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Il corpo di Cristiano era un crogiolo di dolore.
Jacopo V l’aveva fatto condurre dai soldati nelle segrete del Volterraio, un luogo in cui il giovane non era mai sceso, ma che trovò molto simile alle miniere di ferro del versante nord-occidentale dell’isola. Lo spavento per quanto stava accadendo fu tale da non consentirgli di notare altri particolari, eccetto l’intenso sentore di cloaca e di morte esalato da quei tetri recessi. Il principe l’aveva fatto incatenare a due anelli di ferro inchiodati a una parete, perché venisse torturato fin quando non si fosse deciso a rivelare la verità. Ma qualsiasi cosa fosse quella dannata verità, Cristiano era certo di non saperne nulla, al punto da scongiurare il patrigno di rinsavire o di spiegargli la vera ragione di tanto accanimento. Era come se stesse vivendo un incubo. L’uomo che fino ad allora gli era apparso come il più amorevole dei genitori si era tramutato in un essere brutale e privo di scrupoli, insensibile ai lamenti e alle grida di dolore. L’aveva fatto prendere a pugni e a bastonate, infine era stata la volta della frusta. A ogni schiocco seguivano le sue incessanti domande, gridate alle orecchie o sussurrate come minacce.
«Il tempo stringe», lo sferzò per l’ennesima volta il principe di Piombino. «Devo sapere al più presto, altrimenti vi farò scannare come una bestia».
«Perché...?», biascicò Cristiano, schiudendo le labbra spaccate in più punti. «Perché proprio adesso...». Dalla sua voce trasudava devozione. La tortura era talmente feroce che avrebbe detto e fatto qualsiasi cosa gli si chiedeva.
«Il Barbarossa non accetterà un altro rifiuto». Il volto di Jacopo V si era trasfigurato in una maschera di perversione. «Già una volta lo convinsi a desistere, ma ora quel maledetto corsaro non se ne andrà finché non vi avrà trovato. Vuole lo stesso segreto che sto cercando io, ne sono certo».
«Ma io non so nulla... Nessun segreto...».
«Maledetto bugiardo!». Il principe lo prese per i capelli e gli fece sbattere la testa contro la parete. «Voi dovete sapere. Dovete! Altrimenti perché il grand’ammiraglio della flotta turca si disturberebbe ad assediare l’Elba?».
Cristiano si sforzò di non piangere, il sale delle lacrime gli bruciava sulle ferite. «Vi dirò tutto quello che so... Tutto... Però vi prego di non torturarmi ancora...».
«E allora ditemi dov’è tenuto nascosto il segreto».
«Quale... segreto?»
«Non fate l’ingenuo. Vostro padre ne era al corrente, lo so. Ne ho avuto conferma da uomini che non sbagliano mai. Deve per forza averlo detto anche a voi, quand’eravate ancora a Tunisi, altrimenti questo assedio non avrebbe senso».
«Mio padre non mi mise mai al corrente di segreti... Ero un bambino...».
Jacopo V scosse la testa. «Forse ve ne ha parlato senza farvelo apparire tale».
«Ebbene, ditemi in cosa consiste... E se ne conservo memoria, giuro che vi dirò tutto quello che so».
A quelle parole il principe di Piombino esplose in un accesso d’ira. «Ve l’ho già detto decine di volte!». Pestò i piedi per terra, poi brandì la frusta e lo colpì con tutta la ferocia di cui era capace. «Ditemi dove si nasconde il segreto chiamato Rex Deus!».
Cristiano sentì delle grida echeggiare nell’oscurità. Non ne aveva mai udite di tanto raccapriccianti, e con una punta di orrore si rese conto che erano le sue.
Nizzâm fu il primo ad avere l’onore del sangue. Al termine della scalata, restò nascosto tra due merli per attendere il passaggio di un soldato di ronda. Non appena poté sorprenderlo, sguainò la sua lunga scimitarra e lo decapitò con un sol colpo. Un attimo dopo Sinan gli fu accanto, seguito dall’enorme Margutte.
L’interno del Volterraio era tranquillo, i cannoni tacevano. I cristiani dovevano essersi convinti della loro ritirata, ma molti erano rimasti senz’altro di guardia.
Nell’attesa che gli uomini si inerpicassero fino al loro livello, il luogotenente camminò verso una sporgenza per studiare la disposizione interna delle torri e dei punti d’accesso. Il vecchio pirata gli restò accanto, ma usò maggior prudenza nell’affacciarsi. Nizzâm sembrava non temere di farsi notare, aveva la pelle talmente scura da mimetizzarsi quasi alla perfezione con la notte. L’effetto era accentuato dagli abiti neri, compreso il turbante, in netto contrasto con la lucentezza della spada macchiata di sangue. Al contrario, Margutte somigliava a uno spettro. Le loro differenti forme fisiche – proporzionata nel primo, deforme nel secondo – mettevano meglio in risalto la spietatezza del primo rispetto all’ebetudine del secondo.
«Una parte di noi agirà lungo il camminamento di ronda, sopprimendo vedette e artiglieri», disse Nizzâm, svelando a Sinan i propri piani. «Gli altri invece scenderanno lungo quella rampa», e indicò una discesa che portava alla corte, presso un pozzo. Nelle vicinanze sorgevano un paio di stabili, probabilmente i casermaggi e la polveriera. «Daremo subito fuoco al deposito delle polveri, per creare scompiglio. Poi apriremo l’ingresso per fare irrompere i nostri».
«Troppa irruenza», obiettò il vecchio pirata, che aveva ben altro in mente. «Sono costretto a rivolgervi una supplica».
«Già la immagino, ma sappiate che non userò riguardi verso nessuno».
«Come vi permettete?». Sinan lo afferrò per un braccio e lo affrontò senza timore. «C’è mio figlio qui dentro, da qualche parte! Non permetterò che mettiate a repentaglio la sua vita con un’azione troppo audace».
Sul volto di Nizzâm si aprì lo squarcio di un sorriso. «E dite, rais, come pensate di fermarmi?».
Sinan lasciò la presa e abbassò lo sguardo, non sapeva cosa ribattere. Sarebbe stata un’immensa ingiustizia se, dopo un’attesa durata quasi dieci anni, avesse perduto suo figlio a causa di un folle assetato di sangue. Gli restava soltanto una scelta, per quanto estrema. Si guardò alle spalle. Oltre a lui, Nizzâm e Margutte, soltanto cinque uomini erano già saliti in cima alle mura, tutti al suo comando. Capì di avere ancora un buon margine di azione. Attese che il luogotenente si voltasse di nuovo verso le fortificazioni, dopodiché fece un cenno al gigante albino. Margutte annuì, si appressò a Nizzâm e lo colpì con la sua mazza alla base della nuca. In un istante il moro stramazzò a terra, privo di sensi.
«Non mi ha lasciato scelta». Il vecchio pirata sostenne gli sguardi sorpresi dei suoi uomini, sollevando la scimitarra per darsi maggior contegno. «Non ci troviamo qui per soddisfare le brame di Nizzâm, ma per obbedire all’amír. Gli ordini sono di trovare un giovane turco, mio figlio, tenuto chiuso qui dentro, dopodiché ce ne andremo».
«Come agiremo, rais?», gli chiesero.
«Di nascosto, spargendo meno sangue possibile», così dicendo, Sinan controllò la disposizione degli edifici interni alle mura. Il luogo più probabile dove poter trovare suo figlio era il mastio. «Cominceremo da là», disse, e indicò il tratto del camminamento che portava in quella direzione.
Uno tra i soldati sollevò un’obiezione: «E il bottino?»«Tutto ciò che troverete nella grande torre sarà vostro».
Erano ormai saliti in venti. Si trattava dei picchieri giunti alla rocca al seguito di Sinan. Il vecchio pirata guardò in basso, verso il dirupo, e vide che restavano aggrappati alla corda soltanto i giannizzeri fedeli a Nizzâm. Si chiese come avrebbero reagito alla vista del loro capitano svenuto, e si rese conto di non avere scelta. Suscitando il disappunto dei suoi uomini, calò due colpi di scimitarra sulla fune e fece precipitare nel vuoto gli sciagurati che vi erano appesi.
Poi rivolse ai picchieri uno sguardo cupo. «Ci sarà bottino soltanto per voi».
Aveva ucciso dei soldati di Allah. Sapeva bene che, una volta tornato a bordo, avrebbe pagato caro quel gesto infame, ma ora non aveva tempo per pensare alle conseguenze. Gli bastava ricevere obbedienza e portare a termine la missione.
Attese che qualcuno trovasse il coraggio di ribattere, ma non sentendo obiezioni decise di passare ai fatti. Guidò il drappello sul camminamento con la scimitarra in pugno, aspettandosi di incontrare i soldati di vedetta da un momento all’altro, e già a metà percorso si trovò di fronte a una guardia. La infilzò prima che potesse mettere mano alla spada e la spinse a terra con un calcio, poi udì le grida di allarme di due scolte appostate tra le merlature. I suoi uomini si affrettarono a farle tacere.
Il mastio era vicino. Sinan allungò la falcata, sforzandosi di correre sulle gambe malandate. L’eccitazione gli fece scordare le ginocchia doloranti e persino il timore per l’incolumità del figlio. Non c’era più tempo per i ripensamenti, era giunto il momento di battersi. Sentì gli uomini dietro di lui uniformarsi al suo passo, e per un po’ quel rumore sommerse ogni cosa.
Poi nell’oscurità esplose uno sparo. Il bagliore della fiammata si rifletté sui contorni di sagome marziali. Dietro di esse, l’ingresso della torre.
Sinan attraversò la notte sciabolando la lama, un grido di battaglia contro il nemico. Altre grida dietro di lui. L’impatto fu un graffiarsi di metalli, un premere di corpi sempre più violento. Altri spari nel buio, riflessi di corazze, una teoria di soldati in combattimento. Prima che la luce svanisse, la scimitarra del vecchio pirata fendette l’aria e affondò nella carne, poi trovò altro metallo, un nuovo rivale.
Sinan si batté come un diavolo tra il cozzare d’armi, posseduto da una gioia selvaggia che faceva sbiadire ogni fede. Aveva sempre vissuto per quei momenti, quando il frastuono della battaglia sommergeva la voce di qualsiasi dio, finché nella furia non calava il silenzio. A quel punto, soltanto un pensiero continuava a tormentarlo: la consapevolezza di custodire un segreto immenso, in grado di distruggere la cristianità. Non poteva permettersi di morire.
Ma quel pensiero lo fece sentire debole, e gli infuse il timore di fallire.
Isabel si svegliò al risuonare delle grida. Provenivano dal piano inferiore della torre. Cercò di riprendersi in fretta, ma non le fu possibile. Aveva battuto la testa, faticava a riacquistare equilibrio. D’un tratto si ricordò della scena a cui aveva assistito poc’anzi. Jacopo V Appiani doveva essere impazzito. Ma dov’era finito? Dove aveva portato Cristiano? Si rese conto di essere sola e il pensiero la terrorizzò.
Percepì un rumore di passi salire lungo le scale, poi altre grida, sferragliare d’armi e scariche di archibugi. Ormai non aveva dubbi, i turchi erano entrati nel Volterraio.
Pensò di nascondersi, ma non fece in tempo. Un soldato si parò controluce davanti all’ingresso della stanza. Era una delle guardie della fortezza, un giovane di circa vent’anni. Stava a gambe divaricate, le braccia ciondoloni, un’espressione ebete. Isabel lo vide avanzare verso di lei, strisciando i piedi sul pavimento. Non appena la penombra si diradò dal suo corpo, notò la punta di una picca che gli usciva dal ventre. La fissò con occhi vuoti, poi stramazzò a terra.
La donna spalancò la bocca in un grido e quando rialzò lo sguardo vide tre soldati turchi irrompere nella stanza. Uniformi sporche di sangue, scimitarre alla mano, occhi eccitati dal combattimento. Non appena la videro, iniziarono a ridere.
La paura fu tale da paralizzarle le gambe. Arretrò senza perderli di vista, poi si girò e strisciò il più in fretta possibile verso un angolo, terrorizzata da quelle risa. Erano sguaiate, brutali, promettevano umiliazioni che le fecero desiderare di essere morta.
«Aiutatemi padre!».
Le risposero soltanto altre risate.
Suo padre non c’era. Era chissà dove, dall’altra parte del mare. Isabel lo amava con tutto il cuore, ma gli augurò comunque l’inferno per non essere lì a proteggerla. Poi implorò Gesù e la Vergine in una litania balbettante e ossessiva. Non poteva succedere davvero, non a lei. Dio non poteva permetterlo!
Una mano si strinse intorno alla sua caviglia. Lei sussultò, poi si ribellò, ma l’uomo che la teneva iniziò a tirarla.
Isabel oppose resistenza, piantò le unghie a terra, infine allungò la mano destra per aggrapparsi a qualcosa di stabile. Tutto ciò che riuscì a stringere fu lo stelo di un candelabro. Guidata dall’istinto, brandì l’oggetto e lo mulinò alle sue spalle con tutta la forza che aveva. Percepì un impatto e un grugnito di dolore. La sua caviglia era libera.
Nessuno rideva più.
Allora la donna si sentì pervadere da un coraggio tanto improvviso quanto violento e balzò in piedi decisa a combattere, fendendo l’aria con il candelabro stretto in pugno. Era in preda all’euforia della disperazione. Dapprima i tre uomini si tennero a distanza, guardandola quasi incuriositi, e poco ci mancò che lei iniziasse ad accarezzare la speranza di scappare.
Poi una mano grande quanto la sua testa afferrò il candelabro e glielo sottrasse in un baleno.
Quella mano apparteneva a un moro dal ventre enorme e la bocca sanguinante. Aveva la pelle butterata, gli occhi sordidi. Indossava un’uniforme fatta di stracci e di piastre arrugginite.
Isabel lo guardò sorridere, e per la prima volta nella sua vita desiderò di non essere tanto bella.