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Saverio Patrizi aveva recitato l’ufficio del vespro in solitudine, nella cappella del castello di Piombino. Stava perfettamente raccolto nella genuflexio recta, con le dita giunte in preghiera che sfioravano il mento del volto scavato. Una statua scolpita nella penombra, non fosse stato per il flebile respiro che di tanto in tanto gli faceva fremere il petto. Forse lo tratteneva di proposito, pensò la donna nascosta dietro la colonna, per prolungare il più a lungo possibile quella ieratica immobilità. Poi lo vide snocciolare un grano del rosario. Uno scatto secco, calcolato, che le strappò un sussulto.
L’inquisitore si voltò. «Madonna, vi aspettavo».
Elena Salviati mimò un inchino impacciato, poi lo raggiunse con passetti veloci e si inginocchiò accanto a lui, di fronte al grande crocifisso che sormontava un altarino di marmo. «Avete novità, padre?»
«Notizie di vostro marito», rispose il religioso, riportando lo sguardo sul Cristo appeso alla croce.
La nobildonna restò basita. «Ma com’è possibile? Io non ne sapevo nulla...».
Il Patrizi sollevò la mano come se volesse benedirla, poi accennò un piccolo diniego, per imporle il silenzio. «Ho provveduto affinché i suoi messaggi venissero recapitati a me, non a voi. Ci troviamo in una situazione particolare, spero comprendiate».
Elena si sentì avvampare. Aveva convinto Jacopo ad appoggiare i Nascosti per ottenere dei vantaggi, non perché la sua corrispondenza venisse setacciata e controllata da estranei. Ciò nondimeno, tenne la lingua a freno. Saverio Patrizi le incuteva soggezione. Algido e imperscrutabile, gli bastava fissarla con i suoi occhi spiritati per metterla a disagio. Lei aveva provato a combattere quella sensazione, cercando di conquistarlo con lusinghe e sorrisetti maliziosi, ma era soltanto riuscita ad accentuarne il distacco. E adesso si trovava sola, nel suo castello, a fianco di una persona che non comprendeva e che scopriva di temere. «Serva vostra, monsignore», disse, sforzandosi di apparire remissiva.
«Una staffetta è appena giunta da sud, sfiancando tre cavalli», spiegò l’inquisitore, senza degnarsi di guardarla in viso. «Il vostro Jacopo è sulle tracce del Barbarossa e, quel che più importa, del Rex Deus. Secondo fonti certe, l’ammiraglio corsaro è diretto alla pieve della Rocca, a sud di Piombino».
«Quali fonti?»
«La spia, naturalmente».
Elena torse la bocca, quasi gelosa. «Vi ostinate a riporre fede in quella donna...».
«Voi no?»
«Ho udito storie vergognose sul suo conto».
«Tutte veritiere, suppongo». Un gelido sorriso si disegnò sul volto dell’inquisitore. «Margherita Marsili reca dentro di sé un’oscurità profonda, quasi insondabile, e tuttavia anela al riscatto ed è disposta a qualsiasi cosa pur di ottenerlo. So bene quel che dico. La incontrai la scorsa primavera, in un luogo molto simile all’inferno: Tolone, in Provenza. La flotta del Barbarossa svernava in quella città dall’autunno precedente, con il beneplacito di Francesco I di Francia, il suo blasfemo alleato. Gli sciacalli di Maometto erano in compagnia dei loro schiavi e delle loro concubine».
Anche se non ne aveva avuto esperienza diretta, donna Salviati sapeva com’erano andate le cose a Tolone. Il Barbarossa si era insediato con il suo seguito in una fabbrica di sapone, trasformandola in una reggia, dopodiché aveva ottenuto il permesso di impiegare la cattedrale di Santa Maria Maggiore come moschea, facendola occupare dai muezzin. Corsari e giannizzeri avevano spadroneggiato per le vie della città, fraternizzando con i capitani delle squadre francesi e perpetrando saccheggi, uccisioni e rapimenti. Dopo cinque mesi, Tolone era stata ridotta alla miseria, e se Francesco I aveva voluto liberarsi di Khayr al-Dīn era stato costretto a pagarlo ottocentomila scudi d’oro, compresi i viveri e le munizioni. Questo il prezzo per chi ospitava il diavolo in casa propria.
«Fra le putte al seguito dei turchi ottomani c’era anche lei», continuò il Patrizi, «Margherita Marsili. La trovai in uno stato pietoso, più simile a un animale che a un essere umano. Era la peggiore fra tutte, usa a concedersi a chiunque le garantisse cibo e protezione. In circostanze normali, non mi sarei mai accostato a un’anima talmente corrotta, ma mi fu imposto dalle esigenze. Cercavo una persona capace di svolgere un certo tipo di incarichi, su richieste di persone di alto rango. E tuttavia, fallì il primo compito che le affidai».
Pur sforzandosi, Elena non riusciva a immaginare il diafano Saverio Patrizi mentre si aggirava tra luoghi di depravazione e turpitudini, alla ricerca di reietti da reclutare per la causa dei Nascosti. Sotto quella cappa da domenicano, si disse, doveva celarsi un uomo dalle molte facce. «Non sapevo nulla in proposito».
«C’è poco da dire», sospirò l’inquisitore. «Chiesi alla Marsili di occuparsi di un uomo in esilio che frequentava il Barbarossa, una spina nel fianco del duca di Firenze. Ma lei, anziché ucciderlo, se ne invaghì».
«Chi era quell’uomo?», domandò donna Salviati, curiosa non tanto nei riguardi di quell’individuo, né dell’innamoramento della Marsili, bensì del legame che intercorreva tra il Patrizi e Cosimo I de’ Medici. Per un attimo temette che il duca di Firenze, un potenziale nemico, fosse segretamente alleato dei Nascosti. No, si disse, era impensabile. Perché se così fosse stato, lei e suo marito dovevano essere stati ingannati e potevano correre un rischio mortale...
«Non serve che ne sappiate il nome». Il Patrizi la squadrò di sottecchi. «Era un cavaliere di Malta, traditore del suo Ordine e del granducato di Toscana», e tornò a osservare il crocifisso. «Da allora, ho destinato la Marsili a compiti più idonei alla sua indole...», ed emise un sospiro. «Ma veniamo a noi. Vostro marito ha compiuto una grave sciocchezza, anche se a fin di bene. Ha aggredito il de Vega, lasciandolo tramortito lungo la costa, a nord di Campo Albo».
«Bisognerà rimediare...».
«Con calma, attendiamo lo sviluppo degli eventi. Tanto più che il Signore Iddio ha voluto ispirare a Jacopo un’ottima strategia. Chiederà aiuto a Giannettino Doria, per ostacolare i corsari con la sua flotta. E nell’attesa, ha inviato un manipolo di uomini scelti alla pieve della Rocca, per strappare al figlio del Giudeo il segreto del Rex Deus. Così che ognuno di noi possa ottenere ciò che più brama».
Quando aveva riaperto gli occhi si era ritrovato dentro la chiesetta diroccata, in mezzo ai cadaveri massacrati dalle balestre. Il primo impulso era stato quello di rialzarsi in piedi. Una reazione stupida, considerato il senso di vertigine provocato dal colpo ricevuto alla testa, ma don Juan de Vega aveva voluto immediatamente assumere una posizione eretta, spinto dalla necessità di distinguersi dai corpi morti che gli giacevano tutt’intorno.
Si era portato con passo malfermo fino all’uscita e là, appoggiato al portale, aveva scrutato il mare arrossato dal tramonto. La flottiglia di Jacopo V Appiani era sparita. Quel maledetto bastardo l’aveva abbandonato come un relitto, su una spiaggia cosparsa di sassi e cadaveri. Che ne sarebbe stato della sua Isabel? Non aveva più possibilità di ritrovarla.
Dopo aver dominato un moto di rabbia, si era avviato con passo ormai stabile tra le casupole deserte e aveva imboccato un sentiero in salita che portava lontano dal mare, verso la boscaglia. Era stata un’altra reazione istintiva, come se il semplice muoversi potesse attenuare il senso di angoscia. In principio non aveva saputo dove andare. Poi, sforzandosi di ricordare, era stato folgorato da un susseguirsi di immagini. La conversazione con l’Appiani, la penombra dell’abside, la bambola di pezza e... il messaggio che conteneva! A quel punto, aveva saputo esattamente che direzione prendere. Ma a piedi avrebbe impiegato molto tempo, non poteva indugiare.
Aveva piegato verso sud, inoltrandosi in un bosco di querce. Sfinito e tormentato dalla sete, aveva proseguito come un sonnambulo, senza che il pensiero di dover raggiungere la figlia gli desse mai requie. A un certo punto, sentendosi soffocare dal corsaletto di acciaio, se l’era tolto di dosso d’impulso, gettandolo sull’erba senza fermarsi.
Aveva camminato per ore senza incontrare nessuno. Poi, mentre calavano le tenebre, aveva udito il nitrito di un cavallo. In uno slancio di speranza, aveva proseguito tra i cespugli di rosmarino fino a scorgere un corsiero turcomanno legato a un albero. Il suo padrone era vicino, seduto a terra con la schiena appoggiata al tronco. Indossava un turbante scuro e un elegante caffettano giallo. Anche nel buio, si distingueva una macchia di sangue sul fianco sinistro. Gli akinci avevano lasciato indietro uno dei loro feriti.
Senza curarsi di farsi notare, il de Vega era uscito allo scoperto per raggiungere il moribondo. Voleva il cavallo e la borraccia legata alla sua sella.
La bestia aveva dato segni di nervosismo, ma il turco, aprendo improvvisamente gli occhi, l’aveva tranquillizzata con un’esclamazione secca, e con grande stupore dello spagnolo era balzato in piedi, sguainando la scimitarra.
Avevano incrociato le spade senza proferire verbo, misurandosi in un duello breve ma intenso, un soldato ferito a morte contro un uomo sfiancato dalla fatica, sotto un cielo coperto di stelle. Don Juan si era battuto come un barbaro, furioso e incurante delle regole della scherma, finché non aveva sopraffatto il nemico. Un affondo al petto, senza tanti complimenti, poi si era preso la sua acqua e il suo destriero.
E ora, mentre l’ardore del combattimento si stemperava nella frescura della notte, cavalcava a spron battuto verso la Rocca di Campo Albo. Già gli pareva di udire, in lontananza, il rombo dei cannoni.