Introduzione

L’idea di una teoria generale della politica.

«Non mi sono mai considerato un filosofo nel senso tradizionale della parola, anche se ho insegnato per molti anni due materie filosofiche, la filosofia del diritto e la filosofia della politica, ma l’una e l’altra, come le ho intese io, hanno ben poco a vedere, a mio giudizio, con la Filosofia con la maiuscola. Anzi, ho dedicato spesso alcune lezioni introduttive ai miei corsi per cercare di spiegare agli studenti perché questi corsi, pur essendo intitolati “Filosofia del diritto” e “Filosofia della politica”, non erano svolti da me come corsi propriamente filosofici. La maggior parte delle dispense che hanno studiato gli studenti non le ho mai intitolate Filosofia di…, ma sempre Teoria generale del diritto, Teoria generale della politica, Teoria delle forme di governo, ecc.». Con queste parole Norberto Bobbio iniziava, nel 1980, una lezione sul tema «Che cosa fanno oggi i filosofi?», nell’ambito di un ciclo di conferenze promosso dalla Biblioteca comunale di Cattolica 1. Faccio osservare che soltanto il terzo dei titoli indicati in quell’occasione da Bobbio corrispondeva, allora, a quello di un volume effettivamente pubblicato 2. Dunque, si potrebbe pensare, l’idea di una teoria generale della politica appariva a Bobbio cosí definita, e forse l’intenzione di portarla a compimento cosí netta, che ne parlò (il testo della conferenza poi uscito in un volume collettaneo fu stabilito ricavandolo dalla registrazione) come se fosse un’opera già realizzata.

L’allusione di Bobbio alle due «teorie generali», del diritto e della politica, come a titoli di libri veri e propri non era in realtà che un espediente retorico: serviva per suggerire agli ascoltatori in forma immediata quale fosse l’indirizzo prevalente, anche se non esclusivo, in cui aveva incanalato i suoi studi, nonché il suo insegnamento universitario. Ciò non significa che l’idea di una teoria generale della politica, concepita non solo come un orizzonte di ricerche ma come un’opera da comporre in forma sistematica, non corrispondesse ad un progetto effettivo. Su di esso Bobbio è tornato a riflettere piú volte, almeno a partire dal 1972, anno in cui passò dalla cattedra di Filosofia del diritto a quella da poco istituita di Filosofia della politica (come allora fu chiamata, secondo la ridondante dizione crociana). Ma alla riflessione non è mai seguito il passo decisivo verso la realizzazione; forse anche perché Bobbio è sempre stato consapevole della (relativa) novità e vastità dell’impresa. In molti anni di studi aveva sviluppato la teoria generale del diritto, disciplina affermata e frequentata da molti studiosi, affrontando tutti i principali argomenti del dibattito contemporaneo 3; ma la teoria generale della politica ha continuato ad apparirgli per lungo tempo come «un campo vastissimo e in gran parte inesplorato» 4. Nel 1984, quando alcuni allievi organizzarono un convegno dedicato al suo pensiero politico, in occasione del settantacinquesimo compleanno, e scelsero di intitolarlo «Per una teoria generale della politica», Bobbio affermò, nell’intervento di chiusura, che quel titolo gli pareva indicare «una serie di buoni propositi piú che una consistente realtà». E aggiunse: «Dopo essermi occupato per anni di teoria generale del diritto, ho ritenuto che fosse venuto il momento per affrontare il problema di una teoria generale della politica, molto piú arretrata rispetto alla prima. Ma […] sono rimasto fermo al frammento rispetto alle parti, all’abbozzo rispetto all’intero» 5. L’anno seguente, riunendo nel volume Stato, governo, società quattro voci scritte tra il 1978 e il 1981 per l’Enciclopedia Einaudi – rispettivamente dedicate a «Democrazia/dittatura», «Pubblico/privato», «Società civile», «Stato» –, vi appose come sottotitolo la medesima formula scelta dagli allievi per l’intestazione del convegno: Per una teoria generale della politica. Nella Premessa, datata luglio 1985, spiegava: «Si tratta di temi sui quali mi sono esercitato spesso in questi ultimi dieci anni: singolarmente considerati, costituiscono frammenti di una teoria generale della politica, ancora da scrivere» 6. Molti anni dopo, nel 1998, avrebbe riconosciuto in quell’«ambizioso» sottotitolo «una promessa non mantenuta» 7.

Che cosa Bobbio intendesse, fin dall’inizio, per «teoria generale della politica» sembra emergere, almeno formalmente e in prima approssimazione, dal parallelo piú volte richiamato con la teoria generale del diritto. Un parallelo che Bobbio stesso ha reso esplicito in una recentissima considerazione retrospettiva della propria opera: «ciò che le due teorie hanno nei miei scritti in comune […] è non soltanto il fine, esclusivamente conoscitivo (non propositivo), ma anche il modo di procedere per raggiungerlo. È il procedimento [della] “ricostruzione”, attraverso l’analisi linguistica non mai disgiunta da riferimenti storici agli scrittori classici, delle categorie fondamentali, che permettono di delimitare all’esterno e di ordinare all’interno le due aree, quella giuridica e quella politica, e [di stabilire] i loro rapporti reciproci» 8.

Ognuno può vedere che la teoria generale della politica, cosí concepita sul modello della teoria generale del diritto, risulta non solo diversa, ma in certo senso persino contrapposta, rispetto al modello egemone della filosofia politica quale si è affermato nel dibattito internazionale degli ultimi trent’anni, inaugurato dalla celebre opera di John Rawls, A Theory of Justice (1971). È opinione diffusa che la straordinaria fortuna dell’opera di Rawls abbia addirittura «resuscitato» la filosofia politica, data per morta una quindicina d’anni prima da alcuni suoi cultori 9. Tale modello egemone identifica la filosofia politica con la specie normativa della riflessione sulla politica, che assume come propria direttrice fondamentale la discussione di questioni di valore e di dover essere, di problemi di giustificazione, di orientamenti prescrittivi. Secondo il piú recente giudizio di Bobbio, se è vero che la rinascita della filosofia politica si deve a «un’opera che mira a delineare la miglior soluzione possibile per una giusta società, la teoria generale come io l’ho concepita e abbozzata, appartiene alla fase precedente, peraltro a mio parere nient’affatto superata in questi ultimi anni. Teoria generale della politica e teoria normativa della giustizia possono tranquillamente procedere l’una accanto all’altra senza intralciarsi a vicenda. I loro obiettivi sono diversi. Anche se la prima può aiutare la seconda a perseguire con chiarezza e precisione il suo proprio scopo, e la seconda può fornire alla prima rinnovati oggetti di studio» 10. Questo giudizio equanime aiuta a comprendere che non ha molto senso cercare di separare con un taglio netto teoria generale della politica e teoria della giustizia, e ancor meno stabilire, con una (improvvida) actio finium regundorum, che il nome «filosofia politica» venga riservato esclusivamente alla teoria normativa. Del resto, non ha neppure molta importanza: alla fin fine, si tratta di semplici convenzioni linguistiche 11. Tuttavia, non si può non constatare che l’identificazione oggi corrente tra la filosofia politica tout court e l’universo di discorso riconducibile al paradigma contemporaneo delle teorie della giustizia – un universo che è cresciuto su se stesso a dismisura, come quello di una «nuova scolastica» – rischia di sminuire la funzione, e forse di rendere invisibile l’esistenza stessa, di quella che Bobbio ha chiamato teoria generale della politica. Per avere dubbi su quella identificazione (tendenzialmente) esclusiva, è sufficiente riflettere sulla grande varietà delle prospettive, degli approcci e degli stili filosofici presenti nelle opere classiche comunemente ascritte alla storia della filosofia politica.

La filosofia politica e le sue forme.

Il problema di distinguere le varie forme di filosofia politica, o meglio di classificare le diverse maniere storicamente praticate di interpretarne la natura e i compiti, fu affrontato da Bobbio nella relazione presentata al convegno su «Tradizione e novità della filosofia della politica», svoltosi a Bari nel 1970, che celebrava la nascita accademica della disciplina in Italia. La relazione di Bobbio si poneva in realtà l’obiettivo, indicato nel titolo, di individuare i possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica; ma la tesi sostenuta, che tali rapporti si configurano in modo diverso a seconda del significato che si attribuisce alla nozione di filosofia politica, induceva Bobbio a proporre anzitutto una classificazione di quattro specie principali di filosofia politica: una distinzione che egli stesso presentava, nel commento orale alla relazione, come una «mappa […] delle regioni che i filosofi politici hanno di volta in volta popolato» 12.

Secondo la mappa di Bobbio, la prima specie di filosofia politica coincide con il modo piú tradizionale di intenderne la natura e i compiti, e consiste nella «progettazione […] dell’ottima repubblica», ovvero nella «costruzione di un modello ideale di stato». Il riferimento esplicito era alle utopie, comprese quelle che Bobbio chiama le «utopie a rovescio», come il 1984 di Orwell; ma era implicita la possibilità di estensione ai modelli normativi di «società buona» (o di «società giusta»). La seconda specie di filosofia politica è quella che consiste nella «ricerca del fondamento ultimo del potere»: si tratta di quello che, soprattutto nella tradizione anglosassone, viene interpretato come il problema della giustificazione dell’obbligo politico, e che in altre tradizioni viene inteso come problema dei principî di legittimità del potere politico. La terza specie di filosofia politica è quella che mira alla «determinazione del concetto generale di politica», sia attraverso una riflessione sulla cosiddetta «autonomia della politica» rispetto alla morale, sia attraverso una teoria del potere volta a «delimitare il campo della politica da quello dell’economia o del diritto»: ed è per questa specie che Bobbio – qui per la prima volta, se ho visto bene – suggerisce come appropriato il nome di «teoria generale della politica», ricorrendo all’analogia con la teoria generale del diritto. La quarta (e piú recente) specie di filosofia politica è quella che nasce dall’interpretazione della filosofia in generale come metascienza, e identifica il proprio compito essenziale, per un verso, nell’indagine sui presupposti e sulle condizioni di validità della scienza politica, e per altro verso, nell’analisi del linguaggio politico 13.

In un saggio dell’anno seguente, intitolato Considerazioni sulla filosofia politica, Bobbio spiegava che il suo tentativo di classificazione era nato dalla «constatazione che alla categoria della filosofia politica si sogliono assegnare opere apparentemente molto diverse come la Repubblica di Platone, il Contratto sociale di Rousseau, e la Filosofia del diritto di Hegel» 14. Svolgendo queste considerazioni aggiuntive, Bobbio metteva tra parentesi il quarto significato di filosofia politica, sia perché lo giudicava rimasto allo stato di proposta non molto praticata, sia perché non ne trovava corrispondenza nella filosofia politica classica, «da Platone a Hegel», e gli pareva forse piú pertinente collocarlo tra le forme di filosofia della scienza. Sviluppava quindi la distinzione tra le prime tre specie di filosofia politica, indicando per ciascuna un’opera classica, oltre a quelle suggerite all’inizio, che poteva considerarsi paradigmatica: l’Utopia di Tommaso Moro, il Leviatano di Hobbes e il Principe di Machiavelli. Ponendo a confronto le tre opere, individuava di ciascuna il problema fondamentale e lo riconduceva al tipo di ricerca in cui aveva riconosciuto, nello scritto precedente, una delle tre maniere di interpretare il compito della filosofia politica: la ricerca della miglior forma di governo, quella della giustificazione dello stato, quella della natura della politica.

Se ora torniamo alla mappa «completa», a quattro termini, disegnata da Bobbio nel 1970, è facile osservare che le prime due «regioni», popolate (ad esempio) da Platone e da Moro la prima, da Hobbes e da Rousseau la seconda, vertono principalmente su questioni di valore, o di validità, e possono essere considerate contigue o complementari tra loro, come lo sono i problemi della prescrizione e della giustificazione; mentre le altre due «regioni», popolate da Machiavelli e da Hegel la terza, da Alfred J. Ayer e da Felix E. Oppenheim la quarta, vertono principalmente su questioni di fatto, o meglio di conoscenza, e forse possono anch’esse considerarsi tra loro contigue o complementari, come l’interpretazione della natura delle cose (politiche) e l’analisi concettuale. A questo punto si tratta di vedere se i due versanti, normativo-prescrittivo e interpretativo-analitico, in cui sono raggruppabili le quattro forme di filosofia politica debbano considerarsi nettamente separati e tra loro alternativi, ciascuno costituendo un campo peculiare e distinto della riflessione sulla politica; oppure se si possano, o addirittura si debbano, considerare a loro volta non solo complementari, ma anzi in qualche modo interconnessi. Posto in questi termini, il problema sembra rispecchiare quello piú generale della «grande divisione» tra fatti e valori (su cui dovremo tornare). Bobbio si è sempre dichiarato «un dualista impenitente», per il quale «tra il mondo dei fatti e quello dei valori […] il passaggio è sbarrato» 15. Coerentemente, nelle conclusioni della relazione di Bari sosteneva che là dove la filosofia politica assume un carattere fortemente valutativo, come nelle prime due specie, il rapporto con la scienza politica, che si occupa di descrizioni e spiegazioni avalutative, è di separazione, mentre nel caso delle altre due specie il rapporto con la scienza politica è di continuità o di integrazione reciproca. Di conseguenza, sembrerebbe profilarsi nel pensiero di Bobbio una analoga divisione anche tra quelli che ho chiamato i due «versanti» della filosofia politica.

Ciò nonostante, nelle considerazioni aggiuntive affermava che, ricondotta ciascuna specie di filosofia politica al problema principale – di «fatto» o di «valore» – che essa affronta, la ricerca della risposta a una delle domande fondamentali non solo non esclude la ricerca sulle altre, ma anzi la richiama e la presuppone: «dipende dalla risposta che io dò alla domanda sulla natura della politica (se e in quale misura la consideri dipendente o indipendente dalla morale) la risposta al problema dell’obbligo politico, vale a dire se e in quale misura io sia tenuto a ubbidire all’ordine ingiusto. Dipende dall’idea che mi faccio della natura dello stato, dei suoi fini, la risposta che dò alla domanda quali siano le istituzioni politiche migliori» 16. Se questa asserita «dipendenza» fosse intesa in senso stretto come «deducibilità» dei giudizi di valore sulla condotta che si deve tenere e sulle istituzioni che si dovrebbero preferire dai giudizi di fatto sulla natura della politica o dello stato quali sono, il rischio di incorrere nella fallacia naturalistica (che consiste appunto nell’erronea pretesa di ricavare direttamente ciò che si «deve» da ciò che «è») sarebbe inevitabile; ma suggerisco che tale «dipendenza» non debba essere qui intesa alla lettera, bensí piuttosto interpretata come «connessione», nel senso in cui si dicono connessioni quelle tra le premesse e la conclusione di un ragionamento pratico di tipo sillogistico, che non comporta, se formulato in modo corretto, una violazione della «legge di Hume». Una conferma viene dall’esempio, subito dopo addotto, dell’opera di John Locke, nella quale, secondo Bobbio, «la stretta connessione dei tre problemi appare evidente: a) lo scopo del corpo politico è di dare agli individui la sicurezza della vita, della libertà e dei beni; b) quando il governo non è piú in grado di garantire la sicurezza, l’obbligo politico, cioè l’obbligo di obbedienza, viene meno; c) il modo migliore per ottenere questa garanzia è un legislativo fondato sul consenso e un esecutivo dipendente dal legislativo» 17. L’osservazione non ha qui ulteriori sviluppi. Ma è implicito nel discorso di Bobbio che analoghe «connessioni» possono essere cercate nell’opera di ciascuno dei grandi scrittori da lui distribuiti nelle varie «regioni» della «mappa».

Sono gli scrittori politici che Bobbio considera «classici», anzi, insieme a pochi altri, i classici maggiori; ovvero, secondo la felice espressione di Alessandro Passerin d’Entrèves piú volte ripresa da Bobbio, «gli autori che contano». E contano, per Bobbio, anche in quanto hanno elaborato modelli concettuali di ampio orizzonte, visioni generali dell’universo politico e dei suoi problemi, affrontandone, ciascuno dal suo punto di vista, la complessità. (Va da sé che le concezioni globali offerte dai classici maggiori differiscono tra loro non solo per le diverse soluzioni proposte, ma anche per la differente importanza attribuita all’uno o all’altro dei problemi fondamentali). Ora, è proprio la visione complessiva, la «connessione» tra i temi fondamentali della riflessione politica che sono stati continuamente riproposti e discussi dalla maggior parte degli scrittori politici a cominciare dai greci, ad essere indicata, nella Premessa al volume su La teoria delle forme di governo del 1976, con il nome di «teoria generale della politica». L’espressione, in questo testo e in quasi tutti quelli in cui viene usata in riferimento alla «lezione dei classici», pare dunque assumere un significato distinto da quello costruito in base all’analogia con la teoria generale del diritto. Tant’è vero che in quest’ultimo significato la teoria generale della politica è fatta esplicitamente coincidere con una soltanto delle quattro specie di filosofia politica – o se vogliamo con uno dei due versanti, quello rivolto al fine «conoscitivo», non «propositivo» –, mentre nell’altro significato sembra estendersi fino ad abbracciare tutte le questioni, di «fatto» e di «valore», che costituiscono gli oggetti principali delle varie forme di riflessione filosofica sulla politica: l’esempio della connessione tra i grandi temi nella teoria di Locke è illuminante. Tra questi due significati oscilla nei testi di Bobbio la nozione di teoria generale della politica, ponendo qualche problema all’interprete. Tenterò di mostrare nelle pagine seguenti come si possa superare questa difficoltà.

Teoria e ideologia.

L’occasione per tornare a riflettere su questioni di metateoria, o di «metafilosofia politica», fu offerta a Bobbio da un saggio di Danilo Zolo uscito nel 1985 sulla neonata rivista «Teoria politica» 18. Zolo riprendeva il problema dei possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica, svolgendo considerazioni molto critiche nei confronti della concezione neo-empiristica di scienza (e di scienza politica) in base alla quale Bobbio aveva nel 1970 trattato l’argomento 19; sosteneva che la distinzione tra filosofia e scienza politica è riducibile a una differenza di gradi, che consegue da una diversa «selezione e impostazione dei problemi», onde la filosofia tende a costruire teorie molto generali e inclusive, la scienza, teorie di raggio piú limitato e fortemente specializzate; e ritornando sulla mappa delle specie di filosofia politica, proponeva a Bobbio di emendarla, alla luce degli sviluppi della epistemologia post-empiristica, espungendone quei significati di filosofia politica divenuti ormai (a suo avviso) obsoleti e inaccettabili, primo fra tutti quello di ricerca dell’ottima repubblica.

Nel 1988 Bobbio fu invitato a tenere la relazione di apertura del convegno su La filosofia politica oggi, promosso dai docenti italiani della disciplina, e gli fu chiesto esplicitamente di ridisegnare la mappa della filosofia politica. La relazione, compresa ora nel volume degli atti del convegno, uscito nel 1990, deve essere letta insieme al saggio Ragioni della filosofia politica, redatto da Bobbio nello stesso periodo, che svolge considerazioni parallele e aggiuntive, ripercorrendo le varie fasi del dibattito (non solo italiano) sulla disciplina 20. La relazione al convegno esordisce suggerendo l’opportunità di distinguere due mappe, la «mappa degli approcci», ossia delle diverse maniere – filosofica, scientifica, storica – di accostarsi all’oggetto «politica», e la «mappa delle aree», ovvero delle sfere tradizionali – politica, etica, giuridica, economica – del mondo della pratica. La mappa della filosofia politica risulta dunque in realtà dall’incrocio di due mappe diverse. Quanto all’aggiornamento e revisione della mappa, a Bobbio non pare di aver trovato motivi per modificarla radicalmente, non avendo riscontrato che novità parziali e comunque non sconvolgenti, sia dal punto di vista degli «approcci», sia dal punto di vista delle «aree». I significati di «filosofia politica» individuati nel 1970 sembrano quindi resistere, compreso quello della ricerca dell’ottima repubblica. Se apparentemente «il problema del buon governo ha perduto molta della sua attualità», spiega Bobbio, ciò dipende soprattutto «dal fatto che il problema si è andato spostando dal buon governo alla buona società». E ciò è accaduto perché nel mondo moderno «non si crede piú che per cambiare la società basti cambiare il regime politico, come si poteva credere quando lo stato era tutto e la società fuori dello stato era niente». Ma il problema, nella sua sostanza, è lo stesso; semmai, è meno limitato. Proprio le opere dei filosofi politici che hanno suscitato il piú ampio dibattito negli ultimi anni, dalla Teoria della giustizia di Rawls a Sfere di giustizia di Walzer, non potrebbero essere intese se non come prosecuzioni ideali, e aggiornate, del tema tradizionale dell’ottimo stato: si tratta infatti di «tentativi di proporre soluzioni, o per lo meno di dare indicazioni, per l’attuazione di una buona o migliore società» 21.

L’unica novità rilevante, registrata nella «mappa degli approcci», è consistita, secondo Bobbio, nel «tentativo di dar vita a una teoria generale della politica». Il riferimento è a Zolo e alla sua idea di una sostanziale contiguità tra teoria filosofica e teoria scientifica della politica; ma piú in generale Bobbio si riferisce qui all’impresa lanciata dalla rivista «Teoria politica», che sin dal primo numero, uscito all’inizio del 1985, si proponeva «di mettere a confronto filosofi della politica e scienziati della politica, e di invitare alla collaborazione e all’interazione filosofi e sociologi, storici, politici e giuristi» 22. Nella relazione al convegno del 1988, commentando la ridefinizione della filosofia politica proposta da Zolo in termini di «teoria generale» (rispetto alla «teoria speciale» attribuita alla scienza politica), Bobbio suggerisce che «Zolo avesse in mente, piú che la filosofia politica largamente intesa, la teoria politica considerata, alla maniera della teoria generale del diritto, come l’elaborazione dell’insieme dei concetti generali, dei Grundbegriffe, a cominciare da quello di “politica”, che servono a delimitare, di una disciplina, l’area, e a stabilirne i principali punti di riferimento» 23. In questo testo sembra dunque che Bobbio identifichi ancora sostanzialmente la nozione di teoria generale della politica, come già aveva fatto nella relazione del 1970, con uno soltanto dei quattro significati tradizionali: quello della ricerca della natura della politica. Nel saggio immediatamente successivo, dedicato alle Ragioni della filosofia politica, tale nozione appare arricchita, se non modificata: qui la teoria generale della politica sembra non semplicemente coincidere con una delle specie della filosofia politica, delimitata nel suo oggetto, ma insieme istituire una prospettiva di ricerca potenzialmente aperta alla considerazione e alla riformulazione dei problemi tipici di tutte le altre specie.

In questo nuovo testo, dopo aver sottolineato come la ridefinizione della filosofia politica in termini di «teoria politica», proposta sulla rivista omonima, fosse non solo ammissibile ma persino opportuna, perché «piú adatta a trovare un maggior punto di convergenza di quello che era consentito dalla vecchia espressione “filosofia politica”», soggetta «alle piú diverse interpretazioni e contestazioni» 24, Bobbio torna sul problema dell’insegnamento universitario della disciplina, e ricorda di averne indicato fin dal 1976, nel già citato corso su La teoria delle forme di governo, la «ragion d’essere» nello studio e nell’analisi dei «temi ricorrenti»: ossia di quei temi, come appunto la teoria delle forme di governo, «che attraversano la storia del pensiero politico dai greci ai giorni nostri […], e che in quanto tali costituiscono una parte della teoria generale della politica». Aggiunge quindi che lo studio dei temi ricorrenti, ossia l’ascolto della «lezione dei classici» (insieme ai contemporanei) in riferimento ai grandi problemi continuamente riproposti dalla riflessione politica, serve soprattutto a «individuare alcune grandi categorie (a cominciare da quella generalissima della politica) che permettono di fissare in concetti generali i fenomeni che entrano a far parte dell’universo politico» 25. Il saggio si conclude con la manifestazione di quella che Bobbio chiama, con il consueto understatement, «la [sua] preferenza»: «Oggi la funzione piú utile della filosofia politica è quella di analizzare i concetti politici fondamentali, a cominciare dal concetto stesso di politica. Piú utile, perché sono gli stessi concetti che vengono usati dagli storici politici, dagli storici delle dottrine politiche, dai politologi, dai sociologi della politica, ma spesso senza andare troppo per il sottile nella identificazione del loro significato, o dei loro molteplici significati» 26. Merita ancora di essere sottolineata la precisazione finale: «Contrariamente a una interpretazione limitativa della filosofia analitica, l’analisi concettuale non si risolve nella pura e semplice analisi linguistica, perché questa è continuamente intrecciata con l’analisi fattuale […], da condurre con la metodologia consolidata delle scienze empiriche, di situazioni politicamente rilevanti» 27.

Cosí intesa, la teoria generale della politica – quale risulta, o può risultare, dallo sviluppo sistematico dello studio analitico dei grandi problemi politici, identificati, ridefiniti e discussi (anche) attraverso l’individuazione dei temi ricorrenti nei classici – si rivela non solo una maniera circoscritta, da Bobbio preferita, di interpretare la natura e la funzione della filosofia politica, ma una forma di riflessione sulla politica capace di abbracciare, nella propria specifica prospettiva, le quattro regioni della filosofia politica delineate nella mappa del 1970. Quanto al metodo, che in altro luogo Bobbio ha definito «empirico-analitico» 28, la teoria generale di Bobbio appare riconducibile alla quarta specie di filosofia politica: ma va subito precisato che, per un verso, l’analisi concettuale non si risolve interamente (come abbiamo appena visto) nell’analisi del linguaggio, e per altro verso, nella misura in cui coincide con una analisi linguistica, il suo linguaggio-oggetto non è soltanto quello degli scienziati politici, né soltanto il linguaggio ordinario dei politici o della discussione politica quotidiana, ma anzitutto quello degli stessi filosofi della politica, e soprattutto quello dei classici che lungo i secoli hanno contribuito a plasmare, arricchendolo e modificandolo continuamente, il vocabolario di cui ci serviamo per parlare di politica. Quanto al campo di indagine, ovvero all’universo di fenomeni al quale il vocabolario si riferisce, la teoria generale, appunto perché tale, tende a coprire in via di principio l’intero orizzonte dell’esperienza politica, e non può non affrontare in primo luogo il problema – tipico della terza specie di filosofia politica – della delimitazione del campo medesimo e della ricostruzione delle sue complesse articolazioni interne. La teoria generale viene cosí ad occupare completamente il secondo versante, come l’ho qui chiamato, della filosofia politica, quello rivolto ai «fatti». Ma al tempo stesso viene inevitabilmente a prendere in considerazione i termini dei problemi trattati dalle prime due specie di filosofia politica, che qui ho raggruppato nel primo versante, rivolto ai «valori», senza peraltro assumere direttamente le funzioni di queste. Mantenendo, come teoria non-normativa, lo scopo eminente della chiarificazione concettuale, la teoria generale sottopone ad analisi e ricostruisce i significati descrittivi delle nozioni (e dei giudizi) di valore che vengono impiegati, da parte delle teorie normative (ma anche da parte dei movimenti politici reali), nell’elaborazione di argomenti per la giustificazione o ingiustificazione di azioni e istituzioni politiche, e nella costruzione di modelli prescrittivi di buona convivenza.

L’esempio della teoria delle forme di governo, cui Bobbio ha dedicato due corsi universitari di Filosofia politica, può essere illuminante. Nelle dispense, dopo aver ricordato che «non vi è quasi scrittore politico che non abbia proposto e difeso una certa tipologia delle forme di governo», e dopo aver sottolineato «l’importanza di queste tipologie […] perché attraverso esse sono stati elaborati e ripetutamente discussi alcuni concetti generali della politica, come oligarchia, democrazia, dispotismo, governo misto, ecc.», Bobbio osserva che «generalmente qualsiasi teoria delle forme di governo presenta due aspetti: uno descrittivo e uno prescrittivo». Per il primo aspetto, ogni trattazione del tema si risolve «in una classificazione dei vari tipi di costituzione politica»; ma, sottolinea Bobbio, «non vi è tipologia che abbia soltanto una funzione descrittiva. A differenza del botanico […], lo scrittore politico non si limita a descrivere. Si pone generalmente un altro problema, che è quello di indicare, secondo un criterio di scelta che naturalmente può cambiare da autore ad autore, quale delle forme di governo descritte sia buona, quale cattiva, quale migliore e quale peggiore, ed eventualmente anche quale sia l’ottima, quale sia la pessima» 29. Si potrebbe dunque dire (anche se, come sappiamo, sarebbe riduttivo) che in quanto ricostruisce i concetti impiegati dagli scrittori politici, e piú ampiamente nel linguaggio politico, la teoria generale di Bobbio consiste in un metalinguaggio descrittivo il cui linguaggio-oggetto è in buona parte un linguaggio prescrittivo.

Vero è che il discorso di Bobbio, e non solo negli scritti di «filosofia militante» 30, inclina spesso, al di là della pura ricostruzione, verso la discussione dei criteri di valutazione elaborati dagli scrittori (e dagli attori) politici, degli argomenti normativi e degli orientamenti prescrittivi, e quindi verso il discorso ideologico (nel senso piú ampio e non pregiudicato del termine). Valgono in una certa misura anche per la teoria di Bobbio le osservazioni di Bobbio stesso sulle teorie politiche in genere: la prima, piú blanda e persino ovvia, rileva che «non vi è teoria tanto asettica da non lasciare intravvedere elementi ideologici che nessuna purezza metodologica può eliminare interamente» 31; la seconda, piú forte, sottolinea che «una teoria che riguardi qualche aspetto della realtà storica e sociale è quasi sempre anche un’ideologia, cioè un insieme piú o meno sistematizzato di valutazioni che dovrebbero indurre gli ascoltatori a preferire uno stato di cose a un altro» 32. E tuttavia non si può non rilevare, per converso, quanta parte abbia avuto nella difesa di valori e ideali sostenuta da Bobbio, in tanti anni di battaglie intellettuali, l’operazione in sé non ideologica ma propriamente teorica della ricostruzione di concetti chiari e distinti, il superamento di equivoci mediante l’espunzione di significati ambigui dal linguaggio politico, l’elaborazione di definizioni rigorose e non persuasive delle categorie fondamentali 33. Valga per tutti l’esempio del saggio intitolato Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, che pur essendo uno scritto di filosofia militante, in difesa della libertà di tradizione liberale contro le critiche di chi si poneva dal punto di vista della pretesa (e presunta superiore) «libertà comunista», fonda le proprie argomentazioni sulla ridefinizione e rigorosa distinzione dei due significati di «libertà», e che proprio per questo merita di trovar posto nella teoria generale della politica di Bobbio 34. Voglio ancora aggiungere che anche in questo caso l’opera di ricostruzione concettuale prende avvio dal riferimento a un classico: Benjamin Constant.

La lezione dei classici.

Nella Premessa, datata Pasqua 1973, al volume di dispense relativo al suo primo corso di filosofia politica, intitolato Società e stato da Hobbes a Marx, Bobbio scriveva: «Se avessi voluto dare a questi miei appunti un titolo accademico, li avrei intitolati volentieri La lezione dei classici» 35. Sulla connessione tra lo studio dei classici e l’elaborazione di una teoria generale della politica Bobbio è tornato piú volte. Nella prefazione al volume che raccoglieva la bibliografia delle sue opere dal 1934 al 1983, uscito nel 1984, dopo aver fatto notare che i suoi scritti politici hanno spesso per oggetto gli autori del passato, avvertiva che non sono da considerarsi «propriamente scritti di storia del pensiero politico, perché il loro scopo ultimo è la definizione e sistemazione di concetti che avrebbero dovuto servire alla elaborazione di una teoria generale della politica» 36. Va da sé che tale scopo può essere perseguito soltanto se si intraprende la lettura dei classici con gli strumenti del metodo analitico. Nel saggio sulle Ragioni della filosofia politica, Bobbio difende i meriti della lettura analitica dei testi classici contro le «esorbitanze» dell’interpretazione storicistica e le storture di quella ideologica, perché essa consente di «mettere in evidenza l’apparato concettuale con cui l’autore costruisce il suo sistema, di studiarne le fonti, di soppesarne gli argomenti pro e contro, e in tal modo di apprestare gli strumenti necessari per la comparazione fra testo e testo, indipendentemente dalla vicinanza nel tempo e dalle eventuali influenze di questo su quello, e per la elaborazione di una teoria generale della politica» 37. Fin dal 1965, nella Prefazione alla sua prima raccolta di saggi dedicati ai classici del pensiero politico moderno, intitolata Da Hobbes a Marx, Bobbio aveva dichiarato: «Nello studio degli autori del passato non sono mai stato particolarmente attratto dal miraggio del cosiddetto inquadramento storico, che innalza le fonti a precedenti, le occasioni a condizioni, si diffonde talora nei particolari sino a perdere di vista il tutto: mi sono dedicato, invece, con particolare interesse alla enucleazione di temi fondamentali, al chiarimento dei concetti, all’analisi degli argomenti, alla ricostruzione del sistema» 38.

Illustrando l’uso bobbiano del metodo analitico, Riccardo Guastini lo ha compendiato in un termine-chiave: «distinzione» 39. Aggiungerei, anche se in certo senso è implicito nel primo, un secondo termine: «comparazione». Non vi è quasi testo dedicato allo studio dei classici, in cui Bobbio non insista sulla fecondità dei confronti. Nel passo già ricordato, dove per la prima volta indica alla filosofia politica la prospettiva dello studio dei «temi ricorrenti» nella storia del pensiero politico, che in quanto tali «fanno parte integrante di una teoria generale della politica», assegna a questo studio «una duplice importanza»: da un lato, esso serve come sappiamo ad individuare i concetti politici fondamentali; dall’altro, «consente di stabilire fra le diverse teorie politiche, sostenute anche in tempi diversi, affinità e differenze» 40. L’importanza attribuita da Bobbio alla comparazione tra le teorie politiche di tutti i tempi ha radice nella stessa nozione bobbiana di «classico», e questa, a sua volta, presuppone una determinata concezione della storia.

In un saggio del 1980 su Max Weber, considerato come «l’ultimo dei classici» della filosofia politica, Bobbio indica quali sono i connotati che rendono uno scrittore riconoscibile come classico 41. È una definizione che pone qualche difficoltà. Delle tre caratteristiche elencate da Bobbio la seconda, che definisce classico uno scrittore «sempre attuale, onde ogni età, addirittura ogni generazione, sente il bisogno di rileggerlo e rileggendolo di reinterpretarlo», sembra indebolire, se non rendere sfuggente, il significato della prima, per cui classico è uno scrittore considerato «l’interprete autentico» del proprio tempo; e anche quello della terza, per cui classico è un autore che «ha costruito teorie-modello di cui ci si serve continuamente per comprendere la realtà», e che «sono diventate nel corso degli anni vere e proprie categorie mentali». Se il pensiero di un classico è continuamente reinterpretato in modi differenti e talora persino opposti, quale sarà l’interpretazione «autentica» del proprio tempo da lui consegnata alle sue opere? Come sarà possibile fissarne l’immagine? E in che modo si potranno stabilire precise regole d’uso per le sue «teorie-modello»? I costrutti concettuali non tenderanno a diventare formule vuote, o troppo elastiche? Ma la difficoltà forse maggiore della definizione di classico proposta da Bobbio sembra consistere in una certa tensione, se non incongruenza, tra la prima e la terza caratteristica: come è possibile che una costruzione teorica esprima l’interpretazione (quale che essa sia) di una certa realtà storica, e insieme offra modelli concettuali utili per comprendere anche una «realtà diversa» da quella da cui è stata derivata e a cui è stata applicata – ossia, sembra suggerire Bobbio, per comprendere anche i problemi del nostro tempo? Mi pare che in tal modo venga posta in questione la possibilità stessa della «lezione dei classici» come la intende Bobbio, la possibilità di reperire nelle opere di scrittori antichi e moderni teorie valide, cioè resistenti al tempo. Si potrebbe addirittura dire: la possibilità di riconoscere uno scrittore come classico, nel senso in cui «classico», anche nel linguaggio comune, non è sinonimo di «passato», ma se mai di «permanente»; in senso analogo Marx ammetteva la difficoltà, non tanto di mostrare la connessione dell’arte greca con il suo tempo, ma di spiegare come mai essa continui a rappresentare per noi «una norma e un modello» 42.

Il problema può essere riformulato nei termini seguenti. Non è difficile intendere in che senso una teoria classica può essere considerata una interpretazione diretta o indiretta di una certa epoca, nella misura in cui quella teoria sembra presentare una visione, o meglio una «versione» globale della (sua) realtà: come si dice di un testimone che dà la sua versione dei fatti. È piú difficile intendere come certi costrutti concettuali appartenenti ad una teoria classica, o addirittura la sua struttura categoriale portante, il suo «modello», possano essere considerati validi non solo in relazione alla realtà storica cui si riferiscono ma anche per interpretare realtà epocali differenti, senza per questo presupporre cancellate le differenze stesse. La validità transepocale delle teorie classiche, piú volte sottolineata da Bobbio 43, appare concepibile soltanto se si assume che quelle teorie riescano a cogliere, o a riflettere e rivelare, una sorta di continuità nella storia, che permane nonostante e attraverso le trasformazioni: almeno, una continuità di problemi, a cui di volta in volta vengono date diverse soluzioni. Dal complesso degli scritti bobbiani dedicati ai classici emerge in modo chiaro, anche se non sempre in forma esplicita, la convinzione che una simile continuità sussista, e che trovi espressione e insieme conferma proprio nei «temi ricorrenti», da sempre riproposti e ridiscussi lungo i secoli nella storia del pensiero politico. Come il problema delle forme di governo, quali e quante siano, quale sia la migliore o la peggiore; o i problemi «dell’origine, della natura, della struttura, della destinazione, del fondamento, della legittimità» del potere politico 44. Ma non sono ricorrenti soltanto i problemi, bensí anche, sia pure con innumerevoli varianti (che Bobbio chiama «variazioni sul tema»), le loro differenti impostazioni e soluzioni, di cui è quindi possibile e fecondo riconoscere somiglianze e differenze, raggruppandole in generi e specie, ricostruendo modelli e paradigmi concettuali che si affermano in certi tempi e luoghi, si esauriscono e tramontano, riaffiorano e si rinnovano in altre stagioni e regioni. Di qui, il periodico ripresentarsi di un «ritorno agli antichi», e in generale il riemergere piú volte in forme diverse di concezioni che a un certo punto parevano superate: neo-kantismi, neo-hegelismi, neo-marxismi, ecc. Bobbio cita volentieri l’oraziano Multa renascentur.

Non già, ovviamente, che Bobbio disconosca la realtà dei mutamenti storici, negando la quale la storia stessa si ridurrebbe ad apparenza. Alcuni mutamenti sono anzi da lui giudicati profondi e radicali, e talvolta, sia pure con una certa cautela, irreversibili, il che esclude una visione ciclica del tempo; ma comunque non tali da recidere nettamente la continuità tra il prima e il dopo. Se dovessi illustrare con un linguaggio metaforico, perciò semplificante, la rappresentazione bobbiana del divenire storico – della storia degli eventi reali e di quella del pensiero riflesso, almeno entro l’ambito della cultura occidentale, cui Bobbio si riferisce –, direi che il suo andamento mostra bensí «svolte», in certi (rari) casi tanto drastiche da apparire come «capovolgimenti», ma non vere e proprie «fratture». Certo, Bobbio ha spesso sottolineato la rilevanza della svolta cruciale che segna il passaggio dall’età premoderna all’età moderna, una vera «rivoluzione copernicana» conseguente all’affermazione del primato dei diritti sui doveri 45; ma ha anche ricordato che i classici moderni, da Machiavelli a Montesquieu a Rousseau, hanno continuato a riflettere sulle vicende, sulle istituzioni e sulle teorie degli antichi non soltanto in veste di storici, bensí come studiosi di politica, per trarne insegnamenti. «Non si spiegherebbe – afferma Bobbio nella voce «Stato», redatta nel 1981 per l’Enciclopedia Einaudi – questa continua riflessione sulla storia antica e le istituzioni degli antichi se a un certo momento dello sviluppo storico ci fosse stata una frattura tale da dare origine a un tipo di organizzazione sociale e politica incomparabile con quelle del passato» 46. In un saggio del 1980, rivolgendosi polemicamente a quanti affermavano di scorgere un cambiamento radicale nei «connotati» e nelle «leggi di movimento» della politica, Bobbio ammoniva: «Per non lasciarsi ingannare dalle apparenze e non essere indotti a credere che ogni dieci anni la storia ricominci da capo, bisogna avere molta pazienza e sapere riascoltare la lezione dei classici» 47. Vero è che, in questo saggio, Bobbio ripercorreva la lezione dei classici a partire da Machiavelli; ma precisava subito che si potrebbe risalire «molto piú addietro». Non a caso aveva poco prima citato il passo dei Discorsi sulla prima deca in cui è detto che «tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi».

L’idea della continuità della storia, e del suo inevitabile riflesso nella storia del pensiero, è evidente in quei paragrafi della voce «Stato», appena citata, dove viene discusso il problema se il termine «stato» convenga soltanto allo stato moderno oppure anche alle forme politiche precedenti: dopo aver vagliato gli argomenti in favore della prima tesi, e chiarito che tutto si riduce alla questione se siano da porre in evidenza piú le analogie o le differenze tra il cosiddetto stato moderno e gli ordinamenti anteriori, Bobbio invita alla «constatazione» che «un trattato di politica come quello di Aristotele volto all’analisi della città greca non ha perduto nulla della sua efficacia descrittiva ed esplicativa nei riguardi degli ordinamenti politici che si sono susseguiti da allora sino ad oggi». E poco oltre: «Come la Politica di Aristotele per i rapporti interni, cosí le Storie di Tucidide per i rapporti esterni sono ancor oggi una fonte inesauribile di insegnamenti e punti di riferimento e di confronto» 48.

Si potrebbe dire che, nella prospettiva di Bobbio, a mantenere la continuità tra i classici e noi siamo noi stessi e sono i classici: essi, in quanto inaugurano tradizioni pervasive, che attraverso mille mediazioni giungono ai modi di pensare correnti e al mondo degli usi linguistici quotidiani; e reciprocamente, noi stessi, col nostro sguardo retrospettivo, in quanto ricorriamo in modo piú o meno consapevole al loro patrimonio di idee, rielaborandolo. Ma questo non è che il duplice modo di prodursi e riprodursi, il modo di continuare, di una cultura: in questo senso Bobbio si riferisce alla «cultura occidentale» – «comincio dai greci, per la mia scarsa conoscenza del pensiero orientale» 49 – come alla cultura che abbiamo ereditato, e che possediamo anzitutto nel linguaggio. I confini di questa continuità sono proprio quelli entro i quali «troviamo» classici, finché dura la nostra capacità di riconoscerli come tali. Appare ancora una volta evidente che in questa prospettiva ciò che si tenta di individuare nei classici non è tanto il loro significato storico in senso stretto, quanto piuttosto, come suggerisce Bobbio nell’Introduzione agli Studi hegeliani, «ipotesi di ricerca, motivi di riflessione, idee generali» 50. In tal modo, lo studio dei classici apre la via alla costruzione di una teoria generale della politica.

Dagli «autori» ai concetti per la teoria generale.

Quali siano i classici cui Bobbio ha dedicato maggiore attenzione nella ricerca dei temi ricorrenti, quali siano cioè i suoi «autori», è Bobbio stesso a dichiararlo nella già ricordata Prefazione del 1984 alla bibliografia dei suoi scritti 51. Per sua esplicita ammissione, l’elenco è limitato a dieci nomi, divisi in due serie di cinque – da un lato Hobbes, Locke, Rousseau, Kant e Hegel, dall’altro Cattaneo, Croce, Kelsen, Pareto e Weber –, per amore della simmetria; ma scorrendo l’indice dei nomi del presente volume si possono trarre alcune indicazioni utili ad integrarlo. S’intende che non tutti hanno avuto lo stesso peso nell’itinerario intellettuale di Bobbio. Se dovessi scegliere tra gli autori assiduamente studiati da Bobbio quale abbia lasciato la maggiore impronta sul suo pensiero politico, non avrei dubbi nell’indicare Thomas Hobbes. Aggiungo subito che, a mio avviso, l’influenza su Bobbio di Hobbes, o se si vuole l’ispirazione hobbesiana del pensiero di Bobbio, riguarda piuttosto la forma che non il contenuto 52. Anzitutto si può dire che Hobbes, con la sua vocazione per la precisione e la sobrietà del linguaggio e per le definizioni rigorose, sia stato l’iniziatore nel campo della filosofia politica dello stile analitico in senso moderno, da Bobbio adottato. Non a caso l’opera hobbesiana è stata a sua volta oggetto privilegiato di quella storiografia filosofica di indirizzo analitico che Bobbio ha difeso contro gli eccessi della critica «contestualista». È poi da sottolineare l’affinità tra Hobbes e Bobbio in quell’atteggiamento di fronte ai problemi politici che non saprei chiamare se non «realistico», e che trova una manifestazione radicale, e quasi patologica, in Bobbio come in Hobbes, nell’inclinazione a considerare e a descrivere una situazione sotto la luce piú sfavorevole, a porre un problema nei termini piú difficili per trovare una soluzione soddisfacente 53: basta ricordare, da un lato, le piú celebri formule di Hobbes, homo homini lupus, bellum omnium contra omnes, e dall’altro, l’applicazione proposta da Bobbio del modello hobbesiano al problema dello stato di natura tra gli stati 54.

Ma oltre alla chiarezza derivante dal rigore analitico e all’atteggiamento realistico di fronte ai problemi politici, la somiglianza maggiore tra Bobbio e Hobbes si rivela nella struttura del ragionamento: come quello di Hobbes, anche il pensiero di Bobbio è, nei suoi gangli vitali, dicotomico. Bobbio ha esplicitamente teorizzato l’importanza metodologica generale delle «grandi dicotomie», definite come il prodotto di quel «processo di ordinamento e di organizzazione del proprio campo di indagine» per cui «ogni disciplina tende a dividere il proprio universo di enti in due sottoclassi che sono reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive» 55. Tali sono secondo Bobbio, nel campo del diritto, la dicotomia tra pubblico e privato, e nel campo della politica, per ricordare la piú semplice e comprensiva delle formule da lui coniate, la dicotomia tra stato e non-stato 56, che peraltro riflette in certo modo quella hobbesiana tra stato naturale e stato civile. Accanto alle «grandi dicotomie», e inscritte in esse, nell’opera di Bobbio si incontrano innumerevoli altre dicotomie, da lui chiamate «parziali» e «secondarie». Anche i temi ricorrenti, quali sono da Bobbio individuati e analizzati attraverso lo studio della lezione dei classici, e che debbono essere sistemati, secondo la sua indicazione, nel disegno della teoria generale della politica come articolazioni di questa, possono trovare espressione adeguata e conveniente in formule dicotomiche: come società e stato, politica e morale, democrazia e autocrazia, riforme e rivoluzione, ecc. Suggerisco, come esercizio non futile, di sottolineare le dicotomie esplicite, e di identificare quelle implicite, che costituiscono la vera trama concettuale di questo volume come di tutti gli scritti teorici di Bobbio.

Per costruire le basi della teoria generale della politica attraverso lo studio analitico dei classici, Bobbio ha seguito in prevalenza due strategie complementari: la prima consiste nel partire da una nozione di uso corrente, per ricercarne le differenti interpretazioni nella storia del pensiero politico, spesso inserite in una rete di coppie dicotomiche; la seconda consiste nel partire dall’opera di un grande autore, per enuclearne un concetto fondamentale del linguaggio politico, chiarire il suo significato ed eventualmente distinguere significati in essa confusi, spesso (di nuovo) mediante la costruzione di dicotomie. Della prima strategia sono chiari esempi i saggi bobbiani dedicati alla nozione di società civile 57, e in genere le numerose voci di dizionari ed enciclopedie; della seconda, tra i moltissimi scritti che si potrebbero indicare considero esemplare il saggio su Kant e le due libertà 58, che prosegue e approfondisce la ricerca avviata nella polemica contro i detrattori della libertà liberale. Ma vi è ancora, nell’opera di Bobbio, tutta una serie di saggi in cui l’«arte della comparazione» raggiunge a mio avviso i risultati piú fecondi per la costruzione delle categorie fondamentali di una teoria generale della politica. Sono i saggi in cui Bobbio riconnette vari aspetti del modello concettuale di un classico a quello di altri classici. Tra questi, collocherei al primo posto i saggi dedicati a Il modello giusnaturalistico 59, in cui vengono ricostruite, nel confronto con il modello aristotelico, le costanti e le varianti della teoria che ha accompagnato l’affermazione dello stato moderno, da Hobbes a Hegel «incluso-escluso»; allo stesso genere appartiene anche il saggio famoso su Hegel e il giusnaturalismo 60. Nella prospettiva della teoria generale della politica, per la rilevanza dei temi trattati emergono i saggi su Marx, lo stato e i classici e su Max Weber e i classici 61. Nel primo, Bobbio dichiara di voler «mettere a confronto la teoria politica di Marx» con altre grandi teorie classiche, allo scopo di «individuare, attraverso un procedimento di comparazione per affinità e differenze, quale possa essere il posto della teoria dello stato di Marx nella storia del pensiero politico» 62. Il confronto procede attraverso quattro grandi «partizioni» tra le teorie politiche, che vengono qui distinte in teorie idealistiche e realistiche, teorie razionalistiche e storicistiche, concezioni positive, o dello stato come regno della ragione, e negative, o dello stato come regno della forza, e infine, quale partizione interna a queste ultime, concezioni dello stato come male necessario e come male non necessario. Nel secondo saggio, dopo aver giudicato «sorprendente» lo scarso interesse dimostrato da Weber per i classici della filosofia politica, afferma che anche se si ammettesse «che la teoria politica weberiana sia stata elaborata prescindendo da qualsiasi modello precedente, non vuol dire che non sia comparabile con la tradizione». Aggiunge anzi che «la comparazione è tanto piú necessaria quanto piú il pensiero politico weberiano sembra aver operato […] la rottura con una tradizione che da Platone a Hegel ha mostrato una straordinaria vitalità e continuità. Soltanto la comparazione permette di rispondere alla domanda fondamentale: come s’inserisce la teoria politica weberiana nella tradizione del pensiero politico occidentale, di cui pure sembra non aver tenuto gran conto? quali sono gli elementi di rottura e quali quelli di continuità?» Bobbio ritiene fondamentale questa domanda, «perché solo dalla risposta ad essa […] può venire la piena comprensione di un’opera estremamente complessa» qual è quella weberiana 63. Dopo aver sottoposto a minuziosa analisi la definizione dello stato, la teoria dei tipi di potere e la teoria del potere legale-razionale di Weber, e dopo aver comparato queste definizioni e teorie weberiane con le grandi teorie del passato, ne conclude, e c’era da aspettarselo, che «il collegamento col passato c’è: si tratta di saperlo vedere»; anche se ovviamente «il nesso inevitabile fra Weber e i classici non toglie nulla all’originalità del suo pensiero» 64.

«Stato» e «potere», i temi fondamentali oggetto di analisi nei saggi su Marx e su Weber ora ricordati, possono considerarsi le categorie primarie attraverso cui Bobbio giunge alla determinazione del concetto generale di politica.

La politica e i suoi confini.

Dei tre contributi che Bobbio ha esplicitamente indicato come «abbozzi» 65 rispetto al disegno complessivo della teoria, i primi due, la voce «Politica» redatta alla metà degli anni ’70 per il Dizionario di politica dell’Utet, e il saggio La politica uscito in un volume collettaneo nel 1987 ma composto alcuni anni prima (che nel presente volume 66 sono intitolati rispettivamente Il concetto di politica e I confini della politica, e saranno qui di seguito richiamati per brevità come «voce» e come «saggio»), perseguono entrambi lo stesso scopo di definire l’oggetto generale della teoria tracciandone i confini rispetto alle altre «aree» del mondo della pratica, o dell’«agire sociale». Inevitabilmente, i due tracciati si assomigliano, e gli itinerari concettuali proposti da Bobbio per delinearli, benché il secondo sia piú completo del primo, finiscono per sovrapporsi in larghi tratti; ma non senza varianti meritevoli di considerazione.

La voce inizia con l’origine della parola «politica», derivata da politikós, l’aggettivo di pólis, e giunge cosí ad una prima definizione formale della nozione di politica, mediante la quale tale nozione viene connessa a quella di stato (nel senso piú ampio). Risulta pertanto definita come «politica» la sfera delle «attività» che hanno come «termine di riferimento» lo stato. Ma le attività politiche vengono subito distinte in due tipi, secondoché il corso dell’azione proceda dallo stato, ossia la pólis ne sia il soggetto, come negli atti eminentemente politici del comandare e del legiferare, oppure proceda verso lo stato, o meglio verso il «potere statale», che è l’oggetto di atti parimenti politici come il conquistare o l’abbattere tale potere 67. In questo modo la nozione di stato come termine di riferimento diretto della nozione di politica tende implicitamente a risolversi in, e ad essere sostituita da, quella di potere, di volta in volta principio o fine dell’attività politica. Se passiamo al saggio, nella definizione iniziale di politica, anche qui identificata con una «sfera di azioni», i due processi dell’agire politico vengono indicati brevemente dai termini «conquista» ed «esercizio», senza rilievo particolare per la loro distinzione, con riferimento diretto al «potere ultimo (o sommo o sovrano)», e soltanto indiretto alla «comunità di individui» e al «territorio» 68. Peraltro, ognuno può riconoscere in questa definizione i tre elementi costitutivi della piú comune nozione giuridica di stato. Ma non c’è dubbio che delle due nozioni primarie attraverso cui Bobbio costruisce la definizione di politica, la principale è quella di potere. Anche perché è la piú comprensiva: nel modello di Bobbio, la sfera del potere è piú ampia di quella della politica, e questa è piú ampia della sfera dello stato.

Se è vero che non si può concepire in alcun modo la politica senza potere, è anche vero che non ogni potere è politico. Nella voce, dopo aver brevemente analizzato la tipologia classica delle forme di potere – paterno, dispotico e politico – nella teoria di Aristotele, basata sul criterio dell’«interesse di colui in favore del quale viene esercitato il potere», e nella teoria di Locke, basata sul criterio dei principî di legittimità, la giudica in entrambe le versioni inadeguata ad identificare il potere politico come tale: governi paternalistici e dispotici non sono in realtà «meno governi», ossia meno «politici», di quelli esercitati nell’interesse pubblico o legittimati dal consenso 69. Quindi propone come adeguata la tipologia che chiama «moderna», quella che distingue tre classi principali di potere – economico, ideologico e politico – fondandosi sul criterio dei «mezzi di cui si serve il soggetto attivo del rapporto per condizionare il comportamento del soggetto passivo» 70. La tipologia di Bobbio, che nella sua semplicità e apparente ovvietà è in grado di abbracciare la maggior parte delle teorie sociali contemporanee, risulta chiaramente costruita mediante l’estrapolazione, e l’estensione per analogia all’intero ambito del concetto latissimo di potere, della celebre definizione weberiana del potere politico in base al «mezzo specifico» della forza fisica. Tant’è vero che approda alla medesima caratterizzazione del potere politico come «potere coattivo» ed «esclusivo», ovvero detentore del monopolio dell’uso della forza (o dei mezzi di coazione).

Il riconoscimento del legame necessario tra il potere politico e la forza costituisce per Bobbio il nucleo essenziale di una concezione realistica della politica, come tale capace di farne comprendere la «verità effettuale». Rispetto alla quale, giudica fuorvianti le tradizionali concezioni teleologiche, che definiscono la politica non in base al mezzo ma al fine o ai fini che essa persegue. Sembra anzi accogliere senza riserve il noto rifiuto weberiano di considerare caratterizzante per il potere politico lo scopo oltre che il mezzo, sino ad affermare perentoriamente che «non si dànno fini della politica una volta per sempre stabiliti, e tanto meno un fine che tutti li comprenda e che possa essere considerato il fine della politica» 71. Tuttavia, Bobbio corregge in parte questa drastica affermazione ammettendo che «si possa parlare correttamente per lo meno di un fine minimo della politica: l’ordine pubblico» 72. In realtà, la critica delle concezioni teleologiche serve a Bobbio per escludere come inadeguate le definizioni non descrittive della politica, che chiama «persuasive», ossia quelle «che attibuiscono alla politica fini diversi da quello dell’ordine, come il bene comune […] o la giustizia», o altre nozioni di fine «come felicità, libertà, eguaglianza». In altre parole, sostiene Bobbio, non si può far ricorso a nozioni di valore «troppo controverse […] per individuare il fine specifico della politica»; ma in tal modo Bobbio sembra concedere, contrariamente al precedente rifiuto perentorio, che esista appunto un fine specifico, e non soltanto il mezzo specifico, della politica – ancorché sia un fine «minimo», che «fa tutt’uno col mezzo». Tant’è vero che critica, subito dopo, la teoria secondo cui il carattere politico del potere consisterebbe nell’essere fine a se stesso: «se il fine della politica […] fosse davvero il potere per il potere, la politica non servirebbe a nulla» 73.

Ma nel saggio – dove la ricostruzione del concetto di politica presenta varianti e arricchimenti rispetto alla voce, e segue un percorso in parte diverso, e per il primo tratto inverso, nell’ordine degli argomenti – Bobbio torna a ribadire perentoriamente che «dal punto di vista del giudizio di fatto, che solo permette di contraddistinguere l’azione politica dalle azioni non-politiche», il criterio del fine è inadeguato. Ammette bensí di nuovo che uno «scopo minimo di ogni stato» esiste, e lo riconosce nell’ordine pubblico interno e internazionale; ma si tratta di poco piú di un accenno, subito soverchiato dall’insistenza sul criterio del mezzo, in base al quale viene riformulata la tipologia delle specie di potere 74.

La tripartizione delle forme di potere nelle tre classi del potere politico, del potere economico e del potere ideologico consente a Bobbio, nella voce e nel saggio, di passare al problema dei «confini della politica», distinguendola rispetto alle due sfere sociali contigue, quella religiosa, o genericamente spirituale o intellettuale, e quella economica, o della società civile nel senso hegelo-marxiano dell’espressione. Sono quelle che nella voce Bobbio ha chiamato le due sfere del «non-stato» 75. Stranamente, in nessuno dei due scritti trova adeguato rilievo un’altra distinzione, presente in contributi diversi, mediante la quale Bobbio chiarisce che se la sfera della politica è (o meglio, è storicamente divenuta) piú ristretta della sfera sociale generale, è però anche (divenuta) piú ampia della sfera dello stato. La stessa emancipazione della società civile (in senso lato) dallo stato ha consentito la creazione in essa di gruppi di interesse e di opinione che, in quanto contribuiscono in maniera diretta o indiretta alla formazione delle decisioni collettive (valide coattivamente erga omnes), svolgono attività propriamente politica, e sono perciò a pieno titolo gruppi politici, pur non essendo parti dello stato-istituzione o dello stato-apparato 76.

Accanto e al di là della distinzione tra sfera politica e sfera sociale, nella voce e nel saggio Bobbio affronta in breve il problema della distinzione tra politica e morale e (solo nel saggio) di quella tra politica e diritto, entrambe sviluppate con ricchezza di analisi in altri contributi specifici 77. Nel saggio, Bobbio chiarisce opportunamente che la prima distinzione, tra politica e società, e le altre due si collocano su piani diversi, rispettivamente quello dell’essere, dove si pongono questioni di fatto, e quello del dover essere, dove si pongono questioni di valore, o meglio di norme. Altro è il problema dei caratteri che di fatto contraddistinguono l’agire politico, e del potere politico, da altri tipi di agire e di potere, altro il problema delle norme che valgono, o dovrebbero valere, per l’agire e per il potere politico. Morale e diritto sono, nel linguaggio di Bobbio, due tipi di sistemi normativi (all’interno di ciascuno dei quali troviamo differenti codici concreti, rispettivamente etici e giuridici), che possono in via di principio applicarsi – indipendentemente l’uno dall’altro, e a prescindere dal rapporto tra di loro – alle piú diverse sfere di attività, dunque anche all’azione politica, ma non solo ad essa. Il problema del rapporto tra diritto e politica appare piú «complesso», sia rispetto al rapporto tra morale e politica, sia rispetto a quello tra il diritto e le altre sfere dell’agire, perché si tratta di un rapporto di «interdipendenza reciproca»: ovvero, spiega Bobbio nel saggio, per un verso «l’azione politica si esplica attraverso il diritto», per l’altro «il diritto delimita e disciplina l’azione politica» 78. Di qui, il tema ricorrente della relazione reversibile tra legge e potere sovrano, e la difficile questione del primato dell’una sull’altro o viceversa. Ma il problema del rapporto tra morale e politica appare piú difficile rispetto a quello del rapporto tra diritto e politica, e soprattutto piú grave rispetto a quello tra la morale e le altre sfere di attività umana, perché ciò che da sempre viene in discussione è se sia plausibile porre la questione stessa della liceità o illiceità morale per l’agire politico, almeno se sia plausibile porla nei medesimi termini in cui si pone per gli altri tipi di agire. Il tema ricorrente del rapporto tra etica e politica riemerge continuamente dalla ripetuta constatazione del contrasto, che pare immodificabile, tra la politica e la morale corrente: di qui la ricerca, in cui si è impegnata la filosofia politica in ogni tempo, di spiegazioni e giustificazioni di questo fatto, «di per sé scandaloso» 79.

Nella sua forma piú acuta, suggerisce Bobbio nel saggio, il problema si è posto con la formazione dei grandi stati territoriali moderni, dove «la politica si rivela […] come il luogo in cui si esplica la volontà di potenza» 80. Ognuno può vedere che in una affermazione come questa – presa isolatamente estrapolandola dal contesto, e dunque senza tener conto della ricostruzione e della discussione condotta da Bobbio delle differenti soluzioni storicamente proposte al problema del divario tra etica e politica 81 – si affaccia nel discorso di Bobbio una concezione «realistica», o un aspetto di essa, che va al di là della pura e semplice considerazione avalutativa che lo ha condotto a rifiutare le concezioni idealizzanti implicite nelle definizioni teleologiche della politica, in molti casi non descrittive ma «persuasive»: un «realismo politico» piú vicino al significato corrente (peraltro ambiguo) di questa espressione, che non consiste semplicemente in una visione della realtà scevra da valutazioni, ma che tende a descrivere la stessa realtà politica come un mondo refrattario ai valori; anzi, in definitiva, implicitamente connotato di valore negativo. Per un primo aspetto il realismo, diciamo cosí metodologico, fa comprendere la «verità effettuale» definendo il potere politico – termine di riferimento ineludibile dell’intero ambito di attività che chiamiamo politiche – mediante il «mezzo specifico» della forza; per il secondo aspetto il realismo, che potremmo chiamare sostanziale, è portato a riconoscere nella politica il teatro della violenza e della frode e a vedere difficilmente nel potere altro volto se non quello «demoniaco». Da un lato, il realismo è uno sguardo sulla realtà politica non condizionato da giudizi di valore; dall’altro, è anche un’immagine della medesima realtà simile a quella attribuita ai machiavellici, e per lo piú giudicata assiologicamente negativa, anzi terribile. I due aspetti sono mal distinguibili, e anche se non c’è dubbio che quando Bobbio dichiara la propria adesione al realismo si riferisca al primo, sono entrambi presenti (come vedremo meglio in seguito) nell’opera bobbiana.

Ciò non significa che Bobbio inclini ad accogliere una versione estrema, iper-realistica, della cosiddetta autonomia della politica: per lui, la politica non si sottrae affatto, come ogni altra sfera dell’agire umano, al giudizio morale, «anche se […] di una morale diversa, o in parte diversa dalla morale comune» 82. «Nonostante tutte le giustificazioni della condotta politica che devia dalle regole della morale comune, il tiranno resta il tiranno, e può essere definito come colui la cui condotta non riesce a essere giustificata da nessuna delle teorie che pur riconoscono una certa autonomia normativa della politica rispetto alla morale» 83. Anche ammesso – e non in ogni caso concesso – che il fine giustifichi i mezzi, resta comunque il problema morale della «legittimità del fine» 84, e il fine dell’azione politica non può essere (non è lecito che sia) semplicemente il potere per il potere; o meglio, quando lo è, l’azione resta ingiustificata. Le considerazioni di Bobbio sulla legittimità morale del fine possono essere connesse alla distinzione tra potere di fatto e potere legittimo, che si incontra nel saggio come aspetto del rapporto tra politica e diritto, e che riapre in certo senso il problema della natura stessa del potere politico. Spesso sembra che Bobbio sia orientato ad escludere la legittimità – una nozione a cui «si ricorre […] per dare una giustificazione del potere» 85 – dai connotati identificanti il potere politico come tale: per essere riconosciuto come politico, è sufficiente che un potere sia coattivo ed esclusivo, non necessariamente legittimo. Il potere che un tiranno effettivamente esercita è «politico» anche se non è legittimo (se non è autorizzato: tyrannus ex defectu tituli), e anche se la sua azione è moralmente e giuridicamente ingiustificabile (tyrannus ex parte exercitii). Tuttavia la stessa effettività del potere, cioè il fatto che un certo potere riesca ad imporsi efficacemente, e a farsi obbedire continuativamente, richiama un certo bisogno di legittimità. L’effettività, ovvero «la continuità di un potere esclusivo su un determinato territorio», non è «un mero fatto», bensí è anche «la conseguenza di una serie di comportamenti motivati, alla cui motivazione bisogna risalire per giudicare del grado di legittimità di un potere in una determinata situazione storica» 86. E infatti non vi è tiranno (o governo dispotico, o dittatura golpista) che non ricerchi una qualche giustificazione legittimante. Insomma: un potere politico è di fatto politico anche se non è legittimo, ma nessun potere politico è un puro potere «di fatto», bensí ha (di fatto) bisogno di legittimazione, e non può ricercarla «se non richiamandosi a valori, o a regole date che alla loro volta sono espressioni di valori» 87. Anche se ciò non implica, ovviamente, che le pretese giustificazioni addotte dai detentori effettivi di un potere siano credibili, né soprattutto che non siano contestabili mediante il riferimento ad altri valori e principî ideali.

Incontriamo cosí di nuovo il problema dei valori e del rapporto tra i valori e i «fatti», che è tra i piú complessi e spinosi per il lettore degli scritti teorici di Bobbio, e che nel suo aspetto piú formale riguarda la natura stessa della teoria generale della politica.

Il problema dei valori.

«Le parole del linguaggio politico non sono assiologicamente asettiche. Hanno un significato descrittivo e un significato emotivo che mal si distinguono tra loro. E il significato emotivo può essere positivo o negativo, secondo chi usa la parola e il contesto in cui viene usata» 88. Da affermazioni come queste non si deve inferire che per Bobbio i concetti politici siano «essenzialmente contestabili», ossia in se stessi controversi, come invece hanno sostenuto (ancora di recente) alcuni filosofi politici, riprendendo una tesi avanzata negli anni ’50 da W. B. Gallie 89. O meglio, le controversie che da sempre insorgono intorno ai concetti politici non sono radicalmente insolubili, secondo Bobbio, proprio perché dal significato «emotivo» – «essenzialmente contestabile» in quanto esprime adesione o rifiuto, e rinvia a passioni, preferenze, ideali – è in via di principio separabile un significato descrittivo, o esplicativo, assiologicamente neutrale. La disgiunzione dei due tipi di significato mediante la ricostruzione in termini puramente descrittivi dei concetti politici – e soprattutto delle nozioni come libertà, eguaglianza, giustizia, democrazia, pace, che vengono comunemente indicate come «valori» – non solo è possibile e opportuna per orientarsi nella realtà senza farsi condizionare da pregiudizi, ma non costituisce in alcun modo uno snaturamento di tali concetti. Le definizioni assiologicamente neutrali non «sterilizzano» i valori, o meglio non impediscono le opzioni di valore che sono una componente essenziale dell’agire politico (né potrebbero farlo), ma al contrario possono contribuire a renderle ragionevoli e sensate. Quando uscí, presso Feltrinelli nel 1964, la traduzione italiana del libro di F. E. Oppenheim sulle Dimensioni della libertà, nacque una vivace discussione appunto sulla possibilità e opportunità di ridefinire la libertà, come l’autore aveva tentato di fare, in modo avalutativo. Bobbio fu il solo, allora, a difendere con fermezza quel tentativo dall’accusa di «togliere senso» ai reali problemi di scelta politica, rovesciandola completamente: «Che senso […] avrebbe il dire “preferisco la libertà” se non si stabilisse prima in quale dei sensi descrittivi di libertà uso questa parola nel contesto?» E aggiunse: «Un discorso sulla libertà […] ha senso soltanto se si appoggia su un significato descrittivo ben determinato e ben delimitato del termine: il significato valutativo viene dopo, è un significato aggiunto. Che “libertà” abbia un significato valutativo vuol dire soltanto questo: che usando questo termine io indico, oltre che una situazione cosí e cosí determinata, anche una situazione “buona”, che raccomando. Ma ciò che conta in un discorso sulla libertà non è tanto sapere che quella situazione di cui si parla è desiderata e raccomandata, bensí che cosa l’interlocutore desidera e raccomanda» 90.

Inoltre, la ricostruzione del significato o dei diversi possibili significati descrittivi delle nozioni di valore è per Bobbio il solo modo, o il piú efficace, per superare (fin dove si può) la rigidità delle contrapposizioni ideologiche, o almeno per mitigarla, contribuendo a dissolvere le diffidenze e i pregiudizi che spesso hanno radice negli usi equivoci o ambiguamente evocativi dei termini del linguaggio politico, e aiutando perciò la comprensione reciproca, anche se questa non equivale senz’altro alla composizione del contrasto con l’accettazione delle altrui posizioni. Erano proprio questi gli scopi pratici – oltre allo scopo teorico, valido di per sé, del chiarimento del problema – che Bobbio si era proposto nell’intraprendere, con l’articolo del 1954 intitolato ironicamente Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, l’opera di chiarificazione e distinzione dei diversi significati descrittivi del termine «libertà», come contributo allo storico dibattito avviato alcuni anni prima da Bobbio stesso con un «invito al colloquio» rivolto agli intellettuali comunisti 91. La ricerca analitica sul concetto di libertà è stata poi proseguita e perfezionata da Bobbio in numerose altre occasioni, al di fuori di ogni polemica pratica, assumendo come punto di partenza le distinzioni formulate in quella sede. Mentre in quell’articolo i due significati descrittivi venivano distinti tra loro identificando il primo, ossia la libertà «liberale» come facoltà di compiere o non compiere certe azioni, con il «non-impedimento», e il secondo, ossia la libertà «democratica» come potere di dare leggi a se stessi, con la «non-costrizione» 92; quest’ultima caratterizzazione è abbandonata nel saggio su Kant e le due libertà, e viene sostituita per indicare la libertà democratica da quella di «autonomia» 93. Successivamente, nella voce Libertà scritta per l’Enciclopedia del Novecento 94 la «non-costrizione» viene addirittura riassorbita nella definizione della prima libertà, la libertà liberale detta anche, seguendo l’uso ormai invalso, «libertà negativa», diventandone un aspetto complementare a quello del «non-impedimento», mentre l’«autonomia» rimane il connotato essenziale della seconda libertà, la libertà democratica detta anche «libertà positiva»: ciò in quanto, da un lato, la non-costrizione e il non-impedimento vengono ora da Bobbio riferiti entrambi alla libertà dell’«azione», dall’altro l’autonomia viene riferita alla libertà della «volontà», una volta riconosciuta la dicotomia tra le sfere dell’agire e del volere (peraltro già emersa nel primo scritto) come la piú pertinente a distinguere i diversi significati descrittivi di libertà. Ma in ulteriori contributi Bobbio aggiunge un terzo significato, oltre ai due principali (anch’esso già comparso nel dibattito degli anni ’50, nell’articolo conclusivo in cui Bobbio rispondeva a un intervento di Togliatti): la «capacità giuridica e materiale» o «potere positivo» di fare concretamente «quello che la libertà negativa permette di fare» 95. Questa terza libertà viene però chiamata da Bobbio anch’essa «libertà positiva», provocando qualche confusione con la libertà come autonomia, o libertà politica, che piú comunemente viene indicata con quell’aggettivo.

L’altra nozione di valore che ha impegnato ricorrentemente la riflessione di Bobbio nella ricerca di definizioni esplicative e distinzioni analitiche è quella di eguaglianza. Negli scritti dedicati a questa nozione, emerge con particolare evidenza una caratteristica peculiare del metodo di Bobbio: l’analisi concettuale viene orientata mediante la formulazione di domande-chiave, semplici ed efficaci, individuate come pertinenti alla natura specifica del concetto in esame. Seguendo questo procedimento, la nozione indeterminata di eguaglianza viene scomposta e precisata nei suoi differenti ambiti di significato in base alle diverse possibili risposte, e combinazioni di risposte, alle domande: eguaglianza tra chi? ed eguaglianza in che cosa? Ma sottolineo che la medesima tecnica viene applicata, mutatis mutandis, a molti altri problemi di analisi concettuale, per esempio a quello stesso della libertà (di cui ci si deve chiedere anzitutto: libertà di chi? e da che cosa?) o a quello della tipologia delle forme di governo (che nelle teorie classiche vengono distinte in base alle risposte combinate alle domande: chi governa? e come governa?) È una tecnica, o un metodo, che si affianca a quella della costruzione di dicotomie (piú precisamente, alla determinazione di un concetto per contrapposizione al suo opposto) e si integra con essa attivando quello che Bobbio chiama – con una espressione paretiana ripresa in senso ironico – il suo «istinto delle combinazioni», e conducendo alla tessitura di una trama fittissima di distinzioni concettuali.

Sarebbe quasi superfluo ricordare qui che la dicotomia tra eguaglianza e diseguaglianza, e quella derivata tra egualitarismo e antiegualitarismo, sono per Bobbio alla base della contrapposizione tra destra e sinistra, tema di un suo fortunato libretto, se non fosse per il fatto che, proprio riferendosi alle polemiche seguite a tale pubblicazione, Bobbio ha avuto modo di ribadire nella forma piú chiara la tesi della disgiungibilità tra la descrizione delle nozioni di valore e l’adesione a posizioni valutative. Vale la pena riportare per intero il passo: «Quando ho scritto il libretto Destra e sinistra non ho potuto fare a meno di distinguere nettamente l’analisi concettuale, attraverso la quale ho fissato il criterio di distinzione fra le due parti contrapposte dell’universo politico, dalla mia presa di posizione in favore della sinistra. Gli argomenti usati, rispettivamente nel condurre l’analisi e nel sostenere l’opinione di valore, sono diversi. Anche gli interlocutori si sono divisi tra coloro che hanno approvato il criterio di distinzione ma rifiutato la mia preferenza e coloro, al contrario, che pur collocandosi dalla mia stessa parte hanno ritenuto che il criterio di distinzione da me presentato fosse sbagliato. Anche se è pure accaduto che alcuni di coloro che respingono la mia scelta abbiano insieme rifiutato il mio criterio analitico: ma tra le due negazioni non c’è un rapporto necessario» 96.

Secondo Bobbio, «il concetto e anche il valore dell’eguaglianza mal si distinguono dal concetto e dal valore della giustizia nella maggior parte delle sue accezioni» 97. In realtà, la nozione di giustizia – che insieme a quelle di eguaglianza e di libertà compone il trittico dei valori politici «sommi», ed è tornata al centro della filosofia politica dopo l’opera di Rawls (anche se in un significato che è divenuto a mio avviso, col lievitare del dibattito tra i filosofi normativi, latissimo e quasi sfuggente) – ha una struttura piú complessa, che Bobbio chiarisce ricostruendo il nesso circolare tra eguaglianza, legge e ordine come suoi fattori determinanti e ricorrenti, anche se diversamente accentuati nelle varie dottrine 98. Ora, proprio la maggiore accentuazione, che mi pare si possa riscontrare nel complesso dell’opera politica di Bobbio (ma non nel saggio cui si è appena accennato), del legame tra giustizia ed eguaglianza, rispetto a quelli tra giustizia e legge e tra giustizia e ordine, si potrebbe ritenere non sia indipendente dal fatto che all’eguaglianza viene riferita implicitamente la nozione di giustizia nel binomio «giustizia e libertà»: il motto del liberalsocialismo, o socialismo liberale, che è l’ideologia di Bobbio. Si tratta forse di un condizionamento dell’adesione al valore sulla descrizione del concetto, ovvero dell’ideologia sulla teoria? Può darsi. Ma comunque anche le ideologie, che sono riconducibili a costellazioni di valori, benché non si risolvano in esse 99, si possono secondo Bobbio «descrivere», oltre che assumere o respingere (anzi, prima di farlo). Proprio a proposito del socialismo liberale, al quale dichiara di essere «rimasto fedele da quando ho iniziato la mia militanza politica […] sino ad oggi», Bobbio ribadisce: «La ricostruzione del significato, o dei significati, di questo concetto complesso va tenuta distinta dall’adesione all’ideologia politica che esso esprime» 100. Una ricostruzione che egli ha intrapreso in numerosi contributi, il piú recente e sistematico dei quali è il saggio introduttivo 101 al volume sui Dilemmi del liberalsocialismo, pubblicato nel 1994.

La ricostruzione descrittiva delle ideologie è per tante ragioni – per la commistione inestricabile di giudizi di valore e giudizi di fatto da cui sono composte e il numero elevato di queste componenti, per la varietà degli interpreti di ciascuna di esse e la parziale dissonanza delle interpretazioni – un’operazione molto complessa. Esemplare il caso di quella che nel presente volume viene indicata come l’ideologia del pluralismo: un’ideologia, se mi si passa il gioco di parole, plurale come nessun’altra. Anche se il concetto può essere definito in modo formalmente univoco, come suggerisce Bobbio individuandone la contrapposizione ad ogni forma di stato monolitico e autoritario, dal dispotismo al totalitarismo, le sue specie storiche e dottrinali sono tante e cosí diverse che Bobbio ha distinto un pluralismo degli antichi, nelle varie teorie organicistiche dei corpi intermedi e dello stato di ceti, e un pluralismo dei moderni, fondato sulla dottrina delle libere associazioni, e ancora ha misurato la distanza su questo tema fra le tradizioni del cristianesimo sociale, del pensiero socialista e di quello liberaldemocratico 102.

Certo, negli scritti teorici dedicati alle ideologie, ancor piú che in quelli dedicati a singole nozioni di valore, non è infrequente che il discorso di Bobbio passi dall’analisi concettuale avalutativa alla valutazione dell’accettabilità e alla presa di posizione: dalla teoria delle ideologie all’ideologia. Fra gli esempi piú evidenti, indicherei lo scritto sull’ideologia dell’«uomo nuovo» 103 (su cui tornerò piú avanti). Ma secondo le tesi piú insistentemente ripetute da Bobbio circa il rapporto tra fatti e valori e tra il descrittivo e il prescrittivo, si tratta non di un passaggio, bensí di un salto. I «valori» si possono descrivere – ovvero delle nozioni di valore è possibile ricostruire il significato o i significati descrittivi –; ma dopo averli descritti, si assumono o si rifiutano, e l’assunzione o il rifiuto non derivano direttamente dal significato descrittivo delle corrispondenti nozioni. Bobbio non ha mai perso occasione per ribadire la sua posizione «divisionista» in merito alla classica is-ought question (al problema del rapporto tra essere e dover essere), ossia la convinzione che è impossibile derivare valori da fatti, e giungere logicamente a conclusioni valutative o normative partendo da sole premesse descrittive 104. Tuttavia, ciò non significa che tra descrizioni e spiegazioni da un lato, e dall’altro valutazioni e prescrizioni – in breve: tra fatti e valori – non sussista per Bobbio alcuna relazione, né che i valori cadano al di fuori di ogni discorso razionale, cioè che non sia possibile in alcun modo argomentare razionalmente intorno a valori. Anzitutto, se è vero che i valori non sono deducibili dai fatti, è anche vero che sarebbe assurdo assumere valori, ossia esprimere giudizi di valore e prendere posizioni normative, indipendentemente dall’osservazione dei fatti. In secondo luogo, ridurre l’assunzione di valori ad un atto puramente arbitrario e irrazionale equivarrebbe a disconoscere la possibilità di un dialogo costruttivo tra i sostenitori di differenti posizioni politiche: proprio quella possibilità sulla quale Bobbio ha insistito (e che ha praticato) in innumerevoli circostanze.

Vero è che la teoria metaetica prevalentemente accolta da Bobbio è riconducibile all’emotivismo, che tende ad assimilare i valori ad atteggiamenti soggettivi favorevoli o sfavorevoli verso qualcosa, a moti di approvazione o riprovazione, di adesione o rifiuto, e i giudizi di valore ad espressioni di tali atteggiamenti. Il lettore ricorderà che il significato dei termini politici contrapposto da Bobbio a quello «descrittivo» viene da lui chiamato «emotivo», ricorrendo a una dicotomia del caposcuola dell’emotivismo, C. L. Stevenson. Tuttavia quello di Bobbio è un emotivismo, per cosí dire, riveduto e corretto, altrettanto lontano dall’irrazionalismo quanto lo è dal cognitivismo etico. È vero che Bobbio non si è mai discostato dalla convinzione che i «valori ultimi», tra loro inconciliabili, sfuggono all’argomentazione razionale, e che la loro scelta è simile a una professione di fede. Ma ciò non esclude la possibilità di giustificare «valori derivati» mediante un ragionamento pratico corretto, connettendo opportunamente in catene inferenziali giudizi di fatto e giudizi di valore senza per questo violare la «legge di Hume» – che vieta unicamente la derivazione diretta di conclusioni normative da premesse soltanto fattuali. Non è da trascurare, infine, che Bobbio non rifiuta affatto e non sminuisce l’importanza dell’argomentazione retorica, cioè propriamente persuasiva, intorno alle opzioni di valore.

Ma non è questa la sede per un’analisi dettagliata dei problemi metaetici nell’opera bobbiana. Schematicamente, per quel che è utile alla comprensione della teoria politica di Bobbio, mi pare si possa riassumere (pur con qualche forzatura) la complessità del suo pensiero sullo spinoso problema della natura dei valori, e del rapporto tra valori e fatti, nella seguente serie di proposizioni. I valori non sono fatti oggettivi, non sono «cose» o «stati di cose», bensí rinviano ad atteggiamenti soggettivi positivi o negativi, desideri e aspirazioni. Ma in certo senso anche i valori sono fatti del mondo storico, soprattutto del mondo politico, hanno radici nei differenti bisogni degli esseri umani, esprimono i loro diversi scopi ideali e orientano i loro comportamenti spesso contrastanti. Non c’è passaggio diretto dai fatti ai valori, dalle descrizioni alle valutazioni e alle prescrizioni, tant’è vero che di uno stesso fatto si possono dare valutazioni diverse ed anzi opposte. I fatti, la «realtà», anche la realtà politica, si descrivono, e possono essere compresi in modo non deformato, nei limiti delle capacità umane, soltanto se li si analizza e li si ricostruisce con metodi avalutativi, usando tecniche empiriche controllabili e concetti non pregiudicati da orientamenti normativi. Anche i valori in certo senso si possono descrivere, analizzando i significati descrittivi separati da quelli emotivi delle nozioni che generalmente indicano o esprimono valori. Ma in quanto tali i valori si assumono o si respingono, e il loro significato descrittivo non è e non può essere la ragione determinante di queste scelte, cosí come i fatti si giudicano in base a criteri di valutazione che non possono derivare dai fatti stessi o dalle loro descrizioni.

Infine: la realtà del mondo politico, studiata e ricostruita nella sua complessità con metodo empirico-analitico, si rivela tendenzialmente refrattaria ai valori, alle aspirazioni e agli ideali anche contrastanti degli esseri umani che pure fanno parte di quel mondo, come se fosse fatta di una materia che li respinge.

Una concezione dualistica del mondo politico.

Tra le innumerevoli dicotomie che si incontrano leggendo le opere di Bobbio, ritengo che la piú comprensiva e insieme la piú adatta ad esprimere l’interna tensione del pensiero politico bobbiano sia proprio quella che contrappone i «fatti» ai «valori», secondo l’ultimo aspetto inquietante (e anomalo rispetto ai precedenti) che ho cercato di delineare. La formula piú efficace di questa dicotomia è forse quella che Bobbio ha scelto come titolo per il terzo paragrafo de Il futuro della democrazia 105, uno dei suoi saggi piú noti: «Gli ideali e la rozza materia». L’origine della formula è letteraria. Deriva, insieme alla inusuale espressione «rozza materia», dalle battute conclusive de Il dottor Zivago di Borís Pasternàk. L’amico di Juri Zivago, Gordon, proprio nell’ultima pagina del romanzo dice: «E successo piú volte nella storia: quello che era stato concepito in modo nobile e alto, è diventato rozza materia. Cosí la Grecia è divenuta Roma, cosí l’illuminismo russo è diventato la rivoluzione russa» 106.

La citazione di questo brano è inserita da Bobbio quasi all’inizio del saggio per collocare nel quadro di una visione generale il tema specifico che sta per affrontare, cioè quello del «divario tra gli ideali democratici e la democrazia reale» (espressione, quest’ultima, che avverte di usare «nello stesso senso in cui si parla di socialismo reale») 107, ovvero, secondo la formulazione bobbiana piú nota, il tema delle «promesse non mantenute» della democrazia. Questo «divario» tra democrazia ideale e democrazia reale, però, non è che una soltanto tra le infinite manifestazioni del contrasto – sono ancora parole di Bobbio – tra il «cielo dei principî» e la «terra dove si scontrano corposi interessi» 108, o anche tra il mondo del pensiero e quello dell’azione concreta 109. Sarei tentato di affermare che nell’idea apparentemente semplice, ma tutt’altro che facile, di questo contrasto fra cielo e terra, tra principî e interessi, tra pensiero e prassi, tra ideali e rozza materia, trova espressione l’intera concezione bobbiana del mondo. La grande dicotomia tra «ideali» e «rozza materia» dà forma efficace e conferisce un senso drammatico alla convinzione, radicata nel pensiero di Bobbio, che il mondo umano come universo storico abbia natura oggettivamente dualistica. Come ho già ricordato, Bobbio riconosce di essere «un dualista impenitente» 110. Ma il dualismo di Bobbio, oltre all’aspetto metodologico e gnoseologico, attinente cioè ai problemi della conoscenza, assume anche un aspetto per cosí dire sostanziale, quello di una concezione quasi-platonizzante (chiarirò piú avanti il senso del «quasi»), attraversata da una frattura fondamentale simile al chorismós platonico tra il noetón e l’oratón, tra il mondo intelligibile delle idee e dei valori e il mondo visibile delle cose e delle azioni. Questa concezione si riflette in modo pervasivo in tutta l’opera di Bobbio, nei mille corridoi di quel «labirinto» a cui egli stesso ha suggerito indirettamente di paragonare la propria bibliografia 111, dando luogo alla compresenza, e quindi al contrasto che emerge dal complesso dei suoi scritti, e quasi da ciascuno di essi, tra il perseguimento di determinati ideali – gli ideali di Bobbio, che affiorano in modo diretto o indiretto anche nei saggi propriamente teorici – e lo scandaglio disincantato della realtà – realtà che rivela all’analisi una natura pervicacemente e intrattabilmente maligna, o almeno tendenzialmente refrattaria ai valori.

Di qui, quelle che sono apparse a molti lettori e interpreti di Bobbio come le sue «oscillazioni», o anche aporie, o addirittura contraddizioni, esprimibili mediante ossimori o paradossi, come «illuminista pessimista» e «realista insoddisfatto» 112. Ossimori in cui a volte si è riconosciuto Bobbio stesso; ma, forse, non del tutto a ragione. Voglio dire che non bisogna confondere il contrasto oggettivo che Bobbio vede nella struttura del mondo umano, con il contrasto, per cosí dire, soggettivo tra quelle che Bobbio ha chiamato, riferendosi a se stesso, «la vocazione dell’utopia e la professione del realismo» 113. Questo contrasto soggettivo, quale è manifestato dall’opera di Bobbio nel suo complesso, non deve essere interpretato come una contraddittorietà della sua filosofia, o come una mancanza di indirizzo chiaro e univoco negli scritti e tra gli scritti di Bobbio. Si tratta invece del rispecchiamento coerente di un contrasto ritenuto oggettivo, reale, o meglio della elaborazione articolata, ma pienamente conseguente, di una concezione dualistica del mondo. Nella prospettiva dell’analisi teorica, Bobbio ha esplorato entrambi gli emisferi del mondo storico umano: per semplificare, quello dei «fatti», ricostruendo in concetti generali le complesse articolazioni della realtà politica, e quello dei «valori», distinguendo e confrontando i loro diversi significati descrittivi; nella prospettiva della «filosofia militante», ha difeso certi ideali e ha argomentato in favore di certi valori, ma nel farlo ha tenuto conto dei risultati dell’analisi. Si potrebbe anzi dire, in tono semiserio, che per un dualista impenitente sarebbe stato unilaterale sviluppare un pensiero esclusivamente realistico (in entrambi gli aspetti del «realismo politico», metodologico e sostanziale, che ho suggerito sopra di distinguere, ma soprattutto nel secondo) o all’opposto astrattamente normativo (come quello di tanta parte della filosofia politica americana, oggi dominante).

Nella prospettiva della teoria generale della politica, la grande dicotomia tra ideali e rozza materia dev’essere considerata anzitutto come uno schema analitico di immediata efficacia euristica, utile come tale a tracciare distinzioni quali quelle tra democrazia ideale e democrazia reale, tra socialismo ideale e socialismo reale, e cosí via. Ma anche in questo aspetto di strumento analitico si riflette il significato sostanziale della dicotomia: tutte le antitesi particolari in cui può essere specificata sono infatti riconducibili in ultima istanza, nel pensiero di Bobbio, a quella drammatica duplicità (o doppiezza?) della natura umana che dalle pagine del grande «dualista» Kant emerge come il contrasto e il conflitto tra la «persona morale» e il «legno storto di cui è fatto l’uomo». La contrapposizione tra «ideali» e «rozza materia» va dunque considerata soprattutto come il quadro sinottico dell’interpretazione bobbiana della storia, o meglio come la prospettiva piú generale, delineata in un modello concettuale continuamente arricchito e riformulato, entro cui Bobbio ha guardato al mondo storico.

Ma il conflitto tra ideali e rozza materia, tema ricorrente e anzi permanente del dramma storico dell’umanità, non si presenta nell’opera di Bobbio in forma univoca. Con una certa semplificazione, si può dire che la dinamica di quel contrasto viene di volta in volta delineata da Bobbio secondo due varianti principali, che corrispondono a quelle che chiamerò rispettivamente la versione debole e la versione forte della grande dicotomia. Trovo illustrata in modo paradigmatico la versione debole proprio nel saggio su Il futuro della democrazia, quella forte nel breve articolo intitolato L’utopia capovolta che Bobbio scrisse nel fatale ’89, all’epoca del primo manifestarsi dei movimenti popolari che avrebbero avviato al crollo l’universo comunista, e piú precisamente subito dopo i fatti tragici della piazza Tien An Men. Nella premessa alla raccolta che prende il titolo dal saggio su Il futuro della democrazia – luogo della formulazione esplicita della dicotomia, dove essa si presenta nella forma specifica del contrasto tra democrazia ideale e democrazia reale, ovvero del «contrasto tra ciò che era stato promesso» dalle correnti del pensiero democratico «e ciò che è stato effettivamente attuato» 114 – Bobbio afferma che «non si può parlare propriamente di “degenerazione” della democrazia, ma si deve parlare piuttosto del naturale adattamento dei principî astratti alla realtà o della inevitabile contaminazione della teoria quando è costretta a sottomettersi alle esigenze della pratica» 115. E non si può parlare di degenerazione, perché lo scontro tra l’ideale democratico e la rozza materia non è stato tale – si legge in fine del saggio – «da “trasformare” il regime democratico in un regime autocratico» 116. Gli esiti concreti dello scontro con la rozza materia inducono bensí Bobbio a riformulare l’ideale della democrazia nei termini della celebre «definizione minima» (ma, come è stato giustamente sottolineato, «non povera» 117), e a rimisurare i «gradi diversi di approssimazione» 118 dei regimi reali comunemente considerati democratici al modello ideale cosí riformulato. Ma a conti fatti, pensa Bobbio nel 1984, pur «con una certa trepidazione» 119, non si è assolutamente indotti a dichiarare che l’ideale è stato infranto, o che è fallito.

«Fallimento» è invece un termine ripetutamente usato nell’articolo su L’utopia capovolta. Anzi, l’articolo si apre con la parola «catastrofe»: la catastrofe di un grande ideale, «della piú grande utopia politica della storia» 120. Scrive Bobbio: «Nessuna delle città ideali descritte dai filosofi si era mai proposta come un modello da realizzare. Platone sapeva che quella repubblica ideale, di cui aveva parlato coi suoi amici, non era destinata ad esistere in nessun luogo della terra, ma era vera soltanto, come dice Glaucone a Socrate, “nei nostri discorsi”. E invece è avvenuto che la prima utopia che ha cercato di entrare nella storia, di passare dal regno dei “discorsi” a quello delle cose, non solo non si è avverata ma si sta rovesciando, si è già quasi rovesciata, nei paesi in cui è stata messa alla prova, in qualche cosa che è venuto sempre piú assomigliando alle utopie negative, esistenti sinora anch’esse soltanto nei discorsi (si pensi al romanzo di Orwell)» 121.

Com’è avvenuto che l’ideale democratico si sia «adattato» alla realtà, che non sia risultato sconfitto nello scontro con la rozza materia, pur «contaminandosi», e che invece l’ideale comunista sia fallito, anzi, che si sia «rovesciato», trasformandosi esso stesso in «rozza materia», cioè assumendo su di sé, in altra forma, la negatività reale – l’oppressione, l’ingiustizia – da cui intendeva riscattare l’umanità? Perché in un caso l’ideale si adatta alla rozza materia e nell’altro si capovolge in rozza materia? Come si spiega il diverso destino, la differenza tra «adattamento» e «capovolgimento»? Sarebbe ingenuo e superficiale credere di liquidare il problema semplicemente adducendo la diversa qualità dei due ideali, come se fossero l’uno buono e l’altro cattivo, l’uno un vero ideale e l’altro un anti-ideale (e il tribunale della storia avrebbe confermato questa sentenza); oppure la differente natura del primo, che sarebbe un ideale credibile e perseguibile, da quella del secondo, una semplice illusione; o ancora la differenza tra ideale e utopia, come se in Bobbio la nozione di utopia avesse sempre una rigida connotazione negativa (il che non è 122). Nessuna di queste soluzioni sbrigative al problema che ho proposto è compatibile con il pensiero di Bobbio in generale, e specificamente con il testo dell’articolo su L’utopia capovolta: nel quale, dopo aver fatto osservare che l’ideale democratico – e l’ideale di libertà che ne è precondizione – è stato invocato contro l’ideale comunista e al posto di esso da coloro che si sono ribellati ai regimi dell’Est, Bobbio afferma che la stessa «conquista della libertà dei moderni […] non può essere, per i paesi dell’utopia rovesciata, se non il punto di partenza» 123. Poco avanti, formula la seguente domanda retorica: «credete proprio che la fine del comunismo storico, insisto sullo storico, abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?» 124; e ribadisce che la democrazia stessa dovrà fronteggiare i medesimi problemi che il comunismo aveva additato e non è riuscito a risolvere. Insomma: la democrazia, proprio per non fallire o non essere travolta, «in un mondo di spaventose ingiustizie» 125 com’è ancora e forse piú che mai quello attuale, sarà chiamata a fare i conti, magari in altra forma, con lo stesso ideale «di emancipazione dei poveri, degli oppressi, dei “dannati della terra”» 126 da cui il comunismo era nato.

Non deve sfuggire l’insistenza di Bobbio, in tutto l’articolo, sull’opportunità di distinguere il «comunismo storico», definito come il «movimento mondiale nato dalla rivoluzione russa» 127 e come «ideologia» e «speranza della rivoluzione», suscitatrice in tutto il mondo di «una forza non solo materiale ma anche spirituale indomita» 128, dall’ideale di emancipazione e di giustizia in cui il comunismo storico affondava le proprie radici. Il fallimento riguarda il primo; il secondo, ritiene Bobbio, non potrà non riemergere storicamente in altre forme, magari completamente diverse. Non bisogna ovviamente confondere quella di Bobbio con una delle distinzioni di comodo che abbiamo sentito ripetere (se pur sommessamente) da alcuni dei comunisti sopravvissuti alla catastrofe, secondo cui i regimi falliti del «comunismo reale» erano bensí reali ma non erano davvero comunisti. Il fallimento storico sul cui senso tragico Bobbio invita a riflettere non è tanto quello dei regimi comunisti – il crollo di un impero autocratico come tale è oggettivamente una catastrofe, ma non è di per sé una tragedia –, quanto quello dell’ideologia e del movimento comunista, che erano nati e avevano continuato a trarre alimento da un vero e proprio ideale, un grande ideale di emancipazione; è il fallimento che consiste nel capovolgimento dell’ideale, nella sua degenerazione da sogno – il «sogno di una cosa» di Marx – a incubo terribilmente reale. Tragica, o «piú tragica», secondo Bobbio, è l’interpretazione del fallimento del comunismo storico, non come «la giusta sconfitta di un immane crimine» (come invece sostengono, all’opposto, gli anticomunisti di sempre), ma, appunto, come «utopia capovolta» 129. Ma perché l’utopia comunista si è capovolta?

Mi pare che, secondo la lettera e lo spirito del pensiero di Bobbio, la spiegazione del differente destino dei diversi ideali nello scontro con la rozza materia del mondo non sia da ricercare – almeno non sempre, o non soltanto – nella qualità o nel contenuto specifico di ciascuno di essi, onde alcuni sarebbero per propria natura adattabili alla realtà, altri di per sé inclini a infrangersi contro di essa o a pervertirsi. Se un principio di spiegazione c’è, mi pare che Bobbio suggerisca di cercarlo non tanto nel contenuto, quanto, per cosí dire, nella forma dei differenti ideali: intendo, nel diverso modo in cui possono essere concepiti e perseguiti. Tant’è vero che anche l’ideale democratico potrebbe essere condotto, se interpretato e perseguito in certi modi, al fallimento o al rovesciamento. Per suffragare quest’ipotesi, invito a leggere in parallelo e a confrontare due passi, tratti rispettivamente da L’utopia capovolta e da Il futuro della democrazia. Nel primo, descrivendo il fallimento dell’ideologia comunista, la definisce come «l’ideologia della trasformazione radicale di una società considerata oppressiva e ingiusta in una società tutta diversa, libera e giusta» 130. Nel secondo, afferma che gli interlocutori, cui vorrebbe soprattutto rivolgere le sue analisi e riflessioni sull’«adattamento» della democrazia ideale alla realtà, per renderli «meno diffidenti» nei confronti della democrazia reale, «non sono coloro che disdegnano e avversano la democrazia […] con il rancore di sempre contro gli “immortali principî”», bensí «coloro che questa nostra democrazia, sempre fragile, sempre vulnerabile, corrompibile e spesso corrotta, vorrebbero distruggere per renderla perfetta» 131.

Propongo la seguente interpretazione. Gli ideali che si capovolgono, secondo Bobbio, sono quelli che vengono concepiti e perseguiti in un modo che non tiene seriamente conto dell’esistenza e della persistenza della rozza materia. Sono gli ideali di coloro che credono di poterla travolgere e di sostituire ad essa un mondo nuovo, «radicalmente» nuovo, «tutto diverso», «perfetto». Anzi, credono in questo modo di realizzare l’avvento dell’uomo nuovo: «il “novello Adamo”, ovvero la fine di una corruzione, di una decadenza, di una degenerazione durata millenni», che «implica una seconda nascita, una “rinascita”» 132. L’aspirazione a far nascere l’uomo nuovo attraverso la trasformazione radicale della società contraddistingue quelli che Bobbio ha chiamato, significativamente, «gli immodesti fautori della teoria rivoluzionaria» 133. Torna a proposito, a questo punto, una considerazione sia pur breve del «moderatismo» di Bobbio, da lui dichiarato e difeso con ferma convinzione: come disposizione morale, esso si esprime nella virtú della mitezza, di cui Bobbio ha composto l’elogio 134; come atteggiamento politico, consiste nella tendenza «alla conciliazione, alla mediazione», che «rifugge dalle prese di posizione troppo nette… degli opposti estremismi» 135, e si manifesta nel gradualismo riformista, che consiste non tanto nel non mirare troppo in alto, e non solo nell’avanzare a poco a poco, quanto piuttosto nel procedere, empiristicamente, per prova ed errore 136. E infatti, gli ideali che, pur non avendo alcuna garanzia di riuscita, potrebbero non essere destinati a fallire, ad infrangersi contro la rozza materia o a pervertirsi e capovolgersi, trasformandosi essi stessi in rozza materia, sono, secondo Bobbio, non tanto quelli poco elevati – forse che non sono elevati gli ideali della giustizia e della libertà? –, ma quelli non troppo «immodesti». Sono gli ideali, intendo, che mantengono la duplice natura (kantiana) di pietre di paragone e di idee regolative, che come tali sopportano interpretazioni differenti e sempre correggibili, e che ispirano tanto indefettibili e rigorosi giudizi di valore sulla realtà effettuale, quanto modelli prescrittivi duttili e flessibili, «adattabili» alla rozza materia senza che ciò significhi necessariamente cedimento, pervertimento o degenerazione.

Insomma: tra gli ideali e la rozza materia, nella concezione di Bobbio, sussiste una relazione complessa, che provo a schematizzare in due momenti (o «movimenti»). Per un verso, gli ideali non appartengono a un sopramondo eterno e perfetto – e in ciò sta l’aspetto antiplatonico della grande dicotomia di Bobbio –; essi nascono storicamente 137 dall’elaborazione dei diversi bisogni degli uomini, dei loro differenti problemi, dal sentimento d’insoddisfazione per le loro condizioni di vita, insomma dall’infelicità: sorgono cioè dalla stessa rozza materia della condizione umana. Per l’altro verso, la difficoltà di penetrazione, o di «permeazione», degli ideali nella rozza materia del mondo dipende in parte dalla stessa profondità (oggettiva) delle cause che li hanno fatti nascere, in parte, dall’errata percezione (soggettiva) di quella medesima profondità, spesso sottovalutata da chi li persegue, onde può accadere che nel tentativo di guarire la materia dalla sua rozzezza si finisca per agire ancor piú rozzamente e per infliggere al mondo, guidati dalla presunzione di poterlo rigenerare, altri e peggiori mali.

La realtà, gli ideali, la storia.

Vorrei provare, infine, ad isolare ciascuno dei termini di quella che ho chiamato la grande dicotomia del pensiero di Bobbio, e a ricostruirne separatamente il significato.

Che cosa significa, piú precisamente, «rozza materia»? Di che cosa è metafora questa espressione? In che cosa consiste l’intrattabile e forse irrimediabile «rozzezza» della materia, della realtà effettuale, una rozzezza di cui gli ideali debbono tenere conto per non infrangersi o rovesciarsi? Tentare di rispondere a questa domanda significa avvicinarsi al nocciolo piú interno e resistente del proverbiale pessimismo di Bobbio 138. La risposta non è facile, ma mi sembra si possano indicare con una certa sicurezza nella concezione di Bobbio tre ingredienti, o forse tre radici, della negatività o «malignità» del mondo, che corrispondono a tre aspetti di una antropologia negativa: secondo la quale, l’uomo è un animale violento, è un animale passionale, è un animale ingannatore. In primo luogo, dal mondo umano è probabilmente ineliminabile la violenza: da sempre scoppiano tra gli uomini conflitti che non si risolvono senza il ricorso all’uso della forza. In questo fatto va forse rintracciata anche la prima origine e la ragion d’essere della politica. Ciò non significa che la politica sia destinata per sempre ad essere esclusivo teatro della volontà di potenza, ma significa che sarebbe sciocco contrapporre a questa dura realtà l’astratto sogno di una convivenza spontanea e armoniosa (come sarebbe quella di una società senza stato). In secondo luogo, nel mondo delle relazioni sociali prevalgono le passioni e gli interessi particolari sulle ragioni universali. E anche quando queste ultime sembrano affermarsi, le prime ottengono quasi sempre clamorose rivincite. Ciò non significa che l’uomo passionale o l’homo oeconomicus siano destinati a trionfare comunque e in ogni circostanza sull’uomo morale, ma significa che non si può contrapporre ad essi l’ideale disincarnato di una società composta da individui spassionati e disinteressati. In terzo luogo, «l’uomo è un animale ideologico» 139 (intesa questa volta la nozione di ideologia nel senso deteriore), ovvero bugiardo, che mente anche a se stesso adducendo allo scopo di giustificarsi, o di ottenere consenso per il proprio comportamento, motivazioni diverse da quelle reali. Ciò non significa che ci si debba rassegnare all’opacità impenetrabile e all’inganno nelle relazioni umane, sociali e politiche, private e pubbliche, e cioè al regno della frode, oltre a quello della forza e a quello delle passioni; ma significa che sarebbe ingenuo affidarsi all’onestà delle intenzioni e alla sincerità delle dichiarazioni degli uomini per costruire una società trasparente.

Quali sono gli ideali di Bobbio? In questo caso, la ricerca è resa piú agevole dal fatto che Bobbio stesso li ha indicati esplicitamente, piú di una volta, nella triade: democrazia, diritti dell’uomo e pace. E non è difficile ricostruire nelle sue linee principali il rapporto di contrapposizione fra i tre «ideali» e le tre dimensioni della «rozza materia» che ho ricavato osservando il volto negativo dell’antropologia di Bobbio (quello che riguarda il «legno storto»): l’aspirazione alla pace si oppone al regno della violenza, il principio universalistico dei diritti dell’uomo si oppone al mondo particolaristico delle passioni e degli interessi, l’idea della democrazia come trasparenza, come «governo pubblico in pubblico» 140, si oppone alla cortina «ideologica» degli inganni e all’opacità del potere. Ma Bobbio ha anche sottolineato l’interdipendenza dei tre ideali fra loro, nel senso che il perseguimento coerente di ciascuno di essi obbliga a perseguire anche gli altri, e che la stessa definizione di ognuno richiede l’uso delle nozioni corrispondenti agli altri due: «Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti. Con altre parole, la democrazia è la società dei cittadini, e i sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali; ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non piú soltanto di questo o quello stato, ma del mondo» 141. Ciò implica che la delineazione (la determinatio) di ciascuno dei tre ideali corrisponde in modo implicito o esplicito all’antitesi (alla negatio) di tutti e tre gli aspetti della rozza materia. A riprova vorrei ricordare, aggiungendola alle articolate ricostruzioni bobbiane del concetto di democrazia che si possono incontrare nel presente volume, quella che la definisce in breve come «governo attraverso il controllo e il consenso» e come «sostituzione della persuasione alla forza» 142. L’antitesi degli elementi di questa definizione dell’ideale democratico rispetto ai tre ingredienti della rozza materia è chiara: rispetto alla forza, la persuasione; rispetto all’opacità, la trasparenza, senza la quale nessun controllo del potere è possibile; rispetto al prevalere degli interessi parziali, il consenso raggiungibile attraverso la mediazione e il compromesso.

Si potrebbero richiamare moltissimi altri luoghi per mostrare quanto ricco e articolato sia, nell’opera bobbiana, il contenuto della «grande dicotomia» tra «ideali» e «rozza materia»; e insieme per verificare come in Bobbio «la necessità del realismo» non riesca mai a scalfire «il dovere di innalzare continuamente al di sopra della realtà» certi ideali 143. Ciò non costituisce – ribadisco – una aporia nella sua opera (anche se ne esprime la tensione fondamentale): perché il «realismo» di Bobbio non è un iperrealismo, come quello delle varie «scuole del sospetto» restie a concedere credibilità agli ideali in genere. Per Bobbio, gli ideali di volta in volta emergenti nel corso della storia, in tutta la loro varietà e contrasto reciproco, non sono soltanto inganni e autoinganni, ombre illusorie, fumus evanescente che accompagna le vicende umane; sono bensí parte integrante e consistente della stessa realtà del mondo umano: sono l’emisfero «celeste», ovvero «nobile e alto» per usare i termini di Pasternàk, dell’universo storico. In altre parole, Bobbio considera gli ideali, pur cosí differenti tra loro e diversamente valutabili, come veri ideali – accogliendone alcuni e respingendone altri, naturalmente – e non come semplici ideologie nel senso deteriore (cui pure ha dedicato molta attenzione, soprattutto attraverso lo studio di Pareto); non riduce cioè senz’altro la categoria degli ideali a quella delle «ragioni speciose», delle giustificazioni ingannevoli a posteriori, maschere da smascherare per poter vedere il vero volto della realtà. Anche gli ideali sono, o meglio possono essere, «veri», in duplice senso: sia nel senso che «vi sono» – cioè, nascono e rinascono continuamente nella storia – autentici ideali, da non considerarsi meramente alla stregua di illusioni e false rappresentazioni (benché le loro pretese «verità» siano molteplici e spesso incompatibili tra loro), sia nel senso che sono effettivi e reali, come del resto sono effettive e reali, dal lato opposto della dicotomia, anche le costruzioni ingannevoli dell’«animale ideologico», quelle che Pareto chiamava «derivazioni». Credo si possa dire, adottando un’altra metafora, che Bobbio considera gli ideali come una fonte (anche se non la sola) di energia dinamica, da cui la realtà è percorsa, agitata, sospinta. Senonché, il realismo sostanziale di Bobbio – frutto o, per cosí dire, distillato della conoscenza storica, della ricerca obiettiva, della considerazione disincantata dei fatti, ossia del realismo metodologico – impedisce ogni ingenua fiducia nella forza delle spinte ideali, mostrando quanto grande sia la resistenza della realtà, o quali siano le controspinte di altre fonti di energia, come le passioni e gli interessi, e quanto siano efficaci i mezzi, la violenza, l’inganno, cui spesso l’agire passionale e interessato fa ricorso. Certo, il realismo inclina al pessimismo, da Bobbio apertamente manifestato; ma non professato: sono ancora parole di Bobbio quelle che invitano a «non essere tanto pessimisti da abbandonarsi alla disperazione» (come «neppure tanto ottimisti da diventare presuntuosi») 144. Di qui, la continua ripresa dell’aspirazione illuministica – fermamente laica, e consapevole dei propri limiti – verso «un mondo piú civile e piú umano» 145.

Su questo volume.

Pur non essendo mai giunto molto vicino all’elaborazione definitiva di un’opera intitolata «Teoria generale della politica», in alcune occasioni 146 Bobbio ne ha illustrato il progetto, tracciandone il disegno ideale in piú di una versione, e con qualche sensibile variante. Comparando tra loro le differenti versioni di quel disegno, mi pare che vi si possa riconoscere una struttura costante: si tratta della partizione delle sfere tematiche principali in cui l’opera avrebbe dovuto articolarsi. Il tema iniziale, di carattere introduttivo, è quello della comparazione tra le prospettive filosofica, scientifica e storica sull’universo politico, che conduce a delineare la «mappa degli approcci», come Bobbio l’ha chiamata: il tema è soprattutto svolto nelle due coppie di scritti metateorici, risalenti rispettivamente all’inizio degli anni ’70 e alla fine degli anni ’80, presi in esame nei paragrafi iniziali di questa introduzione 147. La prima grande partizione riguarda l’ambito concettuale in cui la sfera politica è inclusa, che è quello piú ampio dei fenomeni sociali, e pone anzitutto il problema della determinazione dello spazio in esso occupato dalla categoria della politica mediante la sua distinzione dai concetti contigui, affini e opposti: è il problema dei «confini della politica», ossia, da un lato, della relazione tra politica e società, dall’altro, dei rapporti tra politica e morale e tra politica e diritto. I vari aspetti di questo problema sono trattati da Bobbio in numerosi contributi, e soprattutto nei due «abbozzi» sistematici (anch’essi già ampiamente analizzati in questa introduzione) dai quali si può ricavare lo schema generale di quella che egli ha chiamato la «mappa delle aree»: la voce «Politica» redatta alla metà degli anni ’70 per il Dizionario di politica dell’Utet, e un saggio intitolato La politica, uscito in un volume collettaneo nel 1987 ma composto alcuni anni prima 148. La seconda grande partizione è dedicata all’analisi dei concetti inclusi in quello di politica, attraverso l’identificazione e lo studio dei «temi ricorrenti» – ovvero delle questioni politiche fondamentali continuamente riproposte nella storia, sia pure nella varietà e novità dei punti di vista, e perciò riconducibili alle domande piú generali, e alle numerose domande specifiche in cui queste possono essere scomposte – della filosofia politica di tutti i tempi. Tali questioni Bobbio le ha affrontate in una miriade di scritti, che sono da considerarsi i «frammenti» della sua teoria generale della politica, ma anche in un ampio abbozzo sistematico, già piú volte indicato, la voce «Stato» redatta per l’Enciclopedia Einaudi, in cui esplora le articolazioni interne dell’universo politico – i «concetti inclusi» – a partire da quello stesso di stato, attraverso le teorie del potere, della legittimità, delle forme di governo e delle specie di mutamento politico: una vera e propria «politica in nuce» 149.

Nel comporre il presente volume, non è stato difficile seguire la traccia del progetto di Bobbio per quanto riguarda le prime due sfere tematiche: gli scritti di metateoria costituiscono nell’opera bobbiana un insieme ben delimitato, e quelli dedicati alla definizione del concetto di politica e dei suoi confini, oggetto generale e compito eminente della teoria, sono rappresentati anzitutto, anche se non soltanto, dai primi due abbozzi qui ricordati, che furono concepiti (anche) in vista di essa. Per quanto riguarda la terza sfera tematica, molto piú grande delle altre, che abbraccia le complesse articolazioni interne della problematica politica, ho ritenuto di non dover seguire l’ordine degli argomenti del terzo abbozzo, la voce «Stato», come uno schema vincolante, bensí di poterlo considerare, insieme alle altre versioni del progetto (cui ho accennato all’inizio di questo paragrafo), come un’indicazione per rintracciare nella miriade di saggi che compongono l’opera di Bobbio i «frammenti» della sua teoria generale della politica; e ho deciso di raccogliere i frammenti prima di pormi il problema del disegno sistematico definitivo: nella convinzione che le indicazioni sulla struttura formale dovessero adattarsi al contenuto degli elementi almeno quanto il contenuto alla forma.

Di fronte al problema della selezione dei frammenti ho provato, come in nessun’altra occasione, l’imbarazzo della scelta. Per individuare i quaranta saggi infine selezionati, mi sono fatto guidare da due criteri principali, non sempre facili a combinarsi: l’esemplarità e la novità. Per un verso, ciascuno degli scritti qui inseriti nel disegno della teoria generale esprime in modo compiuto, a mio giudizio, il pensiero di Bobbio sull’argomento specifico cui è dedicato, e nessuno degli argomenti trattati nei singoli scritti può essere considerato marginale rispetto alla concezione generale della politica di Bobbio. Per altro verso, poiché su molti argomenti politici Bobbio è tornato a riflettere piú volte nel corso della sua lunga vita di studi, ed ha via via raccolto gran parte dei suoi saggi in molti volumi tematici, parziali rispetto alla teoria generale, mi sono preoccupato di individuare anzitutto gli scritti «dispersi» (in riviste, volumi collettanei, dizionari, enciclopedie, ecc.), cioè sfuggiti per varie ragioni alle raccolte; quindi, per completare il disegno sistematico della teoria, in pochi casi ho attinto da alcune di queste raccolte uno scritto, e piú d’uno solo da quelle che hanno avuto inferiore diffusione 150. Ho anche avuto la fortuna di poter recuperare due saggi inediti, e alcuni altri quasi-invisibili o completamente scomparsi dalla circolazione 151. Insomma, ho inteso nella scelta privilegiare testi poco (o per nulla) noti, ma in nessun caso «minori».

Nessuno degli scritti qui selezionati si sovrappone ad un altro per il tema specifico trattato, con l’unica eccezione dei due abbozzi sistematici dedicati al concetto di politica, che rappresentano però, come ho illustrato a suo luogo, percorsi differenti all’interno della medesima area problematica. Ma poiché i temi dei singoli saggi sono tra loro contigui e oggettivamente interconnessi, i testi originari presentavano inevitabilmente alcune sovrapposizioni parziali, che ho cercato di eliminare, fin dove possibile, senza sfilacciare il tessuto del discorso. Inoltre ho espunto dai testi, con una sola rilevante eccezione, i riferimenti diretti e indiretti all’occasione che ha dato origine a ciascuno di essi (partecipazione a convegni e dibattiti, ecc.); l’eccezione è quella del saggio Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, piú volte ricordato nelle pagine precedenti, il cui incipit si riferisce alla polemica con Della Volpe e piú in generale al dibattito con gli intellettuali comunisti degli anni ’50, e non è stato eliminato non solo per l’obiettiva difficoltà di farlo, ma anche perché consente di comprendere meglio il senso delle argomentazioni di Bobbio.

Non è stato certo possibile, al contrario, cancellare gli echi della situazione storica generale in cui ciascuno dei saggi fu concepito: e non sarebbe stato neppure opportuno. Poiché questi saggi, qui trasformati in elementi di una teoria generale della politica, sono stati scritti nell’arco di piú di quarant’anni, ciò potrà talvolta indurre nel lettore un certo senso di disorientamento temporale. Dopo qualche esitazione, ho deciso di non indicare accanto al titolo di ciascuno di essi la data di composizione 152 (che si può ovviamente trovare nell’apposito «Elenco delle fonti»). Per un’opera come questa il criterio preminente dev’essere quello sistematico, non quello cronologico. Del resto, una riflessione sulla politica non può non rispecchiare in qualche misura il proprio tempo, ma ciò non significa necessariamente che ne rimanga prigioniera. Buona parte degli scritti che compongono questo volume sono stati concepiti nei lunghi decenni della divisione del mondo politico in due blocchi, e in un panorama culturale in cui spiccava la presenza del marxismo: due scenari ora dissolti. Dai quali risultano chiaramente influenzati, ad esempio, il lungo saggio sul concetto di Pace, quello su Rapporti internazionali e marxismo, o quello su Riforme e rivoluzione 153. Tuttavia le analisi in essi contenute, a mio avviso, non hanno affatto perso interesse, né soprattutto validità generale.

Vengo al disegno complessivo. Dopo aver esplorato a lungo il labirinto della bibliografia bobbiana per trarne la materia di una teoria generale della politica, ho ritenuto di poterla distribuire in sei parti; per amore delle simmetrie, ho articolato ciascuna parte in due capitoli, e suddiviso ciascun capitolo in tre sezioni. Le coppie di capitoli da cui sono costituite le singole parti non sono coppie di termini opposti, bensí di termini affini, uniti per contiguità di tema (è piuttosto il tema di ciascun capitolo che può trovare formulazione implicita o esplicita in una dicotomia); le triadi di sezioni in cui è organizzato ogni capitolo mostrano aspetti complementari o sviluppi differenti del suo tema. L’istinto delle combinazioni suggerirebbe di presentare anche le sei parti della scansione principale come una coppia di triadi o una triade di coppie: ma sarebbe esagerato. Ciascuna sezione, infine, corrisponde di regola ad un singolo saggio di Bobbio; ma alcune sezioni, come ho già avvertito, sono il risultato della ricomposizione di due scritti, omogenei per l’argomento specifico affrontato, in un unico discorso.

La parte prima, dedicata alla filosofia politica e alla lezione dei classici, e la parte seconda, dedicata al concetto generale di politica e ai confini della politica, si ispirano direttamente ai primi due punti del progetto delineato da Bobbio (e presenti in tutte le sue varianti), cioè corrispondono rispettivamente alla «mappa degli approcci» e alla «mappa delle aree». Quanto alla terza mappa, quella dei concetti «inclusi» nell’area della politica, l’ho suddivisa nelle restanti quattro parti, riservando la terza ai valori e alle ideologie, la quarta alla democrazia sotto il duplice aspetto dei principî fondamentali e delle tecniche, la quinta ai diritti dell’uomo e alla pace, la sesta alle forme del mutamento politico e alla filosofia della storia. Il lettore che mi abbia seguito fin qui riconoscerà subito nei temi delle parti quarta, la democrazia, e quinta, i diritti e la pace, gli «ideali di Bobbio». Ribadisco che essi compaiono nella teoria generale non tanto come tali, quanto – al pari dei valori e delle ideologie cui è dedicata la parte terza – come concetti fondamentali dell’universo politico, di cui Bobbio analizza i differenti significati descrittivi e ricostruisce la complessità dei problemi. Voglio ancora sottolineare che la parte quarta, dedicata ad un solo concetto, la democrazia, si giustifica non solo perché si tratta del tema cui è soprattutto legata la notorietà dell’opera di Bobbio, ma perché tiene qui il luogo (pars pro toto) della teoria delle forme di governo, tema ricorrente sempre considerato da Bobbio come un aspetto essenziale della teoria generale della politica, insieme a quello delle forme di mutamento politico, qui inserito nella parte sesta.

Prima di concludere, debbo ricordare che questo volume è stato preceduto dall’ampia antologia di scritti politici di Bobbio (in tutto ventisette, la maggior parte dei quali sono stati qui ripresi) pubblicata in Messico dal Fondo de Cultura Económica nel 1996 a cura di José Fernández Santillán, e intitolata Norberto Bobbio: el filósofo y la política. Nelle lunghe giornate di colloquio nelle quali Fernández ed io elaborammo insieme il progetto di quel libro, ricorrendo naturalmente ai consigli di Bobbio, nacque anche l’idea di ripensarne in seguito il disegno sistematico, nella prospettiva di preparare un volume ancora piú ricco e articolato. Quell’antologia costituisce perciò un precedente non soltanto cronologico di questo volume, che deve dunque molto al lavoro di Fernández Santillán 154.

Infine, i ringraziamenti. Il volume non sarebbe mai stato condotto a termine senza l’aiuto di Piero Meaglia. Oltre ad avermi accompagnato e sostenuto in tutte le fasi del lavoro (è stato la vittima principale dei miei dubbi), Meaglia si è sobbarcato il compito di controllare tutti, proprio tutti i brani citati da Bobbio nei vari saggi, di reperire nuove edizioni e traduzioni dei rispettivi testi, successive a quelle di volta in volta usate da Bobbio, di raccogliere tutte le informazioni per la revisione, l’uniformazione e l’integrazione (non piccola) dell’apparato delle note. Della redazione definitiva di questo apparato sono, naturalmente, l’unico responsabile. Valentina Pazè ha costruito l’indice analitico, con uno straordinario lavoro di sintesi delle analisi concettuali di Bobbio, rintracciando una fittissima trama di corrispondenze e connessioni. Sono certo che questo indice si rivelerà uno strumento prezioso per il lettore, e il merito va riconosciuto interamente a Pazè. Anche in questo caso, della redazione definitiva e delle sue eventuali manchevolezze sono il solo responsabile.

Questo libro, non sembri un paradosso, è dedicato al suo autore, prossimo ai novant’anni.

MICHELANGELO BOVERO

Verolengo, 28 agosto 1999.

1 Cfr. AA.VV., Che cosa fanno oggi i filosofi?, a cura della Biblioteca comunale di Cattolica, Bompiani, Milano 1982. Il testo della lezione di Bobbio, seguito dalla trascrizione del dibattito, si trova, senza titolo, alle pp. 159-82.

2 Cfr. La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino 1976: si tratta del volume di dispense pubblicato al termine del corso di Filosofia della politica dell’a.a. 1975/76. Teoria generale del diritto è il titolo di un libro uscito soltanto molti anni dopo, nel 1993 presso Giappichelli, anche se questo libro non è altro che la ripubblicazione in un solo volume dei due corsi di Filosofia del diritto sulla Teoria della norma giuridica e sulla Teoria dell’ordinamento giuridico, usciti sempre da Giappichelli nel 1958 e nel 1960. L’edizione italiana dei due corsi in un solo volume era stata preceduta da due edizioni in traduzione spagnola, a Bogotà nel 1987 e a Madrid nel 1991.

3 Anche se non ha mai «avuto voglia» (l’espressione è di Riccardo Guastini in un recente intervento sugli scritti giuridici di Bobbio, di prossima pubblicazione) di dare ai suoi numerosissimi contributi una forma sistematica.

4 Infra, cap. I.III.

5 Cfr. N. BOBBIO, Congedo, in AA.VV., Per una teoria generale della politica. Studi dedicati a Norberto Bobbio, a cura di L. Bonanate e M. Bovero, Passigli Editori, Firenze 1986, p. 249.

6 N. BOBBIO, Stato, governo, società. Per una teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1985, p. VIII. Nella seconda edizione, del 1995, quel sottotitolo viene sostituito dalla piú dimessa formula Frammenti di un dizionario politico.

7 Cosí nel Prólogo al libro di A. GREPPI, Teoría e ideología en el pensamiento político de Norberto Bobbio, Marcial Pons, Madrid-Barcelona 1998, p. 9. L’opera di Greppi rappresenta attualmente lo studio piú completo sul pensiero politico di Bobbio.

8 Ibid., p. 10.

9 Ma non è indiscutibile né che fosse morta, né quindi che Rawls l’abbia resuscitata. Cfr. GREPPI, Teoría e ideología cit. pp. 14 sgg.

10 N. BOBBIO, Prólogo cit, p. 10.

11 Sulla convenzionalità di queste distinzioni, Bobbio ha insistito piú volte.

12 Cfr. il volume degli Atti del convegno, Tradizione e novità della filosofia della politica, Laterza, Bari 1971, p. 34.

13 N. BOBBIO, Dei possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica: cfr. infra, cap. I.I.

14 N. BOBBIO, Considerazioni sulla filosofia politica, in «Rivista italiana di scienza politica», I (1971), 2, p. 367. Ampi brani di questo articolo si trovano nel presente volume riuniti in un unico discorso con il testo del saggio precedente (cfr. sopra, n. 13), al cap. I. I; ma il passo ora citato è qui omesso.

15 Cosí, per esempio, in N. BOBBIO, De senectute, Einaudi, Torino 1996, p. 152.

16 Infra, cap. I.I.

17 Infra, cap. I.II. Si osservi però che la premessa maggiore, sub a), non consiste in una definizione della natura dello stato, bensí del (triplice) fine dello stato, o se si vuole corrisponde a una definizione teleologica, di quelle che Bobbio, come vedremo, non ritiene adeguate a far intendere la natura della politica e del potere politico: nella misura in cui indica fini ulteriori e indipendenti rispetto al «fine minimo» dell’ordine, tale definizione non può essere considerata da Bobbio «descrittiva» della natura della politica e dello stato, bensí «persuasiva», anzi propriamente prescrittiva. Infatti, Locke prescrive allo stato certi fini (la sicurezza della vita, della libertà, dei beni), che sono i suoi valori. Ciò chiarito, la connessione qui ricostruita da Bobbio ha la forma di un duplice ragionamento sillogistico: la proposizione sub b) è in realtà scomponibile in una affermazione di fatto, «il governo non è in grado di garantire la sicurezza di certi beni», e in un giudizio di valore, «non si deve obbedire a uno stato che non consegue il suo fine, appunto la garanzia di tale sicurezza»; allo stesso modo, la proposizione sub c) può essere intesa come un giudizio di fatto, che afferma l’adeguatezza di una certa forma di governo come mezzo per determinati fini, al quale dovrebbe seguire la conclusione normativa che quella è la miglior forma di governo, se nella premessa maggiore, parimenti normativa, è stato affermato che quelli sono i fini che un governo deve perseguire. In entrambi i casi la connessione tra giudizi di fatto e di valore è ammissibile e non comporta violazioni della legge di Hume, che stabilisce l’impossibilità di derivare logicamente conclusioni prescrittive da sole premesse descrittive.

18 Cfr. D. ZOLO, I possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica. Una proposta post-empiristica, in «Teoria politica», I (1985), 3, pp. 91-109.

19 In un testo del 1986 Bobbio rispondeva su questo punto a Zolo di non ritenere che le critiche da piú parti mosse all’epistemologia empiristica l’avessero «travolta». Cfr. infra, cap. VII.II.

20 I due testi sono entrambi riprodotti nel presente volume, il primo parzialmente, al cap. I.II, il secondo integralmente, al cap. I.III.

21 Infra, cap. I.II.

22 Infra, cap. I.III.

23 Nel presente volume questo brano è stato omesso. Cfr. N. BOBBIO, Per una mappa della filosofia politica, in AA.VV., La filosofia politica, oggi, a cura di D. Fiorot, Giappichelli, Torino 1990, p. II.

24 Infra, cap. I.III.

25 Ibid.

26 Ibid. All’elenco dei cattivi utenti dei concetti, Bobbio avrebbe potuto aggiungere molti fra gli stessi filosofi politici contemporanei.

27 Ibid., corsivi aggiunti.

28 Cosí a p. XVI della Premessa a N. BOBBIO, Contributi ad un dizionario giuridico, a cura di R. Guastini, Giappichelli, Torino 1994.

29 N. BOBBIO, La teoria delle forme di governo cit., pp. 1-4, passim.

30 L’espressione, che risale a Cattaneo, è stata usata da Bobbio nel titolo dei suoi studi sul grande scrittore lombardo (cfr. Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971), ed è poi divenuta corrente nel suo linguaggio.

31 N. BOBBIO, Prólogo a A. GREPPI, Teoría e ideología cit., p. II.

32 N. BOBBIO, La teoria delle forme di governo cit., p. 5.

33 Coglie bene questo aspetto Andrea Greppi, là dove afferma che «nel progetto [bobbiano] di chiarificazione del lessico politico confluiscono gli elementi piú significativi della sua filosofia e della sua ideologia». Cfr. Teoría e ideología cit., p. 205.

34 Cfr. infra, cap. V.I.

35 Cfr. N. BOBBIO, M. BOVERO, Società e stato da Hobbes a Marx, Corso di Filosofia della politica, a.a. 1972/73, C.L.U.T., Torino 1973, p. 3. Questo volume di dispense non corrisponde esattamente alle lezioni cosi come furono svolte durante quell’anno accademico. Bobbio redasse i capitoli I (Il modello giusnaturalistico), II (Thomas Hobbes), III (John Locke), VI (Karl Marx) e la Conclusione (Due filosofie della storia) servendosi non soltanto degli appunti per le lezioni ma anche di altri suoi scritti fino ad allora inediti; e «per risparmiare tempo» – come è detto in una apposita avvertenza – affidò (incautamente) la redazione dei capitoli IV (Jean Jacques Rousseau) e V (Georg W. F. Hegel) al suo giovane collaboratore.

36 Cosí nella Prefazione a Norberto Bobbio: 50 anni di studi. Bibliografia degli scritti 1934-1983, a cura di C. Violi, Franco Angeli, Milano 1984, p. 14. Una nuova edizione aggiornata, col titolo Bibliografia degli scritti di Norberto Bobbio 1934-1993, è stata pubblicata da Laterza nel 1995.

37 Cfr. infra, cap. I.III.

38 Cosí nella Prefazione a N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx, Morano, Napoli 1965, pp. 6-7.

39 R. GUASTINI, Bobbio, o della distinzione, in ID., Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Giappichelli, Torino 1996, pp. 41 sgg.