7.
Dallo slegamento alla rilegatura: qualificare,
non demonizzare, la questione del legame sociale

1. Segni e tracce. Che cosa è la prossima crescita economica?

Ci sono molte ragioni per ritenere che quella particolare congiuntura storica, prodottasi tra l’avvento del neoliberismo economico e la stagione politica che nasce con la caduta del Muro di Berlino, ha reso possibile la creazione di una grande “bolla mondiale”, non solo in senso speculativo, ma anche e soprattutto esistenziale. Una bolla che sembrava coincidere con la realtà, ma che era soltanto un’illusione transitoria, una fata morgana: una volta scomparsa, ci ha lasciato senza mezzi per affrontare la sua assenza. E così, risvegliandoci dopo l’esplosione della bolla che ha iniziato a gonfiarsi a velocità sempre crescente a partire dal 1989, ci siamo trovati, con la grande crisi del 2008, in un mondo radicalmente cambiato e diverso da come pensavamo, e speravamo, che fosse.

Dobbiamo prendere in considerazione il fatto che la ripresa, intesa nel senso proprio della parola, ovvero come un riprendere la strada della guarigione e di una prospettiva futura realmente positiva e ben fondata nella realtà, non c’è. E questo perché è necessario ricercare nuovi equilibri senza scambiare tenui e fisiologici segnali di miglioramento per una ripresa vera e propria che non si vede all’orizzonte. Allora sarebbe necessario capire se, al punto in cui siamo, sia possibile immaginare nuovi assetti che possano riattivare dei processi di crescita. In modo più diretto, significa chiedersi: “Che cosa è la prossima crescita economica?”.

Non si può rispondere a questa domanda se non si comprende che la crescita è sempre associata all’idea di libertà e di valore. Anche se apparentemente molto distanti, le due cose sono in realtà intimamente legate. Non ci sarà nessun altro ciclo di crescita senza una riflessione nuova sull’idea di libertà e di valore.

Le nostre società sono fuori squadra. Si stanno trascinando dal 2008 prive di una rotta delineata. Il che non può che esporre a grandissimi rischi. Ho già detto che le operazioni di quantitative easing sono opportune (e necessarie) se pensate come interventi che permettono di guadagnare tempo. Ma diventano fuorvianti, e alla lunga pericolose, se sono scambiate come la soluzione del problema. Dunque dobbiamo affrettarci per capire cosa intendiamo fare, dove intendiamo andare, per fare che. Sono queste le domande a cui rispondere per proiettarci in un futuro che ci porti fuori dalla crisi e all’interno di un nuovo modello di sviluppo. Altrimenti si rischia di restare impantanati in questa sorta di crisi permanente e di scambiare delle zattere di salvataggio per la terraferma.

Prima di arrivare a tracciare i due scenari di uscita dalla crisi più probabili, è dunque utile proporre una sintetica raccolta dei principali segni e tracce di ciò che sembra muoversi nel contesto socio-economico contemporaneo. Vorrei presentare questa raccolta in modo disordinato. Il mio obiettivo, qui, è semplicemente quello di almanaccare alcuni fenomeni che è necessario considerare per provare a scorgere il futuro che ci aspetta:

Digitalizzazione e rete. Come sappiamo, siamo alla vigilia di una grande trasformazione. Il cosiddetto Internet delle cose, e la rivoluzione produttiva che si accompagna alla fabbrica 4.0 e alle forme emergenti di smart work, cambieranno la nostra vita introducendo il grande capitolo dei big data. Con conseguenze rilevanti anche sulla democrazia e le forme della partecipazione politica.

Mercatizzazione della vita. Il welfare è destinato a cambiare radicalmente. Nel quadro di mutamenti in atto in ambito medico ed economico, la vita tenderà a essere inglobata nel processo capitalistico. In società invecchiate e benestanti, il bene più prezioso che il capitalismo avrà da vendere sarà proprio la salute, con un’enfasi particolare sui meccanismi della riproduzione e dell’efficientizzazione.

Un nuovo modo di fare impresa. Tra le imprese, specie quelle più avanzate, si fa largo una certa attenzione ai temi della sostenibilità e della legittimazione sociale. Sono ormai tante le organizzazioni che pensano sia arrivato il tempo di andare oltre la corporate social responsibility, con l’adozione di nuovi modelli di business nella linea che M. Porter chiama “valore condiviso” e J. Attali “economia positiva”. La sharing economy, la nuova ecologia politica, l’economia circolare, il convivialismo, i commons sono pratiche destinate a diffondersi e a cambiare il modo di produrre, distribuire e consumare i beni e i servizi nelle nostre società.

Lo sguardo nuovo dei millennials. Diverse ricerche a livello internazionale concordano sul fatto che tra i millennials e gli under-29 – nativi digitali e “social” – si radicano nuove configurazioni di valori. Cose che per le generazioni precedenti sembravano marginali o inesistenti, poiché erano questioni che di fatto non esistevano, per i giovani si delineano come nuove priorità: attenzione all’ambiente e alla qualità delle relazioni, apertura verso lo straniero, domanda di senso orientata a quello che si fa. Il capitalismo è accettato ma guardato con sospetto, si chiede un ruolo dello stato senza statalismo. La tolleranza è un valore diffuso. Si può, forse, arrivare a ipotizzare l’emergere di una nuova svolta relazionale capace di prendere le distanze dal Sessantotto e dalle sue successive interpretazioni.

Ed è da quest’ultimo punto che possiamo partire per riflettere su come, a livello simbolico, l’immaginario della realizzazione di sé individualizzata nella produzione e nel consumo, che sostiene culturalmente l’aumento delle libertà quantitative individuali,1 cominci oggi a essere rimesso in discussione dalle nuove domande sociali. Ed è da queste nuove domande sociali che si deve cercare di ripartire.

2. La questione controversa del legame sociale

L’emergere di tale domanda da parte dei più giovani è sicuramente un fatto degno di nota. Secondo L. Boltanski, il capitalismo si nutre delle sue critiche. Esso, cioè, nelle fasi di espansione tende a creare degli squilibri su cui si concentra la critica. E quando un certo assetto perde di coerenza e cede il posto a un disordine insostenibile, la soluzione del problema e la costruzione di un nuovo equilibrio implicano la capacità di inglobare ciò che nel regime era programmaticamente rifiutato. Il suggerimento dell’autore francese rimane utile. Perché è probabile che i segni di cambiamento di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti tendano a intrecciarsi con le spinte culturali derivanti dalla combinazione tra critiche, malcontento e innovazione.

Ciò che è interessante è che gli orientamenti dei giovani – per quanto non univoci e ancora instabili – tendono a far propri alcuni dei temi che la critica sociale ha sviluppato nel corso degli anni all’idea neoliberista di libertà come scelta. Sul punto le analisi critiche dei decenni scorsi sono tornate più e più volte. Autori come Bauman, Sennett, Honneth e Boltanski convengono sull’idea che l’ideologia liberale abbia pervertito la domanda di soggettività, mortificando la domanda di sviluppo della personalità, di riconoscimento delle differenze, di realizzazione di sé. L’argomento da cui queste diverse analisi sono accomunate è che l’inadeguatezza del modello neoliberista derivi dalla sua implicita concezione – romantica e semplificata – dell’individualismo,2 in cui un “Io” monadico si autosviluppa, ovvero si avvicina progressivamente al nucleo originario del proprio Sé, grazie a una libertà immaginata come sciolta da qualsiasi legame. Altrove l’abbiamo chiamata “realizzazione di sé individualizzata” (Magatti, Gherardi 2014). Nell’immaginario neoliberista questa forma di realizzazione si compie nelle esperienze di consumo, relazionali e professionali che l’individuo porta avanti in successione o in parallelo.3 L’inedito tasso di sofferenza psichica e sociale che si registra nelle avanzate democrazie occidentali (Ehrenberg 2010) è l’indicatore più esplicito della problematicità di tale modello, che costituisce la risposta parziale alla domanda di soggettività esplicitata dal Sessantotto, successivamente modellata in base alle esigenze del processo di accumulazione. Per quanto importante, la scelta non è sufficiente a definire la libertà, dato che essa non si traduce automaticamente nella capacità di vivere in modo consapevole un certo tipo di vita, né in un’effettiva capacitazione personale. Una libertà schiacciata su questa dimensione finisce per coincidere in modo riduttivo con la possibilità di scegliere tra diversi oggetti di consumo, materiali o immateriali. La conclusione a cui giungono tutti questi autori è che la concezione non-dialogica del Sé, posto dal neoliberismo a fondamento della propria antropologia, ostacola la piena realizzazione delle persone poiché svalorizza il legame sociale.

Si può leggere quanto sta accadendo nelle società avanzate alla luce di queste considerazioni: di fatto, la crisi iniziata nel 2008 spinge a ripensare l’individualismo in una concezione più relazionale, dove il rapporto con la realtà circostante non venga più trascurato.4 Tutto ciò rimette in campo il legame sociale, che è stato uno degli interdetti dello scambio finanziario-consumerista. Ma dire questo richiede la consapevolezza dell’ambivalenza implicita in tale nuova emergenza. In negativo, in una visione tendenzialmente regressiva, il legame sociale può essere l’appiglio per tornare a un mondo diviso, fatto di muri e contrapposizioni, con il rischio che alla fine proprio la difesa dei legami sociali attorno a un “noi” assolutizzato sfoci in una conflittualità sempre più diffusa ed esplicita. In positivo, si può pensare che il ritorno di questa dimensione sia l’occasione per salire di un gradino sulla scala dei bisogni psichici elaborata negli anni cinquanta da A. Maslow, laddove la realizzazione del soggetto è legata al contributo sostenibile che egli apporta ai diversi contesti sociali per lui significativi. Una domanda ancora frammentata e contraddittoria che tuttavia è orientata verso il superamento del modello individualista di realizzazione del sé consumerista.

Qualunque direzione si prenda, è importante riconoscere che, dopo i decenni in cui l’espansione illimitata aveva alimentato il mito dello slegamento indi­vidualistico, la questione di ciò che ci lega agli altri e al mondo circostante è destinata a riemergere. Ed è il modo in cui si risponderà a questa domanda a decidere la direzione che prenderemo per il nostro futuro.

Che ci si trovi di fronte a una svolta radicale lo dimostrano i fatti.

Forse l’evento più emblematico è stato l’incontro avvenuto a Londra nel gennaio 2017 tra Donald Trump e Theresa May, incontro che ha ufficializzato l’inizio di una nuova stagione storica. Come quasi quarant’anni fa con Thatcher e Reagan, i paesi anglosassoni risposero alla lunga crisi degli anni settanta aprendo le loro economie e le loro società al mondo – avviando l’epoca che, dopo il 1989, è stata chiamata “globalizzazione” –, così oggi quegli stessi paesi, a quasi dieci anni di distanza dall’infarto finanziario che ha posto termine alla crescita espansiva associata alla globalizzazione, con Trump e May compiono una radicale inversione di marcia: America/Britain first, stretta sui confini, rilancio della sovranità nazionale, centralità degli accordi bilaterali.

Le democrazie anglosassoni si confermano così quelle più capaci di registrare gli umori popolari. Non si dimentichi che il cambiamento in atto non è stato sospinto dalle élite ma dagli elettori. In Inghilterra è stato il referendum a imporre la Brexit e negli Usa Trump ha vinto non solo contro la Clinton, ma anche contro il Partito repubblicano. Ancora oggi, buona parte dell’establishment – economisti, manager, imprenditori, alti funzionari – non è affatto convinta che quella imboccata sia la strada giusta.

Anche se non lo si ammette apertamente, la virata politica nasce dai fallimenti di una globalizzazione economica che non ha saputo affrontare le proprie incongruenze: rendere mobili tutti i fattori della produzione è un’operazione azzardata, destinata a scontrarsi con squilibri sociali e tensioni dal lato della sicurezza. Problemi che col tempo si sono acuiti fino alla svolta di questi mesi. Non si cancellano con un colpo di spugna i secoli nei quali l’ordine politico si è retto sul principio della sovranità nazionale.

Come spesso succede nei momenti di crisi, al di là delle etichette (destra, sinistra) vince chi ha il coraggio di aprire una strada nuova. E il popolo (almeno quello inglese e quello americano) ha deciso di sostenere i politici capaci di mostrare tale coraggio. Anche se le loro idee sono alquanto vaghe se non addirittura confuse.

C’è quindi da meravigliarsi solo fino a un certo punto: infatti, che cos’altro sono le “crisi” se non una rottura dell’ordine stabilito? Dunque, ciò a cui abbiamo assistito è stata una inversione a u, che nessuno sa esattamente dove porterà. Ma occorre prendere atto che la svolta ormai c’è stata e attrezzarsi di conseguenza.

Mai come in questo momento ci rendiamo conto di essere in relazione gli uni con gli altri. Tuttavia, come sempre nella storia, sarà il modo in cui tale relazione verrà concretamente declinata a fare la differenza.

3. Navigare nell’oceano

Basta guardare un tg o sfogliare un giornale per avere la sensazione che si stiano predisponendo tutti gli elementi di un disastro. Da una parte abbiamo un regime capitalistico fuori fase e dove si evidenziano tendenze verso la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, una localizzazione della ripresa (o pseudoripresa) solo in alcune regioni e in alcuni settori e la frammentazione commerciale. Dall’altra parte, abbiamo dei sistemi democratici in stato di fibrillazione. Impressiona vedere che, oltre le specificità nazionali, tanto in America quanto in Europa lo schema della lotta politica sia ormai lo stesso: “establishment vs anti-establishment”, ovvero le forze populiste che dicono di dare la voce a chi non ha voce (come i forgotten men su cui Trump ha fatto leva) contro i centri del potere istituzionale che dicono, dal canto loro, di essere alla ricerca di una strategia per gestire una transizione. E utilizzano gli schemi degli ultimi trent’anni, come accade a Bruxelles, schemi chiaramente non più adatti per fronteggiare la situazione attuale.

È un’ironia della storia che il neoliberismo, nutritosi dell’ideologia libertaria e individualista, lasci in eredità una dinamica sociale che va esattamente nella direzione opposta. Mentre nella fase finanziario-consumerista tutto si slegava e la dissoluzione dei legami in favore della libertà individuale si affermava in modo dirompente, adesso si torna a sentire la necessità di creare un nuovo legame, di tornare a ri-legarsi. Di questa inversione storica – che, come abbiamo visto, non è né buona né cattiva ma semplice reazione agli eccessi degli anni passati – occorre prendere atto.

E la sfida oggi non è opporsi a questa nuova tendenza, che compensa gli squilibri dello scambio finanziario-consumerista, ma fare in modo che tale processo sia progressivo invece che regressivo. Che da questa situazione possa scaturire un esito ancora più drammatico, con gli scontri fra gruppi diversi portati a un livello ancora superiore rispetto a quello attuale, non si può escludere. Ma allo stesso tempo una lettura realistica deve evidenziare che si tratta di uno scenario improbabile, perché ci sono fattori di tenuta che hanno la capacità, se saranno guidati, di potersi affermare. A condizione di riconoscere con lucidità il cambiamento che è avvenuto, così da poter rispondere alla domanda di legame sociale che caratterizza la fase storica inaugurata dalla chiusura di quella precedente con la crisi del 2008.

Una metafora aiuta a capire meglio i termini del problema. Nei vent’anni di massima accelerazione della globalizzazione, dal 1989 al 2008, è come se le società e gli individui avessero attraversato lo Stretto di Gibilterra, cominciando a navigare in mare aperto nell’oceano della “globalizzazione”. In quegli anni, la navigazione è stata relativamente facile: dato che a prevalere era un’unica e tendenzialmente uniforme corrente (finanziarizzazione, liberalizzazione ecc.), tutti venivano sospinti al largo. In fondo, non era tanto importante quello che si faceva, perché la dinamica del tempo era in grado di apportare benefici un po’ a tutti. Adesso, dopo questi decenni che hanno comunque aumentato strutturalmente l’integrazione planetaria, tutti (individui, imprese, paesi) si trovano là fuori, in mezzo all’oceano, ma le correnti sono improvvisamente minacciose e contraddittorie. Il mare è diventato minaccioso e chi non è nelle condizioni di tenerlo rischia il naufragio. E tenere il mare vuol dire essenzialmente due cose: darsi una direzione (cioè obiettivi da perseguire) e riconoscere perché non ci si salva da soli, ma solo mettendosi insieme ad altri, in vista appunto di un interesse comune.

È in questo senso che si può dire che, mentre durante la fase precedente il legame era arrivato a essere percepito solo come un laccio – da qui il mito di una flessibilità assoluta, necessaria per essere pronti a cogliere nuove opportunità – oggi si sente la necessità di un nuovo legame, anche se rimane tutto da stabilire che cosa ciò possa significare.

Quello che è passato è passato. Bisogna trovare nuove formule per ripensare il futuro. Chiudersi nelle vecchie certezze, confondendo memoria e sogno, sarebbe solo deleterio, come bere acqua salata nella speranza che plachi la sete. Il nazionalismo, per citare solo un esempio, in un mondo irreversibilmente aperto, è uno di questi pericolosissimi sogni che sempre più spesso, per paura, torna a farsi spazio.

In questo momento siamo nel mezzo di una metamorfosi tra un prima che non è più e un dopo che non è ancora. Non siamo fuori dalla crisi, non c’è stato un nuovo inizio, non ancora. Tutto è ancora incerto e magmatico. Per questo, allo scopo di cercare di cogliere la posta in gioco, nelle prossime pagine traccerò due scenari alternativi, due modi diversi e, allo stato presente delle cose, possibili, di riscrivere il legame sociale in questo particolare momento storico. Descritti in maniera schematica e contrapposta, i due scenari proposti marcano delle differenze che, nella realtà dei fatti, potranno essere meno nitide. Ma avere in mente le due polarità tra le quali ci muoveremo nei prossimi anni può essere certamente utile per decidere quale rotta tenere.

Note

1 La chiave di volta è una reintepretazione dell’individualismo che lo renda compatibile con l’importanza fondativa del legame sociale. Disuguaglianza e coesione sociale sono, infatti, nozioni interrelate, come abbiamo visto essere legati i due piani dello scambio.

2 Esso sostituisce l’individualismo dell’uguaglianza, come capacità di sviluppare una riflessività individuale caratteristica dello scambio fordista-welfarista.

3 Sulla nozione di “vite per progetti” vedi in particolare Boltanski-Chiapello 1999.

4 Secondo A. Honneth, le lotte per la redistribuzione sono un caso particolare di lotta per il riconoscimento, mentre secondo altri autori la domanda di riconoscimento culturale delle differenze ha contribuito a oscurare quella di redistribuzione che fa leva sulla disuguaglianza.