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Post-2008: quantitative easing e ordoliberalismo
Anche senza considerare l’instabilità del quadro politico internazionale, la sfiducia che serpeggia non è un’emozione superficiale, ma una realistica valutazione dello stato delle cose. È l’esperienza quotidiana a dire che le cose sono ormai cambiate. L’uomo della strada, disprezzato e inascoltato, capisce molto meglio delle élite chiuse nella torre d’avorio del loro potere traballante che l’epoca in cui i consumi potevano essere sostenuti dalla combinazione tra liberalizzazione e finanziarizzazione se n’è andata per sempre. Il problema è che la società, gli individui, ovvero i malati, non conoscono le cause della loro malattia. Né tanto meno i rimedi. Investire nel futuro, in questa situazione nuova, inedita e senza soluzioni pronte, o quanto meno all’orizzonte, diventa molto difficile. L’incertezza e l’insicurezza sono passioni tristi, pagate a caro prezzo.
In questa situazione – che assomiglia molto a un limbo tra una fase ormai terminata, che non può più riprodursi, e una nuova fase che ancora non c’è e non si conosce – si è tentato di salvare il salvabile, con interventi per lo più volti a cercare di riavviare la macchina nel più breve tempo possibile, riducendo così i rischi associati a un prolungarsi della crisi. E rinviando a tempi migliori le soluzioni strutturali.
Il più pronto a intervenire di fronte alla crisi è stato certamente il governo americano, che ha operato nella direzione di immettere liquidità allo scopo di fermare l’infarto dell’intero sistema economico. L’intervento è andato a buon fine evitando che il collasso del 2008 avesse effetti ancora più devastanti. Tuttavia, superata la fase acuta, le autorità americane si sono rese conto che l’economia non ripartiva e che sarebbe stato necessario intervenire nuovamente allo scopo di recuperare quel dinamismo che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Per far questo, è stata adottata una politica monetaria ultraespansiva eufemisticamente battezzata “politica monetaria non convenzionale”. Non è necessario entrare qui nel dettaglio tecnico. L’idea del governo americano è stata quella di intervenire con uno strumento molto raffinato, che sostanzialmente mirava a replicare l’effetto di stimolo alla crescita che la finanziarizzazione aveva garantito nei due decenni precedenti. Un’operazione gestita questa volta direttamente dalla mano pubblica, nell’intento di riattivare i circuiti economici in difficoltà. Una soluzione che potremmo denominare di “tecnocrazia dolce”, nel senso che la principale (e ben comprensibile) preoccupazione delle autorità americane è stata quella di ridurre il più possibile le sofferenze della popolazione per evitare conseguenze dal punto di vista della stabilità democratica. In effetti, non c’è dubbio sul fatto che questo provvedimento abbia permesso all’economia americana di respirare meglio rispetto a quanto è accaduto in altri paesi. Eppure, col passare degli anni, si è capito che questo tipo di intervento da solo non sarebbe stato sufficiente per rilanciare l’economia e tanto meno per combattere la disuguaglianza. A livello nazionale dove, al di là dei pur positivi risultati, la disillusione dell’elettorato ha portato alla sorprendente elezione di Donald Trump (che ha battuto Hillary Clinton, ovvero l’emblema del vecchio modello). E ancora meno, a livello globale, dove gli incerti andamenti economici si accompagnano a forti turbolenze politiche.
Dal punto di vista strutturale, nonostante le buone intenzioni del presidente Obama, gli interventi più significativi volti a regolare il settore finanziario sono per lo più rimasti nel cassetto e ci si è affidati a una serie di interventi tecnici che, senza toccare equilibri sociali ed economici esistenti, si riteneva potessero non intralciare la ripresa economica. Cosa che, nel medio termine, ha portato a risultati non negativi ma sostanzialmente deludenti. E, soprattutto, i livelli di indebitamento delle famiglie americane sono tornati simili a quelli del 2007.
Un effetto inatteso ma molto vistoso della gestione della crisi finanziaria è stato l’evidenziazione delle differenze istituzionali esistenti tra Europa e Stati Uniti. Gli interventi del governo americano e della Fed hanno avuto effetto sull’economia americana, ma non su quella europea. Semplicemente perché, per quanto integrate, persino queste due aree economiche e politiche rimangono – nonostante vent’anni di globalizzazione – distinte e lontane. Si tratta di un’osservazione fondamentale per capire la nuova fase che stiamo vivendo: a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, la crisi finanziaria ha fatto emergere un mondo multipolare dove gli Stati Uniti non sono più il dominus dell’ordine mondiale. Ed è per questa ragione “politica” che una nuova stagione di espansione finanziaria simile a quella del periodo storico alle nostre spalle è da escludere.
Come sappiamo, la gestione della crisi nella Ue ha seguito una logica diversa da quella statunitense, e ciò per una duplice ragione. In primo luogo, l’Unione europea non è uno stato sovrano come gli Usa, e questo complica e rallenta il processo decisionale. In secondo luogo, in Europa è prevalsa la linea dell’austerità, fondamentalmente ispirata all’ordoliberalismo che la Germania ha da tempo assunto come modello di riferimento per la propria politica economica.
Pur appartenendo alla stessa tradizione, neoliberismo e ordoliberalismo sono dottrine molto diverse tra loro. Il neoliberismo si fonda sulla fiducia (tipicamente americana) nella libertà di iniziativa individuale e predica la liberazione di quelli che Keynes chiamava gli animal spirits e considerava l’energia che alimenta il motore dell’economia. La novità sta qui nel pensare tale liberazione su scala planetaria. Il neoliberismo si è dato come obiettivo fondamentale quello di garantire condizioni giuridiche, tecniche e, quando occorreva, militari adatte alla mobilità dei fattori della produzione: libertà di movimento delle merci, delle imprese, degli investimenti, della finanza. L’ordoliberalismo, al contrario, è una dottrina che ragiona nei termini della creazione di una società di mercato coesa e competitiva. Per questo, mira a costituzionalizzare l’ordine liberale all’interno di una particolare società nel tentativo di raggiungere il punto più avanzato tra coesione e competizione. Una differenza, quella tra neoliberismo e ordoliberalismo, che, oltre a esprimere storie culturali diverse, mostra anche la diversa collocazione geopolitica: mentre gli Stati Uniti sono una potenza planetaria, la Germania è una potenza regionale.
Il problema è che la Germania non è l’Unione europea. Eppure, a causa degli assetti istituzionali della stagione post-euro, di fatto a dettare la linea nella gestione della crisi nel Vecchio continente sono stati soggetti istituzionali fortemente influenzati dagli interessi e dalla cultura tedeschi. In particolare, la Troika ha pesantemente orientato le scelte fatte in Europa in nome di una gestione efficiente della crisi, nella convinzione che l’intera Ue dovesse conformarsi al modello tedesco al di là delle caratteristiche socioculturali dei vari paesi. In quest’ottica, la Troika è arrivata a prendere la decisione di scaricare su parte della popolazione europea molti degli oneri degli aggiustamenti imposti dalla crisi, come nel caso clamoroso della Grecia. Il problema di un simile approccio consiste nell’avere immaginato una germanizzazione dell’intero continente: obiettivo impossibile nel breve termine che, oltre a provocare una grande sofferenza sociale, ha finito con il mettere in crisi la stessa unità europea. In questo caso si può dunque parlare di una soluzione “tecnocratica dura”, volta soprattutto a forzare l’intera società europea all’interno di criteri di efficienza comuni fissati dal soggetto più forte e avanzato.
In realtà, l’insostenibilità del modello dell’austerity si rivela già nel fatto che esso non si regge senza il ricorso alla “droga finanziaria”. I rischi politici e le sofferenze sociali prodotti dall’austerity hanno così portato, pur con un grave ritardo, anche l’Unione europea ad adottare una politica monetaria non convenzionale simile a quella degli Stati Uniti, cioè il quantitative easing. E, al di là delle retoriche sul rigore e il controllo dei conti, nessuno si è tirato indietro dal permettere lo sfruttamento intensivo di nuovi strumenti finanziari tutt’altro che sicuri. L’esempio forse più significativo è quello dei CoCo bond [Contingent Convertible Bonds], comparsi nel 2008, come “obbligazioni ibride convertibili in azioni, quindi in capitale della banca emittente, alleggerendone sostanzialmente l’esposizione debitoria”. I CoCo bond sono dunque dei debiti che, all’occorrenza, diventano capitale e questo capitale, proprio per i maggiori rischi addossati all’investitore, prevede rendimenti più elevati. Il problema è che nel caso in cui si verifichi una congiuntura particolarmente sfavorevole, scatta la loro conversione in azioni della banca, e quindi in capitale, rafforzando così l’istituto.1 Negli anni passati, con i tassi d’interesse reali a volte anche sotto lo zero, i CoCo bond sono stati molto ricercati dagli investitori istituzionali. Secondo Bloomberg, al febbraio 2016 l’esposizione complessiva era di circa 100 miliardi di euro.
Sponsorizzati sia dalle banche, che volevano aiutarsi a reperire capitale nei momenti di difficoltà, sia dai governi, che in questo modo si mettevano almeno parzialmente al riparo dalla necessità di spendere denaro pubblico per intervenire sul capitale delle banche (come è successo durante la crisi), i CoCo bond sono soggetti a rischio di contagio sistemico in un settore come quello bancario fortemente correlato e sempre a rischio di effetto domino. Di fatto, un’esposizione su titoli del genere superiore ai 100 miliardi di euro rappresenta un fattore di instabilità in grado di aprire un’altra crisi dagli effetti difficilmente calcolabili.
Un secondo aspetto problematico dell’austerity è che essa trae vantaggio dagli squilibri strutturali tra le economie a cui si applicano i medesimi regimi disciplinari, pure in presenza di condizioni molto diverse. Così in un’Unione europea dove si hanno paesi che sono in Champions League e paesi che rischiano la retrocessione, la rigida applicazione delle regole del Trattato di Maastricht, nel quadro della crisi provocata dalla rottura del 2008, ha fatto sì che la Germania abbia accumulato un enorme surplus commerciale mentre molti paesi (vedi Italia e Grecia, ma per certi aspetti anche la Francia) non sono riusciti a scrollarsi di dosso la pesante greppia del debito. Con il risultato di accentuare, invece che di ridurre, le distanze tra le economie tenute insieme dalla moneta unica e dai trattati economici molto rigidi.
Al di là delle profonde differenze tra le soluzioni adottate (tecnocratica soft o hard), la gestione della crisi sulle due rive dell’Atlantico ha dunque diversi punti in comune. E in particolare un’idea dell’economia come un apparato tecnico, del tutto astratto dalle sue basi sociali, culturali e istituzionali, una “macchina” su cui si deve intervenire con strumenti complessi decisi da un establishment che pretende di sapere quello che sta facendo e per questo chiede di essere lasciato libero di lavorare. Non che non sia necessario. Ma gli schemi di pensiero sottostanti queste politiche rimangono in stretta continuità rispetto alla visione che ha dominato lo scambio finanziario-consumerista. Nell’ipotesi che sia possibile ritornare a un regime economico simile a quello esistente prima del 2008.
Il problema è che le esigenze sistemiche prendono il sopravvento nella visione delle élite al potere, fino a rendere le istituzioni sorde alle istanze delle persone e delle comunità. Con una sorta di impoliticità che è perfettamente speculare a quella dei cosiddetti populisti. Il risultato è quello che conosciamo. In Europa è con giustificazioni di tipo tecnico-economico che, di fronte ai problemi drammatici di un’economia che fatica a riprendersi, si è affermata l’idea che il vero interesse dei cittadini richieda un contingentamento della democrazia. In realtà, al di là delle condizioni di vita reale delle persone e della società, l’unico problema a cui si è cercato di rispondere è stato quello di far funzionare di nuovo il sistema economico.
Una posizione, questa della necessità di un contingentamento della democrazia, affiorata con chiarezza nel dibattito che ha seguito quell’evento così sorprendente e simbolicamente denso costituito dal referendum britannico sulla Brexit. Il “sì” inglese è stato preso male dall’establishment internazionale, che ha immediatamente osservato come l’errore di fondo fosse stato far decidere il popolo su una questione così complessa. Una difficoltà emersa in modo ancora più clamoroso dopo l’elezione di Trump, dato per perdente e quasi deriso da larga parte dell’establishment, che non ha voluto sentire ragioni. Al di là delle sue buone intenzioni, il paternalismo tecnocratico rischia di preparare la strada alla vittoria del liberalismo non democratico.2
In mancanza di una guida politica che riesca a immaginare un nuovo modello di scambio sociale, gli interventi di politica economica restano di puro contenimento. Oggi in Occidente sembra impossibile formulare una risposta positiva alla crisi, una via d’uscita che ci permetta di immaginare di nuovo una crescita, una crescita migliore. Purtroppo, le soluzioni adottate in questi anni hanno cercato di tamponare la situazione, più che affrontare le vere cause dei problemi. E gli scarsi risultati ottenuti finora dicono chiaramente – a chi vuole capire – che il tentativo di far funzionare ancora il modello di società della fine del Ventesimo secolo in condizioni profondamente diverse non può che avere le gambe corte.
Per capire quello che ci potrebbe aspettare nel prossimo futuro, occorre allora guardare dietro le quinte, dove si stanno preparando le linee sulle quali si cercherà di riorganizzare la società tecnica negli anni che verranno. Il collasso del 2008 non è stato un mero inciampo da cui rialzarsi e ripartire sulla stessa strada con la sola necessità di un bagaglio tecnico più adeguato. Quello che è successo corrisponde alla rottura definitiva dello scambio finanziario-consumerista. Rifiutarsi di leggere la crisi del 2008 in questa prospettiva, come per molti anni è stato fatto, è il modo migliore per finire nel gorgo che sempre si produce quando gli equilibri capitalistici vengono meno. La terapia intensiva a cui si sta sottoponendo il vecchio modello non fa che sottrarre preziose risorse vitali alla possibilità della nascita di un nuovo scambio sociale ben più adeguato, adatto e necessario al mondo che si sta formando dentro le pieghe di questa lunghissima crisi.
Note
1 “Naturalmente l’immissione automatica di titoli sul mercato può diluire il valore delle azioni stesse che probabilmente subiranno dei ribassi in un momento in cui la stessa banca si trova sotto stress, ma dal punto di vista patrimoniale l’istituto si troverà rafforzato.” I CoCo Bond, Borsa italiana, 27 aprile 2012.
2 È interessante a tal proposito aprire una breve parentesi storica che si collega direttamente al rapporto tra politica, democrazia ed economia. Dopo il colpo di stato in Cile del 1973 in cui il governo socialista di Salvador Allende venne rovesciato dal golpe dell’esercito guidato da Augusto Pinochet, che sarebbe poi rimasto a capo del paese per diciassette anni, furono chiamati a dirigere alcuni dei più importanti ministeri economici diversi allievi cileni di Milton Friedman, appartenenti ai Chicago Boys, che nulla avevano a che fare con la politica. Furono loro a portare a Santiago le politiche neoliberiste che cambiarono radicalmente la struttura fortemente socialista data dal governo di Allende al paese. Le riforme ebbero un indiscutibile effetto positivo sull’economia cilena, sebbene al costo di una dilatazione delle disuguaglianze, ma furono portate a termine sotto una feroce dittatura. Questo rientra in quella prospettiva, di cui si è discusso in una pagina precedente, secondo la quale, all’interno dell’orizzonte di un certo tipo di scambio sociale, la libertà economica è più essenziale della libertà politica.