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La palla di cannone sorvolò il caicco e svanì con un sibilo fra la spuma delle onde. Il sole colava a picco sull’orizzonte, illuminando di rosso fuoco le imponenti galee corsare e i nugoli di scialuppe che conducevano i soldati turchi verso le scogliere di Campo Albo. Erano a decine, divorate da chiaroscuri che viravano dal nero fino al colore del sangue. Sinan osservava le loro sagome veloci, assordato dal rombo delle colubrine e dalle grida dei remieri sfiancati dal ritmo di voga. I suoi sensi erano offuscati dall’odore della salsedine, della polvere da sparo e della pece degli scafi, un amalgama pungente che gli mordeva le viscere e risvegliava la paura. Davanti ai suoi occhi, le torri della Rocca si stagliavano su una rupe contro nubi venate di porpora, vomitando colpi di cannone dalle sommità. Di tanto in tanto si udivano schianti di fasciami e grida di uomini scagliati fra le onde, ma l’avanzata delle scialuppe continuava inesorabile, coperta dalle artiglierie delle galee che si aggiravano al largo della scogliera come belve affamate. La più temibile, l’ammiraglia, le guidava in posizione avanzata, quasi che il Barbarossa sfidasse il nemico a prenderlo di mira. Sinan sapeva bene che quella era una manovra diversiva. Buona parte della flotta aveva proseguito oltre una piccola insenatura detta “Cala-Galera”, per penetrare in una rete di canali che collegava il mare alle estese paludi dell’entroterra. In quel luogo, i turchi sarebbero sbarcati non visti e avrebbero marciato verso la Rocca senza essere presi di mira dai suoi cannoni. E poi si attendeva la calata di Nizzâm, destinata ad abbattersi da nord sulle coste di Campo Albo.
A ben vedere, Sinan si trovava nella situazione di maggior pericolo. A bordo del caicco esposto alle cannonate, in mezzo a uno sciame di piccole imbarcazioni cariche di soldati pronti a farsi massacrare in nome di Allah e di Khayr al-Dīn. La sua missione, però, era diversa. Mentre quei poveri diavoli stavano gettandosi all’assedio della Rocca, nel tentativo di fare breccia tra le fortificazioni cristiane, lui e i suoi compagni erano diretti più a nord, verso un obiettivo di scarso valore strategico. In quel punto, a ridosso della cinta, sorgeva un antico monastero, al cui interno si trovava il monachus peregrinus che custodiva il segreto del Rex Deus. Sinan non aveva ancora rivelato a nessuno il suo nome, ma entro breve sarebbe stato costretto a farlo, e ciò lo preoccupava.
Il Barbarossa l’aveva mandato in missione con un branco di canaglie. Sei luridi azap, assassini senza onore né scrupoli che non avrebbero esitato a pugnalarlo alla schiena alla prima occasione. Le sue maggiori inquietudini, tuttavia, riguardavano gli altri tre individui che gli sedevano accanto sul banco di poppa. Il primo si chiamava Assān Agà, un ometto tarchiato con gli occhi da segugio, rapito giovanissimo dalle spelonche della Sardegna per diventare il più fedele tra i seguaci dell’amír. Più fanatico dei capi giannizzeri, si guardava intorno con diffidenza, la mano destra stretta alla jambiya infilata nella cintura. Veniva poi il gigantesco Margutte, bianco come un cadavere e con la pesante mazza stretta tra i pugni. Scrutava i flutti con aria sognante, quasi inconsapevole del rischio a cui andava incontro. Infine c’era Leone Strozzi. Sinan era rimasto molto stupito nel vederlo salire sul caicco per prendere parte alla missione. Era noto che il cavaliere di Malta, pur professandosi “amico” del Barbarossa, preferiva mantenere una posizione neutrale, al punto da tenere la sua galeazza, la Lionne, perennemente lontana dai teatri degli scontri. E ora, invece, eccolo a militare in prima fila per ragioni che il giovane ignorava.
Lo Strozzi aveva sostituito all’uniforme dell’Ordine di San Giovanni un semplice farsetto imbottito e, come armamento, portava con sé una spada e una daghetta da duello. Anche Sinan era equipaggiato a dovere. Gli era stato concesso di portare il pugnale del padre e una espada ropera, o “spada da lato”, dotata di una guardia a crociera abbellita da anelli metallici. L’aveva preferita a una scimitarra, perché poco avvezzo a brandire lame ricurve.
Prima di giungere sotto costa, si distaccarono dal gruppo delle scialuppe e condussero il caicco lievemente a settentrione, verso la sporgenza dominata dal monastero.
«Non vorrei essere al posto di quei disgraziati». Lo Strozzi indicò ai compagni le piccole imbarcazioni turche ormai vicine all’approdo, un vecchio porto abbandonato ai piedi della rupe. «A quanto si dice, la Rocca è stata rinforzata il secolo scorso da re Alfonso d’Aragona e da allora gode della fama di essere inespugnabile».
«Pensiamo a noi, piuttosto», ribatté Assān. La sua voce sottile, in contrasto con la stazza taurina, serbava la cantilena delle parlate sarde. «Non ci spetta un compito facile».
Sinan non poté dargli torto. Sebbene il monastero non si avvalesse della difesa di cannoni e cecchini, sorgeva sulla sommità di un dirupo a prima vista molto difficile da scalare. E per quanto aguzzasse la vista, il giovane non riusciva a scorgere altra via per raggiungere l’edificio.
Accostarono ai margini di una spiaggia angusta e scesero in fretta per non dare nell’occhio. L’eventualità di imbattersi in nemici era remota, dato che l’avanzata dei turchi stava tenendo impegnate le difese della Rocca. D’altro canto, non si poteva mai sapere.
Iniziarono l’arrampicata, dieci in tutto, aiutandosi con gli stessi rampini metallici usati per agganciare le navi nemiche durante gli arrembaggi.
Sinan lasciò procedere due azap e si aggrappò ai massi, seguendoli. Dovette impegnarsi al massimo per stare al loro ritmo. Quegli uomini erano agilissimi e si inerpicavano senza sforzo, quasi che le loro dita aderissero perfettamente alle stesse sporgenze che lui, invece, trovava scivolose e taglienti. A metà scalata, il dolore alle mani si fece intenso e un forte indolenzimento gli pervase le membra. Il ragazzo ebbe la sensazione che le ferite provocate dalla tortura si fossero riaperte, avvertiva fitte lancinanti alla schiena e al petto. Proseguì a denti stretti fino allo stremo delle forze ma, quando giunse in un punto della salita particolarmente ostico, fu costretto a fermarsi per raccogliere le energie. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, ripensando alle motivazioni che l’avevano spinto fin lì. Non era un soldato votato al massacro, agiva per scopi personali. Voleva Isabel, le sette galee di suo padre, il segreto del Rex Deus e, soprattutto, voleva la vendetta. Avesse anche dovuto ammazzarsi di fatica, giurò a se stesso che sarebbe riuscito a trovare il modo di uccidere Jacopo V Appiani.
All’improvviso sentì una mano stringergli il braccio destro e aiutarlo a proseguire. Voltandosi, il ragazzo vide lo Strozzi madido di sudore e congestionato dalla fatica. Il fiorentino si limitò a sorridergli, indicando con lo sguardo la sommità della rupe. Mancava poco.
Con un ultimo sforzo, si issarono fino in cima e attesero gli altri azap, Margutte e infine Assān, che aveva l’aria di essere sfinito.
Il sardo fissò Sinan dritto negli occhi, quasi stupito che ce l’avesse fatta. «Dobbiamo entrare nel monastero», disse trafelato.
La pieve della Rocca era edificata come un piccolo bastione. Offriva al dirupo soltanto la torre campanaria e le murature dell’abside, mentre le sue pareti laterali si fondevano alla cinta difensiva. Nessun ingresso visibile al pianoterra.
«La facciata è dall’altra parte delle merlature», dedusse il cavaliere di Malta, studiando la forma dell’edificio. «Vi si accede soltanto dalla borgata interna della Rocca. Dovremo entrare da un altro punto».
Sinan annuì. «L’unica via è quella», e indicò il tetto del monastero, facendo notare ai compagni un piccolo ingresso che permetteva di accedere al campanile.
Assān lo spintonò, frapponendosi tra lui e il fiorentino. «Non saranno certo un cristiano e un ragazzino a decidere il piano d’azione!».
«Come desiderate, agá6», commentò lo Strozzi in tono canzonatorio. «Resta il fatto che non disponiamo di altri accessi, a meno che non vogliate sfondare le mura a testate. Ma dovrete prima togliervi il turbante».
Con uno scatto d’ira, il sardo sguainò la jambiya e minacciò di aggredirlo, ma dovette fermarsi altrettanto velocemente. Il cavaliere di Malta gli stava già puntando la daghetta contro il ventre. «Tenete a freno le vostre smanie per altri momenti», disse, questa volta serio, «e guardatevi intorno. A meno che non mi sbagli, non disponiamo di spingarde in grado di aprire varchi tra le mura. Sarà quindi necessario penetrare dall’alto».
«Così sia», grugnì Assān, tirandosi indietro con fare circospetto. Si asciugò la fronte imperlata di sudore e fece cenno agli azap di arrampicarsi sul tetto del monastero. Gli uomini, già pronti a prendere le sue parti contro lo Strozzi, riposero le armi e obbedirono al comando, aggrappandosi a un ordine di bifore per raggiungere la sommità dell’edificio. Il ragazzo e il fiorentino li seguirono per ultimi, temendo che l’agá approfittasse di quel momento per vendicarsi dell’insulto.
L’imbrunire si propagava a oriente sui poggi di Tirli. Giunto che fu sul tetto della pieve, Sinan poté ammirare il tratto di mare che lambiva la punta della Rocca e l’intera costa fino all’insenatura di Cala-Galera. L’incessante boato dei cannoni gli rimbombava dentro il petto e nelle tempie, alimentando non più la paura ma un’euforia selvaggia. Quell’emozione si accentuava alla vista delle orde turche che continuavano a sbarcare lungo la riva e ad arrampicarsi sulle scogliere, mentre le galee corsare, spettri frastagliati tra le onde, scaricavano colubrine e falconetti contro le difese cristiane. I flutti avevano assunto una colorazione nerastra e rilucevano metallici alle fiammate dei cannoni, avvolgendo nell’oscurità decine di scialuppe in frantumi, insieme ai loro equipaggi.
«Tutto questo per il Rex Deus», bisbigliò tra sé il giovane.
«Non siate ingenuo», commentò lo Strozzi, senza farsi udire dagli altri. «Era da tempo che il Barbarossa progettava una sortita lungo queste coste».
«La mia missione è dunque un pretesto?»
«Al contrario, è molto importante. Ma Khayr al-Dīn è pur sempre un pirata, e il suo odio per i cristiani è smisurato».
Sinan si chiese cosa sapesse esattamente il cavaliere di Malta dei piani del Barbarossa, ma erano di altra natura le domande che avrebbe voluto rivolgergli. «Ho bisogno di parlarvi», confessò, rompendo gli indugi.
«Non ora», rispose l’uomo, invitandolo a raggiungere il resto della compagnia.
Gli altri li attendevano davanti al piccolo battente sprangato che collegava il tetto all’interno del campanile. A un cenno di Assān, Margutte iniziò a prenderlo a spallate, ma proprio allora risuonarono delle grida dall’alto. Un vecchio monaco si era sporto dalla sommità della torre, inveendo contro di loro con improperi e sputacchi. Uno degli azap lo prese di mira con la balestra, ma Sinan gli impedì di scoccare il dardo. «Potrebbe essere l’uomo che stiamo cercando», gridò allarmato, facendogli deporre l’arma.
Seguì lo schianto del portale, e il gruppo si riversò all’interno.
«Catturate tutti i monaci!», ordinò il giovane, «e portateli giù, nella navata del monastero!».
Nizzâm raggiunse al tramonto le fuste corsare attraccate a oriente di Campo Albo, sulle sponde delle vaste paludi che, secondo certe voci, si estendevano nell’entroterra fino alle mura di Grosseto. Aveva indugiato più volte durante la sanguinaria cavalcata attraverso la Maremma, spingendo gli akinci a razziare le ville e i monasteri disseminati lungo poggi e vallate, senza risparmiare nemmeno l’antico eremo di Malavalle. I suoi velieri nel frattempo avevano costeggiato i litorali, cannoneggiando gli abitati rivieraschi e facendo incetta di schiavi cristiani. Ma strada facendo era venuto a conoscenza di un’incombente minaccia: un contingente di tercios era partito da Napoli, appositamente per contrastare l’avanzata ottomana. Fino ad allora non ne aveva scorto traccia, tuttavia era meglio stare all’erta. Se si volevano evitare complicazioni, l’assedio della Rocca non poteva protrarsi a lungo.
Il piano d’attacco prevedeva di stringere i nemici in una morsa di ferro e fuoco, sia dal mare sia dall’entroterra. Nizzâm immaginò che in quel momento, lungo la costa, le galee di Khayr al-Dīn stessero prendendo d’assalto i bastioni della Rocca, mentre le fuste dell’armata, inoltrandosi verso le paludi, avevano fatto scendere a terra orde di ghazi con l’ordine di ridurre all’impotenza gli abitati vicini. Ma il grosso delle milizie e delle artiglierie era sbarcato per ultimo, in un approdo nascosto tra le lagune, a ovest della fortezza, e da lì stava marciando verso il fronte orientale della Rocca. Ormai se ne distinguevano chiaramente le torri, contro l’imbrunire.
Quando si giunse abbastanza vicini per predisporre l’assedio, Nizzâm fece mettere a riposo i reparti di akinci e giannizzeri al suo comando, poi si avviò a cavallo verso il campo avanzato, per controllare la disposizione delle bocche da fuoco. Erano state trasportate fin lì da schiavi e bestie da soma, e ora venivano sistemate a ventaglio secondo gli ordini di peso, calibro e gittata. Le più arretrate erano le colubrine forgiate a forma di drago, che superavano le tremilacinquecento libbre al pezzo e sputavano palle da sei pollici capaci di descrivere parabole di quasi cinquemila cubiti. Venivano poi i falconi, novecento libbre di peso per tre pollici di calibro e gittata massima di quattromila cubiti. Infine i falconetti, o spingarde, circa settecento libbre per due pollici di calibro e tremila cubiti di gittata. Più diminuiva il calibro, più aumentava la frequenza di tiro.
Ma il luogotenente del Barbarossa sapeva bene che, nel momento cruciale, il ruolo determinante sarebbe spettato ai tüfek dei giannizzeri, più precisi e potenti degli archibugi europei. I loro colpi potevano uccidere un uomo a oltre settecento cubiti di distanza, permettendo agli assedianti di combattere sotto le mura e di accorciare la distanza dello scontro, finché non sarebbe stato a portata delle picche e delle scimitarre.
In groppa al suo corsiero, il moro osservava con rapimento la disposizione delle grandi bocche da fuoco e assaporava l’idea del combattimento imminente. Quella non sarebbe stata la solita razzia destinata a svanire nell’oblio, ma una vera e propria battaglia. Avrebbero perso la vita centinaia, forse migliaia di uomini, per permettere il compiersi di una valorosa impresa. Di certo se ne sarebbe parlato per secoli, e lui era pronto a prendervi parte.
Ma se ne avesse avuto l’occasione, si sarebbe aperto un varco nella furia dello scontro e avrebbe guidato i suoi falchi combattenti attraverso le borgate interne alle mura, alla ricerca di un piccolo monastero affacciato sul mare. Conosceva alla perfezione il piano d’attacco e sapeva che là avrebbe trovato il figlio di Sinan, alla ricerca del Rex Deus. A Nizzâm non importava nulla di quell’antico mistero e non si curava nemmeno del divieto dell’amír, che gli aveva proibito categoricamente di intralciare la missione del ragazzo. Da quando aveva impugnato il suo primo pugnale, obbediva soltanto alle leggi dell’acciaio e del sangue. Aveva chiesto vendetta ai Sitanis, le divinità malefiche dei suoi padri, e in nome della rabbia che gli mordeva le viscere, avrebbe fatto di tutto per ottenerla.
6 Con questa parola i turchi si riferivano al capo della milizia o al soldato più anziano.