12
Quando Sinan riaprì gli occhi, non provava più dolore. Era coricato su un ripiano di legno, in una cabina in penombra, tra scaffali colmi di libri e di strani oggetti. Dall’esterno si udiva il tamburo del comito che impartiva il ritmo di voga. A giudicare dal rumore, capì di trovarsi nella carrozza di poppa, ma ignorò di quale nave. Era pervaso dal torpore, si sentiva spaesato. Si sforzò di rammentare cosa fosse accaduto, ma dapprincipio gli parve di affondare nell’acqua torbida. Poi, all’improvviso, fu travolto dalla violenza dei ricordi: la tortura, la morte del padre, l’incontro con il Barbarossa, la comparsa di Isabel sull’ammiraglia e l’aggressione del moro... Si portò le mani al volto, cercando di dominare le emozioni, finché non si accorse di avere una persona accanto. Ebbe un sussulto.
«Calmatevi», lo rassicurò l’estraneo. Era il cavaliere di Malta scorto sull’ammiraglia turca durante l’incontro con il Barbarossa.
«Vi riconosco». Il ragazzo si sollevò per mettersi seduto e si rese conto di avere il busto stretto da bendaggi. «Vi ho visto stanotte».
Il cavaliere gli rivolse uno strano sorriso. Una smorfia svagata, deformata da una bruciatura di arma da fuoco che solcava la guancia sinistra e spariva sotto la barba. «Stanotte è poco probabile, dato che dormite da due giorni», lo informò. «Come vi sentite?»
«Assai meglio», rispose Sinan, dopo essersi lasciato sfuggire un «oh» di sorpresa.
«Lo credo bene. Khayr al-Dīn ha preteso che vi curasse il Sufi in persona».
«E chi sarebbe?»
«Per alcuni è un vecchio pazzo, per altri un genio». Il cavaliere di Malta si strinse nelle spalle. «Avrete presto occasione di farvi una vostra opinione. Desidera parlarvi non appena vi sarete ristabilito».
«Sono dunque ancora a bordo dell’ammiraglia...».
L’uomo annuì. «Sulla nave di Caronte in persona», e rise di gusto.
Sinan non si lasciò sviare e cercò di comprendere cosa si nascondesse dietro il volto di quell’uomo. Gli parve ben lungi dall’avere un che di gioviale, pur volendo apparire tale. Al contrario, lasciava trapelare tra le pieghe di espressione quel genere di tormento che non trova mai pace, né in un confessionale né davanti a una fiasca vuota. Furono proprio quei segni a infondergli un misto di simpatia e rispetto. «Non mi avete ancora detto come vi chiamate».
L’uomo si esibì in un inchino. «Leone Strozzi da Firenze, per servirvi».
«Cosa ci fa un cavaliere del Battista su una nave turca?»
«Potrei rivolgervi la stessa domanda. Non ho mai visto nessuno rinnegare il Cristo in maniera tanto repentina, quasi volesse disfarsi di una maledizione». Per un attimo lo sguardo dello Strozzi si fece profondo, poi si sciolse in un nuovo sorriso. «In ogni modo, avete dato prova di coraggio. Dopo aver stretto accordi con voi, quel satanasso del Barbarossa ha bestemmiato per tutta la notte. Credo non abbia digerito la richiesta di liberare gli ostaggi».
«E l’altro? Il moro che mi ha aggredito, intendo».
«Alludete a Nizzâm», disse lo Strozzi. «Guardatevi da lui. Non l’avessero tenuto fermo, a quest’ora vi trovereste all’inferno, fra gli eretici e gli apostati. A quanto pare, vostro padre deve avergli giocato un brutto scherzo prima di morire. Non si può certo dire che il Giudeo vi abbia lasciato una bella eredità».
A tali parole, Sinan fu attraversato dal lampo di un ricordo e frugò nelle tasche dei cosciali alla ricerca di qualcosa, ma non la trovò. La bussola cilindrica era scomparsa! Al pensiero di chi potesse averla presa, si sentì perduto. Mascherò lo sgomento per sfuggire a un’occhiata indagatrice del cavaliere di Malta, ma non fu certo di aver dissimulato abbastanza in fretta.
«Fatemi una confidenza», soggiunse lo Strozzi. «Quanto avete detto al Barbarossa corrisponde al vero o si tratta di un mero espediente per allungare la vostra vita?»
«Non sono così pazzo da mentire a un uomo del genere. Sono stato del tutto sincero».
«Quindi il Rex Deus esiste davvero».
Sinan era ben lungi dal voler confidarsi. Non conosceva nulla di quel cavaliere e il fatto che gli fosse simpatico rappresentava un’ulteriore minaccia. Forse Khayr al-Dīn l’aveva mandato apposta per strappargli una confessione. Anziché rispondere, decise quindi di dare voce al proprio disappunto. «Non mi avete ancora detto cosa ci fate su questa nave».
Lo Strozzi sollevò le sopracciglia con fare diplomatico. «Per volontà di re Francesco I di Francia, in qualità di suo ambasciatore», rispose. «Immagino sappiate del patto stretto fra sua maestà e il Gran Turco. La loro alleanza è stata definita “scellerata” o “contro natura”, ma vi assicuro che in vita mia ho assistito a cose ben peggiori. L’uomo è una bestia pazza, bramosa di ideali e di sangue».
«E voi, fra le due brame, quale preferite?».
Per la prima volta l’uomo gettò la maschera, lasciando trapelare l’astio di una belva acquattata nel buio. «Io cerco vendetta», e il suo odio si fece quasi palpabile. «Il Barbarossa si degna di chiamarmi “caro amico”, e io lo assecondo. Ma la sua presenza mi ripugna al punto che non esiterei a squartargli il petto alla prima occasione. Eppure quel diavolo infedele mi serve. La sua amicizia mi ripaga cento volte del peccato mortale che commetto nell’accettarla, poiché grazie a lui potrò uccidere un uomo che inseguo da anni».
Sinan fu quasi affascinato da quell’odio. Era puro, nobile, e lo portò a chiedersi se il suo desiderio di vendetta verso Jacopo V Appiani ne eguagliasse l’ardore. «Chi è mai quest’uomo, che vi costringe addirittura a stringere accordi con il grand’ammiraglio della flotta turca?».
Lo Strozzi si corrucciò, facendo balenare dagli occhi una ferocia assassina. «Sua signoria Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze. Che Satana lo tenga in vita fin quando non me lo troverò di fronte». Dopo aver pronunciato quella preghiera di morte, attenuò l’espressione e assunse inaspettatamente un tono cordiale. «Se vorrete tornare sull’argomento, cercatemi sulla mia galeazza, la Lionne. Prima però, non scordatevi del Sufi. Vuole parlarvi con impazienza di un oggetto misterioso, e non tarderà a farvi visita».
A quelle parole, Sinan intuì quale fine avesse fatto la bussola cilindrica lasciata dal padre. E ancora una volta, comprese di trovarsi appeso a un filo.
«Quasi dimenticavo», aggiunse il cavaliere di Malta. «Vi sarete accorto che il naviglio è in movimento. Stiamo facendo rotta verso Campo Albo, secondo le vostre indicazioni. Pregate di trovare il pellegrino di cui parlavate l’altra notte, altrimenti Khayr al-Dīn non esiterà a fare scempio delle vostre carni, per poi darle in pasto ai pesci».
«Non lo temo», ribatté Sinan. «Le indicazioni di mio padre erano precise».
«Buon per voi», disse lo Strozzi, con l’aria di saperla lunga al riguardo. «Prendo congedo».
«Un’ultima domanda, se posso», lo fermò il ragazzo. C’era un’altra questione che gli premeva di risolvere, e fin dal risveglio non gli dava requie.
Il cavaliere di Malta, ormai in procinto di varcare l’ingresso, si fermò e gli fece cenno di parlare.
«La donna spagnola che ho visto salire sull’ammiraglia insieme a Nizzâm», spiegò Sinan. «Dove si trova?».
Leone Strozzi gli rivolse un sorriso amaro. «Meglio per voi se la dimenticate», e senza aggiungere altro uscì sul ponte indorato dal sole. Prima che richiudesse la porta, Sinan scorse un uomo enorme appostato ai bordi dell’ingresso. Il gigante albino che l’aveva salvato piantonava l’entrata della stanza come un grosso cane da guardia.
Il Sufi non si fece attendere. Sinan si stava risvegliando da un breve sonno quando vide entrare un vecchio dal fisico asciutto, con una tunica di lana bianca e il capo avvolto da un turbante dello stesso colore. Riconobbe alla prima occhiata le sure che portava tatuate sugli avambracci, ma a incuriosirlo furono gli occhiali dalle lenti ovali, dietro le quali guizzavano occhi scuri dal taglio asiatico.
«As-salaām ’alayk», lo salutò, accennando un inchino. «Mi chiamo Omar el-Aziz, sono colui che vi ha curato».
Il ragazzo scese dal giaciglio dove era coricato e rispose al saluto, cercando di capire quale tipo d’uomo si trovasse di fronte. «Vi sono riconoscente, maestro».
«Chiamatemi semplicemente Omar», lo invitò il vecchio, con fare amabile. «Da anni, ormai, ho rinunciato alla vanità di fregiarmi di titoli».
«Il cavaliere di Malta ha detto che avevate domande da pormi».
«Tutto a suo tempo», disse il Sufi avvicinandosi. Lo pregò di stare ben eretto, poi controllò i bendaggi che gli fasciavano il petto e la schiena. «Provate ancora dolore?»
«Soltanto fastidio».
L’uomo annuì. «La vostra tempra è forte, come quella di vostro padre».
A Sinan non sfuggì il tono commosso della sua voce. «Lo conoscevate?»
«Eravamo amici». Omar si tolse gli occhiali e li pulì strofinandoli con un lembo della tonaca. Aveva uno sguardo profondo e intelligente. «Mi ha parlato molto di voi».
«Non immagino cosa possa avervi detto». Il ragazzo finse indifferenza. Non sapeva ancora quale discorso avrebbe dovuto affrontare, ma temeva che, lasciandosi andare alle emozioni, sarebbe diventato una facile preda. «Ho trascorso pochissimo tempo insieme a mio padre. Era sempre per mare, lontano da me e da mia madre».
«Eppure vi ha amato con una tale intensità da non trovare eguali. Siatene onorato. Non ha esitato a sfidare l’ira dell’amír per riavervi con sé».
«È sempre stato molto coraggioso», ammise Sinan, mentre riviveva la scena del combattimento del padre con Jacopo V nei sotterranei del Volterraio. Si era battuto con ardimento fino all’ultimo respiro. Se non si fosse lasciato distrarre, avrebbe senz’altro avuto la meglio.
«Era anche un sapiente», soggiunse Omar, sorprendendolo.
«Lo ignoravo».
«Un profondo conoscitore delle stelle, per essere precisi. La sua erudizione superava di gran lunga le nozioni dei navigatori più esperti. Era uno studioso degli astri, e sull’argomento possedeva molti libri. Una scienza appresa dai suoi avi, suppongo».
Fino ad allora, Sinan aveva pensato al genitore come a un avventuriero e a uno spietato pirata, dubitando persino che sapesse leggere. Ora, invece, veniva messo al corrente di risvolti che non immaginava. «So di un lontano zio cabalista, ma nulla di più», azzardò.
«La vostra famiglia serba grandi segreti, mio caro. E forse il Rex Deus non è il maggiore fra essi».
«Intendete che mio padre non si è imbattuto nel Rex Deus per puro caso?»
«Sono poche le cose che accadono per caso. Il fatto che il Giudeo abbia arrembato quella galea del papa, non è fra questi. Era sulle sue tracce».
Sinan si sentì pervadere dalla curiosità, ma anziché metterla a nudo, fece un passo indietro e scrutò il vecchio con sospetto. «Perché ne siete tanto certo? Chi eravate per lui?»
«Un mistico, una guida spirituale e un guaritore. Ma soprattutto, come ho già detto, ero suo amico».
«Di preciso, cosa vi ha raccontato?»
«Vostro padre era un uomo estremamente riservato, misurava le parole anche con le persone degne di fiducia. Mi piace scorgere nella sua riservatezza un atto di bontà nei miei confronti, per tutelarmi da Khayr al-Dīn. Se l’amír avesse sospettato qualcosa, mi avrebbe minacciato e sottoposto a tortura per farmi parlare». Omar emise un sospiro, e in una breve pausa fece scorrere le dita sopra i volumi ordinati su uno scaffale. «Tuttavia, qualcosa mi ha detto», e posò la mano su un cofanetto di cuoio seminascosto tra i libri. «Mi accennò di una stella a cinque punte e di un ago magnetico rinchiusi dentro un minuscolo cilindro di metallo».
«La chiave cilindrica», disse Sinan, vedendolo estrarre dal contenitore un piccolo oggetto a lui ben noto. Al pensiero di aver avuto quella bussola sempre accanto, si sentì uno sciocco per non averla cercata. D’altra parte, lo Strozzi gli aveva lasciato intendere che fosse stato proprio il Sufi a sottrargliela, e al ragazzo non era rimasto che aspettare di incontrarlo per riaverla indietro, chiedendosi a quale prezzo.
«L’ho messa da parte perché non vi fosse sottratta, nel timore che il grand’ammiraglio vi facesse perquisire durante il sonno», rivelò Omar, restituendogliela. «Ne conoscete l’utilizzo?»
«Mio padre mi ha rivelato ben poco».
Il vecchio indicò la stella che decorava il quadrante. «Cinque punte», e la sua voce si tramutò in un sussurro. «Come le piaghe di Gesù».
«Intendete che...».
«E alla base», continuò il Sufi, «una croce templare».
«Non credevo fosse un riferimento all’Ordine del Tempio», ammise il ragazzo, nascondendo la bussola in una tasca dei cosciali. Aveva deciso di fidarsi di Omar, ma temeva che da un momento all’altro potesse irrompere nella stanza un uomo del Barbarossa. Anche il vecchio trasudava apprensione. Probabilmente, si disse Sinan, sapeva ben poco sul Rex Deus, e si era limitato a riportargli le parole udite dal Giudeo, senza conoscerne l’intero significato. «Perché mio padre si è fidato proprio di voi?», gli chiese. «Entrambi lo conoscevamo abbastanza da sapere che l’amicizia, per lui, non era una garanzia sufficiente».
«Per due motivi», rispose il Sufi. «Fra tutti gli uomini al servizio di Khayr al-Dīn, io ero il più sapiente, ma soprattutto l’unico ad avere prospettive di sopravvivergli. Ero pertanto il depositario più idoneo per le sue confidenze».
Il ragazzo si ritrovò a sorridere. Sia per l’Oriente sia per l’Occidente, valeva la medesima regola: i vecchi dotti campavano più a lungo dei giovani guerrieri. Ciò nondimeno, Omar continuava a sembrargli fuori posto in quel gioco di intrighi. «Vogliate scusarmi, ma mi sfugge come un individuo della vostra levatura possa essere capitato nell’armata del diavolo».
«Per molti anni ho aderito alla disciplina mistica del sufismo», spiegò l’uomo, «finché il sultano non venne a conoscenza delle mie doti di guaritore e mi destinò alla flotta barbaresca, affinché mi prendessi cura dell’amír e dei suoi rais. Così conobbi vostro padre. E tra gli uomini di intelletto, come ben saprete, la complicità sboccia facilmente».
«E con Leone Strozzi in quali rapporti siete?»
«Il cavaliere di Malta vi incuriosisce?»
«Ho parlato con lui per poco tempo, ma mi ha dato l’impressione di chi sa più di quanto voglia far credere».
«Un sospetto condiviso da molti».
«Sapeva che avevate messo al sicuro la chiave cilindrica».
«Non era presente mentre l’ho fatto». Il Sufi parve sorpreso. «Deve averlo supposto».
«Ha dovuto supporre ben più di questo», controbatté Sinan, «dato che non ho rivelato a nessuno di esserne in possesso».
«Quindi lo Strozzi sa del Rex Deus», concluse il vecchio, aggrottando la fronte per la preoccupazione. «Sapeva del segreto del Giudeo».
«Devo scoprire di quali informazioni disponga».
«Avete ragione, ma non potete permettervi di agire con ingenuità. Il capitano della Lionne non è un monaco guerriero qualsiasi. Ricoprì l’incarico di comandante delle galee dell’Ordine di San Giovanni, finché non vendette l’anima al re di Francia, poi al Barbarossa. È un individuo imperscrutabile, mosso da scopi che conosco soltanto di sfuggita».
«Mi ha parlato di una vendetta».
«Non basta per conoscerlo», sospirò Omar. «La metà degli uomini di questa armata nutre sogni di vendetta. A rendere unico lo Strozzi sono le formidabili strategie che sta adottando per ottenerla».
Stuzzicato dall’argomento, Sinan ripensò al suo desiderio di uccidere il principe di Piombino. Fino ad allora non aveva architettato un piano preciso, sperando che in un modo o nell’altro la ricerca del Rex Deus l’avrebbe portato a scontrarsi con l’Appiani. La questione, tuttavia, poteva sfuggirgli di mano e renderlo vittima delle circostanze. Per scongiurare una simile eventualità, era necessario elaborare una strategia più efficace. Forse, si disse, scambiando qualche parola con il cavaliere di Malta avrebbe potuto trarre un doppio giovamento: scoprire cosa sapeva del Rex Deus e ottenere qualche consiglio per pianificare la propria vendetta.
«E dite, vostro padre vi ha parlato della mappa?», gli chiese il Sufi, strappandolo da un prolungato silenzio.
«Approssimativamente».
«Trovate la mappa e troverete il Rex Deus», lo ammonì il vecchio.
Il ragazzo percepì in quelle poche parole il peso di una montagna. «E poi, cosa mi aspetterà?»
«Il Giudeo non mi ha mai rivelato in cosa consistesse il Rex Deus. Dubito che lo sapesse lui stesso. Ma era persuaso che voi l’avreste trovato. L’aveva letto nelle stelle, diceva. Ripeteva di continuo che siete nato all’entrata di Giove nel segno del Leone, un indiscusso segno di grandezza. Quanto a me, se potrò esservi d’aiuto, lo farò».
«Dunque manterrete il segreto».
«Potete contare sulla mia lealtà e il mio appoggio», disse Omar, voltandosi verso l’ingresso. «Vi ho detto tutto ciò di cui ero al corrente sul Rex Deus. Non so altro, e non ho idea se ciò potrà esservi d’aiuto. Ora però devo andare, ho il permesso di starvi accanto soltanto per il tempo necessario a medicarvi. Non vorrei che l’amír si insospettisse», e accennò un saluto. «Vi consiglio di riposare».
«Aspettate», lo trattenne Sinan, tornando a sedersi sul ripiano di legno. «Vorrei chiedervi un’ultima cosa. Si tratta di una questione importante».
«Dite pure».
«Dove posso trovare Nizzâm?».
Il Sufi lo scrutò preoccupato. «Cosa volete da quell’assassino?»
«Ha una cosa che mi appartiene».
«Allora dovrete attendere a reclamarla. Il luogotenente ha condotto l’intera armata grossa a nord di Campo Albo, in un approdo che non conosco. Da lì proseguirà a cavallo verso sud, per unirsi alle galee del Barbarossa».