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Saverio Patrizi giunse dopo i vespri. Si insinuò nella cella di clausura senza fare rumore, un’ombra nella luce giallognola tra l’uscio e il battente. La donna avvolta nella tonaca lo riconobbe subito ma non si mosse, restò inginocchiata davanti al crocifisso e considerò come gli incubi più subdoli scivolassero dentro la vita degli uomini con il placido incedere di una lingua d’olio.

«Pax vobiscum, Emilia d’Hercole». L’inquisitore si fece avanti in quell’ambiente asfittico e, manifestando un lieve ripensamento, aggiunse ironico: «Consorella».

Lei accennò un saluto con il capo, senza guardarlo negli occhi. In caso contrario, gli avrebbe mostrato un’espressione bizzarra, in cui odio e terrore si intrecciavano fino a confondersi.

«Di recente è venuta a farvi visita una persona», continuò il Patrizi, richiudendo la porta alle proprie spalle. «Una dama di nobile casata. L’ho fatta seguire, so per certo che è stata qui».

La donna percepì l’intensità delle sue pupille farsi strada nella penombra, fino a posarsi su di lei. Annuì senza proferire verbo.

«Tempo fa mi giuraste obbedienza», le rammentò il religioso, avvicinandosi. «Vi chiedo pertanto di riferirmi l’oggetto dei vostri discorsi, senza esitare. Aprite a me la vostra anima».

Lei annuì ancora, in preda a un lieve sconcerto. Le era parso di cogliere in quella voce una sfumatura di concupiscenza, e d’un tratto si chiese se il Patrizi godesse nel sottomettere le proprie vittime. Un dubbio lecito, si disse, soprattutto nel caso di un uomo indifferente a qualsiasi altro tipo di seduzione.

«Esitate?», fece l’inquisitore, inginocchiandosi accanto a lei con tono sospettoso. «Perché tacete?».

La donna tradì un fremito, infine si decise a brandire l’oggetto metallico che nascondeva nella manica. Al suo contatto avvertì un’intensa ondata di calore, poi la sensazione di essere in procinto di varcare un confine, un limite oltre il quale non sarebbe più stata la stessa. E liberandosi di tutto ciò con un’esclamazione secca, infilzò con rabbioso compiacimento l’addome del religioso.

Il Patrizi serrò le labbra per trattenere un urlo di dolore, poi scivolò indietro e, aggrappandosi alla prima cosa a portata di mano, strappò il velo della suora, scoprendole il volto. Cadde riverso, fissando con gli occhi sbarrati la folta chioma bionda e i lineamenti seducenti fino ad allora rimasti nascosti.

«Voi non siete Emilia d’Hercole!», sibilò, ritrovandosi a terra.

«Temo abbiate sbagliato cella, reverendo». Elena Salviati si alzò in piedi per poter finalmente torreggiare su di lui, e diede sfogo alle emozioni che aveva trattenuto con una risatina stridula. «Suor Emilia si trova da un’altra parte, lontana da questo convento, affinché né voi né i Nascosti possiate più nuocerle. Mi sono fatta raccontare ciò che sapeva sul Rex Deus, poi ho preso il suo posto in attesa del vostro arrivo».

«Dunque ora sapete della reliquia... Quella maledetta reliquia...».

«Sì». Elena fissò con soddisfazione la sua smorfia di dolore, compiacendosi di essere riuscita a infrangere l’algida maschera dell’inquisitore. «So tutto, e dopo la vostra morte potrò riprendere il controllo della mia vita».

Saverio Patrizi scoppiò in un accesso di tosse. «Come avete fatto a prevedere il mio... arrivo?»

«Pensavate sul serio che mi fidassi del cocchiere? Sospettavo che fosse stato corrotto da voi, come la maggior parte della mia servitù, e avevo previsto che sarebbe corso ad avvertirvi. È stato sufficiente attendervi».

«Stupida donna!». Il religioso strinse il ventre come volesse frenare l’emorragia della ferita. «Pensate davvero che con la mia morte risolverete i vostri problemi? Non avete idea di quanto sia esteso l’intrigo... Di quali ombre incombano sul vostro principato...». Tossì. «Godetevi gli ultimi privilegi di cui ancora disponete, poiché presto non sarete più padrona di nulla...».

Donna Salviati si chinò su di lui e lo afferrò per la tonaca. «Cosa intendete?», e gli puntò lo stiletto alla gola. «Da chi devo guardarmi?»

«Cosimo I de’ Medici... Il re di Napoli... L’imperatore stesso...». Il Patrizi osservò il piccolo pugnale, quasi deluso di essere stato sconfitto da un’arma talmente infima. «La vostra signoria è ormai in declino, e non potete fare più nulla per evitarlo». Poi socchiuse gli occhi, e disse spirando: «Il dado è tratto».

Elena restò inginocchiata davanti al corpo dell’inquisitore, e in un’esplosione di rabbia incontrollata lo infilzò ancora al petto. E ancora, e ancora.

«Non è vero», sibilava intanto, sul baratro della follia. «Non è vero!».

«Non prendetemi per quel che non sono», disse con sprezzo Giannettino Doria, mentre teneva d’occhio le vedette che si davano il cambio sulla coffa. Era un uomo robusto dai lineamenti gentili. Moro, gli occhi del colore del mare e una vocazione innata al comando. Non appena se lo era trovato di fronte, Jacopo V Appiani aveva avvertito nei suoi confronti una naturale avversione, unita all’amarezza di non poter eguagliare né il valore né il carisma di un simile condottiero.

«Io non sono il vostro protettore, tantomeno il mezzo per raggiungere i vostri scopi», continuava il comandante della flotta genovese. «Se ho risposto alla vostra chiamata è stato perché avete comunicato di conoscere gli spostamenti del Barbarossa. La mia casata è in guerra con i corsari turchi da trent’anni, e ormai la rivalità ci scorre nelle vene come un destino ineluttabile».

«Non pretendo altro che di liberare il mare da quel flagello», confermò il principe di Piombino, mellifluo. «Lungi da me avervi scomodato per secondi fini, eccellenza».

La galea capitana filava su una superficie bluastra che pareva congiungersi al cielo, non fosse stato per la linea scura della costa puntellata da minuscoli bagliori di fari, castelli e abitazioni. L’imbarcazione raggiungeva dimensioni ragguardevoli, ma non era certo paragonabile a quella andata distrutta lungo le sponde del Giglio. Un incidente alla polveriera, secondo alcuni. Un sabotaggio, secondo l’opinione dei più esperti. In ogni caso il Doria non l’aveva mandata giù, trincerandosi dietro un malumore burrascoso che infondeva il terrore nella ciurma e antipatia nell’Appiani. La fortuna aveva voluto che nel momento dell’esplosione si trovasse sulla terraferma in compagnia degli alti ufficiali, ma la perdita gli era comunque costata un grande dispiacere.

«Campo Albo, avete detto», si sincerò.

«Sì», confermò Jacopo V, «è il luogo dell’ultimo avvistamento».

«Partiremo da lì, veleggiando verso sud. Se il Barbarossa non cambia rotta, procederà in quella direzione».

«Sono d’accordo con voi».

«Non m’importa se siete d’accordo», gli rinfacciò il Doria con un sorriso molesto. «Non ho bisogno di voi, né dei vostri due velieri. Al primo approdo scenderete dalla mia nave e andrete per la vostra strada».

L’Appiani resistette alla tentazione di sputargli in faccia. Schifoso insolente, pensò tra sé. Se aveva qualcosa in comune con don Juan de Vega era il disprezzo per i genovesi, e non andava certo fiero di essersi rivolto alla loro maledetta flotta per trovare aiuto. Ma aveva dovuto saper fare di necessità virtù, e se desiderava mettere le mani su Cristiano d’Hercole e sul Rex Deus, non poteva ancora concedersi il lusso di compiacere l’orgoglio. «Potrei esservi utile», propose, sforzandosi di ignorare le offese che moriva dalla voglia di rivolgere a quel grazioso signore.

«Ne dubito, messere».

«Potrei chiedere rinforzi al re di Napoli», insistette Jacopo V, facendo una promessa che sapeva di non poter mantenere.

Il Doria lo scrutò poco convinto. «Ammesso che risponda», si lasciò sfuggire.

«Tentare non guasta», rincarò il principe di Piombino, aggrappandosi alla speranza di poter restare a bordo di quella nave il tanto che bastava per trovarsi faccia a faccia con il figlio del Giudeo. «Senza contare che potrebbe davvero esserci d’aiuto».

Il comandante si strinse nelle spalle. Fate quel che vi pare, sembrò lasciare intendere. Io solco il mare per battermi, e trionfare o perdere non è la cosa che maggiormente mi preme.