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Sebbene di dimensioni più ridotte, la Lionne superava per imponenza la galea bastarda del Barbarossa. Centocinquanta piedi per oltre quaranta banchi di voga, tre alberi dalle vele rosse e una quantità impressionante di bocche da fuoco. Montava a prua una batteria da cinque pezzi formata da un cannone corsiero da trentasei libbre, due mojane9 da diciotto e altrettante spingarde da nove. A suscitare la meraviglia di Sinan furono però i trenta falconetti – quindici per lato – disposti ai fianchi della nave e fissati su particolari affusti che, all’occorrenza, potevano essere manovrati per regolare il tiro. Fino ad allora, il giovane non era mai salito a bordo di un’imbarcazione in grado di sprigionare un fuoco di fiancata e si chiese di quale potenza distruttiva fosse capace in caso di battaglia.
Anche i soldati che vi trovavano quartiere rappresentavano un caso a sé. Le altre navi francesi salpate dalla Provenza al seguito del Barbarossa si avvalevano di milizie regolari e soprattutto di fanti provenienti da bandes piccarde e piemontesi. Lo Strozzi, invece, aveva preferito assoldare dei mercenari svizzeri, efficienti e micidiali quanto i giannizzeri. «Avete letto Dell’arte della guerra del Machiavelli?», chiese il fiorentino, sentendo il giovane biasimare la sua scelta. «Persino fra quelle pagine gli svizzeri vengono citati come esempio di combattenti all’avanguardia».
Stavano discutendo sul castello di poppa, carte nautiche alla mano, mentre la galeazza si allontanava dalla costa a un ritmo di dodici battute di remo al minuto. Non era stato possibile portarsi al seguito il resto della flottiglia francese, il Barbarossa l’aveva trattenuta come garanzia che la Lionne facesse ritorno. Lo Strozzi aveva insistito affinché gli concedesse almeno l’appoggio della Colomba di Braccio Martelli o della Guidetta di Francesco Guidetti, ma non era riuscito a convincerlo. Erano soli, all’inseguimento delle tre navi dell’Appiani.
Sinan era molto inquieto. Nonostante avesse strappato all’amír il permesso di imbarcarsi sulla Lionne, gli pareva di non aver fatto alcun progresso. Più mentiva, più la situazione si ingarbugliava, e ora più che mai acquisiva risvolti incerti. «Non abbiamo idea di quale rotta stia seguendo Jacopo V», disse, sovrastando con la voce i colpi di tamburo del comito provenienti dalla camera di voga.
«La sua libertà d’azione, tuttavia, è limitata». Lo Strozzi esaminò la carta nautica, un vecchio portolano che nel corso degli anni era stato aggiornato con nomi di insenature, cale e foci, ma anche con note riguardanti i punti di secche e i relitti rischiosi per la navigazione. «Di certo non può portarsi a meridione, altrimenti rischierebbe di incappare nell’armata di Khayr al-Dīn», e indicò il passaggio tra due isole. «Fossi in lui, mi insinuerei tra l’Elba e Pianosa, in modo da potermi nascondere in una baia nel caso avessi qualcuno alle calcagna».
«Quindi cosa suggerite?»
«Noi siamo più veloci, ma il principe di Piombino ha un vantaggio. Se seguiamo la sua rotta, potremmo essere avvistati e spingerlo a nascondersi, e saremmo quindi costretti a cercarlo per tutto l’arcipelago toscano, esponendoci ai cannoni delle torri di guardia. Abbiamo un’unica alternativa: passare a sud di Pianosa e risalire verso nord, per tentare di sorprenderlo. Se ho intuito bene le sue mosse, potremmo avere una buona possibilità di intercettarlo».
«E se invece si stesse dirigendo a settentrione?»
«Lo perderemmo», rispose il cavaliere di Malta. Se c’era una cosa che Sinan apprezzava in lui, si trattava della schiettezza.
«Tuttavia lo trovo improbabile», continuò lo Strozzi, puntando lo sguardo alla propria destra. «A giudicare dalle nubi che vanno addensandosi a nord, l’Appiani andrebbe incontro a un fortunale».
Imitando il compagno, il giovane aguzzò la vista a settentrione e scorse il cielo oscurato da spesse coltri di nubi. Dalla notte prima, il vento era cresciuto d’intensità e soffiava con prepotenza da grecale, ingrossando le onde che battevano con sempre maggior vigore sullo scafo. Se non si fosse affievolito, avrebbe portato la perturbazione sopra le loro teste in meno di mezza giornata.
«In ogni caso, spetta a voi decidere», proseguì il fiorentino, porgendogli il portolano.
«Mi fido del vostro giudizio», ribatté Sinan.
«Mi onorate», sorrise l’uomo. «Spero siate disposto a riporre altrettanta fiducia su un altro genere di questione».
«Il diario di Aloisius, suppongo».
«Vorrei farlo tradurre da un erudito che si è imbarcato sulla mia nave, ben più ferrato del sottoscritto in fatto di lingue antiche».
Il ragazzo posò la mano sul rigonfiamento del farsetto, sotto il quale custodiva il manoscritto, e scosse il capo con decisione. «Prima dovrete dirmi del vostro piano per uccidere Cosimo I de’ Medici, e rivelarmi cosa c’entri in questa storia il Rex Deus».
Lo Strozzi arrotolò la carta nautica e puntò lo sguardo verso il mare, lasciando trapelare un profondo rancore. «È da sette anni che intendo vendicarmi di quel bastardo».
«Gradirei sapere il perché».
«Tutto iniziò con l’avvento a Firenze della sua signoria. All’epoca Cosimo I era uno sconosciuto proveniente da un ramo cadetto dei Medici, ma non tardò a rivelarsi versato nell’intrigo e nel tradimento. Con un colpo di mano esautorò il potere del consiglio dei Quarantotto e instaurò un regime talmente autoritario da suscitare un vespaio di dissensi, al centro dei quali c’era il mio casato. Il prezzo dell’opposizione al nuovo duca fu quello di allontanarsi da Firenze per evitare di cadere vittima di una congiura. Ma nel sangue dei miei avi scorre troppo orgoglio perché ci si potesse abituare a vivere come pavidi, perciò decisi con mio padre e con i miei fratelli di radunare un esercito in grado di scacciare il tiranno». Il volto barbuto dello Strozzi si illuminò di ardimento. «Le nostre milizie, però, furono spezzate a Montemurlo insieme al sogno di liberare Firenze. Io e i miei fratelli riuscimmo a fuggire e a rifugiarci in Francia, ma non mio padre... Lo credetti morto in battaglia finché, dopo un anno, venni a sapere che era stato catturato e gettato nelle prigioni del duca. Cosimo I non si era curato del suo rango e l’aveva sottoposto a ogni genere di tortura. In seguito a tanto patimento, non appena ne ebbe l’occasione, il mio povero genitore si tolse la vita per liberarsi del tormento e dell’umiliazione. E ora, per colpa del Medici, brucia all’inferno tra i suicidi».
Sinan posò una mano sulla spalla del compagno, e quasi ne percepì la rabbia. «Anche voi, quindi, siete spinto dal desiderio di vendicare il sangue paterno».
«Non è la stessa cosa», disse il fiorentino. «Vostro padre è morto in battaglia, con onore. Il mio, invece, si è spento in una segreta, implorando pietà. Ma giuro su Dio Santissimo, e se non bastasse sul diavolo in persona, che Cosimo I pagherà mille volte un simile affronto».
«Trovando il Rex Deus?».
Lo Strozzi si voltò di scatto e fissò Sinan con iridi brucianti di indignazione. «Ebbene sì!».
«Dovete perdonarmi, amico mio, ma non ne afferro il motivo».
«Presto detto. Il duca di Firenze è in combutta con i Nascosti».
L’ammissione fu talmente lapidaria che il ragazzo dovette fare un passo indietro, e subito dopo mise insieme i tasselli del mosaico: «I Nascosti... Coloro che anni fa tentarono di rapire Tadeus... Quindi voi sapevate! Perché avete dato a intendere il contrario al cospetto di Tadeus?»
«Perché non volevo scoprirmi dinanzi agli uomini del Barbarossa». Il cavaliere di Malta allargò le braccia in cerca di parole. «Ho atteso il momento opportuno, sperando che prima o poi foste disposto a ragionare. Dovete comprendere che siamo alleati contro un nemico comune, un’enorme confraternita che cerca l’appoggio di persone come il Medici e strumentalizza i piccoli signori come l’Appiani».
Nell’udire quel nome, Sinan sobbalzò. «Quindi sapevate pure di...».
«Certo, sapevo anche del vostro patrigno. Da qualche tempo, il principe di Piombino è una pedina nelle mani dei Nascosti. Aveva l’incarico di tenervi in ostaggio per ricattare il Giudeo, affinché rivelasse quanto sapeva sul Rex Deus. Ma dopo l’intervento del Barbarossa all’Elba, i piani dei Nascosti devono essere cambiati. Saranno senz’altro sulle vostre tracce».
«E di mio padre, invece, cosa sapete?»
«Benché spiato da molti, il Giudeo era un uomo assai riservato. So poco o nulla di lui, non ho mai avuto occasione di avvicinarlo».
A quel punto il ragazzo si fece guardingo. «Se non siete un iniziato come Tadeus, e non eravate in confidenza con mio padre, da dove provengono le vostre informazioni?»
«Appresi la verità sui Nascosti pochi mesi fa, mentre il Barbarossa svernava a Tolone. Giunsi in quella città insieme a una schiera di nobiluomini banditi da Firenze, in cerca di un’occasione che mi consentisse di portare a compimento la mia vendetta. Però fui poco accorto nel parlare dei miei affari e attirai le sgradite attenzioni di un frate domenicano, un certo Saverio Patrizi. Per poco non finii vittima di un suo agguato. In seguito scoprii che era un emissario dei Nascosti».
«Come faceste a scoprirlo?»
«Me ne parlò la donna stessa che era stata incaricata di uccidermi, una vera serpe a cui non affiderei il peggiore dei nemici. Per mia fortuna, si invaghì di me. Non sapeva molto, ma abbastanza da mettermi al corrente dell’esistenza dei Nascosti e del loro legame con il Medici... Infine mi accennò del Rex Deus. L’avevo già sentito nominare da eretici e da ebrei condannati dall’Inquisizione, ma ne ignoravo l’importanza e soprattutto non sapevo che l’ammiraglio turco lo stesse cercando. A quel punto, utilizzai quelle informazioni per indagare e ideare un piano, e quando seppi che il Barbarossa era in cerca di un ambasciatore francese che lo accompagnasse in Oriente, mi feci avanti con la benedizione del re e strinsi un patto con lui».
«Il patto di seguirlo e di compiacerlo fino a Costantinopoli, in cambio di un’occasione per portare a termine la vostra vendetta».
«Per l’appunto. Ma il Barbarossa non conosce i miei veri intenti, e soprattutto ignora che io sappia dei Nascosti e del Rex Deus. Il mio piano è recuperare quell’oggetto misterioso per attirare allo scoperto Cosimo I, quindi ucciderlo».
«Ora che conosco la vostra storia, sarei lieto di aiutarvi a sgozzare quel bastardo. E sento anche di poter affrontare la questione del diario di Aloisius con ben altra disposizione d’animo».
«Eccellente, messere. Come anticipavo, vorrei sottoporlo alla visione di un dotto».
«Un uomo dall’indole riservata, mi auguro».
«Ha la brutta abitudine di prendere nota di qualsiasi evento gli capiti a tiro, ma di questo fatto, giuro, non farà menzione».
«Sarà meglio per lui», disse Sinan. «Presentatemelo, dunque».
Dopo essersi guardato intorno, lo Strozzi gli indicò un sacerdote grasso, completamente calvo e dall’aria mansueta che stava salendo sul castello di poppa. «Ecco a voi Jérôme Maurand, prete di Antibes e cappellano delle galee di Francia».
Sentendosi nominare, il religioso fece un piccolo sobbalzo e si avvicinò ai due uomini con un’espressione ignara. «Lorsignori parlavano di me?»
«Proprio così, reverendo», rispose il fiorentino, di colpo tornato impassibile. «Avrei un incarico da affidarvi. Pane per i vostri denti, come si suol dire».
Padre Jérôme fece un lieve inchino. «Sarà un grande onore, eccellenza».
«Ma non parliamone qui, la sferza del vento inizia a darmi noia». Quindi il cavaliere di Malta invitò i compagni a scendere dal castello. «Propongo di proseguire intorno a un desco. Sia io che il mio giovane amico abbiamo bisogno di sederci in santa pace e di rifocillarci».
«Parlate per voi, messere», ribatté Sinan. «Non ho appetito, e se mai fossi costretto a mandare giù altre zuppe d’orzo e gallette imbevute d’aceto, giuro che darei di stomaco».
«Non siate precipitoso». Lo Strozzi scambiò un sorrisetto complice con padre Jérôme. «Dimenticate di trovarvi a bordo di una nave cristiana, su cui abbonda una varietà di cibo ben superiore rispetto al rancio dei barbari turchi. Prima di ogni altra cosa, il vino».
Meno di un’ora prima, Nizzâm camminava sul porto vecchio della Rocca in compagnia di Khayr al-Dīn e degli altri agá corsari, per assistere allo stivaggio dei prigionieri e del bottino ricavato dall’assedio. L’amír era di umore burrascoso, si lamentava delle gravi perdite subìte durante lo scontro. Un sacrificio di quasi duemila soldati turchi, un’enormità se rapportato agli armati che trovavano quartiere a bordo dei velieri. E tuttavia il grande ammiraglio non ne aveva abbastanza, era assetato di altro sangue cristiano e già progettava una sortita presso Talamone, dove a suo dire lo attendeva una questione personale.
Il moro lo ascoltava senza prestargli particolare attenzione, preso com’era dalla rabbia che gli stringeva lo stomaco come l’artiglio di un’aquila. Odiava Sinan. Lo odiava al punto che per poco, di fronte alla pieve della Rocca, non aveva disobbedito all’amír, mettendo alla prova la mira degli archibugieri pur di tentare di ucciderlo. Quel dannato ragazzo gli risultava ancor più odioso del padre, che superava in audacia e in indole menzognera, ma Nizzâm non si sarebbe mai immaginato di poter essere infamato a tal punto di fronte all’amír. Con poche parole, Sinan aveva distorto la realtà dei fatti, umiliandolo ed esponendolo al ridicolo con una sporca calunnia.
E poi, dopo aver inseguito invano quella dannata carrozza, il figlio del Giudeo era riuscito a strappare a Khayr al-Dīn l’ennesima concessione, ottenendo il permesso di imbarcarsi insieme all’ambasciatore fiorentino per inseguire via mare i rapitori di Tadeus.
Il moro non ne aveva le prove, ma scorgeva nelle menzogne di Sinan l’ombra di un tradimento. A lasciarlo basito, tuttavia, era l’accondiscendenza del suo signore. Non riusciva a capacitarsi che il terribile Khayr al-Dīn, secondo a nessuno in fatto di inganni e di segreti violati, si piegasse di buon grado ai capricci di quel ragazzo. Che il figlio del Giudeo fosse un abile manipolatore non c’era da discutere, e tuttavia non bastava a spiegare l’atteggiamento dell’amír. Khayr al-Dīn doveva avere le sue buone ragioni per assecondarlo.
Incapace di trattenere simili pensieri, il moro diede voce al proprio disappunto: «Perdonate la mia impertinenza, grande amír. Come avete potuto concedergli tanta libertà d’azione?».
Il Barbarossa interruppe il discorso che stava facendo e gli lanciò un’occhiata torva: «Suppongo parliate del figlio del Giudeo».
Nizzâm annuì. «Benché abbia fallito nell’inseguimento a cavallo, gli avete concesso di imbarcarsi con il capitano della Lionne».
«Vi lagnate come un fanciullo geloso, ma vi comprendo. Le vostre parole mascherano un risentimento maggiore di quel che date a vedere».
«Evidentemente non mi comprendete fino in fondo. Voi apprezzate il dolce sapore della vendetta più di chiunque altro... Ciò nondimeno, me l’avete negato».
A tali parole, Khayr al-Dīn si distanziò dai corsari che aveva al seguito e invitò Nizzâm a proseguire da solo con lui, lungo il molo. «Siete poco lungimirante, amico mio. Pensate davvero che preferisca quel moccioso a voi?».
Il moro lo scrutò speranzoso. «Significa che potrò ucciderlo?»
«Non appena avrà assolto il suo compito», promise l’amír. «Quel cagnetto insolente è incapace di fedeltà, tenerlo in vita sarebbe una spina nel fianco. Anche se ha rinnegato il Cristo, non potrei mai contare su di lui».
«E se dovesse fuggire con il fiorentino?»
«Leone Strozzi tornerà da me, ci scommetterei pure la testa».
«Come potete esserne certo?»
«Perché sarete voi a dirglielo», rivelò Khayr al-Dīn, stupendolo ancora una volta. «Vi imbarcherete subito sulla vostra nave e lo raggiungerete, dicendogli che ho nuove informazioni su Cosimo I de’ Medici».
«È la verità?»
«Sì, anche se si tratta di notizie non proprio fresche. Le ho apprese durante lo sbarco all’Elba e le ho tenute in serbo per occasioni come questa. Direte allo Strozzi che il Medici si accinge a compiere un viaggio per mare e che quindi sarà vulnerabile a eventuali attacchi. Ma se il fiorentino vuole conoscere dove e quando, dovrà raggiungermi a Talamone».
Il luogotenente annuì. «Mi appresto a salpare, grande amír».
«Molto bene, e siate cortese con l’ambasciatore. La curiosità lo terrà legato a noi e lo costringerà a riportarci il figlio del Giudeo, insieme a tutti i segreti che avrà scoperto sul Rex Deus».
Nizzâm fece un inchino e prese congedo, montando in sella per dirigersi verso il luogo di attracco del suo veliero. La Lionne aveva preso il mare da quasi un’ora, non c’era tempo da perdere se voleva raggiungerla. Ma un attimo prima che potesse imbarcarsi, fu raggiunto da un ufficiale. «Che c’è?», gli domandò secco.
«Le due donne, mio agá», rispose l’uomo, con un certo imbarazzo. «Hanno tentato la fuga».
9 Artiglierie di mezzana con canna rinforzata, disposte ai lati del cannone di corsia.