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«Non posso aspettare qui dentro come se niente fosse». Cristiano camminava avanti e indietro nella stanza più alta del mastio, esasperando l’apprensione di Isabel. «Non lo sopporto».
«Avete un cuore nobile», gli disse la donna, «ma vi prego di non meditare pazzie».
Lui la fissò di sottecchi, trattenendo un sorriso amaro. Isabel equivocava, lo credeva preoccupato per le sorti del castello e per le genti dell’Elba, ma aveva ragione soltanto in parte. Cristiano amava quei luoghi e al pensiero che gli abitanti dell’isola soffrissero per causa sua gli si stringeva il cuore, tuttavia era in preda a ben altre inquietudini. Di tanto in tanto scrutava in basso, verso le schiere ottomane appostate di fronte alle mura del Volterraio, e non poteva evitare di chiedersi se si trovasse dalla parte giusta. Dopo un decennio vissuto tra i fedeli del Cristo, credeva ormai di aver messo da parte simili pensieri, invece gli era bastato scorgere le vele turche nella baia di Ferraio per sentirli affiorare di nuovo, con una potenza devastante. Tutti i ricordi successivi all’allontanamento da Tunisi, la sua seconda vita, sbiadivano come le ombre del mattino al canto dei muezzin. E mentre vedeva quel cono d’ombra ritirarsi, il giovane scopriva dentro di sé le forme di un animale bizzarro, estremamente diverso da ciò che credeva di essere stato. Quella creatura non apparteneva a nessuno dei due mondi da cui proveniva, eppure era debitrice a entrambi, la Mezzaluna e la Croce.
Si portò le mani al viso per nascondere a Isabel le proprie emozioni. Aveva la sensazione di essere sotto l’effetto di un veleno che, invece di ucciderlo, iniziava a mescolarsi al suo sangue, diventando parte di lui. Quel veleno lo pungolava senza dargli requie, rendendolo ansioso di scoprire cosa volesse da lui il Barbarossa, di sapere se suo padre fosse ancora vivo, di vedere cosa ne sarebbe stato di lui se fosse uscito da quelle mura... E per l’ennesima volta provò il desiderio di allontanarsi dalla rocca per unirsi ai corsari. Un pensiero malsano, si disse. Se anche avesse accondisceso a una simile follia, non gli sarebbe stato possibile realizzarla. I soldati del Volterraio non gli avrebbero mai accordato di uscire allo scoperto, non senza il permesso di Jacopo V Appiani. Cristiano doveva rassegnarsi al fatto di essere un prigioniero, anche se riverito con rispetto, e mai come in quel momento tale consapevolezza gli pesò sull’animo.
Riprese a camminare in cerchio come un animale in gabbia, meditando sul da farsi, e in preda a un istinto incontrollato iniziò a valutare ogni possibile via di fuga.
«Calmatevi, amico mio», gli disse Isabel, sempre più in pena.
«Non posso», rispose lui, «mi sento soffocare». Era talmente perso nei suoi nuovi propositi, da scoprirsi insensibile per la prima volta al richiamo di quella voce.
«Condivido il vostro rovello», continuò lei, senza comprendere, «ma non potete fare nulla per migliorare la situazione».
Continuando a ignorarla, lui si sporse dalla finestra per trovarsi di fronte alla vista spettacolare del golfo di Ferraio gremito di navi corsare e, sotto i suoi occhi, al dirupo. «Forse, se mi calassi da qui...», mormorò. «Le guardie potrebbero non notarmi...».
Isabel impallidì. «Cristiano, così mi spaventate!».
«No, troppo alto». Il giovane si ritirò, continuando a parlare tra sé. «E poi, una volta sceso, dovrei comunque uscire dalle cinta...».
«Si può sapere cosa state macchinando?»
«Nulla, nulla», disse lui, convincendosi che l’unica soluzione possibile sarebbe stata corrompere le guardie. Ma non disponendo di abbastanza denaro, avrebbe dovuto per forza trovare un altro modo. Forse, se avesse preso qualcuno in ostaggio... Guardò Isabel e per un istante meditò seriamente di farsi strada fino all’uscita della rocca usando il suo corpo come scudo, minacciando di ucciderla, per poi trascinarla con sé fino alla galea del Barbarossa... No, si disse, non poteva compiere una simile bassezza. Non con la donna che credeva di amare... Ma prima di poter fugare quel pensiero, avvertì un senso di pericolo. Una presenza incombeva alle sue spalle.
Si voltò di scatto e vide di fronte a sé Jacopo V Appiani, il principe di Piombino, suo carceriere e padre putativo. Era a un passo da lui. Non alto ma di fisico asciutto, i capelli grigi tirati all’indietro e un’aria stravolta sul viso. Indossava la corazza da battaglia. Il giovane posò istintivamente lo sguardo sullo stemma della sua cintura, dove insieme all’insegna degli Appiani e all’arme dei reali di Napoli campeggiava l’aquila dell’impero. Una recente concessione di Carlo d’Asburgo. Jacopo V non si stancava mai di esibirla con orgoglio, forse era l’unica conquista di cui potesse veramente andare fiero.
«Vossignoria, cosa fate qui?», chiese Cristiano, spiazzato. «Vi credevo dall’altra parte del mare, nel castello di Piombino. Come avete fatto a entrare nella fortezza senza farvi catturare?»
«Vi spiegherò tutto, non temete, ma prima dovete rispondere ad alcune domande». C’era una nota stridente nella voce dell’uomo. I suoi modi apparivano bruschi, quasi violenti.
«Chiedete pure, non ho segreti per voi».
«Dite davvero?». Il principe di Piombino gli si avventò contro con una tale irruenza da sorprenderlo. Non l’aveva mai visto in quello stato. «Eppure io sono persuaso del contrario».
Il giovane si sentì spingere contro il muro, gli occhi febbrili di Jacopo V piantati addosso. «Voi delirate», si lasciò sfuggire. «Come osate trattarmi in questo modo?». Fu quasi sul punto di reagire con la forza, poi si ravvide e per rispetto nei confronti del patrigno tenne a freno l’impeto. «Abbiate la grazia di spiegarmi. Se in qualche modo vi ho recato offesa, sappiate che non ne avevo intenzione e vi chiedo scusa».
«Sporco bugiardo!», sibilò Jacopo V, sguainando la spada. «Vi ho fatto battezzare, ma restate comunque un barbaro infido».
«Vossignoria!». Cristiano gli si oppose in un misto di rabbia e sorpresa. «Stento a credere di avere di fronte l’uomo che mi ha fatto da padre per tutti questi anni. Cosa ho commesso per meritarmi un simile trattamento?»
«Tacete!», sibilò il principe di Piombino, e con un gesto improvviso lo colpì a una tempia con il pomo della spada.
Cristiano stramazzò a terra, accecato dal dolore. Quando riaprì gli occhi sentì il sangue colargli sulla faccia. Cercò di rialzarsi, ma cadde di nuovo, in preda a un capogiro. Poi udì Isabel gridare e la vide precipitarsi in suo soccorso, ma Jacopo V la respinse con uno schiaffo, facendole battere il capo contro una parete. Cadde sul pavimento, svenuta.
«Maledetto!», grugnì il ragazzo, arrancando verso di lui. Ma d’un tratto si sentì sollevare da terra, due soldati lo tenevano per le braccia.
Il principe di Piombino gli si parò davanti, trasfigurato dalla rabbia. «Mi sono sempre comportato nei vostri riguardi in modo amorevole e attento. Vi ho sfamato, vi ho protetto, vi ho educato e trattato come un mio pari... Eppure siete rimasto un ingrato», e lo colpì con uno schiaffo. «In tutti questi anni non mi avete mai rivelato nulla del vostro segreto! E benché io abbia sopportato, sperando fino all’ultimo che vi decideste a parlare, dinanzi all’invasione turca mi trovo costretto a forzare i tempi... Non posso più attendere, mi direte tutto oggi stesso».
Cristiano lo fissò esterrefatto. «Non so di cosa stiate parlando, lo giuro sul mio onore».
«Voi non avete più onore!», gli urlò in faccia Jacopo V. «Ve lo avevo concesso io, prendendovi al mio fianco, e io ve lo tolgo. Ciò che resta di voi, da questo momento, è un morisco senza valore».
Il giovane sostenne il suo sguardo. «Per quel che mi riguarda, chi schiaffeggia una femmina vale ancora meno».
L’uomo rispose colpendolo allo stomaco.
Cristiano sputò sangue e sopportò il dolore, tentando di reagire, ma fu trattenuto dai soldati, che lo trascinarono al seguito del principe avviatosi giù per le scale. Il giovane non sapeva ancora farsene una ragione, ma il principe di Piombino sembrava uscito di senno.
Lasciarono le scialuppe ormeggiate in una cala protetta da scogli bianchi, dopodiché proseguirono a piedi inoltrandosi nella macchia, verso una salita tra le rocce. Sinan non metteva piede a terra da oltre due mesi e faticava a muovere i passi lungo quel cammino impervio. Cercava pertanto di aiutarsi con la scimitarra, puntandola a terra come un bastone. Molto più agile di lui, gli camminava accanto il gigantesco Margutte, un albino dalla stazza abnorme e senza lingua di cui nessuno conosceva la provenienza. Alcuni lo volevano svizzero, altri albanese. A dispetto della sua imponenza, aveva una mente semplice, quasi infantile, che lo rendeva uno degli elementi più validi e disciplinati dell’armata barbaresca. Da molti anni lo serviva fedelmente.
Al loro seguito marciavano venti tra le migliori picche della fanteria ottomana.
Non era stato facile, per il vecchio pirata, convincere l’amír a lasciarlo andare. Quando era giunta notizia del fallimento della loro ambasciata a Piombino, il Barbarossa era montato su tutte le furie ed era stato sul punto di ordinare alla flotta di riprendere il mare per radere al suolo quel covo di serpi schifose. Se Sinan era riuscito ad acquietarlo, era stato grazie all’intervento di Leone Strozzi. Piombino non era una città facile da assediare, già una volta le navi turche erano state messe a dura prova dai cannoni delle Rocchette. Era preferibile attenersi ai piani e pazientare, in attesa del momento propizio per punire i cristiani del Tirreno. Chiarita quella faccenda, Sinan aveva preteso di scendere a terra di persona, dato che aveva ottenuto le prove della presenza di suo figlio sull’isola ed era certo di sapere dove trovarlo. Sulle prime Khayr al-Dīn aveva opposto resistenza, mostrandosi contrario a esporlo a rischi inutili, infine aveva acconsentito, a patto che fosse accompagnato da un drappello di uomini scelti.
L’ultimo tratto della salita fu il più difficile. Usciti dalla macchia, proseguirono per una lingua di roccia sferzata da un vento che pareva intensificarsi con l’incombere del tramonto, mentre le luci oblique del crepuscolo si riflettevano sulle venature di diaspro rosso, conferendo al paesaggio un aspetto inquietante. Sinan strinse i denti, ignorò il dolore alle ginocchia e tenne il passo. Suo figlio si trovava in cima a quel monte. Doveva raggiungerlo prima che gli assedianti irrompessero nella rocca. Soltanto lui era in grado di riconoscerlo, e di evitare che venisse scambiato per un nemico.
Erano ormai giunti al dirupo diretto al Volterraio quando la retroguardia di Nizzâm andò loro incontro, portandoli sul luogo dello scontro.
L’assedio procedeva fiacco, Sinan ne restò deluso. Il ritmo dei cannoni non era sostenuto quanto avrebbe immaginato, e pure il dispiegamento degli uomini lasciava a desiderare, al punto da farlo insospettire. Le forze di terra a disposizione dell’amír erano ingenti e altrettanto si poteva dire delle artiglierie. Perché quei mezzi non venivano impiegati a dovere?
Il campo più avanzato si trovava presso i ruderi di una vecchia chiesa, infestati dalle ginestre. Non appena lo raggiunse, notò una quantità di soldati a riposo e molte bocche da fuoco ammassate a ridosso di un muretto, quasi fossero state dimenticate. Per un attimo fu sfiorato dal pensiero che il luogotenente si fosse lasciato prendere dal panico dinanzi all’imponenza delle difese cristiane e avesse rinunciato a organizzare un attacco degno di quel nome, poi si ricredette. Non era certo da Nizzâm. Quel pazzo era noto per la sua crudeltà e per non arrendersi mai di fronte a nulla, quindi doveva aver avuto una ragione più che valida per trascurare l’assedio.
Quando l’ebbe di fronte riconobbe la determinazione sul suo sguardo e fugò ogni incertezza.
L’abbracciò in segno di saluto e lo chiamò “caro fratello”, sebbene trovarsi al suo cospetto gli trasmettesse un senso di fastidio. Nizzâm non raggiungeva l’imponenza fisica di Margutte, ma era ben più minaccioso. Odorava di morte, e nonostante fosse un fervente seguace del Profeta, si vociferava che non avesse abbandonato le pratiche pagane dei suoi avi, provenienti da luoghi remoti dell’Africa. Tutti lo temevano, persino il Barbarossa evitava di stargli accanto.
«Assedio poco efficace», commentò Sinan a inizio discorso.
«Non spreco uomini né polvere nera», spiegò il moro, stringendosi nelle spalle muscolose. «Uso quel tanto che basta a tenere il nemico occupato».
«C’è quindi un piano».
Nizzâm indicò un versante del dirupo. «I miei esploratori hanno trovato un punto delle mura poco sorvegliato, forse perché ritenuto inaccessibile. Lo scaleremo stanotte, protetti dal buio».
«Questa strategia potrà favorirvi nella fase di avvicinamento, ma non una volta all’interno. Se i soldati continueranno a vedere le vostre truppe raccolte sotto le loro mura, si terranno pronti a respingere eventuali intrusioni».
«E infatti fingeremo di andarcene, così abbasseranno il livello di allerta. Ho già dato ordine di far tacere i cannoni. Presto sgombreremo il campo, ma io resterò con un manipolo avanzato nascosto tra le rocce, su un crinale poco visibile».
«Resterò anch’io, con i miei picchieri», disse Sinan.
«Dite davvero, rais?». Nizzâm lo squadrò dall’alto in basso, scuotendo la testa. «Con un occhio solo e le gambe malmesse, vi sarà difficile inerpicarvi».
«Vuol dire che mi affiderò alla clemenza di Allah».
«Non contateci troppo». La voce del luogotenente tradì una nota di sprezzo. «Allah favorisce soltanto gli uomini più forti».
«Forse», soggiunse il vecchio pirata. «Ma ama quelli che mostrano coraggio».
Al sopraggiungere della notte due grandi ali nere solcarono il cielo. Sinan tenne lo sguardo puntato su quella figura che veleggiava silenziosa sopra il castello, invisibile nell’oscurità se non a chi fosse consapevole della sua presenza. Il profilo geometrico la rendeva simile a un volatile trattenuto da una lunga cima che scendeva fino a terra, legata al giogo di un bue perché non venisse rapita dal vento. Aggrappato a quell’intrico di aste e velami c’era un uomo.
«Speriamo che non precipiti come il primo», disse Nizzâm, acquattato tra le rocce. L’idea era stata sua.
Sinan, appostato poco distante, preferì non commentare. Conosceva storie provenienti dall’Estremo Oriente che descrivevano simili bizzarrie, ma fino ad allora non si era mai chiesto se si trattasse di leggende o di verità. Benché si ritenesse un uomo di ingegno, non aveva mai riflettuto sulla possibilità di far volare un soldato servendosi di ali artificiali. Soltanto un pazzo come il moro poteva concepire un piano d’assedio basato su un’idea tanto strampalata. Eppure, pareva funzionare...
Il luogotenente ordinò a due ghazi di far avanzare il bue legato alla cima, affinché l’oggetto nel cielo giungesse esattamente sopra la posizione desiderata, ma l’operazione non fu facile. La bestia, costretta a procedere lungo il ciglio di un dirupo nascosto alle vedette, dava segni di spavento e opponeva resistenza. Gli uomini dovettero tirarla per le corna, aizzandola con una frusta fino a farla camminare quel tanto che serviva, quindi iniziarono ad avvolgere la corda in modo che le grandi ali calassero sulle mura, con delicatezza, in un punto non sorvegliato. Sinan le vide posarsi ai margini di una merlatura come un grande pipistrello, poi cadere in modo scomposto fino a perdersi nel dirupo. Un uomo restò aggrappato alla parete con la lunga corda legata alla vita. Scavalcò la merlatura e infine si affacciò verso l’esterno, agitando una fiaccola.
Il segnale.
Strisciando tra le rocce, Nizzâm e Sinan guidarono una cinquantina di giannizzeri verso quel versante della rocca, attenti a cogliere eventuali grida di allarme o colpi di armi da fuoco, ma non udirono nulla. Nel momento stesso in cui si trovarono sotto le mura, videro la corda calare dall’alto. L’uomo che aveva solcato il cielo agiva secondo i piani.
Salirono uno per volta, a una velocità doppia rispetto a delle comuni persone. L’abitudine di arrampicarsi sugli alberi delle navi li aveva resi agili oltre l’immaginabile e insensibili al timore di precipitare.
Il vecchio Sinan non si dimostrò da meno, issandosi con abilità al pari degli altri. A dispetto delle sue gambe, indebolite dagli anni e dall’umidità del mare, poteva ancora contare su braccia vigorose e su una presa di ferro. Ciò nondimeno covava una grande inquietudine, sapeva di andare incontro a una dura prova.