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Il fumo degli incendi aveva già iniziato a disperdersi, ma lo spiazzo davanti alla pieve restava una bocca di tenebra circondata dalle fiamme. Sinan era appostato in cima al campanile, intento a proteggere gli occhi dalle folate di cenere e di polvere pirica. A occidente, nella foschia del mattino, poteva scorgere le galee corsare in panne tra le onde, ma la sua attenzione era catturata da qualcosa che stava sotto di lui, la piazza occupata dal luogotenente del Barbarossa con un drappello di akinci. Il giovane si chiese se Nizzâm fosse giunto fin lì appositamente per ucciderlo, d’altro canto non aveva alcuna intenzione di sfuggirgli. Voleva riprendersi Isabel e, nel dubbio che gli si potesse offrire un’altra occasione, pensò di uscire allo scoperto per negoziare il rilascio della donna a colpi di spada. Valutò se prima non fosse il caso di consultare Leone Strozzi, poi però, impaziente di battersi, infilò il diario di Aloisius sotto il farsetto e fece per lanciarsi verso le scale. Ma d’un tratto si accorse che la situazione era mutata.

Alcuni soldati della Rocca stavano uscendo dai vicoli in fiamme e si riversavano nella piazza emettendo grida di battaglia. Erano una decina di fanti male in arnese e privi di un piano strategico, ma irrompendo in formazione sparpagliata misero in difficoltà i cavalieri turchi, incapaci di governare i destrieri in un ambiente ristretto. Per la maggior parte, gli akinci dovettero scendere da sella e ingaggiare uno scontro corpo a corpo. Non il loro agá. Restando con i piedi ben piantati nelle staffe, Nizzâm estrasse un pistoletto a ruota da una fonda appesa all’arcione e lo scaricò sul petto del primo nemico che si trovò di fronte, poi ripose l’arma fumante, ne sfilò un’altra identica dal lato opposto della sella e la puntò contro un fante in procinto di aggredirlo, facendogli esplodere le cervella. Quindi sguainò la scimitarra e avanzò al trotto in mezzo alla mischia, sferrando fendenti micidiali contro chiunque gli si parasse dinanzi.

«Quello non è un uomo, ma un diavolo», esclamò lo Strozzi, senza nascondere una certa ammirazione.

Sinan, taciturno, coltivava l’intima speranza che il moro venisse ucciso o per lo meno ferito durante lo scontro. Ben presto, tuttavia, si rese conto di nutrire una vana illusione. Nizzâm si muoveva con l’eleganza di una pantera, perfettamente a suo agio tra i nemici. Altrettanto poteva dirsi degli akinci, che dopo l’imbarazzo iniziale si erano divisi in gruppi di spadaccini e picchieri per rispondere all’attacco, mentre i tiratori, rimasti in groppa ai cavalli, si erano portati ai margini della piazza per coprire i compagni con archibugi e balestre. Gli spari dei tüfek laceravano l’aria, facendo scempio dei fanti della Rocca, finché il massacro non fu completo. I turchi ebbero la meglio in pochi minuti, senza subire nemmeno una perdita.

Eccitato dalla scena, Sinan ruppe gli indugi e si allontanò dalla bifora per raggiungere le scale.

«Messere, dove andate?», lo interrogò lo Strozzi, scostandosi dal suo punto di osservazione.

Il giovane si fermò sotto l’arcata affacciata sulla discesa, i lineamenti nascosti nell’ombra. «A risolvere una questione in punta di spada».

«So bene a cosa alludete, ma Nizzâm vi farà a pezzi».

Il volto di Sinan uscì dalla semioscurità, trasfigurato dalla foga. «Non ho scelta, lo volete capire? Quel moro non mi darà mai requie».

«E contate di spuntarla da solo, provocandolo davanti ai suoi sgherri?»

«Lo sfiderò a duello, da pari a pari. Se ha onore accetterà».

«Oh, non ho dubbi al riguardo», disse il cavaliere di Malta. «Il moro ha fama di non essersi mai tirato indietro di fronte a una sfida... e pure di non esserne mai uscito sconfitto. Possibile che non abbiate in mente idee migliori?»

«Nessuna che possa evitarmi la figura del vigliacco».

«Allora andate». La voce del fiorentino si fece fredda. «Ma se verrete ucciso, il Rex Deus andrà perduto».

«Cosa volete che m’importi?», ribatté Sinan. «Il Rex Deus è solo il mezzo per un fine, e se morirò prima di averlo trovato saranno problemi vostri, non miei. Perché l’ho capito benissimo, sapete? Me ne sfugge ancora la ragione, ma sono persuaso che mi abbiate accompagnato fin qui soltanto per saperne di più sul Rex Deus! Avete addirittura ucciso dei guerrieri cristiani per raggiungere lo scopo». Lo scrutò con aria spavalda. «Se l’avessi udito dalla bocca di terzi, non ci avrei mai creduto. Un cavaliere del Battista che aiuta i soldati di Allah a penetrare in una chiesa!».

«Parole ardite, il fuoco del duello vi è già entrato nel sangue», osservò lo Strozzi, indifferente alla provocazione. «Peccato! Vi avrei rivelato ogni cosa al momento opportuno, se solo non foste intestardito ad andare incontro a morte certa».

«Non è detto che sarò io a soccombere».

«Ciò nondimeno, consentitemi di aiutarvi». Il fiorentino si inginocchiò, sfilò un piccolo pugnale nascosto all’interno di un calzare e glielo porse. «La lama è aspersa di un veleno ricavato da una liana del Nuovo Mondo. Un taglio di striscio è sufficiente a uccidere un uomo».

Sinan prese l’arma e la ammirò compiaciuto. Si trattava di uno stiletto di splendida fattura, inguainato in un fodero di avorio ricoperto di intarsi. Accennò un breve gesto di gratitudine e lo infilò nello stivale destro, sistemandolo in modo da poterlo estrarre velocemente all’occorrenza. «A presto, amico mio», e si avviò per la discesa.

«Cercate di non farvi ammazzare», si raccomandò lo Strozzi. «Non verrò a ripescarvi dall’inferno».

La discesa per le scale fu più lunga del previsto. Il ragazzo non aveva la certezza di poter sconfiggere Nizzâm, e tuttavia era ben altro a pungolargli l’animo. Fino ad allora si era affidato alla sua destrezza con la spada e soprattutto al desiderio di vendicarsi su Jacopo V Appiani. Quel sentimento l’aveva guidato come un cieco nella tempesta, spingendolo ad affrontare terribili pericoli. Ma rievocare alla memoria Isabel l’aveva fatto sentire uno stolto. Si apprestava a battersi per una donna che non l’aveva mai amato. Una donna che, se mai gli aveva manifestato affetto, era stato un tiepido sorriso di circostanza. “Se però mi vedesse ora”, pensò, “si accorgerebbe che sono cento volte meglio del suo promesso sposo”.

Eppure c’era dell’altro, anche se esitava ad ammetterlo. Non stava esponendosi a un pericolo mortale soltanto per Isabel. Da qualche tempo sentiva crescere dentro di sé una brama torbida e incontenibile, qualcosa che Cristiano d’Hercole aveva conosciuto soltanto di sfuggita, ma che Sinan, quel bastardo di un corsaro, iniziava a considerare un’autentica ragione di vita.

Giunto che fu nella navata maggiore, trovò Margutte seduto su una panca, intento a contemplare i cadaveri dei compagni e degli sgherri dell’Appiani. Il loro sangue copriva il pavimento con venature purpuree, emanando un tanfo di carne macellata. Degli azap sopravvissuti allo scontro non c’era traccia, probabilmente erano usciti dal monastero per unirsi ai cavalieri turchi appostati sulla piazza. Il giovane consultò con uno sguardo il gigante muto, ma un attimo dopo fu richiamato all’attenzione da un suono proveniente dall’esterno. Sembrava il verso di una fiera in procinto di azzannare la preda. Tendendo l’orecchio, si accorse però che era la voce di un uomo. Nizzâm lo stava chiamando per nome.

Restò a fissare l’ingresso, scosso da emozioni sempre più violente, mentre nella mente si plasmava l’immagine del moro ritto in mezzo al cerchio di fuoco, un’ombra di morte con la scimitarra in pugno.

Don Juan de Vega sentiva i battiti del cuore fondersi a quelli della sua cavalcatura. Non avrebbe saputo dire chi dei due fosse il più stremato, ciò nondimeno aizzò la bestia con un colpo di briglia, strappandole un nitrito di dolore. La faceva correre da ore, ma in quel momento avrebbe continuato a spronarla, anche se si fosse spezzata una zampa. Ormai scorgeva con chiarezza le due donne sbarcate dalla scialuppa, e quando non poté più dubitare della propria vista gridò un nome, «Isabel!», sentendolo uscire dalla gola riarsa come un canto liberatorio. Subito dopo la vide voltarsi, i capelli al vento, e si ritrovò a fissare il volto della figlia illuminato dall’alba. Si sentì pervadere da una gioia così intensa da dimenticarsi della spossatezza e della paura di averla perduta per sempre, e per un attimo non percepì neppure il frenetico tambureggiare degli zoccoli sulla battigia. A separarlo da lei, ormai, era soltanto una breve lingua di roccia che tagliava la spiaggia e finiva per immergersi nel mare. Don Juan avrebbe raggiunto quell’ultimo ostacolo in una manciata di secondi, dopodiché sarebbe sceso di sella per superarlo, arrampicandosi, per poi riabbracciare la figlia adorata.

Senza quasi rendersene conto si ritrovò a seguire con la coda dell’occhio una forma scura e allungata che avanzava veloce fra le onde. Filava dritta verso il punto di approdo delle due donne. Né Isabel né la sua compagna sembravano essersene accorte, invece don Juan puntò lo sguardo su di essa e riconobbe una lancia a quattro remi. Attanagliato da un improvviso senso di angoscia, balzò giù dalla sella per apprestarsi a scavalcare le rocce frapposte tra lui e la figlia, ma la fretta non gli fece prestare la giusta attenzione. Posò malamente il piede destro fra due pietre, perse l’equilibrio e cadde, fulminato da una fitta lancinante alla caviglia. Un lampo di coscienza gli suggerì che era la punizione adeguata per aver maltrattato il cavallo, poi riemerse il terrore di perdere Isabel.

Strisciò sulla distesa di sabbia e sassi, incapace di rialzarsi, finché non riuscì ad aggrapparsi alla sporgenza rocciosa, che da vicino si rivelò ben più elevata di quanto non fosse apparsa dall’alto della sella. Udendo le grida delle fuggitive, si affrettò ad arrampicarsi, incurante di lacerarsi i gomiti e le ginocchia contro le rocce pur di oltrepassare l’ostacolo. Era posseduto dalla smania disperata di raggiungere Isabel a tutti i costi. Ma quando fu in cima, si accorse che i marinai turchi erano già scesi sulla spiaggia, avevano catturato le due compagne e stavano per caricarle a bordo.

«Isabel!», gridò ancora don Juan, balzando giù dalla sporgenza nel momento stesso in cui la lancia riprendeva il mare. Zoppicò verso di essa con la mente persa in vortici di preghiere e imprecazioni. La Santa Vergine non poteva avergliela fatta ritrovare per sottrargliela di nuovo. Era un sacrificio troppo crudele per appartenere al disegno divino!

Non si diede per vinto. Ignorò il dolore alla caviglia e, dando fondo alle sue ultime energie, si tuffò in acqua e riuscì ad aggrapparsi al bordo dello scafo, ma si trovò alle prese con un marinaio deciso a respingerlo con un remo. Schivò il primo colpo e scorse sua figlia tra i membri della ciurma: tentava ancora di ribellarsi, indomita e battagliera com’era stata sua madre. La visione durò un istante, poi don Juan fu colpito dal remo e finì tra le onde, accecato dalla spuma del mare.

Riemerse muovendo bracciate alla rinfusa e inseguì la nave a nuoto senza smettere di gridare il nome di Isabel. Ma l’acqua salata gli entrò in gola, finché dalla sua bocca non uscirono che gorgoglii.