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Lo scambio fordista-welfarista (1945-1968-1973)
e la sua crisi

Lo scambio comunemente definito fordista-welfarista ha caratterizzato i cosiddetti “trent’anni gloriosi”, tra il 1945 e il 1975, e sul piano economico è stato contrassegnato da una forma fordista di capitalismo – ovvero da produzione in serie, economie di scala ed efficientizzazione – resa possibile dall’espansione dei mercati interni. Un risultato ottenuto associando quote crescenti di popolazione al circuito del consumo mediante il pagamento di salari stabili e tendenzialmente in crescita. Riuscendo così a tenere in equilibrio lavoro e consumo. In questo contesto, la politica aveva il compito di mediare tra gli interessi del capitale e quelli del lavoro, contribuendo a definire il rapporto profitti-salari, regolare il conflitto sociale e redistribuire il reddito attraverso la tassazione e la spesa pubblica.

Sono questi i termini del consenso socialdemocratico, cioè di un consenso elettorale basato su un’economia prospera, con profitti e salari crescenti, all’interno di uno stato forte, in grado di costruire un sistema di protezione sociale universalistico e di perseguire una politica economica e industriale interventista. Tale modello1 – che si avvantaggia dell’allargamento del ceto medio secondo un’idea di cittadinanza in cui le libertà giuridiche e i diritti sociali sono destinati ad ampliarsi – si regge sulla stabilizzazione della democrazia, sull’accesso generalizzato all’istruzione, sulla crescita dei salari e sulla regolazione keynesiana degli equilibri macroeconomici. Nello stato-nazione le identità sociali e politiche sono costituite dall’appartenenza a classi e gruppi occupazionali. Così è la condizione lavorativa a definire l’appartenenza partitica e, per questa via, a stabilizzare il consenso elettorale: gli operai sono comunisti o socialisti, gli imprenditori liberali.

In questa fase, lo scambio tra gruppi sociali ed economici si fonda sull’accesso ai consumi di massa, sulla sicurezza del posto di lavoro, sull’assistenza sanitaria e sulla tutela sindacale, mentre gli interessi capitalistici vengono garantiti da una domanda interna crescente, oltre che da un costante impegno dello stato nella forma di investimenti pubblici e spese militari. D’altra parte, la politica ottiene il consenso elettorale che cerca garantendo le condizioni per la crescita dei mercati e l’innalzamento dei salari.

In un ordine mondiale “ingessato”, dagli accordi di Yalta e di Bretton Woods – che creavano sistemi socio-economici relativamente chiusi – lo scambio fordista-welfarista è riuscito ad assicurare – per quasi tre decenni e almeno all’interno dei singoli paesi occidentali – crescita economica, diffusione del benessere e consenso politico. In un gioco a somma positiva di cui beneficiavano tutte le parti in causa.

La crisi che ha segnato la fine di quest’epoca esplose tra il 1968 e il 1969 e si rivelò prima di tutto una crisi culturale dopo che, in tutto l’Occidente, la new left, con la sua critica alla concezione della libertà formale espressa dalle istituzioni del social democratic consensus, e la new right, per la quale la protezione sociale era vista come un danno all’efficienza economica,2 presero le distanze dal modello fordista-welfarista. Un simile cambiamento di prospettiva e di priorità fu, in un certo senso, la diretta conseguenza del successo dello scambio fordista-welfarista: fu l’accesso generalizzato al benessere a indebolire la relazione tra identità e appartenenza di classe.

Sta di fatto che nel Sessantotto una nuova domanda sociale, rivolta alla valorizzazione delle differenze e all’autenticità individuale, si affermò definitivamente: la realizzazione di sé diventò la questione centrale. Per le sensibilità emergenti, la pervasività delle istituzioni del capitalismo fordista-welfarista nella vita individuale risultava troppo invadente e sempre meno sopportabile, mentre il rifiuto di ogni autorità e normatività – in nome della centralità del Sé, dell’autonomia delle scelte e della libertà morale – spingeva verso la ricerca di nuove soluzioni istituzionali ed equilibri sociali. Ciò condusse alla nascita di nuovi movimenti (quello studentesco, quello femminista, quello ambientalista) portatori di una domanda di beni simbolici che, nel decennio successivo, si sarebbe concretizzata nelle nuove lotte per il riconoscimento.3

Sommandosi alle forme più tradizionali di protesta sociale, tutto ciò porta, negli anni settanta, a un aumento verticale del conflitto che mette in discussione gli equilibri strutturali dello scambio sociale post-bellico. Da un lato, il rapporto tra salari e profitti entra in tensione nel momento in cui gli interessi del lavoro pretendono una fetta maggiore della ricchezza prodotta. Al tempo stesso, i primi segnali di saturazione dei mercati interni deprimono le prospettive di crescita delle imprese. Dall’altro lato, si verifica la progressiva erosione del consenso politico: lo stato, sempre più grande e pesante, viene liquidato come macchina inefficiente e costosa, che alimenta la corruzione e fa lievitare le tasse. Un peso, e non certo un aiuto per la crescita, che sottrae risorse ai profitti e ai salari.

In un quadro già traballante, la prima crisi petrolifera – segnale inequivocabile che intere aree del mondo si stanno risvegliando – è l’evento esterno che interviene spezzando definitivamente l’equilibrio post­bellico: l’idea che si possa far crescere insieme profitti, salari e consenso politico diventa improvvisamente impraticabile. Il sistema si scopre imballato e la tensione sale alle stelle.

Le conseguenze politiche della fine di questa fase vanno di pari passo con quelle economiche. Negli anni settanta le democrazie occidentali entrano in una fase di evidente affanno, indebolite da una crisi di legittimazione che sembra destinata a travolgerle. Di fronte a questo intrico di problemi c’è chi inizia a pensare che sia necessaria una riorganizzazione strutturale. E anche se le idee non sono ancora chiare, si comincia con lo smantellare l’assetto istituzionale costruito nel Dopoguerra: la decisione presa dal presidente Nixon nel 1971 di abbandonare la parità oro-dollaro è il chiaro segno che lo scambio fordista-welfarista ormai non basta più. Fu un po’ come togliere la pietra angolare all’intero edificio dei rapporti economici internazionali sorti con la Seconda guerra mondiale. Anche se, per disporre di una visione in grado di strutturare una nuova stagione capitalistica, si dovrà aspettare il nuovo decennio, con l’avvento del neoliberismo.

Note

1 Per una descrizione approfondita di tale modello, definito capitalismo societario, si rimanda a Magatti 2008.

2 Secondo alcuni autori, l’ascesa della destra conservatrice negli Usa si spiega, in parte, grazie allo sfruttamento da essa operato del revanscismo bianco per ridurre spesa sociale e progressività delle imposizioni fiscali. I discorsi di Reagan sono spesso portati ad esempio del sottinteso per il quale la spesa sociale sarebbe principalmente a vantaggio dei neri.

3 A esse, però, non hanno fatto seguito politiche istituzionali adeguate (Honneth 2002). Questa “perversione” della domanda sul piano simbolico è approfondita oltre nel testo.