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La sostenibilità presa sul serio
La chiave del discorso ruota attorno all’idea di sostenibilità. Termine latino che indica la capacità di “tenere su” e in questo senso di far durare nel tempo. Una parola che esprime bene un’idea: la crescita economica deve sempre ricordarsi di non distruggere se stessa, ricreando le condizioni del proprio futuro. La sostenibilità fa pensare alla questione ambientale, perché la sua prima occorrenza nel lessico politico risale al movimento ecologista, che cominciò a parlare di sostenibilità negli anni settanta.1 E certamente la questione rimane fondamentale.
Sostenibilità ambientale significa tante cose: assunzione del vincolo ecologico per lo svolgimento delle attività economiche, ma anche nuovi stili di vita personale e nuovi modelli di organizzazione sociale (si pensi al tema della mobilità), qualità dell’aria che si respira, cura idrogeologica del territorio, prevenzione antisismica, lotta allo spreco, efficienza energetica e così via. Un lungo elenco di temi che possono diventare una vera e propria leva grazie alla quale realizzare innovazioni importanti in vari ambiti della vita sociale ed economica.
Ma sostenibilità non si riduce a questa pur importante dimensione. Una seconda dimensione è la sostenibilità sociale. Contrariamente al credo neoliberista, oggi per rilanciare la crescita occorre tornare a investire sulla società che la sostiene: dal punto di vista infrastrutturale, istituzionale, culturale. Alla lunga, se non c’è sviluppo sociale – con una redistribuzione della ricchezza equa e inclusiva, un forte investimento nell’educazione, la fioritura culturale, tecnica, scientifica, infrastrutturale – non c’è più nemmeno crescita economica. Per questo l’eccessiva concentrazione della ricchezza è un tema che non può più essere aggirato: uno dei modi che abbiamo per rilanciare i mercati interni è tornare a redistribuire in modo più equo la ricchezza prodotta. Partendo dalla ritrovata centralità del lavoro e della sua remunerazione. È chiaro infatti che in alternativa alla logica dello sfruttamento – che ha il problema di reggere solo per un po’ – vi è solo quella della valorizzazione che concepisce la crescita come un fenomeno integrale.
Infine, c’è la sostenibilità umana, che ha a che fare con tre aspetti: uno demografico, uno generazionale e uno formativo. Come abbiamo visto, la sostenibilità demografica è un tema molto complesso, ma anche improcrastinabile. Oggi le società avanzate sono alla ricerca di un equilibrio intergenerazionale che ancora non hanno raggiunto. Politiche famigliari di nuova generazione, conciliazione tra famiglia e lavoro e servizi all’infanzia sono elementi essenziali per arrivare a questo risultato. Dall’altra parte, tenuto conto dell’allungamento della vita, occorre affrontare in modo strutturale, e non punitivo, la questione dell’età pensionabile. Non si tratta semplicemente di elevare le soglie di accesso a questo beneficio, ma di usare una flessibilità maggiore che consenta di trovare equilibri sociali ed esistenziali migliori di quelli che conosciamo. Senza sottovalutare il ruolo prezioso che può essere giocato dalle migrazioni che, seppur problematiche sotto tanti punti di vista, possono – a certe condizioni – costituire un fattore importante di riequilibrio demografico.
La questione relativa alle nuove generazioni è presente in tutte le società avanzate, anche se viene percepita con una valenza diversa. Com’è noto, in molti paesi la percentuale di disoccupazione tende a essere particolarmente alta proprio tra coloro che hanno meno di trent’anni. Ma più in generale, un po’ dappertutto sta diventando sempre più clamorosa la diversità del destino al quale sono esposte le tre generazioni che hanno attraversato le fasi di cui si è parlato in questo libro. La prima, cresciuta all’ombra dello scambio fordista-welfarista, ha visto aumentare sia i salari sia i servizi di welfare. Una condizione molto positiva che ha permesso un’accumulazione privata piuttosto consistente. La seconda generazione, nata durante il boom economico e diventata adulta nell’era dello scambio finanziario-consumerista, ha avuto un facile accesso al consumo individualizzato, ma non è stata in grado di ampliare la base della propria ricchezza. Nella maggior parte dei casi, quando le cose sono andate bene, ha conservato il patrimonio ereditato. La terza e ultima generazione – quella dei millennials – entra nella vita adulta tra mille difficoltà (poche possibilità di lavoro, prezzi altissimi delle case ecc.). Senza escludere che alla lunga tutto ciò non possa trasformarsi in una spinta all’intraprendenza, non si può non notare che oggi abbiamo a che fare con una generazione che entra nella vita attiva dovendo fare i conti con aspettative di vita in diminuzione (rispetto ai genitori). Non è questo décalage intergenerazionale un sintomo evidente dell’insostenibilità dello scambio finanziario-consumerista? E non è forse questo un buon argomento per costruire uno scambio sociale più consapevole della sostenibilità tra le generazioni?
Infine esiste una questione formativa che riguarda la scuola e, più in generale, la formazione della persona. A. Sen (fra gli altri) ha dato un contributo magistrale su questo aspetto: in ultima istanza è l’investimento sulla persona umana – e le sue capacità – ciò che fa la differenza. In effetti, mai come in questo momento è chiaro come l’investimento in formazione – a trecentosessanta gradi e non solo in senso strettamente tecnico – sia centrale per creare sviluppo. Da questo punto di vista, si può dire che la scuola è uno dei pilastri della sostenibilità: senza istruzione e senza educazione, ogni discorso sulla crescita futura non può reggersi. Ma subito si deve aggiungere che nemmeno la scuola basta più: per sostenere la velocità del cambiamento, le società avanzate hanno bisogno di strumenti di formazione permanente per evitare che le persone possano trasformarsi in scarti nel corso della loro vita.
In questa accezione integrale, l’idea di sostenibilità è un vero e proprio antidoto all’intossicazione prodotta dalla finanziarizzazione che, come abbiamo visto, ha pensato di essere in grado di sostenere da sé, con la propria espansione illimitata, la crescita. È questo il lutto che va elaborato: con la crisi del 2008, le condizioni che avevano permesso una crescita “a prescindere”, cioè fondamentalmente irresponsabile delle sue precondizioni, sono venute meno.
La sostenibilità oggi è un atto di realismo economico. Essa, infatti, implica un ritorno a “pensare economicamente”, in un quadro cioè di risorse limitate (e non illimitate come negli ultimi decenni), dentro una rete di relazioni di tipo ecologico, sociale, politico. Nulla più di questo.
La difficoltà maggiore di questa “conversione” sta naturalmente in quell’abitudine ormai così radicata che caratterizza il nostro tempo, ossia la consuetudine di pensare a breve termine. Si tratta, come è evidente, di un’ipoteca pesante sulla possibilità di imboccare più decisamente la strada della sostenibilità: come si fa a modificare il modo di pensare dei finanzieri che inseguono guadagni immediati, dei politici che guardano il sondaggio più recente, dei consumatori che rincorrono l’ultima moda? Scardinare questa mentalità in condizioni normali è probabilmente impossibile.
Ma proprio perché ci troviamo in una situazione anormale, possiamo nutrire speranza. È la perdita degli equilibri dello scambio finanziario-consumerista a poterci spingere verso una nuova stagione capitalistica di cui la sostenibilità integrale possa costituire il presupposto.
Note
1 Pensare un nuovo paradigma non significa abbandonare completamente il passato e lanciarsi a vele spiegate verso il futuro senza guardarsi indietro. Basta pensare che già nel 1972 si tenne a Stoccolma una conferenza Onu sull’ambiente umano in cui si poneva al centro dello sviluppo futuro la compatibilità del progresso tecnologico e industriale con il rispetto dell’ambiente. Per la prima volta si provava a mettere al centro dell’agenda delle economie occidentali il concetto di sostenibilità. Durante questa conferenza è stato fondato l’Unep (United Nations Environment Programme) che ancora oggi si occupa di formulare l’agenda ambientale globale e di promuovere uno sviluppo sostenibile.