tre forme: non ci sarà vera pace se non quando i popoli si saranno impadroniti del potere statale; non vi sarà vera pace se non quando l’organizzazione militare avrà perduto gran parte del proprio vigore a vantaggio dell’organizzazione industriale; non vi sarà vera pace se non quando la società senza classi avrà reso inutile il rapporto di dominio in cui è sempre consistita l’organizzazione politica di una determinata comunità. Tre pacifismi che si dispongono a tre diversi livelli di profondità: al livello dell’organizzazione politica, il primo, della società civile il secondo, del modo di produzione il terzo. Ciò che hanno in comune è la considerazione della pace come il risultato di un processo storico predeterminato e progressivo, in cui è iscritto come risultato necessario il passaggio da una fase storica, in cui le diverse tappe dell’avanzamento umano sono state l’effetto di guerre, a una fase nuova, in cui, se pure per ragioni diverse, regnerà la pace perpetua, perché si verrà sviluppando una forma di convivenza cosí diversa da quella che ha caratterizzato la storia umana sino a oggi da rendere sempre piú improbabile la guerra come mezzo per risolvere i conflitti (concezione democratica della pace), oppure sempre piú diffusi i conflitti che non hanno bisogno della guerra per essere risolti (concezione mercantile della pace), oppure ancora sempre piú rari gli stessi conflitti per cui individui e gruppi in altre epoche storiche sono ricorsi alla guerra (concezione socialista della pace). A dispetto della realtà storica, di una società umana sempre bellicosa e conflittuale, queste tre filosofie della pace perseguono l’ideale di una società rispettivamente non bellicosa, oppure conflittuale ma non bellicosa, oppure addirittura non conflittuale.
Al di qua del pacifismo istituzionale nelle sue varie forme storiche, si colloca un pacifismo meno ambizioso, se pure anche meno efficace qualora riuscisse nel suo intento, che si può chiamare strumentale, in quanto si propone non tanto di cambiare o distruggere le istituzioni cui si attribuisce la causa prima della guerra, quanto di togliere dalle mani dei soggetti che hanno il potere di fatto, e il diritto, di provocare e condurre conflitti anche violenti, i mezzi di cui l’uomo, a differenza di tutti gli altri animali, si vale per esercitare la violenza: le armi. Al di là del pacifismo istituzionale si colloca invece una forma di pacifismo molto piú ambizioso, e anche piú efficace se avesse qualche lontana possibilità di realizzazione (ma di tutti i pacifismi è il piú utopistico), che si può chiamare etico, perché cerca la soluzione al problema della guerra esclusivamente nella natura stessa dell’uomo, nei suoi istinti da reprimere, nelle sue passioni da indirizzare verso la benevolenza anziché verso l’ostilità, nelle motivazioni profonde che possono spingerlo al bene o al male secondoché siano orientate verso l’agire egoistico o altruistico.
La politica del disarmo rispetto alla guerra ha la stessa natura del proibizionismo rispetto alla lotta contro l’ubriachezza. Volete salvare l’uomo dall’alcolismo? Risparmiatevi le prediche moralistiche che non servono a niente; non affannatevi a cercare le ragioni sociali, economiche, politiche dell’alcolismo. Impeditegli di bere. Il proibizionismo, come la politica del disarmo, costituiscono nei loro diversi ambiti la soluzione del minimo sforzo. Volete impedire le guerre? Se pretendete di trasformare l’animo degli uomini, siete degli illusi; se mirate a trasformare antiche e ben radicate istituzioni che nel bene come nel male hanno fatto la storia, non arriverete a tempo. L’unica soluzione a portata di mano è: «giú le armi» («Die Waffen nieder!», come suonava il titolo di una rivista pacifista tedesca della fine dei secolo scorso, diretta e animata da Bertha von Suttner). Chi ha un gatto che graffia, eviti di sprofondarsi in speculazioni sulla natura del gatto e sulle sue abitudini: gli tagli le unghie. In realtà poi anche la via del disarmo, come del resto quella del proibizionismo, ha fatto ben misera prova. I mezzi di distruzione a disposizione dell’uomo non solo non sono stati eliminati, non solo non sono stati diminuiti, ma sono sempre, in una progressione via via piú rapida, aumentati. Le numerose conferenze sul disarmo dopo la prima guerra mondiale non hanno impedito l’accumulazione di armi sempre piú potenti, che ha reso possibile e piú disastrosa la seconda. Le prime due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, pur avendo sollevato terrori apocalittici insieme con la speranza di un novus ordo, non hanno modificato in nulla la strategia tradizionale delle grandi potenze che è quella della sicurezza fondata sulla minaccia della forza, tanto piú efficace quanto piú credibile, tanto piú credibile quanto piú insolente. Si può discutere se l’uomo sia in costante progresso verso il meglio nei costumi, nella moralità, nella saggezza. Fuori discussione è il progresso continuo, costante, irreversibile, dall’età della pietra a oggi, nella potenza dei mezzi per distruggere e uccidere.
Di tutte le forme di pacifismo il piú radicale è quello etico: piú radicale nel senso che ritiene che per risolvere il problema della guerra occorra andare alle radici del fenomeno, all’uomo stesso, e pertanto il compito di fare la guerra alla guerra debba spettare piú che ai giuristi, piú che ai diplomatici e agli uomini politici, ai curatori di anime o di corpi, siano essi sacerdoti o filosofi, pedagoghi o psicologi, missionari o antropologi, moralisti o biologi, secondoché la ragione ultima della guerra debba essere ricercata in un difetto morale dell’uomo, sia poi questa deficienza ricondotta a un evento della storia religiosa dell’umanità (il peccato originale) oppure spiegata attraverso le categorie dell’etica naturalistica o nazionalistica (il dominio delle passioni), o sia, all’opposto, ritrovata nella sua natura istintiva, nella irrefrenabile aggressività, in parte naturale in parte culturale, che si scatena di fronte all’ostilità della natura o dell’altro uomo.
Questa forma di pacifismo trova oggi una delle sue espressioni piú diffuse in tutte quelle iniziative che si raccolgono intorno al tema dell’«educazione alla pace». Il fulcro di questo movimento sta nell’idea che ci saranno guerre sino a che vi sarà un uomo che considera un altro uomo come nemico. Il nemico è colui che deve essere annientato. È colui che non può esistere se devo continuare a esistere io. La regola fondamentale del rapporto nemico-nemico è quella dei gladiatori nel circo: mors tua vita mea. È tal rapporto che non può finire se non con la vittoria dell’uno sull’altro. Per quanto varie e multiformi siano le direzioni verso cui si muove l’educazione alla pace, essa ha, con maggiore o minore consapevolezza, questa motivazione di fondo: «Fa’ in modo di non considerare mai nessun altro uomo, per qualsiasi ragione, il tuo nemico». Di qua l’importanza che vi assume lo studio della storia, delle guerre, delle loro cause e dei loro effetti, della violenza intraspecifica ed extraspecifica, negli animali e negli uomini, lo studio della psicologia e della sociologia del conflitto, delle istituzioni giuridiche come insieme di regole per la limitazione dell’uso della forza, lo studio delle relazioni internazionali in cui sino a ora la guerra è stata giudicata, in certe condizioni, legittima, lo studio della storia degli strumenti bellici e del loro progressivo accrescimento, seguito da una precisa informazione circa lo stato attuale degli armamenti e della loro capacità di superuccidere (overkill), vale a dire di uccidere piú volte l’avversario; lo studio di tutte quelle discipline insomma attraverso cui l’educando può farsi un’idea sempre piú stringente e convincente di quella che alle soglie della prima guerra mondiale fu chiamata la «grande illusione» (sempre piú grande se pure dura a morire), anche se non meno grande è l’illusione che la soluzione del problema della guerra, pur di fronte alla minaccia della «mutua distruzione assicurata», possa dipendere dal mutamento degli indirizzi pedagogici, in generale da un allargamento di tutte quelle conoscenze storiche, scientifiche e tecniche che riguardano il fenomeno della guerra e della pace.
In fondo l’educazione alla pace, al di là di una maggiore insistenza sulla possibile guerra futura come situazione-limite, ovvero come situazione oltre la quale ci potrebbe essere una catastrofe senza precedenti, quella che Jonathan Schell ha chiamato la «seconda morte» 5 (la morte non di questo o quell’uomo, ma dell’intera umanità), non ha un contenuto specifico diverso dall’educazione morale nel piú ampio senso della parola, ovvero dall’educazione di ogni uomo al rispetto dell’altro uomo, che costituisce il motivo centrale dell’insegnamento morale, ispirato a una religione profetica come il cristianesimo o a filosofie laiche universalistiche, come quella kantiana, che ha tratto dal cristianesimo il principio dell’egual dignità di tutti gli uomini come persone morali (a differenza di tutte le cose l’uomo ha un valore, non un prezzo) e lo ha trasformato nell’imperativo categorico: «Rispetta tutti gli uomini come fini e non come mezzi».
Le radici piú profonde del pacifismo etico debbono essere cercate nell’ideale dell’«uomo nuovo», un ideale che è entrato imperiosamente nella storia dell’Occidente col cristianesimo, ha alimentato visioni millenaristiche e utopie politiche o politico-religiose, e ha ispirato tutti i grandi moti rivoluzionari protesi verso la creazione di un novus ordo, che ha per presupposto, appunto, il novello Adamo: compito immane, secondo Rousseau, del grande legislatore che, per prendere l’iniziativa di fondare una nazione, «deve sentirsi in grado di cambiare la natura umana» 6.
L’equilibrio del terrore.
Nonostante tutte le dottrine pacifistiche e tutti i movimenti per la pace degli ultimi due secoli, la pace attualmente riposa esclusivamente sull’equilibrio del terrore e sulla cosiddetta strategia della dissuasione. Ma quale pace? Una pace provvisoria; piú che una pace una tregua d’armi in attesa di un evento straordinario, quanto è stato straordinario lo scoppio della prima bomba atomica che ha fatto dire agli osservatori piú consapevoli che era cominciata una nuova era della storia umana. Un evento straordinario, di cui non si vede all’orizzonte alcun segno di una prossima venuta, quale potrebbe essere un accordo per la distruzione degli arsenali atomici, come vorrebbe il pacifismo strumentale, oppure un superamento dell’attuale ancora persistente anarchia internazionale, come vorrebbe il pacifismo istituzionale, oppure la sostituzione universalizzata dello stato di amicizia a quello di inimicizia, come vorrebbe il pacifismo etico.
Rispetto all’antico equilibrio delle potenze, che ha dominato la scena internazionale per secoli, l’unica novità dell’attuale strategia della dissuasione sta nella fiducia che la potenza delle nuove armi sia tale da costituire per la prima volta nella storia un deterrente capace non solo di ostacolare l’aggressione e quindi la guerra condotta con armi nucleari ma di renderla, piú che improbabile, impossibile. Intorno a questa fiducia nel potere taumaturgico delle nuove armi è sorta una lugubre apologetica dell’equilibrio fondato su qualche cosa di molto piú forte del metus: il terror.
L’argomento principale di questa apologetica consiste nell’affermare che una conflagrazione fra potenze atomiche finirebbe senza vincitori né vinti, e pertanto renderebbe la guerra, il cui scopo è la vittoria sul nemico, perfettamente inutile. L’unica prova storica di questa fiducia sta nella constatazione che di fatto, nonostante lo scoppio di numerose guerre anche cruente condotte con armi convenzionali, la guerra tra le due maggiori potenze atomiche non è ancora venuta, e l’unica volta in cui si è giunti vicini alla minaccia di rappresaglia atomica, nell’affare dei missili sovietici a Cuba nel 1962, la parte minacciata ha preferito ritirarsi.
Ma questo ragionamento è debole almeno per due ragioni: anzitutto lo spazio di tempo trascorso è troppo breve perché se ne possa trarre una qualsiasi conseguenza rispetto al prossimo e tanto meno al lontano futuro; in secondo luogo, non c’è ragione di pensare che, se la terza guerra mondiale non è scoppiata, sia dipeso unicamente dall’equilibrio del terrore. Se è difficile stabilire le cause di quel che è accaduto, ancora piú difficile è stabilire le cause per cui quel che non è accaduto non è accaduto.
Inoltre la dottrina dell’equilibrio del terrore ha dato origine ad alcuni paradossi, di cui i due principali sono i seguenti. Ammesso che sia vero che il possesso delle armi nucleari rende impossibile la guerra, ne segue che tali armi sono armi il cui scopo non è di essere usate da uno dei due contendenti contro l’altro, ma di impedire che entrambi le usino. In quanto tali sono armi la cui efficacia finale dipende non dal loro uso effettivo, ma semplicemente dalla minaccia del loro uso. Sono dunque strumenti diversi da tutti gli altri strumenti, in quanto vengono costruiti non per essere usati, ma anzi con la precisa intenzione di non usarli mai. L’altro paradosso consiste nel fatto che l’equilibrio del terrore non serve a eliminare la guerra, ma soltanto la guerra nucleare. All’ombra delle armi nucleari non vi sono mai state tante guerre convenzionali come in questi quarant’anni. Le armi nucleari si paralizzano a vicenda. La minaccia della guerra nucleare impedisce soltanto la guerra nucleare, vale a dire un tipo di guerra che prima non era possibile a causa della stessa inesistenza di quelle armi.
La difficoltà maggiore cui va incontro la dottrina dell’equilibrio del terrore è che essa si fonda sull’efficacia del timore reciproco, ma il timore reciproco presuppone a sua volta l’eguaglianza delle forze. Ma questa eguaglianza è possibile? Sarebbe possibile soltanto a condizione che vi fossero criteri univoci per calcolare la quantità e la qualità delle forze in campo, il che è messo continuamente in dubbio dagli esperti. La conseguenza di questa difficoltà si rivela nel fatto che ognuna delle due superpotenze è incline a sostenere che l’avversario abbia forze superiori, e trae da questa valutazione il pretesto per portare i propri armamenti a un livello piú alto. Prova ne sia che il tanto proclamato equilibrio in tutti questi anni non è mai stato raggiunto e gli ordigni della megamorte sono continuamente aumentati da entrambe le parti in modo tale che l’equilibrio si è squilibrato e si è sempre riequilibrato a un livello superiore. Non vi è nessun segno incoraggiante che questo processo di equilibrio instabile, in cui l’eguaglianza delle forze quando è riconosciuta da una parte non è riconosciuta dall’altra, stia per arrestarsi.
Se si ammette, come credo si debba ammettere, che l’equilibrio del terrore a lungo andare sia assolutamente inadeguato allo scopo che i suoi fautori interessati gli attribuiscono, e quindi è inefficace, si deve fare un passo oltre: mostrare che non solo non è efficace ma è controproducente. L’aumento vertiginoso della potenza delle armi può, sí, allontanare il pericolo della guerra, anche se non l’esclude, ma pone nello stesso tempo le condizioni di una guerra sempre piú rovinosa. Il terrore rinvia la guerra ma questa, via via che viene rinviata, diventa, qualora dovesse scoppiare, sempre piú distruttiva. Nello stesso momento che il terrore allontana il pericolo dello sterminio, lo prepara con cura meticolosa: pretende di essere il vero argine contro la catastrofe, ma se questa avverrà, sarà la figlia del terrore.
La svolta dell’era atomica, la nuova era che ha fatto dire a qualcuno che sarebbe stato necessario iniziare un nuovo sistema di periodizzazione della storia, imponeva agli stati di uscire fuori dalla logica della volontà di potenza. Con la dottrina dell’equilibrio del terrore vi rimangono totalmente dentro. Che ognuno dei due contendenti giustifichi il continuo aumento della propria potenza sostenendo che deve difendersi dalla possibile aggressione dell’altro, fa parte di un gioco tanto vecchio da non sorprendere piú nessuno. Un gioco oltretutto ambiguo, per non dire contraddittorio, perché nel momento stesso in cui entrambi dicono la stessa cosa, cioè che l’aggressore è l’altro, nessuno dei due è un vero aggressore visto da se stesso, ma tutti e due sono aggressori dal punto di vista dell’altro. Questa ambiguità è l’effetto della paura reciproca, e la paura reciproca è a sua volta l’effetto del porsi l’uno di fronte all’altro come potenziali aggressori. Inoltre in uno stato di paura reciproca l’uno non si fida dell’altro e non fidandosi la sfiducia aumenta. L’unica cosa in cui i due avversari debbono essere credibili è nella capacità di rendere effettiva la minaccia, di non «bluffare». Ognuno dei due non deve fidarsi quando l’altro dice che non vuole attaccare, e quindi deve essere sempre pronto a difendersi; deve invece fidarsi quando l’altro dice che se attaccato sarà in grado di compiere una esemplare ritorsione, e quindi essere sempre pronto a rinunciare all’aggressione. Ognuno dei due deve credere non alle buone intenzioni dell’altro di non aggredire, ma alla sua capacità di ritorsione. Deve insomma, nei riguardi dell’altro verso di lui, credere e non credere, e nello stesso tempo, nei riguardi del proprio comportamento verso l’altro, essere credibile e non credibile.
Che la dottrina dell’equilibrio del terrore sia la continuazione della tradizionale politica di potenza può essere confermato dalla constatazione che lo stile diplomatico con cui vengono condotte le trattative sul disarmo da entrambe le parti, nonostante che le armi oggetto dei negoziati siano non tanto le armi tradizionali quanto le armi nucleari, che mettono in questione il «destino dell’uomo» 7 (Karl Jaspers) o, se si vuole, il «destino della terra» (Jonathan Schell), non è cambiato ma continua ad avere come suoi ingredienti principali la menzogna calcolata, il ricatto reciproco, enunciazioni di principio in cui nessuno crede, promesse di cui nessuno si fida, proposte di una delle due parti che vengono immediatamente respinte dall’altra parte come divagazioni da non prendersi troppo sul serio. Non sembra che le cose siano molto cambiate da quando Rousseau, commentando il progetto di pace perpetua dell’abate di Saint-Pierre, scriveva: «Di tanto in tanto, presso di noi, si formano, sotto il nome di congressi, delle specie di diete generali a cui si conviene solennemente da tutte le parti d’Europa per tornarsene indietro nello stesso modo; in cui ci si riunisce per non dire nulla; in cui tutti gli affari pubblici si trattano in privato; in cui si delibera in comune se la tavola sarà rotonda o quadrata, se la sala avrà piú o meno porte, se un certo plenipotenziario avrà la finestra di fronte o alle spalle, se un altro, in una visita, allungherà o abbrevierà la strada di due pollici, e su mille questioni della medesima entità, inutilmente agitate da tre secoli e per certo molto degne di tenere occupati i politici del secolo nostro» 8.
Sono innumerevoli le forme e i tipi di pace di cui possiamo trarre notizia dalla storia e non meno innumerevoli i criteri in base ai quali ne è stata tentata da vari autori la classificazione. Aron distingue tre tipi di pace che chiama di «potenza», di «impotenza», di «soddisfazione». A uno dei due estremi sta la pace di potenza di cui distingue tre sottospecie, che chiama pace di «equilibrio», di «egemonia», di «impero», secondoché i gruppi politici siano in rapporto o di eguaglianza o di diseguaglianza fondata sulla preponderanza di uno su tutti gli altri (come avviene nel caso degli Stati Uniti nei riguardi degli altri stati dell’America), o su un vero e proprio dominio (come, ad esempio, la pax romana). All’altro estremo sta la pace di soddisfazione, che ha luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha pretese territoriali o d’altro genere verso gli altri e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca (l’esempio attuale piú evidente è quello della pace che dopo la seconda guerra mondiale esiste fra gli stati dell’Europa occidentale). In mezzo c’è la pace d’impotenza, un evento nuovo, secondo Aron, essendo fondata sullo stato che dopo l’avvento della guerra atomica si chiama «equilibrio del terrore», definito come quello che «regna tra le unità politiche, se ciascuna di esse ha la capacità di colpire mortalmente l’altra» 9. Questa definizione è identica a quella che Hobbes ha dato dello stato di natura, là dove osserva, proprio all’inizio della descrizione di questo stato, che la sua estrema pericolosità deriva proprio dal fatto che in esso tutti gl’individui sono eguali e sono eguali proprio perché ognuno può recare all’altro il massimo dei mali, la morte. Lo stato di natura hobbesiano è lo stato dell’equilibrio del terrore permanente, fondato com’è esclusivamente sul «timore reciproco»: uno stato che, come l’attuale equilibrio del terrore fra le potenze atomiche, quando non è una guerra aperta, è una tregua in attesa di una guerra improbabile ma sempre possibile. Paradossalmente, la pace d’impotenza è l’effetto congiunto dell’antagonismo di due enti eguali e contrari, in cui l’importanza di ognuno dei due deriva dalla potenza dell’antagonista.
Il Terzo per la pace.
Come lo stato di natura hobbesiano, lo stato di equilibrio del terrore è uno stato da cui l’uomo deve assolutamente uscire, sia che questo «deve» sia inteso come un imperativo categorico, una norma morale assoluta, o un imperativo ipotetico, una regola di prudenza, sia che ci si metta dal punto di vista di una morale deontologica e dell’etica weberiana della convinzione o dal punto di vista di una morale utilitaristica e dell’etica weberiana della responsabilità. Ma in che modo? Pare improbabile che se ne possa uscire senza la presenza di un Terzo non coinvolto. In uno stato di equilibrio delle forze tra eguali, l’unico strumento di pace è l’accordo. Ma affinché un accordo sia efficace e raggiunga lo scopo per cui è stato stipulato occorre che i due contraenti si ritengano perentoriamente obbligati a osservarlo. Ora, quest’obbligo viene meno in uno stato d’incertezza, ovvero in uno stato in cui nessuno dei due è sicuro dell’osservanza dell’altro. Questa situazione è stata descritta una volta per sempre da Hobbes: «[Nello stato di natura] chi adempie per primo non ha alcuna assicurazione che l’altro adempia in seguito, perché i vincoli delle parole sono troppo deboli per imbrigliare l’ambizione, l’avarizia, l’ira e le altre passioni degli uomini, senza il timore di qualche potere coercitivo, che non si può supporre vi sia nella condizione di mera natura, dove tutti gli uomini sono eguali e giudici della giustezza dei loro timori. Perciò chi adempie per primo, non fa che consegnarsi al suo nemico, contro il diritto […] di difendere la propria vita» 10. Considerando il modo con cui procedono le trattative per il disarmo tra le grandi potenze non si tarderà a riconoscere l’esattezza dell’ipotesi hobbesiana. Chi comincia per primo in una situazione in cui non è sicuro che l’altro faccia altrettanto non si mette forse nelle mani dell’altro? Allora nessuno comincia. Altro è la stipulazione verbale di un patto, altro la sua osservanza. I patti senza la spada di un ente superiore ai due contraenti sono, ancora Hobbes, un semplice flatus vocis.
Non s’insisterà mai abbastanza sull’importanza del Terzo in una strategia di pace. La guerra ha essenzialmente una struttura diadica e tende a far convergere i belligeranti, per quanti essi siano, verso due poli. Non manca talora la presenza di un Terzo anche in un conflitto armato, che può prendere la figura di Tertium gaudens, vale a dire di colui che senza volerlo trae beneficio dai danni che i due contendenti si procurano, o del capro espiatorio, che è, al contrario, colui dal quale entrambi i contraenti traggono beneficio, o del seminatore di discordia, che è chi provoca la guerra altrui per trarne consapevolmente un beneficio (in base al principio del divide et impera). Ma nessuno di questi Terzi è essenziale alla condotta della guerra: sono tutte quante figure marginali. Quando il Terzo diventa un alleato di una delle due parti, perde completamente il ruolo di Terzo. Quando resta neutrale viene a trovarsi in una situazione di estraneità al conflitto. Sulla base della presenza o assenza di un Terzo in un conflitto, si fonda la distinzione, già richiamata, fra stato polemico, in cui il Terzo è escluso, e stato agonale, in cui esiste il Terzo e che pertanto si può chiamare del Terzo incluso. Il primo, che è lo stato di guerra per eccellenza, è diadico; il secondo, che è per eccellenza lo stato di pace, vale a dire è quello in cui i conflitti vengono risolti per la presenza di un Terzo senza che sia necessario il ricorso all’uso della forza reciproca, è triadico.
Del Terzo-per-la-pace due sono le figure principali: l’arbitro (Tertium super partes) e il mediatore (Tertium inter partes). L’arbitro può a sua volta o essere imposto dall’alto o autoimporsi o essere scelto dalle stesse parti. Ad ogni modo deve essere riconosciuto dalle parti per poter svolgere la propria funzione: l’effetto del riconoscimento consiste nel fatto che i due litiganti s’impegnano ad accettarne la decisione qualunque essa sia, e accettandola pongono fine alla lite. La decisione accertata non sempre viene eseguita. Perciò bisogna ulteriormente distinguere l’arbitro che ha a disposizione un potere coattivo tanto forte da essere in grado di costringere il recalcitrante e l’arbitro che questo potere non ha. Il primo può essere a buon diritto chiamato, per riprendere il titolo di una celebre opera di teoria politica, Defensor pacis. Il mediatore può essere, nella sua funzione piú debole, colui che mette in contatto le parti, oppure, nella sua funzione piú forte, colui che interviene attivamente allo scopo di far giungere le parti a un compromesso. In questa seconda veste si chiama, non a caso, paciere (e, quando il personaggio è di grande autorità, pacificatore).
Fra due contendenti la pace può nascere o dalla vittoria dell’uno sull’altro e allora si avrà la pace d’impero, oppure dalla presenza di un Terzo arbitro o mediatore. Nell’attuale situazione dei rapporti fra le due grandi potenze, caratterizzata dall’equilibrio del terrore, non si ritiene né auspicabile né possibile la prima, che verrebbe alla fine di una guerra catastrofica. Ma esiste un Terzo-per-la-pace dal quale si possa sperare una soluzione diversa da quella della pace d’impero? una pace negoziata, una pace di compromesso, o alla fine, per riprendere la tipologia di Aron, una pace di soddisfazione? Nell’attuale sistema internazionale questo Terzo non esiste, né se ne profila uno credibile all’orizzonte. Tertium super partes avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dei suoi promotori, sconvolti dagli effetti della seconda guerra mondiale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma essendo nata come associazione di stati e non come superstato (in un ordinamento statale il diritto di veto sarebbe inconcepibile), è troppo debole per imporsi agli stati piú forti che di fatto la disprezzano e se ne servono, quando se ne servono, unicamente per far valere i propri interessi e per cercare di intralciare la soddisfazione degli interessi altrui. Terzi al di sopra delle parti sono idealmente, anche se non sempre nella realtà, le Chiese cristiane, un sovrano dell’ordine religioso universale, come il papa, i movimenti pacifisti sorti in questi ultimi anni soprattutto nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti (i movimenti pacifisti dell’Europa dell’Est sono movimenti di parte), d’ispirazione religiosa o politico-religiosa, come i movimenti per la non violenza, o politica. Ma la loro autorità è esclusivamente spirituale e morale: un’autorità che, per quanto alta e tendenzialmente universale, non ha mai impedito in tutto il corso della storia umana, dominata dalla volontà di potenza, le «inutili stragi». Quanto al Terzo fra le parti è un ruolo cui avrebbe potuto aspirare l’Europa, se non fosse stata sinora, e forse irrimediabilmente, divisa nelle zone d’influenza rispettivamente degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, lacerata fra due diverse lealtà che le hanno impedito di trovare un’unità politica corrispondente e conforme alla sua unità culturale ormai esistente da secoli. Quando l’egemonia dell’Unione Sovietica sulla Cina ha avuto fine e la Cina ha cominciato a svolgere un ruolo relativamente autonomo nell’ordine internazionale, si è cominciato a pensare che il sistema bipolare si sarebbe trasformato in un sistema tripolare. Ma a parte il fatto che la previsione si è dimostrata prematura, la Cina non sarebbe un Terzo mediatore, ma nella migliore delle ipotesi un Tertium gaudens, nella peggiore un alleato disponibile per entrambi secondo le circostanze, e quindi sarebbe in entrambi i casi una tipica figura del Terzo-per-la-guerra. Infine esiste una grande organizzazione di stati sedicenti neutrali o indipendenti dai due blocchi che è stata chiamata del Terzo Mondo. Ma essa è come Terzo-al-di-sopra-delle-parti troppo debole, per mancanza di coesione interna, come Terzo-fra-le-parti, troppo poco autorevole, in quanto costituita per gran parte da stati in via di sviluppo. Che poi un Terzo-al-di-sopra-delle-parti possa nascere artificialmente, secondo l’ipotesi hobbesiana, da un pactum subiectionis fra gli stati, ovvero dalla rinuncia degli stati piú forti all’uso indiscriminato della propria forza e dalla costituzione volontaria e irreversibile di una forza comune, è, allo stato attuale della lotta per l’egemonia dei due grandi Leviatani, assolutamente impensabile. D’altra parte è impensabile che una situazione come quella dell’equilibrio del terrore, che viene mantenuto soltanto attraverso un continuo accrescimento nella capacità da una parte e dall’altra di essere sempre piú «terribili», possa durare all’infinito, se non altro perché viviamo in un universo finito e finite sono le risorse di cui l’uomo può disporre per accrescere la propria potenza. Che l’umanità debba uscire dallo stato di equilibrio del terrore è ormai una certezza assoluta. Ma nessuno, neppure coloro che detengono nelle loro mani il supremo potere di vita e di morte, è in grado di dire se, come e quando, questa uscita possa avvenire.
La proposta detta «iniziativa per una difesa strategica» (SDI), annunziata per la prima volta dal presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, il 23 marzo 1983 e chiamata comunemente e polemicamente «guerre stellari», è stata presentata come un vero e proprio salto qualitativo nei rapporti fra le due grandi potenze, come un modo per rispondere all’aspirazione universale di scongiurare l’apocalisse nucleare, in quanto, predisponendo uno scudo spaziale di tale ampiezza e precisione da impedire o la partenza o il percorso o l’arrivo dei missili avversari, farebbe perdere di validità alla diretta correlazione, sulla quale si è fondata la strategia dell’era post-atomica, fra sicurezza e minaccia di sterminio. L’idea fondamentale su cui si regge la nuova strategia consiste nel tentativo di sostituire alla corsa verso armi di offesa sempre piú micidiali la corsa verso apparati di difesa sempre piú protettivi, allo scoraggiamento attraverso la paura dell’altro lo scoraggiamento mediante la propria mancanza di paura. Il dibattito è in corso. Si tratta di sapere, in primo luogo, se tale sistema di difesa sia tecnicamente possibile e quindi rispondente allo scopo; in secondo luogo, se, posto che sia possibile rispetto allo stato attuale delle armi, non possa venir superato da nuove armi offensive non ancora inventate, nel qual caso non farebbe che rinfocolare la gara tra i due grandi e aumentare il rischio e la gravità dello scontro finale; in terzo luogo, se il possesso dello scudo spaziale, che darebbe a uno solo dei due il privilegio della invulnerabilità, non possa renderlo, novello Achille, piú forte e piú ardito nell’attacco, giusta una delle piú celebri massime di Machiavelli: «[…] e prima si cerca non essere offeso, e dipoi si offende altrui» 11.
II.
RAPPORTI INTERNAZIONALI E MARXISMO.
In questi ultimi anni è stato particolarmente intenso e vivace il dibattito sulla presunta esistenza di una teoria marxistica dello stato. Almeno in Italia. Ma sinora il dibattito ha avuto per oggetto lo stato dal punto di vista dei suoi rapporti fra governanti e governati, il tema classico delle forme di governo, tanto è vero che i due termini principali del dibattito sono sempre stati «democrazia» e «dittatura». Ma lo stato ha due facce, una rivolta al proprio interno, dove i rapporti di dominio si svolgono tra coloro che detengono il potere di emanare e far rispettare norme vincolanti e i destinatari di queste norme, l’altra rivolta verso l’esterno, dove i rapporti di dominio si svolgono fra lo stato e gli altri stati. Non c’è manuale di diritto pubblico che, dovendo affrontare il problema della sovranità, non cominci col dire che la sovranità ha due aspetti, uno interno e uno esterno. La distinzione fra sovranità interna e sovranità esterna è per cosí dire l’abc della teoria dello stato.
Sino ad ora – mi riferisco in particolare al dibattito quale si è svolto in Italia in questi ultimi anni, specificamente alle due raccolte di scritti Il marxismo e lo stato (1976) e Discutere lo stato (1978), pubblicate rispettivamente da due riviste della sinistra, «Mondoperaio» e «il manifesto» – la discussione nata dalla domanda «Esiste una teoria marxistica dello stato?» ha avuto riguardo esclusivamente al problema dello stato nei suoi rapporti interni, e ha lasciato quasi completamente in ombra il problema dei rapporti internazionali. Ritengo che il dibattito interno alla teoria marxistica dello stato non possa dirsi esaurito sino a che non si affronti con la stessa spregiudicatezza (e senza partito preso né da una parte né dall’altra) questo secondo aspetto. Ad affrontare questo tema c’inducono clamorosi avvenimenti recenti che, contro il modo tradizionale e divenuto acriticamente convenzionale di considerare i rapporti fra stati da parte della dottrina marxistica corrente, inducono a porre rispetto a questo problema lo stesso tipo di domanda che è stata posta rispetto ai rapporti interni: «Esiste una teoria marxista dei rapporti internazionali e, se esiste, qual è?» Vorrei precisare, a scanso di equivoci e delle solite critiche dei bene informati, che non si tratta di un problema nuovo, come non era nuovo il problema del rapporto fra democrazia e socialismo. Piú semplicemente è diventato attuale, se non altro perché democrazia e dittatura erano concetti e realtà note da secoli, mentre di quale tipo potessero essere i rapporti fra stati socialisti si era potuto dare soltanto una teoria apriori, cioè formulare un’ipotesi, sino a che non fossero esistiti realmente piú stati socialisti (o che si considerano e pretendono di essere considerati tali).
Credo di non aver bisogno di sottolineare la differenza fondamentale esistente tra il tipo di rapporti intercorrenti fra lo stato e i suoi membri, e il tipo di rapporti che intercorrono fra uno stato e gli altri stati. Mi limito a richiamare l’attenzione sulla differenza fondamentale, anche se è una banalità: nei riguardi dei suoi cittadini lo stato detiene il monopolio della forza legittima, mentre non lo detiene nei riguardi degli altri stati. Nei rapporti internazionali la forza come risorsa del potere viene usata in regime di libera concorrenza, libera, si capisce, com’è ogni forma di concorrenza che non si svolge mai fra enti perfettamente eguali. Il numero di questi enti può cambiare: possono essere molti o pochi (nel qual caso si parla di oligopolio). Possono anche essere soltanto due, com’è accaduto almeno sino a poco tempo fa nel sistema internazionale dominato da Stati Uniti e da Unione Sovietica. Importante è che siano piú d’uno. Là dove gli enti sovrani, e come tali indipendenti, sono piú d’uno, il loro rapporto è un rapporto qualitativamente diverso dal rapporto fra stato e cittadini, perché è un rapporto di tipo contrattuale, la cui forza vincolante dipende esclusivamente dal principio di reciprocità, mentre il rapporto stato cittadino è un rapporto, checché se ne dica, anche nello stato democratico, fra superiore e inferiore, del tipo comando-obbedienza. Siccome la risorsa ultima del potere politico è la forza – intendo per potere politico, infatti, il potere che si vale come strumento per ottenere gli effetti voluti della forza fisica, se pure in ultima istanza –, la differenza fra uso della forza in regime di monopolio e l’uso della forza in regime di libera concorrenza è che solo in questo secondo caso l’uso della forza può trasformarsi in quel fenomeno cosí caratteristico dei rapporti fra gruppi indipendenti, siano essi stati nel senso moderno della parola o altro, che è la guerra. Prova ne sia che quando all’interno di uno stato i rapporti fra gli apparati dello stato destinati all’uso della forza e gruppi organizzati di cittadini si trasformano in rapporti di guerra, come nel caso della guerriglia o addirittura della guerra civile, si dice che lo stato è in disgregazione, che lo stato non è piú uno stato nel senso proprio della parola. Peraltro anche se vi sono in situazioni estreme guerre all’interno degli stati, il tema della guerra è tradizionalmente collegato col tema dello stato nei suoi rapporti con gli altri stati, è in sostanza il tema per eccellenza di ogni teoria dei rapporti internazionali. Anche storicamente il nesso è chiaro: la teoria dello stato moderno procede di pari passo con la teoria della guerra, ovvero il De iure belli ac pacis di Grozio (1625) sta in mezzo ai due grandi trattati sullo stato, in cui viene posto in termini nuovi il problema centrale della sovranità come carattere fondamentale del grande stato territoriale, la sovranità intesa appunto come il potere esclusivo di disporre della forza in un determinato territorio: la Repubblica di Bodin (1576) e il Leviatano di Hobbes (1651).
Posta questa premessa, e tornando a Marx e alla teoria marxistica dello stato dal punto di vista non piú dei rapporti interni ma dei rapporti esterni, il problema può essere posto anche in questi termini: «Esiste una teoria marxista della guerra?» Una domanda di questo genere è stata posta prepotentemente all’ordine del giorno del dibattito teorico della sinistra negli ultimi anni, da quando alcuni avvenimenti internazionali, specificamente alcune guerre, perché sempre della guerra in ultima istanza si tratta quando si studia il problema dei rapporti fra stati, sembrano aver smentito la teoria prevalente o che si credeva prevalente della guerra nell’ambito del marxismo teorico nelle sue diverse articolazioni.
Non è il caso di tratteggiare neppure per sommi capi una mappa delle principali teorie della guerra (su cui del resto mi sono soffermato in altri scritti) 12. Sinteticamente, ma con una discreta approssimazione, si può dire che da quando gli scrittori politici si sono posti il problema della pace universale e perpetua di fronte all’intensificarsi e all’aggravarsi delle guerre fra i grandi stati europei, si sono alternate e contrapposte due teorie principali della guerra, che si possono ridefinire rispettivamente come teoria del primato del politico, quella liberale e democratica, e come teoria del primato dell’economico, quella marxistica. Per gli scrittori liberali e democratici, a cominciare da Kant, che riteneva essere la forma di governo repubblicana la condizione necessaria per lo stabilimento della pace perpetua, le guerre erano state il naturale prodotto del dispotismo, vale a dire di una forma di governo in cui il potere del principe viene esercitato senza alcun controllo. Nella tradizione marxista, invece, le grandi guerre fra stati sovrani dipendono non dal regime politico ma dalla struttura economica: in parole povere, le guerre sono e saranno, anche in futuro, sino a che sopravviverà se pure in parte lo stato di cose esistente, strettamente connesse alla struttura capitalistica della società. Tanto negli scritti teorici dei marxisti, pur di diverso orientamento politico, quanto nei documenti ufficiali dei partiti socialisti e comunisti, la guerra, s’intende la guerra fra stati sovrani, a cominciare dalla guerra franco-tedesca del 1870, sino alla prima guerra mondiale, viene sempre interpretata ed esecrata come una conseguenza necessaria, ineluttabile, del capitalismo. «Le guerre – si legge nella mozione finale del congresso della Seconda Internazionale di Stoccarda (1907) – appartengono all’essenza del capitalismo e cesseranno soltanto quando sarà soppresso il sistema capitalistico». Nel primo Manifesto dell’Internazionale comunista (6 marzo 1919) si legge: «Per lunghi anni il socialismo ha predetto l’inevitabilità della guerra imperialistica e ne ha intravisto la causa nell’insaziabile cupidigia delle classi possidenti dei due maggiori concorrenti e in generale di tutti i paesi capitalistici».
Dispotismo, cioè un determinato sistema politico, oppure capitalismo, cioè un determinato sistema economico? Questo è il problema. Anche oggi la polemica spicciola non si discosta molto da questa alternativa, semplice e semplificante, come tutte le alternative. In altre parole, per un marxista il pericolo maggiore di guerra proverrà pur sempre dagli stati capitalistici, anche se democratici; per un democratico, il pericolo maggiore, s’intende della guerra universale, si addensa sempre piú all’orizzonte per la presenza di regimi dispotici, anche se socialisti.
In realtà si potrebbe cominciare ad osservare che il tema politico principale di riflessione e di ricerca storica da parte di Marx non fu tanto il tema della guerra quanto quello della rivoluzione. Parlo del tema principale rispetto al problema dei rapporti di forza fra gruppi organizzati in conflitto fra loro. Marx, e non soltanto Marx, era convinto che la storia dell’umanità fosse entrata nell’era delle rivoluzioni e non le guerre ma le rivoluzioni sarebbero state d’allora in poi la causa delle grandi trasformazioni dei rapporti sociali. Questa convinzione, che aveva prodotto una vera e propria svolta nella concezione della storia, non piú concepita come un progresso di tipo evolutivo o continuo, ma come un progresso rotto da salti qualitativi e quindi discontinuo, si era formata attraverso la riflessione sulla Rivoluzione francese giudicata tanto nel bene come nel male, sia da coloro che l’avevano esaltata, sia da coloro che l’avevano esecrata, sia da coloro che si erano limitati a scriverne la storia, come un avvenimento epocale. Basti pensare a Kant che pur condannando il regicidio come il piú infame dei delitti aveva visto nell’entusiasmo con cui la rivoluzione era stata accolta una prova della disposizione morale della specie umana. Per non parlare di Hegel, che nella Fenomenologia dello Spirito (e quindi a non molti anni dall’avvenimento) aveva interpretato la Rivoluzione francese addirittura come una figura della storia universale (la figura della «libertà assoluta»). La Rivoluzione francese aveva fatto apparire possibile per la prima volta nella storia dell’umanità quella trasformazione radicale, quella «renovatio ab imis fundamentis», che sino allora era stata soltanto vagheggiata da profeti, da ribelli misticheggianti, da utopisti dottrinari; aveva indotto a credere che se sinora i filosofi avevano descritto la città ideale, a cominciare da Platone, ora si poteva realizzarla con uno sforzo cosciente, razionale e collettivo. Che la Rivoluzione francese fosse per Marx, come del resto per tutti gli scrittori socialisti, anche prima di Marx (tanto per Saint-Simon come per Fourier), una rivoluzione incompiuta o fallita, non voleva dire che la rivoluzione in quanto tale, cioè il vero e non solo apparente rovesciamento di tutti i rapporti sociali sinora esistiti, fosse impossibile. Occorreva soltanto comprendere quale fosse stato l’errore dei rivoluzionari di Francia che erano dovuti ricorrere al terrore per aver tentato di andare al di là dei tempi e delle condizioni corrispondenti, e identificare il nuovo soggetto storico che non avrebbe potuto essere se non una classe non piú soltanto potenzialmente o idealmente, com’era stata la borghesia, ma anche di fatto, universale.
Inutile dire quanto questi due temi, il tema della vera rivoluzione, non soltanto politica ma sociale ed umana, e il tema del proletariato come classe universale, abbiano fortemente improntato il pensiero di Marx sin dagli anni giovanili. Il Manifesto non è una dichiarazione di guerra ma una dichiarazione di rivoluzione, che sarà la guerra del futuro. Se è vero che la storia è storia di lotte di classi, i grandi mutamenti, quelli che contano, che segnano il passaggio da un’epoca all’altra sono determinati dagli scontri di classe contro classe piú che da quelli, su cui si sono soffermati gli storici politici, ed Hegel fra gli altri nella sua monumentale filosofia della storia, fra nazione e nazione. Sono quelli caratterizzati dal cambiamento di struttura sociale e quindi dal passaggio da una classe dominante a un’altra classe dominante, piuttosto che dal passaggio da una forma di governo all’altra. Il Manifesto è un programma rivoluzionario che non avrebbe potuto neppure essere concepito se non fosse stato preceduto da un avvenimento straordinario come la Rivoluzione francese che aveva introdotto nella concezione tradizionale della storia la figura della rottura di continuità o del salto di qualità, e non a caso prende l’avvio dalla caratterizzazione della borghesia come classe rivoluzionaria.
Durante l’intera vita Marx, insieme con Engels, convinto che l’umanità fosse entrata nell’era delle rivoluzioni, seguí con appassionato e intenso interesse di storico e di politico militante tutti i movimenti rivoluzionari di cui fu spettatore. Le opere storiche di Marx si chiamano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Le rivoluzioni di Spagna, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, La guerra civile in Francia. Sono opere il cui tema principale è costituito da quegli avvenimenti storici che nella grande distinzione fra guerre esterne e guerre interne, fra guerre propriamente dette e rivoluzioni, rientrano nelle seconde. Non già che Marx, e soprattutto Engels – che era o riteneva di essere un esperto di cose militari (Engels stesso però scrisse la storia della guerra dei contadini che era stata una guerra civile) –, non avessero seguito le guerre dei loro tempi e non avessero cercato di darne una interpretazione. Ma le guerre di cui furono spettatori e che commentarono, o nei loro scritti o nella loro corrispondenza, non ebbero né la grandiosità delle guerre napoleoniche né la terribilità di quelle che sarebbero venute dopo. A scorrere la loro corrispondenza, in particolare le lettere che si scambiarono durante la guerra franco-tedesca, non si può non ritrarre l’impressione che le guerre fra stati rappresentassero ormai per loro un fatto secondario rispetto alle guerre civili, o, marxianamente, alle lotte di classe, sulla scena di una storia che aveva avuto il suo momento decisivo, la sua svolta, non in una conquista come tutte le epoche precedenti, ma in una rivoluzione.
La filosofia della storia sino a Hegel aveva esercitato la propria riflessione sui due grandi mutamenti che avevano sconvolto la storia del mondo, il primo dall’età greca all’età romana, il secondo dall’età romana all’età cristiano-germanica (per usare l’espressione hegeliana). Tutti e due erano stati l’effetto non di un rivolgimento interno, ma di una conquista, della Grecia da parte di Roma, di Roma da parte delle nazioni barbariche. Il bellum civile che aveva segnato il passaggio dalla repubblica al principato di Roma era stato sempre interpretato come un evento negativo, come il momento della disgregazione, della dissoluzione, della decadenza, del disordine riscattato soltanto dall’avvento di un nuovo ordine. Solo dalla Rivoluzione francese in poi (e retrospettivamente anche con la Rivoluzione inglese, se pur in forma piú attenuata e controversa) un grande mutamento, un mutamento epocale era avvenuto nella direzione del progresso storico, per la prima volta, attraverso un rivolgimento interno. Solo dalla Rivoluzione francese i rivolgimenti interni interpretati tradizionalmente come i momenti negativi della storia, saranno giudicati, e non soltanto in seno alle sette dei rivoluzionari, come momenti positivi, come avvenimenti luttuosi, sí, ma creativi, necessari all’adempimento delle sorti progressive dell’umanità. Nonostante la serie continua delle guerre napoleoniche, che peraltro venivano interpretate come il mezzo attraverso il quale la rivoluzione era stata portata al di fuori dei confini della Francia, ed era assurta ad avvenimento cosmico, la Rivoluzione francese era diventata il segno rivelatore di una nuova fase del progresso civile, le cui tappe principali sarebbero state rappresentate non piú da guerre fra nazioni ma da lotte di classe. Che per i rivoluzionari dell’Ottocento, e anche per Marx e per Engels, le guerre fra stati fossero considerate come un fatto secondario rispetto all’attesa, imminente e incombente rivoluzione, risulta chiaramente anche dal fatto che da allora ogni guerra cominciò ad essere vista in funzione della possibile rivoluzione che da essa poteva essere scatenata: la Comune di Parigi fu il primo esempio, se pur tragicamente concluso, di questa aspettativa.
Con le considerazioni che precedono non intendo certo sostenere che Marx e il marxismo non abbiano nulla da dire rispetto al tema dei rapporti internazionali. Tutt’altro. La teoria marxistica, e piú propriamente leniniana, dei rapporti internazionali è la teoria dell’imperialismo, o piú precisamente, la teoria economica dell’imperialismo. Parlo di teoria «economica», perché fra le molte tipologie delle varie teorie sull’imperialismo che sono state proposte nella ormai sterminata letteratura sull’imperialismo (la accuratissima bibliografia pubblicata in appendice all’antologia di studi sull’imperialismo di Owen e Sutcliffe si estende per piú di 50 pagine 13) mi pare che regga pur sempre la grande divisione fra teorie economiche e teorie politiche: esemplificando, tra una teoria che considera come causa principale dell’espansione di una nazione oltre i propri confini la necessità di esportare merci o capitali, e una teoria che attribuisce lo stesso fenomeno alla volontà di potenza, al sistema politico, all’anarchia internazionale. Non è detto che tutte le teorie economiche dell’imperialismo siano di marxisti (non lo è quella di Hobson), ma è certo che tutte le teorie che si richiamano al marxismo sono prevalentemente economiche.
Checché se ne dica, quali che siano gli aggiustamenti postumi, le correzioni opportune, le interpretazioni moderate dei rapporti fra base e sovrastruttura, il marxismo è stato e rimane la teoria del primato dell’economico sul politico. Certamente per essere marxisti non basta sostenere il primato dell’economico. Però basta negare il primato dell’economico per non essere marxisti. Di fatto esiste un nesso strettissimo fra la teoria dello stato come strumento di dominio di classe nei rapporti interni e la teoria economica dell’imperialismo nei rapporti internazionali. Le due teorie sono connesse positivamente, in quanto entrambe sono fondate sulla tesi centrale del primato dell’economico, ma anche, e ancor piú, negativamente, rispetto alla critica della società esistente, in quanto tutti e due gli aspetti negativi dello stato (dittatura all’interno, imperialismo all’esterno) dipenderebbero dall’unica causa determinante, la società divisa in classi antagonistiche, cioè in detentori dei mezzi di produzione e possessori della sola forza-lavoro, non importa se si tratti della società nazionale o della società internazionale. Sinteticamente, tutte le interpretazioni marxistiche dell’imperialismo sono, pur nella loro diversità, una proiezione nei rapporti internazionali della grande antitesi fra sfruttatori e sfruttati che vale primamente, o per lo meno è stata primamente rilevata e dichiarata, nei rapporti interni. Unendo nella critica negativa tanto lo stato repressivo nei rapporti interni quanto lo stato imperialistico nei rapporti esterni, tutte queste interpretazioni propongono come meta finale una società in cui l’eliminazione delle classi contrapposte conduca contemporaneamente o successivamente alla eliminazione di rapporti umani fondati sulla forza esercitata dallo stato sui suoi membri e dallo stato sugli altri stati, cioè all’eliminazione di ogni forma di potere politico inteso come potere coattivo verso l’interno e verso l’esterno.
L’importanza del contributo dato alle varie interpretazioni economiche dell’analisi dei rapporti internazionali nell’età del capitalismo e dell’imperialismo, provocato o prodotto da marxisti o da studiosi influenzati dal marxismo, è fuori discussione. Ma qui non di questo si tratta. Si tratta del problema della guerra. Si tratta cioè del problema fondamentale di ogni teoria dei rapporti internazionali, della guerra, appunto, che è sempre stata, ed è tuttora, il modo con cui gli stati tendono o sono costretti a risolvere, in ultima istanza, i loro conflitti. Ebbene, bisogna riconoscere che il problema dell’imperialismo non esaurisce il problema della guerra, o, altrimenti, i due problemi, quello dell’imperialismo e quello della guerra, non si sovrappongono. E non si sovrappongono per due ragioni opposte.
Per un verso, in tutte le interpretazioni economiche e marxistiche, l’imperialismo è un fenomeno connesso col sorgere del capitalismo, è per cosí dire una continuazione, e quindi una fase, seppure la fase estrema, del capitalismo. Orbene, nessuno può sostenere che non vi siano state guerre prima del sorgere del capitalismo. Se è vero che vi sono state guerre prima del sorgere del capitalismo, e del conseguente imperialismo, vuol dire che vi sono cause di guerra diverse da quelle riconducibili al capitalismo e all’imperialismo. Se vi sono e vi sono state cause diverse, quali sono? Non chiedo una risposta a tale domanda. Mi limito a sottolineare l’importanza di una domanda di questo genere perché a me interessa addurre un argomento decisivo per affermare che i due concetti di guerra e di imperialismo non hanno la stessa estensione. Potrebbero averla soltanto se si potesse dimostrare che tutte le guerre, almeno da una fase della storia in poi, sono state e saranno guerre imperialistiche: ma già la seconda guerra mondiale non è stata interpretata come guerra imperialistica, per lo meno nel senso in cui era stata interpretata come guerra imperialistica la prima, secondo la celebre analisi di Lenin.
Per un altro verso, se è vero che non tutte le guerre sono state nel passato imperialistiche, e non si vede la ragione per cui dovrebbero esserlo tutte in avvenire, è altrettanto vero che non tutte le forme d’imperialismo, inteso come espansione economica, conquista di mercati, assoggettamento di nazioni ricche di materie prime e povere di mezzi di difesa, specie nell’età del capitalismo avanzato, conducono necessariamente alla guerra. Uno degli assunti principali della teoria economica dell’imperialismo dopo la seconda guerra mondiale e il rapido processo di decolonizzazione è proprio quello di analizzare e di spiegare le nuove forme di dominio nei rapporti internazionali che non hanno niente a che vedere coi rapporti tradizionali fondati principalmente sulla forza militare. In seguito al processo di decolonizzazione, che è stato anch’esso in alcuni casi violento, in altri casi non violento, e che quindi come tale non può essere fatto coincidere totalmente con le guerre di liberazione nazionale, una delle caratteristiche del neo-imperialismo è il raggiungimento dello scopo, cioè la sottomissione della nazione excoloniale alla metropoli, attraverso forme che non rientrano nella categoria tradizionale della guerra. Dico una volta per sempre che per «guerra» intendo il ricorso all’uso della forza da parte di un gruppo organizzato, che si autoproclama, o tende a farsi riconoscere da parte dell’antagonista, indipendente o sovrano nel senso giuridico della parola, allo scopo di risolvere problemi vitali, o che considera vitali, alla propria sopravvivenza. In particolare, le varie interpretazioni economiche dell’imperialismo d’ispirazione marxistica si sono proposte di trovare una spiegazione di fenomeni diversi, soprattutto di questi tre: a) dei rapporti delle società capitalistiche avanzate fra di loro; b) dei rapporti fra le società capitalistiche avanzate e le società arretrate; c) dei rapporti di classe all’interno dei paesi arretrati. Con i due concetti fondamentali di «centro» e di «periferia» impiegati da Galtung 14 nella sua analisi dell’imperialismo, si tratta dei seguenti rapporti: a) fra i centri del centro e gli altri centri del centro; b) fra i centri del centro e i centri della periferia; c) fra i centri della periferia e la periferia della periferia. Sono esclusi, o per lo meno appaiono secondari, i rapporti restanti fra il centro dei centri e la loro periferia (è il problema classico della lotta di classe all’interno degli stati avanzati, il tema marxiano originario per eccellenza), tra il centro dei centri e la periferia delle periferie, perché fra l’uno e l’altra agisce da tramite il centro della periferia (uno degli aspetti salienti del neo-colonialismo consiste proprio nell’uso strumentale delle élites locali, la cosiddetta «borghesia nazionale», da parte della classe dirigente del paese egemone), e i rapporti fra le due periferie (che sono anch’essi rapporti di non continuità). Di questi tre tipi di rapporti solo il primo può sfociare in un conflitto armato. Il secondo è quasi sempre piuttosto un rapporto di dominio, ma può anche essere di alleanza. Il terzo è il tipico rapporto di dominio fra classe dominante e classe dominata.
Non c’è studioso dell’imperialismo, anche all’interno delle teorie marxistiche, che non abbia lamentato l’ambiguità del termine «imperialismo», e la molteplicità degli usi in cui viene impiegato. Una delle ragioni di questa ambiguità sta negli scopi diversi cui la teoria è nei diversi tempi servita. Per Lenin, che scrisse il suo saggio durante la prima guerra mondiale, lo scopo principale era di dare una spiegazione della guerra tra le grandi potenze che erano anche le principali potenze coloniali. S’intende allora che per Lenin la teoria dell’imperialismo era anche una teoria della guerra. Per gli studiosi marxisti di oggi lo scopo principale dell’analisi dell’imperialismo è di trovare una chiave di spiegazione della politica estera degli Stati Uniti, considerata la potenza imperialistica per eccellenza sia nei riguardi degli altri stati capitalistici, sia nei riguardi delle potenze non capitalistiche, sia nei riguardi dei paesi che non sono né capitalistici né grandi potenze. Ora questi rapporti non sono necessariamente rapporti di guerra. Ne deriva che nei diversi tempi e nelle diverse situazioni storiche la teoria dell’imperialismo è, sí, sempre una teoria dei rapporti internazionali, ma non è sempre una teoria della guerra, cioè di quel fenomeno che è nonostante tutto il fenomeno principale in cui è destinata a trovare il proprio compimento qualsiasi teoria dei rapporti internazionali.
Riassumendo, se è vero che non tutte le guerre sono (o sono state) imperialistiche e non tutte le forme d’imperialismo sono necessariamente connesse al fenomeno della guerra, il rapporto fra imperialismo e guerra può essere raffigurato da due cerchi che s’intersecano, in cui lo spazio occupato dai due cerchi che si sovrappongono è quello delle guerre imperialistiche, e gli altri due, sono, l’uno quello delle forme d’imperialismo pacifico (dove «pacifico» significa penetrazione prevalentemente economica e non vuole avere alcuna connotazione positiva), l’altro, quello delle guerre non imperialistiche. Il punto cui voglio arrivare è questo: se è vero che la fenomenologia dell’imperialismo e la fenomenologia della guerra non coincidono, una teoria come quella marxiana e tutte le teorie da essa derivate che per quel che riguarda il fenomeno dei rapporti internazionali hanno preso in considerazione come fenomeno prevalente e determinante il fenomeno dell’imperialismo, debbono essere considerate come teorie che non offrono strumenti adeguati per comprendere il fenomeno della guerra in tutta la sua estensione, e quindi in tutte le sue concrete determinazioni, quel fenomeno che caratterizza da sempre i rapporti internazionali, verso il quale è costantemente orientata la politica degli stati rivolta agli altri stati e in base al quale si giudica la compiutezza o meno di una teoria dei rapporti internazionali.
Tralascio dal prendere in considerazione le guerre del passato pre-capitalistico, dal momento che la teoria marxistica dell’imperialismo non è, secondo le ripetute dichiarazioni dei suoi sostenitori, una teoria generica dell’imperialismo di tutti i tempi ma si limita a considerare l’imperialismo come fase del capitalismo avanzato. Però il problema rimane giacché l’era precapitalistica e preimperialistica occupa grande parte della storia umana. Prendo in considerazione soltanto le guerre di oggi. S’impone l’osservazione che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi nessuna delle guerre (e del resto neppure la stessa seconda guerra mondiale) può essere fatta rientrare nella categoria delle guerre imperialistiche nel senso leniniano classico della parola, cioè nella categoria delle guerre fra stati imperialistici per la spartizione dei mercati. Vi sono state: a) guerre fra le due superpotenze, di cui una è la potenza imperialistica per eccellenza, l’altra sarebbe, in quanto socialistica, non imperialistica (almeno secondo la dottrina corrente fra i marxisti ortodossi), se pure per interposta persona, come la guerra di Corea e quella del Vietnam; b) guerre fra stati nazionali nel senso tradizionale della parola, come la guerra a piú riprese fra paesi arabi, in particolare l’Egitto e Israele; c) guerre fra stati di nuova formazione che sino a ieri erano paesi coloniali, come quella fra Etiopia e Somalia, o quella fra Vietnam e Cambogia; d) guerre di liberazione nazionale, come la guerra di Algeria o quella di Angola; e) infine vi è uno stato permanente di guerra minacciata (e minacciosa) fra le due superpotenze che sono nate da una rivoluzione comunista, l’Urss e la Cina. Non parlo dell’occupazione militare della Cecoslovacchia per opera delle truppe sovietiche perché a causa della sua brevità non è stata una guerra nel senso tradizionale della parola (si può chiamare un’operazione militare che assomiglia di piú a un’azione di politica interna, cioè a un’operazione di polizia, che non a un’azione di politica estera).
Di questi cinque tipi di guerre si possono far rientrare nella categoria delle guerre imperialistiche, cioè delle guerre direttamente o indirettamente provocate dalla nazione imperialistica per eccellenza, gli Stati Uniti, quelle sub a, e per contraccolpo quelle sub d, con un certo sforzo anche quelle sub b, in nessuno modo quelle sub c e sub e. Soprattutto quest’ultimo, a meno di sostenere, come pur qualcuno sostiene, che le superpotenze socialistiche siano diventate anch’esse capitalistiche. Ma dove tutto è capitalismo niente è capitalismo, e capitalismo diventa una categoria vuota riempibile di qualsiasi contenuto secondo le proprie opinioni politiche. Cosí pure, una volta allargata la categoria delle guerre imperialistiche sino a comprendervi le guerre fra stati non capitalistici, la categoria dell’imperialismo perde la sua specificità, e diventa sinonimo di politica di potenza, cioè di quel fenomeno che è stato, sí, chiamato in altri tempi imperialismo, ma dal quale le teorie marxistiche dell’imperialismo hanno sempre voluto prendere le distanze per timore di cadere in quella concezione generica d’imperialismo che avrebbe impedito di identificare imperialismo con capitalismo.
E invece è proprio la risoluzione della categoria dell’imperialismo in quella del capitalismo, se pure del capitalismo a una certa fase del suo sviluppo, che ha finito per rendere questa categoria specifica impropria ad abbracciare il fenomeno della guerra nella sua enorme complessità. Di fronte a fatti clamorosi, che la teoria dell’imperialismo non aveva potuto prevedere, come la guerra fra Vietnam e Cambogia, e il dissidio sempre piú grave e del tutto tradizionale nelle sue manifestazioni fra Cina e Urss, una volta divenuta insostenibile la sequenza causale (e la teoria corrispondente) capitalismo-imperialismo-guerra, ci occorre proprio una categoria piú generale, e pertanto piú comprensiva, com’è quella di politica di potenza 15, per poter spiegare quei conflitti internazionali che sfuggono alle varie interpretazioni dell’imperialismo ultima fase del capitalismo. Sono sempre piú convinto che la teoria della politica di potenza, cacciata dalla porta dell’imperialismo spiega-tutto, rientra dalla finestra nel momento in cui si è costretti a constatare che la categoria dell’imperialismo è un contenitore troppo piccolo per farci stare tutte le guerre del tempo presente. Qualche cosa di simile è accaduto alla teoria marxistica dello stato come strumento di dominio di classe o come dittatura permanente, quando ci si è trovati di fronte alla realtà degli stati socialisti che sono dittature permanenti in senso ben piú forte delle democrazie rappresentative, e non sono in senso proprio strumenti di dominio di classe salvo a inventare una «nuova classe» che sarebbe la detentrice e usurpatrice dell’immenso potere del nuovo stato, ma che comunque non ha niente a che vedere con la classe nel senso marxistico della parola. Com’è noto, la critica alla teoria marxistica dello stato è cominciata da questa constatazione. Uno degli effetti piú rilevanti di questa critica è stata la riscoperta del «politico» come sfera relativamente autonoma, dalla quale riscoperta è derivata la tesi corrente fra alcuni dei maggiori teorici marxisti dello stato (tanto corrente da essere diventata quasi una communis opinio) della «relativa autonomia della politica». Non c’è nulla di scandaloso nel prevedere che la tesi della relativa autonomia della politica sarà utilizzata, se pure non è già stato fatto, per dare una soluzione alle difficoltà che non possono essere risolte attraverso la teoria economica dell’imperialismo. Non m’impegno nella critica di questa tesi che mi porterebbe troppo lontano. La ricordo unicamente perché è il sintomo del disagio. Ma non mi pronuncio se oltre un sintomo del disagio sia anche un rimedio.
Mi si potrà subito obiettare che, se è vero che l’imperialismo riferito ai soli stati capitalistici è un contenitore troppo piccolo, la politica di potenza è un contenitore troppo grande in cui si butta tutto alla rinfusa, tanto la prima e la seconda guerra mondiale, quanto le guerre fra Roma e Cartagine, e magari, risalendo ancora piú indietro, la guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta. Anche a costo di andare incontro all’accusa di astrattismo, di astoricismo ecc., ritengo che proprio di questo si tratti. Si tratta cioè di capire perché la guerra sia uno dei caratteri permanenti dei rapporti fra stati, cioè fra enti sovrani e indipendenti, quale che sia il loro sistema politico, il loro sistema economico e il loro sistema ideologico. Del resto, una teoria della guerra o è onnicomprensiva o non è una teoria. Non riesco a capacitarmi come sia possibile sostenere la curiosa tesi, difesa da un noto filosofo politico marxista, che si può, e si deve, fare una teoria dello stato capitalistico ma non si può fare una teoria generale dello stato 16. Credo al contrario, come ebbi occasione di scrivere amichevolmente all’autore 17, che non si possa fare una teoria dello stato capitalistico senza avere una teoria generale dello stato. Si tratta, in altre parole, di riconoscere, di fronte alla varietà e complessità del fenomeno della guerra, la parzialità di una teoria che mette con forza l’accento sul sistema economico, allo stesso modo che la realtà della prima guerra mondiale aveva mostrato l’insufficienza (e la matrice ideologica) della teoria sino allora dominante che per spiegare l’esplodere delle guerre fra grandi potenze metteva l’accento sul tipo di sistema politico (il dispotismo), e viene continuamente riesumata ai giorni nostri da coloro che attribuiscono le tensioni internazionali non all’imperialismo americano ma al dispotismo sovietico. D’altra parte, ritengo che nessuno sia oggi disposto a credere che le guerre, grandi o piccole che siano, dipendano da ragioni ideologiche, cioè siano guerre, come si sarebbe detto un tempo, di religione. La teoria politica della guerra, cioè la teoria secondo cui la causa principale delle guerre sta nel tipo di regime politico (dispotico all’interno e quindi tendenzialmente dispotico all’esterno) era nata quando le guerre di religione erano ormai finite, cosí come la teoria economica sorse allorché si dovette abbandonare l’illusione che le guerre sarebbero cessate quando il potere sovrano, il potere cioè di decidere della guerra e della pace, fosse passato dai principi ai parlamenti 18.
La teoria della politica di potenza si sottrae alle critiche cui vengono sottoposte le teorie precedenti perché spiega il fenomeno della guerra prescindendo completamente dal sistema ideologico, dal regime politico e dal sistema economico. Le differenze fra sistemi ideologici, politici, o economici, servono a spiegare perché sorgano fra stati conflitti della piú diversa natura, non spiegano perché questi conflitti si risolvano in molti casi in quel particolar modo di risolvere il conflitto – un modo violento, cruento, prolungato – che è la guerra. Per spiegare il fenomeno della guerra bisogna partire dalle condizioni obiettive dei rapporti internazionali, che a differenza dei rapporti interni sono caratterizzati, come ho detto all’inizio, da un regime di concorrenza nell’uso della risorsa ultima di ogni forma di potere dell’uomo sull’uomo, che è la forza. Non dico nulla di particolarmente nuovo se dico che il grande stato territoriale moderno è il risultato di un lento processo di concentrazione di potere attuatosi con la graduale espropriazione da parte del principe, per usare un concetto di Max Weber, dei mezzi di servizio o di amministrazione civile e militare in mano ai signori feudali, processo che va di pari passo con l’espropriazione da parte del moderno capitalista dei mezzi di produzione in mano ai lavoratori indipendenti. Tra i mezzi di servizio che vengono espropriati sono stati fondamentali per la nascita dello stato moderno i mezzi che servono all’uso della forza, in parole povere, le armi. Lo stato moderno è il risultato, come ho già detto, di un lento ed irreversibile processo di monopolizzazione dell’uso della forza. Orbene, il monopolio della forza ha lo scopo non già di evitare i conflitti all’interno dello stato, ma unicamente di evitare che i conflitti fra sudditi e fra sudditi e stato degenerino in guerra. Ho già avuto occasione di dire altrove che lo stato, la forma stato, come si suol dire oggi, può acconsentire alla de-monopolizzazione del potere ideologico attraverso il riconoscimento dei diritti di libertà, nonché alla de-monopolizzazione del potere economico attraverso il riconoscimento della libera iniziativa. Ciò che non può accettare è la de-monopolizzazione dell’uso della forza, perché, accettandola, cesserebbe di essere uno stato 19.
La formazione di stati sempre piú grandi sino alle superpotenze attuali non ha del tutto eliminato un’ampia sfera di rapporti in cui la forza viene usata in regime di concorrenza, non ha eliminato la possibilità, anzi la necessità, del conflitto armato là dove il conflitto non può essere risolto, per la sua gravità, attraverso negoziati. All’interno di un sistema fondato sul monopolio dell’uso della forza, il conflitto che non può essere risolto attraverso accordi tra i privati provoca il diritto da parte dello stato di ricorrere al potere coattivo. In un regime di concorrenza nell’uso della forza quando un conflitto non può essere risolto attraverso negoziati interviene il diritto di guerra, che non è altro se non l’uso esterno della forza concentrata dello stato. Quali poi siano i conflitti che non possono essere risolti attraverso negoziati, la varietà delle guerre attuali e potenziali nella società internazionale di oggi mostra che è estremamente difficile dare una risposta buona per tutte le occasioni e che ogni teoria riduttiva, o economica, o politica, o ideologica, o anche geo-politica, è parziale. In un sistema di rapporti come sono quelli degli enti che compongono la comunità internazionale, per i quali il problema fondamentale è quello della supremazia, per i piú grandi, e della sopravvivenza, per i piú piccoli, sono da considerarsi non negoziabili quei conflitti in cui l’una parte o tutte e due giudicano che i fini, rispettivamente della supremazia e della sopravvivenza, possano essere raggiunti non con una soluzione di compromesso ma unicamente con la vittoria sull’avversario che soltanto l’uso della forza può garantire. Che i conflitti non negoziabili siano anche di natura economica è incontestabile. Oggi, alla presenza di conflitti fra stati non capitalistici, è invece contestabile che questi conflitti di natura economica in ultima istanza non negoziabili siano, nei rapporti fra stati sovrani, derivati da quel particolare sistema economico che è il capitalismo. Ciò che rimane alla fine assolutamente incontestabile è che, se vi sono conflitti non negoziabili che come tali conducono allo scontro armato, questo dipende esclusivamente dalla natura del sistema internazionale, che è un sistema in equilibrio dinamico (un tempo soltanto europeo, ora mondiale), che si scompone e si ricompone continuamente, e il cui agente di scomposizione e ricomposizione è stato sinora l’uso della forza, che è la risorsa ultima di ogni potere politico.
III.
LA GUERRA, LA PACE E IL DIRITTO.
Guerra e diritto [1966].
1. Considero quattro tipi di rapporto tra guerra e diritto: la guerra come mezzo per stabilire il diritto, la guerra come oggetto di regolamentazione giuridica, la guerra come fonte di diritto, la guerra come antitesi del diritto. Nonostante l’apparente disparità di queste quattro posizioni della guerra rispetto al diritto, esiste un nesso tra l’una e l’altra, che è compito di questa relazione di illustrare il piú sinteticamente possibile. Dico subito che le prime due posizioni corrispondono al modo tradizionale di considerare la guerra dal punto di vista del diritto internazionale; le ultime due rappresentano per cosí dire il contraccolpo della crisi delle dottrine tradizionali.
2. La teoria giuridica della guerra si è sempre occupata fondamentalmente di due problemi: quello della iusta causa delle guerre, che ha dato origine alle dispute intorno alla guerra giusta, e quello della regolamentazione della condotta di guerra, che ha dato origine al ius belli. Bellum iustum e ius belli sono le due parti fondamentali in cui si divide la trattazione giuridica della guerra: orbene la teoria del bellum iustum riguarda il problema della giustificazione o ingiustificazione della guerra, quali siano i motivi che rendono una guerra giusta, in altre parole quale sia il titolo in base al quale una guerra può essere considerata giusta; il ius belli è la rilevazione e lo studio delle regole che disciplinano la condotta di una guerra e che rendono possibile la distinzione tra ciò che è lecito e ciò che è illecito nei rapporti tra belligeranti. L’oggetto della teoria del bellum iustum è il problema della legittimità della guerra; l’oggetto del ius belli è il problema della legalità della guerra 20. Questa distinzione è rilevante perché una guerra può essere legittima, cioè avere una giusta causa, senza essere legale, in quanto il belligerante che ha intrapreso la guerra in base ad una giusta causa, viola sistematicamente le regole del ius belli; e può essere legale senza essere legittima, nel caso in cui il belligerante che ha intrapreso una guerra ingiustamente rispetta le regole del ius belli. Questa distinzione ci permette di classificare le guerre, dal punto di vista dei rapporti tra guerra e diritto, in quattro tipi: a) legittime e legali; b) legittime e illegali; c) illegittime e legali; d) illegittime e illegali.
3. Osserviamo ora piú da vicino il problema della legittimazione della guerra, cioè il problema tradizionale della guerra giusta. Abbiamo visto che la legittimità è il risultato di un processo di giustificazione: i due modi piú comuni di giustificare un’azione consistono o nel ricondurla al suo fondamento oppure di commisurarla al fine, cioè nel considerarla o come la conseguenza necessaria di un principio posto come indiscutibile oppure come il mezzo piú adeguato per raggiungere un fine altamente desiderabile. Nelle teorie della guerra giusta la legittimazione della guerra avviene prevalentemente nel secondo modo: la giustificazione della guerra viene cercata nel fine, o in altre parole si attribuisce iusta causa alle guerre che vengono giudicate mezzi necessari al raggiungimento di un fine altamente desiderabile. Il fine altamente desiderabile alla cui stregua viene giustificata la guerra come mezzo necessario è il ristabilimento del diritto. In questo modo, attraverso l’analisi del principio di legittimità della guerra emerge uno dei modi caratteristici attraverso cui si manifesta il rapporto tra guerra e diritto: si tratta del rapporto tra mezzo e fine, ove la guerra è il mezzo e il diritto è il fine.
Considerando ora il problema della legalità, si presenta l’altro modo caratteristico in cui si manifesta il rapporto tra diritto e guerra: nel ius belli la guerra è oggetto di regolamentazione giuridica, cioè si presenta la figura della guerra-oggetto di diritto. Perché la guerra dunque possa essere considerata come un fatto giuridico totale (cioè le convengano gli attributi della legittimità e della legalità) occorre che il diritto appaia nello stesso tempo come fine e come forma del suo movimento. Non basta in altre parole che il complesso delle operazioni che compongono una guerra siano rivolte al fine ultimo del ristabilimento del diritto violato, ma anche che queste operazioni stesse siano disciplinate da regole giuridiche. Nella teoria generale del diritto le norme che regolano i comportamenti che hanno per iscopo il ristabilimento del diritto violato si chiamano abitualmente norme secondarie: il ius belli è un insieme di norme secondarie. Ogni ordinamento giuridico è un ordinamento di norme che provvede mediante norme (e sono appunto le norme secondarie) alla propria conservazione 21.
4. Questo duplice rapporto della guerra col diritto, onde la guerra si presenta come mezzo e come oggetto, il diritto come fine e come forma, non è altro che un aspetto particolare del complesso rapporto generale che intercorre tra forza e diritto 22. Anche la forza può essere considerata rispetto al diritto dal punto di vista del fine cui tende e delle regole che ne disciplinano l’esercizio. La distinzione tra questi due punti di vista è stata condotta tanto innanzi da dar origine a due diverse teorie del diritto. Vi sono infatti due modi tipici di definire il diritto in funzione della forza, cioè prendendo come elemento caratterizzante del diritto il suo rapporto con la forza: le teorie che definiscono il diritto come insieme di norme rafforzate, cioè come norme la cui osservanza è garantita dal ricorso alla forza in caso di violazione (sono le teorie tradizionali); le teorie che definiscono il diritto come insieme di regole che hanno per contenuto esclusivo e quindi caratterizzante l’esercizio della forza (questa teoria ha preso le mosse dal Kelsen ed è stata sviluppata dalla scuola scandinava, Olivecrona e Ross). Come ho avuto occasione di osservare altrove, queste due teorie del diritto sono in realtà due mezze teorie: la prima riesce adeguata per definire le norme primarie, ma non può essere applicata alle norme secondarie senza correre rischio di cadere in un processo all’infinito; la seconda riesce adeguata per definire le norme secondarie, ma è costretta ad eliminare dall’ordinamento giuridico le norme primarie come norme giuridicamente irrilevanti.
Tornando alla guerra, la duplicità del suo rapporto col diritto è la conseguenza del fatto che il diritto può essere considerato dal punto di vista delle norme primarie e dal punto di vista delle norme secondarie. Quando si dice che la guerra è un mezzo per ristabilire il diritto, per «diritto» s’intende in questo caso l’insieme delle norme primarie; quando si dice che la guerra è il contenuto delle regole giuridiche, per «regole giuridiche» s’intendono in questo caso le norme secondarie. Solo se s’intende il diritto (qui si tratta del diritto internazionale) come insieme di norme primarie e secondarie, la guerra appare insieme come mezzo (rispetto alle prime) e come contenuto (rispetto alle seconde).
5. Queste due figure tradizionali della guerra nei suoi rapporti col diritto sono connesse, come abbiamo visto, rispettivamente alla teoria del bellum iustum e del ius belli. La teoria del bellum iustum, nonostante fugaci riapparizioni, è stata messa in crisi dall’applicazione del metodo del positivismo giuridico anche nel diritto internazionale che, considerando come diritto solo l’insieme delle regole effettivamente osservate dagli stati, ha dovuto ammettere come giuridicamente irrilevante la distinzione tra guerre giuste e guerre ingiuste, e considerare la guerra in quanto espressione della volontà di uno stato sovrano come una procedura lecita; d’altro canto, il ius belli è stato messo in crisi dalla applicazione delle teorie della guerra totale e dall’apparizione di nuove armi sempre piú potenti che non tollerano limiti al loro impiego. La critica del bellum iustum e la crisi del ius belli hanno avuto come conseguenza la critica e la crisi dei due modi tradizionali di considerare il rapporto della guerra col diritto.
La considerazione della guerra come mezzo per ristabilire il diritto violato si risolve nell’attribuire alla guerra il carattere di sanzione; ma l’analogia tra guerra difensiva, riparatrice o punitiva, e sanzione è superficiale. A parte il fatto che il giudizio sulla natura della guerra viene dato dalla stessa parte in causa e pertanto le guerre sono sempre giuste da entrambe le parti, la guerra non offre di per se stessa alcuna garanzia, come dovrebbe offrire una sanzione, che l’aggressore sia respinto, il torto riparato, il colpevole punito: mentre una procedura giudiziaria deve essere istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione, la guerra è di fatto una procedura che permette di aver ragione a chi vince. D’altro lato la considerazione della guerra come contenuto di regole giuridiche presuppone che la guerra possa essere disciplinata da regole e che queste regole siano di fatto osservabili. Ora indipendentemente dalla buona o cattiva volontà degli stati belligeranti, la natura della guerra attuale (parlo della guerra tra grandi potenze) è sempre piú selvaggia, meno addomesticabile, e i mezzi impiegati sempre meno controllabili. Dalla prima guerra mondiale in poi il tradizionale ius belli è caduto pezzo per pezzo, dalla dichiarazione di guerra sino alla distinzione tra popolazione civile e popolazione militare. Con l’apparizione delle armi termonucleari la guerra è veramente diventata, come il potere sovrano del re assoluto, legibus soluta.
6. Dalla crisi delle due forme tradizionali del rapporto tra guerra e diritto sono emersi rispettivamente due modi nuovi di considerare la guerra dal punto di vista del diritto: la guerra come fonte di diritto, la guerra come antitesi del diritto.
Oltre la teoria della guerra come procedura giudiziaria mirante a ristabilire un diritto precedente violato, si è venuta facendo strada nel secolo scorso la teoria della guerra come creatrice di un diritto nuovo. Alla guerra intesa come sanzione, cioè come forza messa al servizio della conservazione di un diritto stabilito, si è sostituita la concezione della guerra intesa come rivoluzione (qui intendo la parola nel senso in cui viene usata dai giuristi), cioè come forza messa al servizio della creazione di un nuovo ordine internazionale. Questo tipo di guerra sta ai rapporti esterni tra stati come la rivoluzione sta ai rapporti interni tra stato e cittadini: allo stesso modo che la rivoluzione è una guerra civile, cosí la guerra è, in questa concezione, una rivoluzione internazionale. Poiché siamo nell’àmbito del problema della legittimità, osserviamo che quel che cambia nel passaggio dalla teoria della guerra-sanzione a quella della guerra-rivoluzione è il criterio di legittimazione: la guerra è sempre considerata in funzione di un diritto da far valere, ma non si tratta piú di ristabilire un diritto passato, ma di prestabilire un diritto futuro, non di restaurare un ordine vecchio, ma di instaurare un ordine nuovo. Questa contrapposizione può anche essere illustrata attraverso un richiamo alla secolare contrapposizione tra il diritto positivo e il diritto naturale: il diritto da restaurare in base al quale viene legittimata la guerra come sanzione è il diritto positivo, mentre la guerra come rivoluzione viene legittimata attraverso il ricorso al diritto naturale, cioè ad un diritto superiore al diritto positivo, che giustifica la sovversione del diritto positivo. Sono tipiche guerre rivoluzionarie le guerre d’indipendenza o di liberazione nazionale che dal secolo scorso ad oggi hanno mutato e stanno mutando l’assetto della comunità internazionale: per l’appunto una delle fonti della loro legittimità è l’appello al diritto (naturale) di auto-determinazione dei popoli.
7. L’ultimo modo di considerare i rapporti tra guerra e diritto è quello che sfocia nella raffigurazione della guerra come antitesi del diritto. Una volta riconosciuta la guerra come legibus soluta, cioè al di là e al di sopra di ogni possibilità di controllo giuridico, la guerra ridiventa una forza primigenia che ovunque riappare abbatte il regno del diritto. Si ritorna cosí ad una raffigurazione tradizionale, classica, della guerra: inter arma silere leges. Interviene a questo punto la concezione del diritto come insieme di regole ordinate al fine della pace: e la pace è l’eliminazione della guerra. Dove avanza il regno del diritto, cessa lo stato di guerra: anzi la vittoria del diritto consiste nella graduale eliminazione dei rapporti di forza sregolata in cui consiste la guerra: e dunque a sua volta il diritto è l’antitesi della guerra. Nella concezione hobbesiana fondata sulla contrapposizione tra stato di natura e stato civile, lo stato di natura è uno stato di guerra perpetua proprio perché è uno stato pregiuridico e antigiuridico, cioè è quello stato in cui non esistono ancora leggi positive e le leggi naturali sono impotenti, mentre lo stato civile è quello in cui attraverso il monopolio della forza viene istituito il regno della pace, e quindi è uno stato di pace proprio perché è uno stato giuridico. Dove termina il monopolio della forza, nel rapporto tra gli stati, cessa insieme con lo stato civile anche lo stato di pace e comincia lo stato di guerra. Ogni tentativo del diritto di arginare la guerra, riesce o nel trasformare la guerra in violenza organizzata e quindi in una anticipazione di una società giuridica (la guerra come procedura giudiziaria della teoria del bellum iustum), oppure è mera finzione.
8. Mi limito, per finire, ad accennare al fatto che ai quattro modi qui brevemente illustrati di considerare i rapporti tra guerra e diritto corrispondono alcune concezioni tipiche della guerra e rispettivamente della pace. Schematicamente, il processo di giustificazione della guerra può condurre a tre soluzioni tipiche: a) tutte le guerre sono buone (bellicismo assoluto); b) tutte le guerre sono cattive (pacifismo assoluto); c) vi sono guerre buone e cattive. La teoria del bellum iustum e la pratica del ius belli corrispondono alla terza soluzione, se pure per ragioni diverse, e si potrebbero chiamare teorie del bellicismo, o che è lo stesso del pacifismo, moderato; la teoria della guerra come fonte del diritto corrisponde alla prima; la teoria della guerra come antitesi del diritto rappresenta il passaggio alla seconda: poiché la guerra non può essere limitata, occorre eliminarla per sempre. Il pacifismo assoluto sta alla guerra come il comunismo alla proprietà e l’anarchia allo stato. Pacifismo, comunismo, anarchia ubbidiscono alla stessa logica: sinora gli uomini hanno cercato d’incatenare i tre mostri della guerra, della proprietà e dello stato. Poiché questi hanno rotto via via le catene nelle quali sono stati costretti, non resta che tentare di ucciderli.
Pace e diritto [1983].
1. Affronto ora il tema simmetrico e opposto rispetto al precedente. La prima raffigurazione della guerra che ci viene incontro da una tradizione di secoli è quella di causa efficiente di uno stato antigiuridico; la prima e piú antica raffigurazione del diritto, al contrario, è quella di causa efficiente di uno stato di pace. La guerra in altre parole viene primariamente concepita come negazione del diritto; il diritto, a sua volta, come affermazione o riaffermazione della pace. Questa antitesi è bene rappresentata da due celebri passi ciceroniani: Inter arma silent leges e Cedant arma togae. Le armi fanno tacere le leggi; le leggi rendono vane le armi.
Sulla base di questa antitesi è costruita la teoria hobbesiana dello stato: lo stato di natura è uno stato di guerra in quanto è uno stato senza diritto, in cui le leggi positive non esistono ancora e le leggi naturali esistono ma non sono efficaci; lo stato civile è quello stato in cui gli uomini attraverso un accordo di ciascuno con tutti gli altri, istituiscono un sistema di leggi valide ed efficaci allo scopo di far cessare la guerra di tutti contro tutti ed instaurare la pace. Si tratta quindi di uno stato pacifico proprio in quanto è uno stato giuridico e il passaggio da uno stato all’altro avviene attraverso un atto giuridico qual è il contratto; pertanto, mentre lo stato di natura è uno stato di guerra a causa della mancanza di diritto, lo stato civile è uno stato di pace in quanto è la conseguenza di un atto giuridico.
Considerando il diritto dal punto di vista della sua funzione, non c’è teoria del diritto che non comprenda tra le funzioni del diritto quella di dirimere i conflitti. Anche per coloro per i quali il diritto ha altre funzioni, quella di dirimere i conflitti non è mai del tutto omessa. Generalmente la soluzione dei conflitti è considerata lo scopo minimo del diritto, inteso come Zwangsordnung (ordinamento coattivo), ovvero come ordinamento che si serve dell’uso legittimo della forza per realizzare i suoi fini. Che il termine «conflitto» sia piú ampio del termine «guerra» non implica alcuna differenza rispetto al tema iniziale. Per «guerra» s’intende una specie particolare di conflitto, il conflitto fra gruppi organizzati che tendono a sopraffarsi con la violenza. Ma anche per «pace» non s’intende soltanto la cessazione della guerra. Si usa, ad esempio, sempre piú spesso l’espressione «pace sociale» per indicare lo stato di cessazione di conflitti, che non sono necessariamente guerre nel senso proprio della parola, all’interno di un gruppo politico. Accanto alla coppia pace-guerra soccorrono altre coppie, come ordine-disordine, concordia-discordia, unione-disunione, e all’origine, cosmo-caos: in tutte il diritto può essere variamente coniugato col termine positivo mentre è in contrasto col termine negativo.
Nell’affresco della Sala della Pace del Palazzo comunale di Siena, dipinto da Ambrogio Lorenzetti, raffigurante rispettivamente il Buongoverno e il Malgoverno, nella rappresentazione del primo campeggiano le figure della Concordia e della Pace (la Pace, che affianca la figura del Bene Comune, è collocata al centro dell’affresco), nella rappresentazione del secondo compaiono soldati in atto di saccheggiare e di combattere in una campagna incolta e deserta.
La funzione di dirimere i conflitti, il diritto l’adempie in due modi: con un’azione preventiva e con un’azione successiva, ovvero cercando d’impedire che sorgano oppure ponendo a essi fine qualora siano sorti. Alla prevenzione sono rivolte generalmente le norme primarie, le norme i cui destinatari sono gli stessi membri della comunità tra i quali possono sorgere conflitti di varia natura (non solo conflitti d’interesse); alla repressione generalmente le norme secondarie, le norme i cui destinatari sono funzionari pubblici incaricati di far rispettare, anche ricorrendo alla forza, le norme primarie. Esempio delle prime sono le norme sui contratti che occupano una parte cospicua del diritto civile, e stabiliscono le principali modalità che è obbligatorio o conveniente siano seguite affinché gli accordi destinati a rendere compatibili interessi contrastanti sortiscano i loro effetti; esempio delle seconde sono le norme del diritto penale qualora siano interpretate, secondo una tradizione che va da Jhering a Kelsen, come norme rivolte non ai cittadini ma ai giudici, e a maggior ragione le norme del diritto processuale. Che norme giuridiche siano soltanto le norme secondarie (Kelsen) oppure tanto le norme primarie quanto le secondarie e la loro combinazione (Hart), è una questione che qui si può lasciare impregiudicata. Ciò che importa per la caratterizzazione di un ordinamento normativo giuridico distinto da un ordinamento morale o sociale è la legittimità dell’uso della forza per ottenere obbedienza alle norme dell’ordinamento, dove per «legittimo» s’intende il riconoscimento della sua necessità da parte della stragrande maggioranza dei membri del gruppo (ed è appunto questa legittimità che distingue la forza lecita da quella illecita).
Solo tenendo conto di questi due livelli su cui si pone un ordinamento giuridico, si riesce a dare un senso preciso all’espressione, cosí spesso usata specie nei rapporti internazionali, «pace attraverso il diritto». (Peace through Law è il titolo di una nota opera di Kelsen sul diritto internazionale) 23.
Consideriamo l’accordo (o contratto o patto, che assumo qui come sinonimi, pur avendo nel linguaggio tecnico spesso significati diversi) quale l’atto bilaterale o multilaterale con cui due o piú contendenti pongono fine a uno stato di conflitto e stabiliscono fra loro uno stato di pace. Si può parlare correttamente di pace attraverso il diritto o di stato giuridico di pace (e non di stato di pace in generale) solo quando l’accordo avviene in un contesto normativo in cui vi sono non soltanto regole che stabiliscono le modalità per la istituzione di un accordo ma anche regole che stabiliscono quali sono le modalità che debbono essere osservate nel caso in cui l’accordo non venga osservato dall’uno o dall’altro dei contraenti. Per usare espressioni tecniche del linguaggio giuridico, il contesto normativo in cui si può parlare correttamente di pace attraverso il diritto è quello in cui sono previste regole non soltanto per la validità ma anche per l’efficacia dell’accordo. Accordi di cui non è garantita l’efficacia, ovvero l’osservanza, non sono strumenti di pace, ma sono spesso nuove occasioni di conflitto o di guerra.
Prova ne sia che ogni sistema di regole sulle modalità degli accordi si presuppone si fondi, anche solo tacitamente, sulla regola generale che i patti debbono essere osservati («pacta sunt servanda»). Ma questa regola, di per se stessa considerata, è una regola morale, una regola cioè la cui osservanza dipende unicamente dalle buone ragioni che possono essere addotte dai due contendenti per preferirne l’osservanza piuttosto che l’inosservanza. Fra queste buone ragioni c’è certamente quella formulata da Kant con il suo famoso principio della «universalizzabilità» dell’azione come criterio per distinguere ciò che debbo fare da ciò che non debbo fare. Testualmente: «Non debbo mai comportarmi in modo da non poter volere che la mia massima divenga una legge universale». Non ho bisogno di richiamare la vostra attenzione sul fatto che per illustrare questo criterio Kant fa proprio l’esempio della promessa, ponendo questa domanda: «Mi è lecito, quando mi trovo in difficoltà, fare una promessa con l’intenzione di non mantenerla?» Ma se tutti facessero altrettanto che valore si potrebbe dare alla promessa? Che senso ha stipulare dei patti se non si accetta preliminarmente il principio che i patti debbono essere osservati? Del resto, anche la morale utilitaristica è in grado di addurre i suoi buoni argomenti in favore dello stesso principio: quale utilità posso trarre dal non mantenere le promesse quando ammetto, e non posso non ammettere, che gli altri possano fare altrettanto? Ma se ammetto che gli altri possano fare altrettanto che vantaggio posso trarre dal non mantenere la mia promessa? Non ne dovremo trarre la conseguenza che il mantenere le promesse ha senso soltanto in una società in cui il principio che le promesse debbano essere mantenute venga rispettato?
Purtroppo bastano le buone ragioni per fondare razionalmente una regola, ma non bastano per ottenerne con una certa sicurezza l’osservanza. Il tema del fondamento razionale delle massime morali, che impegna giustamente i filosofi, è tanto teoricamente appassionante quanto praticamente irrilevante. Non c’è massima morale che venga osservata soltanto perché sia stata ben fondata. Il dibattito sul fondamento delle norme morali è un tipico dibattito teorico, un mirabile gioco intellettuale, che ha scarsa o nessuna incidenza sui reali comportamenti degli uomini, che seguono piú la passione che la ragione, piú l’interesse immediato che l’interesse a lunga scadenza. Il fondamento razionale di una massima può valere per quei pochissimi uomini che si lasciano guidare dalla loro ragione e quindi persuadere dagli argomenti razionali addotti dai filosofi. Si aggiunga che chiunque viola una massima fondata razionalmente, conta sulla considerazione non meno razionalmente plausibile che tutti gli altri la seguano e quindi non ne venga alcun danno a lui e alla società tutta intera. Se io rubo sul presupposto che tutti gli altri non rubino, posso tranquillamente continuare a rubare. Se io non mantengo le promesse in una società in cui gli altri le mantengono, posso continuare con mio vantaggio, e con poco danno della società, a non mantenerle.
2. Per ottenere l’osservanza dei principî morali occorre ben altro che l’averli giustificati razionalmente. L’esperienza storica dimostra che occorre minacciare pene o terrene o ultraterrene (ove quest’ultime siano credibili, ma l’universo in cui le pene ultraterrene sono ancora credibili si va restringendo sempre piú) tali da costituire una remora per ogni potenziale deviante. A questo punto entra in scena il diritto. Ma è chiaro che al punto in cui entra in scena il diritto, il problema non è piú quello della validità della regola, qualunque essa sia, ma quello della sua efficacia, nel nostro caso specifico, non piú quello del fondamento razionale del principio «pacta sunt servanda» ma della sua effettiva (quanto è piú possibile) applicazione.
La dimostrazione che il principio «pacta sunt servanda» è, in uno stato antigiuridico come lo stato di natura, inefficace, è stata data una volta per sempre da Hobbes. Nessuno può ritenersi obbligato a osservare i patti se non è sicuro che l’altro farà altrettanto. Ma come può essere sicuro nello stato di natura in cui non esiste un potere superiore a entrambi i contraenti, capace di costringere all’osservanza l’inadempiente? Con le parole stesse di Hobbes: «[Nello stato di natura] chi adempie per primo non ha alcuna assicurazione che l’altro adempia in seguito, perché i vincoli delle parole sono troppo deboli per imbrigliare l’ambizione, l’avarizia, l’ira e le altre passioni degli uomini, senza il timore di qualche potere coercitivo, che non si può supporre vi sia nello stato di mera natura, dove tutti gli uomini sono eguali e giudici della giustezza dei loro timori. Perciò chi adempie per primo non fa che consegnarsi al suo nemico, contro il diritto […] di difendere la propria vita» 24.
Un noto studioso di Hobbes, J. W. N. Watkins, in un libro in cui affronta il tema delle decisioni razionali attraverso la teoria dei giochi, trascrive in questi termini quello che, sulla scorta di Hobbes, chiama «il gioco dello stato di natura». «Tizio e Caio sono due uomini hobbesiani in un hobbesiano stato di natura. Entrambi portano con sé un armamento micidiale. Un pomeriggio, mentre sono in cerca di ghiande, s’incontrano in una piccola radura in mezzo al bosco. Il sottobosco rende la fuga impraticabile […]. Tizio grida: “Aspetta! Non facciamoci a pezzi […]”. Caio risponde: “Condivido il tuo stato d’animo. Contiamo: quando arriveremo a dieci ciascuno di noi due getterà le armi alle proprie spalle tra gli alberi”. Ciascuno dei due adesso comincia furiosamente a pensare: è il caso o non di gettare via le armi quando arriviamo a dieci?» 25. Ognuno considera che se nessuno le butta nel timore che l’altro non le butti, ne verrà uno scontro all’ultimo sangue in cui ognuno rischia la morte. Ma considera anche che se lui le butta e l’altro no, la propria uccisione è sicura. E allora? Delle quattro soluzioni possibili, che le butti il primo e non il secondo, il secondo e non il primo, che non le butti nessuno dei due, che le buttino tutte e due, quest’ultima, corrispondente all’osservanza del principio «pacta sunt servanda», non è detto sia la piú probabile. Per Hobbes è tanto poco probabile che l’unica soluzione che egli propone è quella che spinge entrambi non già a buttare dietro le spalle le loro armi, e quindi a mettere in atto una situazione di disarmo bilaterale, ma di consegnarle a un terzo che sia garante d’ora innanzi del rispetto dei patti dei contraenti disarmati, e quindi a porre in atto una situazione di monopolio della forza.
Chi oggi consideri il modo con cui procedono, o meglio non procedono, le trattative per il disarmo tra le due grandi potenze, le quali non riconoscono di fatto alcuna potenza superiore, nonostante l’Organizzazione delle Nazioni Unite, e pertanto possono essere considerate l’una nei riguardi dell’altra in uno stato di natura hobbesiano, se pure a livello di relazioni non tra individui ma tra gruppi (princeps principi lupus), non tarderà a riscontrare l’esattezza della ipotesi hobbesiana: la ragione per cui le trattative del disarmo stentano a procedere verso una conclusione positiva (e di fatto sono sinora sempre fallite, sí che la potenza delle armi è continuamente aumentata da entrambe le parti) sta nel fatto che l’una non si fida dell’altra. Chi comincia per primo in una situazione in cui non è sicuro che l’altro segua o faccia subito altrettanto si mette nelle mani altrui. Ma allora nessuno dei due comincia; pertanto le trattative, anche se condotte verbalmente a buon fine, alla stipulazione di un trattato del disarmo, non è detto producano conseguenze pratiche. Altro è la stipulazione di un patto, altro la sua osservanza. I patti senza la spada, dice ancora Hobbes, sono semplici flatus vocis.
Discorso non diverso deve essere fatto per l’altro principio fondamentale la cui osservanza garantisce la conservazione della pace: «Le leggi debbono essere ubbidite». Anche questo principio è di per se stesso considerato un principio morale, il cui fondamento deve essere cercato in qualche argomento razionale come quello per cui nessun gruppo organizzato può sopravvivere senza norme di carattere generale super partes (a differenza dei contratti che sono inter partes) e senza che queste vengano per lo piú osservate (se si tratta di divieti) o eseguite (se si tratta di comandi). Ma anche questo principio diventa giuridico soltanto là dove la disobbedienza alle leggi conduce a conseguenze negative per il trasgressore, prodotte dall’esercizio del potere coattivo (cioè dall’uso della forza riconosciuto come legittimo). Ancora una volta, se si vuole parlare correttamente della pace attraverso il diritto ci si deve riferire non al principio in quanto tale ma al modo specifico con cui viene fatto valere. Sorvolo sulla questione se tutti i contratti debbano essere osservati, tutte le leggi debbano essere ubbidite. Siccome le fonti del diritto sono poste in ordine gerarchico e i contratti in quanto norme individuali sono fonti inferiori rispetto alle leggi in quanto norme generali, per i contratti la risposta è facile; non sono vincolanti giuridicamente i contratti coi quali i contraenti s’impegnano a compiere atti contrari alle leggi o in frode alle leggi; per le leggi la risposta è piú difficile, perché, anche là dove esiste il controllo giurisdizionale della conformità delle leggi ordinarie rispetto a leggi gerarchicamente superiori, come sono le leggi costituzionali, anche la legge contraria alla costituzione deve essere ubbidita sino a che non ne viene dichiarata l’illegittimità. Nei confronti delle leggi costituzionali al di sopra delle quali non vi sono che le leggi naturali, che sono norme dal punto di vista della loro validità non giuridiche, l’obbligo che hanno le forze politiche di osservarle non è strettamente giuridico ma morale o politico. Tanto è vero che la costituzione materiale, quella che corrisponde alla prassi costituzionale, è spesso molto diversa da quella formale.
3. Le considerazioni fatte sin qui ci permettono di definire con una certa precisione quella corrente di pacifismo che prende il nome di pacifismo giuridico. Le varie correnti di pacifismo si distinguono in base all’interpretazione della causa determinante delle guerre e di conseguenza dei rimedi necessari per attuare uno stato di pace. Di qua l’esistenza di vari pacifismi: politico, sociale, economico, morale, religioso ecc. Il pacifismo giuridico è quello che ritiene essere la guerra effetto di uno stato senza diritto, di uno stato cioè in cui non esistono norme efficaci per la regolazione dei conflitti. Siccome le varie correnti pacifistiche rivolgono la loro attenzione soprattutto allo stato dei rapporti internazionali, rispetto ai quali la guerra è un dato permanente, il pacifismo giuridico è quella forma di pacifismo che concepisce il processo di formazione di una società internazionale in cui i conflitti tra stati possano essere risolti senza il ricorso in ultima istanza alla guerra, ad analogia del processo con cui si sarebbe formato, secondo l’ipotesi contrattualistica, lo stato. È il processo consistente nel passaggio dallo stato di natura, che è stato di guerra, alla società civile attraverso un comune accordo degli individui interessati a uscire dallo stato di guerra permanente. La maggiore o minore stabilità della società civile che nasce dalla eliminazione dello stato di natura dipende dalla natura del patto di unione, se questo sia soltanto un patto di associazione (pactum societatis) o anche un patto di sottomissione (pactum subiectionis).
Secondo l’idea del diritto che qui ho sostenuto, per giungere a uno stato di pace permanente non basta il primo genere di patto, occorre anche il secondo. Un’unione fondata esclusivamente su un patto di associazione è alla mercé della volontà di appartenervi dei singoli membri: in essa la regola «pacta sunt servanda» ha lo status di principio unicamente morale, e pertanto può aver efficacia soltanto in una società di esseri pienamente morali, di esseri cioè la cui condotta non s’ispiri alla massima della morale politica: «Il fine giustifica i mezzi».
Riprendendo una nota distinzione di Kant, si può affermare che, volendo chiamare stato giuridico anche lo stato nascente da un patto di associazione per distinguerlo dallo stato di natura in cui l’individuo agisce per conto suo, bisognerebbe avere l’avvertenza di definirlo stato di diritto provvisorio per distinguerlo dallo stato di diritto perentorio che nasce soltanto quando i membri del gruppo mettono in comune oltre l’uso di parte dei loro beni anche l’uso della forza. Nel linguaggio tecnico dei giuristi il passaggio dallo stato di diritto provvisorio a quello di diritto perentorio corrisponde al passaggio da una confederazione di stati a uno stato federale. Sia però ben chiaro che uno stato di diritto provvisorio, o comunque lo si voglia chiamare, non rappresenta che una prima fase, ancora imperfettissima, nel percorso del processo della pace attraverso il diritto. Le grandi unioni internazionali, come la Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale e l’Organizzazione delle Nazioni Unite dopo la seconda, stanno a dimostrare quanto poco un semplice patto di associazione sia in grado di garantire la «pace perpetua». Se a circa cinquant’anni dalla fondazione dell’Onu non è scoppiata una terza guerra mondiale (ne erano bastati venti per la seconda, nonostante la Società delle Nazioni), non è dipeso certo dall’esistenza delle Nazioni Unite ma da un tacito accordo fra le due superpotenze a non usare l’una contro l’altra le armi nucleari che non avrebbero potuto non essere impiegate in una guerra mondiale. La fase finale del cammino della pace attraverso il diritto è lo stato di diritto perentorio, ovvero quello stato in cui si è venuto costituendo un ordinamento normativo in cui esiste, secondo la definizione di diritto propria del positivismo giuridico, un potere coattivo capace di rendere efficaci le norme dell’ordinamento.
Si può avere una riprova storica di questo processo se si prendono in considerazione i tre principali progetti di pace attraverso il diritto sostenuti da quando le guerre dell’equilibrio europeo prima e quelle napoleoniche poi, sollevarono il problema della eliminazione della guerra come mezzo per risolvere le controversie tra stati: il Projet pour rendre la paix perpetuelle dell’abate di Saint-Pierre (1713), Zum ewigen Frieden di Kant (1795) e De la réorganisatión de la société européenne di Saint-Simon e Thierry (1814). Se una linea di sviluppo si può designare in questi tre progetti, questa corre nella direzione di un sempre maggiore rafforzamento del patto di unione, dal patto di associazione al patto di sottomissione, dalla confederazione alla federazione. L’abate di Saint-Pierre si arresta all’alleanza perpetua fra gli stati, tra i quali dovrebbe instaurarsi una condizione di «paix perpetuelle», dove l’elemento innovatore è la «perpetuità» che di fatto trasforma l’alleanza, vincolo per sua natura labile e temporaneo, in una forma associativa diversa come la confederazione. Il progetto kantiano è già esplicitamente confederale, in quanto comprende un articolo fondamentale come il seguente: «Il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di liberi stati» 26, la quale peraltro, come lo stesso Kant ha cura di avvertire, in quanto lega della pace (foedus pacificum) deve essere tenuta ben distinta dal patto di pace (pactum pacis), perché quest’ultimo ha di mira il porre termine a una guerra determinata, quello invece a tutte le guerre e per sempre. Saint-Simon e Thierry, infine, ritengono insufficiente il semplice patto di associazione che darebbe vita a una mera confederazione, e presentano il progetto di un vero e proprio stato federale, se pur all’inizio limitatamente all’unione della Francia con l’Inghilterra, cioè di un vero e proprio stato nuovo che sorga al di sopra dei vecchi stati destinati a scomparire, in conformità del resto al modello costituzionale da cui erano nati gli Stati Uniti d’America con la costituzione del 1787.
Da allora i progetti di unione federale di gruppi di stati e addirittura di tutti gli stati del mondo si sono moltiplicati. Ed è perfettamente inutile elencarli, una volta individuato il movimento progressivo verso il rafforzamento dei vincoli federali, che è la caratteristica essenziale del pacifismo giuridico (il cui fine ultimo è lo stato universale). Se questa meta sia raggiungibile o meno nessuno è in grado di dire. Allo stato attuale della coscienza civile e morale dell’umanità tutti i progetti di pace perpetua sono egualmente utopistici, sia quello marxista (non il super-stato ma la fine dello stato), sia quello illuminista (il trionfo della ragione), sia quello cristiano (se tutti gli uomini seguissero i precetti del Vangelo…). A ogni modo, ciò che ci si potrebbe aspettare dal pacifismo giuridico è la fine della guerra intesa come uso sregolato della forza («senza misura» per riprendere le riflessioni di Cotta nel suo limpido scritto Perché la violenza?) 27, non la fine dell’uso della forza. Il diritto non può prescindere dall’uso della forza, e si fonda sempre in ultima istanza sul diritto del piú forte, il quale soltanto qualche volta coincide, ma non necessariamente, col diritto del piú giusto.
1 H. SPENCER, Introduzione alla scienza sociale, Fratelli Bocca editori, Torino 1904, p. 181.
2 C. CATTANEO, Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, Le Monnier, Firenze 1960, vol. III, pp. 339-40.
3 F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1965, p. 265.
4 I. KANT, Per la pace perpetua (1795), in ID., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, 2 a ed. 1965, rist. 1978, pp. 293-94.
5 Cfr. J. SCHELL, The Fate of the Earth, Alfred Knopf, New York 1982 (trad. it. Il destino della terra, Mondadori, Milano 1982).
6 J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, II, 7, Einaudi, Torino 1994, p. 57.
7 Cfr. K. JASPERS, Die Atombombe und die Zukunft des Menschen, München 1958 (trad. it. La bomba atomica e il destino dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1960).
8 J.-J. ROUSSEAU, Estratto del progetto di pace perpetua dell’Abate di Saint-Pierre (1761), in ID., Scritti politici, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. II, p. 331.
9 R. ARON, Paix et guerre entre les nations, Calmann-Lévy, Paris 1962, trad. it. Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano 1970, 2 a ed. 1983, p. 197.
10 TH. HOBBES, Leviatano, XIV.
11 N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, I, 46, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1983, p. 164.
12 Particolarmente in Il problema della guerra e le vie della pace (1966) e L’idea della pace e il pacifismo (1975), ora entrambi nel volumetto Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna 1979, 4 a ed. 1997.
13 AA.VV., Studi sulla teoria dell’imperialismo. Dall’analisi marxista alle questioni dell’imperialismo contemporaneo, a cura di R. Owen e B. Sutcliffe, Einaudi, Torino 1977.
14 J. GALTUNG, Imperialismo e rivoluzioni. Una teoria strutturale, Rosenberg & Sellier, Torino 1977.
15 Una buona introduzione al tema, con relativa bibliografia, in AA.VV., Politica di potenza e imperialismo, a cura di S. Pistone, Angeli, Milano 1973. In linea di massima concordo con le tesi sostenute da Pistone nella sua introduzione.
16 N. POULANTZAS, L’état, le pouvoir, le socialisme, Puf, Paris 1978, p. 22.
17 In una lettera del 5 marzo 1978, alla quale Poulantzas non rispose. Mi scrisse invece una lunga lettera l’anno dopo in data 20 aprile 1979 a proposito della critica che gli avevo mosso nel mio intervento sulle tesi che Althusser aveva proposte su «il manifesto», ora nel volumetto, Discutere lo stato, De Donato, Bari 1978, pp. 97-98. (Quando feci questo accenno a Poulantzas, non era ancora avvenuta la sua morte immatura. Lo lascio cosí come lo scrissi quale ricordo di una conoscenza che risaliva a molti anni addietro quando egli era un giovanissimo studioso di filosofia del diritto autore di una monografia sulla «nature des choses»; e proseguita attraverso frequenti incontri, fra i quali mi piace ricordare il congresso hegeliano di Praga del 1967, e un seminario torinese nel 1973).
18 A dire il vero che la forma di governo non fosse rilevante nella ricerca delle cause delle guerre lo aveva già osservato Hamilton nella VI Lettera del Federalist (1788): «È mai, in pratica, avvenuto che le repubbliche si siano dimostrate meno proclivi alla guerra delle monarchie? Non è forse vero che le nazioni sono influenzate dalle medesime avversioni, predilezioni e rivalità che agiscono sui re? ecc.» Cito da A. HAMILTON, J. MADISON, J. JAY, Il Federalista, nuova ed. con introd. di L. Levi, il Mulino, Bologna 1997, p. 167.
19 La resistenza all’oppressione, oggi, in N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, 3 a ed. 1997 [cfr. nel presente volume, capitolo IV, sezione II].
20 Per l’analisi delle due nozioni di legittimità e di legalità, rinvio all’articolo Sul principio di legittimità, ora in Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 79-93.
21 Per una discussione sul problema a mio parere centrale nella teoria generale del diritto, relativo alla distinzione tra norme primarie e norme secondarie e ai loro rapporti, rinvio al libro recente di G. GAVAZZI, Norme primarie e norme secondarie, Giappichelli, Torino 1967.
22 Rinvio al mio articolo Diritto e forza, in Studi per una teoria generale del diritto cit., pp. 119-38.
23 H. KELSEN, Peace through Law, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1944 (trad. it. La pace attraverso il diritto, a cura di L. Ciaurro, Giappichelli, Torino 1990).
24 TH. HOBBES, Leviatano, XIV.
25 J. W. N. WATKINS, Freedom and Decision (trad. it. Libertà e decisione, Armando, Roma 1981, p. 86).
26 I. KANT, Per la pace perpetua (1795), in ID., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto cit., p. 297.
27 S. COTTA, Perché la violenza?, Japadre, L’Aquila 1978, pp. 71 sgg.