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La suora contemplò il piccolo crocifisso appeso alla parete, esitando a parlare. Qualcosa, in lei, era mutato in modo repentino. Elena Salviati lo percepì con assoluta certezza, non dalla sua postura o dall’atteggiamento, ma dall’aura che emanava. D’un tratto la nobildonna si trovava alla presenza di una sconosciuta, in un luogo ostile, come se quella cella fosse diventata la tana di una fiera. Ciò nondimeno, si sforzò di mantenere il controllo, in attesa di una parola o di un cenno che la aiutasse a comprendere la verità sul Rex Deus.

Emilia d’Hercole spezzò il silenzio, facendola trasalire. «Voi mi obbligate a rammentare cose che ho giurato di cancellare dal cuore e dalla mente». La sua voce era poco più di un sussurro, eppure gelava il sangue. «Cose che appartengono a un’altra vita, a un’altra donna. Cose che non sono degne di essere pronunciate in questo sacro asilo».

«Nemmeno per il bene di vostro figlio?», le chiese Elena.

«Io non ho più un figlio», ribatté la suora, recisa. «Anzi, non l’ho mai avuto. Come si può chiamare tale, un frutto concepito nel peccato, fuori dalla grazia di Dio?».

Donna Salviati non si aspettava una simile reazione. Aveva immaginato di dover fronteggiare un’infelice segnata da anni di clausura, invece si era imbattuta in una persona che non riusciva a comprendere. «Come potete parlare in questo modo? È il frutto del vostro ventre...».

«Chi non nasce in Cristo, nasce morto».

«Ma vostro figlio fu battezzato, non ricordate più? Accadde poco dopo che tornaste da Tunisi. Fu proprio mio marito ad accompagnarlo al sacro fonte della cattedrale di Piombino, affinché venisse mondato dal peccato originale e ricevesse il nome di Cristiano».

Emilia d’Hercole restò immobile, gli occhi fissi sul crocifisso. Elena spiò l’espressione che nascondeva sotto il velo e scorse lineamenti freddi come una superficie di marmo. Soltanto le labbra si schiusero appena, tradendo per un attimo un che di licenzioso, forse vestigia di una vita passata. «Non esiste battesimo in grado di cancellare l’onta del suo sangue... della sua stirpe», spiegò la suora, lasciando trapelare un misto di compassione e disprezzo. «Il mio Cristiano è destinato a portare per sempre il marchio dell’infamia, il fetore della menzogna», e con un gesto inconsulto si strinse le mani al ventre. «È da qui che nasce quel fetore, perché io ho generato l’ultimo erede di Caino».

Elena rintuzzò uno strisciante senso di disagio. «La clausura vi ha resa pazza», mormorò. La donna che era venuta a cercare sembrava morta per sempre, ma non riusciva a capacitarsene. Le era stato detto che Emilia d’Hercole, il lontano giorno in cui era stata trascinata in quel convento, si era ribellata come una furia e aveva scongiurato fino all’ultimo di poter riabbracciare il proprio figlio. Un favore che le era stato negato. Non sapeva molto di più su quella vicenda. In base a quanto le aveva raccontato il marito, Emilia era stata destinata alla clausura per volere dei Nascosti, mentre il suo bambino veniva dato in custodia alla famiglia Appiani. Un dramma, al cui solo pensiero il suo cuore di madre ebbe un sussulto. Ma Elena non era giunta fin lì per commiserare una pazza murata viva e si sbrigò a fugare ogni sentimento di tenerezza. Si trattasse di ossessione o di follia, Emilia d’Hercole avrebbe parlato. In un modo o nell’altro.

«Ditemi del Rex Deus», le ordinò con alterigia, «e vi lascerò alle vostre preghiere».

La suora gettò uno sguardo sullo stiletto che le veniva puntato al soggolo e sorrise con indifferenza. «Non pensiate di smuovermi con siffatte minacce». La sua voce si era fatta insinuante, lieve come una voluta di incenso. «Non potete neppure immaginare cosa dovetti patire, la prima notte che fui rinchiusa in questo luogo».

Elena la interrogò con lo sguardo, e d’un tratto fu come se sulla faccia che stava fissando si fosse aperto uno squarcio da cui trapelavano orrore e ossessione. Ecco, si disse, la chiave del distacco e della negazione. L’amore per il figlio e per la vita fuori dal convento doveva essere stato annientato da un terrore inenarrabile.

«All’epoca ero una persona molto differente», rivelò Emilia d’Hercole. «Credevo di essere stata allontanata da un uomo che mi amava, il padre del figlio per cui avrei dato la vita. Ero devota alle blasfemie di Maometto e, benché si diceva che fossi stata liberata dai turchi, io consideravo Tunisi la mia casa e agognavo di farvi ritorno il prima possibile. Sinan il Giudeo mi aveva rapita, era vero, ma con il tempo mi illusi di amarlo e non immaginavo felicità maggiore di riunirmi a lui. Non avrei mai concepito scelleratezza più grande di tradire i suoi segreti, o di disprezzare quella che un tempo reputavo saggezza... Ma mi ricredetti su ogni cosa». Le sue palpebre si abbassarono, gravate da un immane fardello interiore. «Lo feci nel preciso istante in cui Saverio Patrizi mi fece strappare i seni con dei ferri roventi».

Elena si portò le mani al petto, pervasa dal raccapriccio. Per un attimo immaginò le terribili cicatrici che dovevano celarsi sotto quella tonaca, poi scosse il capo per allontanare il pensiero.

«Non serbo rancore verso il Patrizi», proseguì la suora, «poiché il dolore fu veicolo della mia redenzione. In quel momento compresi di essere una creatura abietta e di dover scontare l’errore in cui ero caduta, con la confessione e con la mortificazione. Sinan era un diavolo e tutte le sue parole erano menzogne, persino il nostro amore era un’illusione nata dalla sua eresia. Lo imposi a me stessa. Fu l’unico modo per accettare il tormento a cui venivo sottoposta».

Il dubbio si insinuò in donna Salviati. «Ma Saverio Patrizi non vi torturò per farvi redimere...».

«No. Voleva sapere del Rex Deus, proprio come voi».

«E me ne parlerete?».

Emilia d’Hercole la scrutò di sottecchi. «Il Patrizi agiva per adempiere a un sacro compito. La sua missione era trovare e distruggere quella cosa, per tutelare la Chiesa di Roma dalla menzogna. Voi, invece, per quale fine agite?»

«Per tutelare me stessa».

«Ben misero scopo».

«Non siate ipocrita. Voi avete rinnegato il vostro passato pur di sopravvivere in queste sordide condizioni».

«La mia salvezza riguarda lo spirito, non la carne», ribatté la suora.

Elena restò in silenzio per un istante, pensando a quale fosse il passo migliore da fare. Era inutile minacciare, tantomeno continuare con le provocazioni. Se voleva sperare di aprire un varco nella mente di quella donna, doveva mettere in discussione i princìpi di sacralità su cui poggiavano le sue ossessioni. Prima di riprendere a parlare, la scrutò con una punta di malizia. «E se vi dicessi che il Patrizi vi ha ingannata?».

Non ricevette risposta.

«Egli non agisce per proteggere la Chiesa», continuò Elena, «ma per rendere potente la loggia dei Nascosti, a cui lui stesso appartiene. I suoi scopi sono degni di lode quanto l’avarizia di un mercante intento ad accumulare ricchezze».

Emilia d’Hercole si adombrò. «Non potete dimostrarlo».

«Invece sì. L’ho udito con le mie orecchie mentre complottava con una spia del duca di Firenze. L’ho sentito ordire tradimenti, ricatti e macchinazioni. Vi assicuro che raramente mi sono imbattuta in uomini altrettanto consumati nell’arte dell’intrigo».

La suora meditò su quelle parole, e diede l’impressione di annuire lievemente nella semioscurità. «Fosse anche vero», disse infine, «ciò che conosco sul Rex Deus non vi aiuterà a trovarlo. Il padre di mio figlio mi confidò ben poco al riguardo, e soltanto in merito alla natura di quell’oggetto».

«Potrebbe comunque essermi d’aiuto». La nobildonna le si fece accanto. «Di cosa si tratta?»

«Di una reliquia», rispose Emilia d’Hercole, tornando a fissare il crocifisso. Il suo spirito sembrava già veleggiare lontano, in cerca della contemplazione, o forse dell’oblio. «Una reliquia maledetta, tramandata da padre in figlio dalla notte dei tempi».

Sinan vide un muro d’acqua avanzare tra i flutti e infrangersi con violenza sulla prua della Lionne. Le sue orecchie furono assordate dal boato, poi dal risucchio dell’onda che si ripiegava su se stessa. Per un attimo temette di finire in mare insieme al resto della ciurma, ma si rese conto di essere ancora sulla tolda, mentre la galeazza fendeva quella massa schiumosa a una velocità folle. In una vertigine di euforia fissò la prua che si impennava, poi si voltò verso lo Strozzi. Il cavaliere di Malta si teneva aggrappato a una balaustra con gli occhi puntati sulla galea dell’Appiani, ormai a portata di tiro. Il suo volto era trasfigurato in una maschera arcigna. «Fuoco!», lo sentì gridare.

I falconetti di babordo obbedirono al comando, sputando una raffica di lampi sulfurei che avvolse la nave nemica in una coltre di fumo. Per un attimo non scorse più nulla, poi vide qualcosa schizzare fuori dall’esplosione, volteggiando nell’aria come un’abnorme falena. Era l’albero di maestra, troncato di netto dal fuoco di bordata.

Il vento disperse rapidamente le polveri, rivelando i danni riportati dalla galea sulla fiancata e tra le file di voga. Ciò nonostante l’imbarcazione continuava ad avanzare di gran carriera, sempre minacciosa, sfruttando la forza dei remieri. Lo Strozzi ordinò al pilota una virata improvvisa per evitare i suoi cannoni di poppa, preparandosi nel contempo ad attaccarla sull’altro lato. Ma il principe di Piombino lo anticipò e rispose al fuoco con una scarica di archibugi, colpendo la galeazza nella zona del cassero. L’animale ferito avrebbe venduto cara la sua pelle.

Le due navi si inseguirono per il mare tempestoso mentre le rispettive milizie correvano lungo le balestriere, prendendosi di mira. La galea tuttavia, menomata dell’albero di maestra, perse presto il proprio vantaggio e non poté evitare una seconda scarica di falconetti, che le fracassò il tamburo di prua mandando all’aria l’intera batteria di cannoni. A quel punto lo Strozzi ordinò una manovra di avvicinamento per l’abbordaggio, precipitandosi alla rembata insieme a un gruppo di armati. Sinan, che aspettava con ansia quel momento, lo seguì di corsa assaporando l’attimo in cui si sarebbe trovato faccia a faccia con il principe di Piombino. Questa volta, si disse, Jacopo V non gli sarebbe sfuggito.

Attese che la Lionne si affiancasse alla nave nemica e venisse agganciata con rampini e cordami, e si preparò a spiccare il salto dalla rembata.

«Non ancora», lo trattenne il cavaliere di Malta, che già impugnava la spada e la daghetta. Gli indicò alcuni dei suoi uomini intenti a lanciare dei triboli11 sul ponte dell’Appiani, in modo da ostacolare l’incedere dei nemici. «Preparatevi a qualcosa che non avete mai visto», gli disse poi, scrutando il campo di battaglia. Li attendeva un folto assembramento di milites muniti di armi da mischia. «Lo scontro su una nave è tra i più feroci che si possano immaginare».

«Saprò farmi onore», ribatté Sinan.

Lo Strozzi gli rivolse un sorriso mesto. «Non c’è onore in quel che facciamo», e posando il piede sull’impavesata, misurò il balzo invitando a seguirlo.

Il giovane superò con un salto il breve varco che separava le due navi e atterrò insieme al compagno sulla balestriera nemica. Fu imitato dalla dozzina di mercenari svizzeri appostati sulla rembata, mentre i marinai preferirono gettarsi all’attacco aggrappandosi alle funi che pendevano dalle alberature, con il coltello tra i denti. In molti restarono a bordo della galeazza, per contenere eventuali intrusioni della ciurma dell’Appiani.

I milites di Piombino si scagliarono contro gli arrembatori, spingendone in mare quasi la metà, prima ancora di incrociare le loro lame. Ma una seconda ondata di svizzeri fu lesta a saltare a bordo della galea per rinforzare l’assalto. Leone Strozzi, nel frattempo, sfondò la prima linea di resistenza e guidò un gruppo di picchieri verso il centro della nave. Sinan, che non era da meno, passò a fil di spada uno sgherro e prese a duellare con un ufficiale che brandiva una daga a lingua di bue. Tutt’intorno risuonavano spari e grida di battaglia, a cui, ben presto, si unì l’odore del sangue. Il giovane si liberò con destrezza del rivale e corse verso il camminamento di poppavia, badando a non farsi prendere di mira dagli archibugieri dell’Appiani. Era probabile che Jacopo V, da vigliacco qual era, attendesse l’esito dello scontro nella zona del cassero, difesa meglio di ogni altra. Prima di raggiungerla, Sinan dovette fronteggiare il sopracomito, uno spagnolo nerboruto armato di una grande ascia. Schivò il primo fendente, che andò a sfondare una balaustra del camminamento, e si proiettò in avanti con un balzo. L’uomo tentò di anticiparlo, ma la pesantezza dell’arma rallentò il suo assalto. Sinan ebbe il tempo di ferirlo a una gamba, poi fu costretto a indietreggiare per il rollare improvviso della nave. Non appena riacquistò l’equilibrio si spostò di lato per evitare l’ascia che veniva calata su di lui, quindi vibrò un micidiale fendente al braccio sinistro del rivale, spezzandogli l’osso all’altezza del gomito.

Lo spagnolo levò un grido di dolore selvaggio, eppure riuscì a sollevare l’ascia con un braccio solo. In quell’attimo la sua nuca esplose in un fiotto di materia grigia. Sinan si scansò per evitare quel corpo mastodontico che stramazzava a terra, poi si guardò intorno per capire cosa fosse successo. Scorse un tiratore svizzero fare capolino dalla balestriera della Lionne. Lo ringraziò con un cenno e riprese la sua corsa. Che fu presto interrotta.

Una botola si aprì davanti a lui, vomitando sul ponte un gruppo di uomini seminudi armati di coltelli e bastoni. Erano buonavoglia, vogatori salariati ben felici di abbandonare il remo per difendere la propria vita. Il giovane dovette ripiegare in fretta per non farsi travolgere dalla loro foga, parò una serie di colpi male assestati e, appena gli fu possibile, afferrò con la sinistra una lanterna accesa che pendeva da un palo. Iniziò a dimenarla per contenere gli attacchi dei nemici, colpendoli poi d’affondo con la spada. Così facendo riuscì ad atterrarne un paio, ma d’un tratto si sentì minacciato alle spalle e si voltò d’istinto. La lanterna si infranse sulla testa di un soldato, che diventò un tizzone ardente. Il giovane allontanò il malcapitato con un calcio, infine si liberò della lanterna che colava olio infuocato. Le fiamme divamparono non appena toccarono l’assito del ponte.

Alla vista dell’incendio, i buonavoglia spalancarono le orbite come animali spaventati. Non erano milites addestrati al pericolo, ma sempliciotti dallo spirito rissoso. Sinan ne approfittò per attaccarli e farne strage, poi si accorse che qualcuno gli stava dando manforte. Era Margutte, intervenuto all’improvviso con il suo prodigioso vigore. Il giovane lasciò a lui quei cani rabbiosi e alla prima occasione riprese la corsa verso il cassero.

Il ponte era invaso da una mischia di corpi in combattimento. Gli spazi per duellare erano talmente angusti che i combattenti dovevano camminare sui moribondi accatastati ovunque, calpestandoli senza ritegno per guadagnare posizione. Lo stesso Sinan dovette scavalcare uno stuolo di cadaveri arsi e straziati, rischiando la vita più volte prima di raggiungere il castello di poppa.

Lo Strozzi l’aveva preceduto di un soffio e stava già occupando quella zona con i suoi mercenari. Il giovane lo trovò zuppo di sangue fino ai gomiti, l’intero corpo chiazzato di rosso. Rendendosi conto di versare nel suo stesso stato, ebbe un moto di disgusto. No, si disse, non c’era davvero onore in quel che facevano. Scoprirsi abile nel sopprimere vite non gli parve d’un tratto una ragione di vanto, e Isabel non l’avrebbe certo amato di più per quel turpe talento. Le sue virtù di guerriero non sarebbero valse a nulla se non le avesse consacrate a un fine più alto. All’improvviso fu assalito dall’urgenza di giustificare le proprie azioni, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a pensare ad altro che all’inganno dell’Appiani, alla morte del padre e alle frustate ricevute nei sotterranei del Volterraio. Tanto bastò perché il desiderio di vendetta prevalesse di nuovo, infondendogli odio nel cuore.

«Lui dov’è?», chiese, guardandosi intorno con un ringhio di tigre.

Il cavaliere di Malta scosse il capo, indicando gli ufficiali che erano stati fatti prigionieri.

«Dev’essere qui!», insistette il giovane. «Deve nascondersi da qualche parte!», e si precipitò dabbasso, per controllare nella carrozza di poppa.

«Lasciate perdere», gridò il fiorentino, inseguendolo a lunghi passi. «La galea sta andando a fuoco!».

Accecato dalla sete di vendetta, Sinan non si curò di voltarsi verso di lui. «Dovesse anche sprofondare all’inferno, resterò su questa nave finché non avrò trovato e ucciso quel bastardo!», sibilò, varcando l’ingresso dell’abitacolo destinato al comandante. Ma lo trovò vuoto. Allora controllò a una a una le cabine della carrozza, mettendo ogni cosa a soqquadro. Non incontrò anima viva.

«Non può essere!», esclamò, incapace di contenere la rabbia. Batté i pugni contro una parete e riprese a camminare avanti e indietro, posseduto dall’ansia e dallo sconcerto. «Quel dannato deve pur nascondersi da qualche parte! Non può essersi volatilizzato come uno spettro!».

Lo Strozzi restò a osservarlo finché non ottenne la sua attenzione. «Non capite?», disse infine. «Jacopo V ci ha giocati ancora una volta. Ci ha mandato contro una delle sue tre navi, fuggendo con le altre».

«Non è detto». Il giovane rovesciò con un calcio un tavolo ingombro di carte nautiche. «Avete controllato la stiva?»

«Non c’era nessuno».

«Quel vigliacco!».

Il cavaliere di Malta gli afferrò le spalle. «Calmatevi, amico mio. Vi prometto che avrete la vostra vendetta, ma non ora. Non possiamo restare qui ancora a lungo».

Sinan si ribellò alla presa e tradì l’istinto di voler reagire, poi la rabbia gli svanì dal volto come un’ombra, rifugiandosi nelle iridi. Il fiorentino scrutò per un attimo quelle due lune nere e sembrò provare quasi timore, poi si voltò di spalle. Aveva sentito pronunciare il suo nome.

Un mercenario svizzero entrò nella carrozza. «La nave è nostra, patron!», esclamò a denti stretti. «Ma l’incendio divampa!».

«Che il fuoco divori ogni cosa», disse lo Strozzi. «Finché c’è tempo, caricate sulla Lionne tutti i barili di polvere da sparo che riuscite a trovare, e prendete in ostaggio l’ufficiale più alto in grado».

«E i sopravvissuti?».

Prima di rispondere, il cavaliere di Malta scambiò un’ultima occhiata con Sinan. «Lasciate quei poveri diavoli al loro destino».

La torre si ergeva sugli scogli come un’enorme colonna grigia affacciata sul mare, quasi a baluardo della furia degli elementi. Jacopo V Appiani si sporse fra i merli, allungando lo sguardo verso meridione. Vi era qualcosa di ben più temibile del fortunale, nascosto nell’oscurità della burrasca, ma non era quello il momento di cedere al timore. Il principe di Piombino aveva ordinato alla sua galea capitana di invertire la rotta per trattenere la nave da guerra che lo stava inseguendo, mentre lui si era spinto con il resto della flottiglia verso nord, fino a gettare l’àncora nella cala ai piedi di quella torre. Si trovava a un passo dallo svelare il mistero. A quel pensiero ammirò con compiacimento i ruderi di età romana alla base dell’edificio e le colline boscose che dominavano la piccola isola. Il Rex Deus si nascondeva là, da qualche parte, e lui era a un passo dallo scoprire che cosa fosse.

Impaziente di sapere, si voltò verso il monaco che attendeva al centro della piattaforma, trattenuto da due armigeri. «Ebbene, siamo nel posto giusto?», lo interrogò.

«Igilium», disse Tadeus, guardandosi intorno. «Questa è l’isola del Giglio».

«Esattamente dove mi avete chiesto di portarvi», ribadì l’Appiani. «Ora non fatemi attendere oltre e ditemi dov’è il Rex Deus».

L’anziano monaco gli fece cenno di pazientare e indicò il margine orientale della torre, dove l’assenza di un merlo permetteva di scorgere un ampio squarcio del paesaggio. Ottenuto il permesso di avvicinarvisi, raggiunse quel punto e si affacciò per osservare le sinuosità dell’isola. E per un attimo restò assorto, avvolto dal profumo salmastro del vento.

«Vedete qualcosa?», volle sapere Jacopo V, bramoso di conoscere la verità. «Un sentiero diretto al nascondiglio? Una grotta?».

Tadeus si voltò verso di lui, un sorriso tra le labbra riarse, e aprì le braccia come il Cristo. Per un attimo l’Appiani fissò la sua mano destra devastata dalle fiamme, poi fu colto da un terribile presagio e percepì una stretta allo stomaco, ma era già troppo tardi.

Il vecchio pronunciò un’ultima parola, «Abracadabra», e si lasciò cadere nel vuoto.

Jacopo V soffocò un grido e si gettò in avanti per afferrarlo. Fece soltanto in tempo a vedere il suo corpo avvolto nella tonaca precipitare sugli scogli, come un uccello bigio dalle ali spezzate.

Tadeus sentì il vento accarezzargli la faccia, come una presenza quasi palpabile, viva, che si insinuava tre le pieghe della pelle, a strappargli l’anima. O forse la paura. Chiuse gli occhi per sottrarsi alla vista del suolo che si avvicinava a velocità vertiginosa e ripensò al suo primo incontro con Sinan il Giudeo. Una notte sul mare di Toscana, l’arrembaggio dei turchi. A quel tempo era stato un uomo pavido, incapace di battersi e di mentire. In seguito, con molta pazienza, aveva lasciato che il mare e l’esperienza lo temprassero, per trovarsi pronto di fronte alle avversità future. Pronto a battersi. Pronto a sacrificarsi. Non solo per il Rex Deus, ma per provare l’orgoglio, insieme alla pace, di chi agisce con coraggio. Solo così si era sentito degno di amare la vita e di rivolgersi alla clemenza di Dio senza bruciare di vergogna. E degno della morte. Mentre si preparava ad accoglierla con la maggior grazia possibile, ripensò a suo padre, a cui chiese perdono, infine a sua madre. Mai un ricordo gli parve tanto vivido. Mantenne le braccia aperte, abbandonandosi alla caduta, finché il vento non smise di accarezzarlo.

«Maledetto vecchio!», sibilò Jacopo V con gli occhi iniettati di sangue. «Che tu possa bruciare all’inferno!».

«Mio signore, ora come faremo?», intervenne un armigero. «Senza le indicazioni del monaco, dovremo setacciare l’isola intera».

«Ma non capisci?», lo sferzò l’Appiani, in preda a una rabbiosa disperazione. «Tadeus mi ha ingannato!». Protese le mani in avanti, quasi volesse ghermire il fantasma del monachus peregrinus, ma l’unica cosa che riuscì ad afferrare fu il collo del soldato. Lo guardò mentre impallidiva, poi lo rigettò indietro e rivolse lo sguardo verso il mare. Tutti i suoi progetti erano svaniti nel nulla. Aveva perduto in un sol colpo la chiave del mistero e l’uomo tanto ricercato dalla loggia dei Nascosti. Ora non sapeva più cosa fare. D’un tratto si ritrovava solo e frustrato, una pedina senza valore in balia di eventi impossibili da controllare. «Quell’infame mi ha portato su quest’isola con il preciso scopo di allontanarmi dal Rex Deus», si disse. «Deve aver scelto di sacrificare la propria vita nel momento stesso in cui ha scoperto il mio gioco».

«Vostra eccellenza!».

Il principe di Piombino si voltò per capire da dove provenisse quella voce e scorse uno dei suoi ufficiali uscire dalla botola che conduceva ai piani inferiori della torre. «Cosa succede?», lo aggredì.

«Non siamo più soli», gli rispose l’uomo, indicando il mare.

Jacopo V ebbe un sussulto. «L’armata barbaresca?»

«No, la flotta genovese», lo rassicurò l’ufficiale. «Il comandante Giannettino Doria ha risposto alla nostra chiamata. Sta per raggiungerci».

L’Appiani mise da parte ogni affanno e con passo esitante si portò sul margine settentrionale, per scrutare tra le onde tempestose. Rimase immobile, la bocca contratta in un ghigno, finché non scorse una formazione di navi da guerra in avvicinamento. «Ora non scapperemo più», disse, sentendosi rinvigorire nello spirito. «Grazie al Doria, spedirò all’inferno i legni del Barbarossa e catturerò il figlio del Giudeo». Quel bastardo l’avrebbe condotto al Rex Deus, o sarebbe perito fra atroci tormenti.

11 Il “tribolo” o “piede di corvo” era un chiodo metallico a tre o quattro punte utilizzato nel XVI secolo dai corsari francesi. Veniva gettato sul ponte delle navi da arrembare per creare scompiglio fra i marinai che, di norma, erano scalzi.