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Crisi
Il 2008 ha segnato una linea di confine, l’inizio di una crisi da cui non siamo ancora usciti. Il tentativo di comprendere ciò che sta accadendo solo da un punto di vista economico è essenziale, ma al tempo stesso insufficiente. È essenziale perché è certamente l’economia il centro da cui la crisi si è propagata. Ma è insufficiente perché questa crisi ci pone di fronte alla necessità di immaginare e pensare un modello sociale nuovo, capace di portarci al di là del modo di ragionare degli ultimi decenni.
Non riusciamo a venire fuori dalla crisi perché le soluzioni adottate fino a oggi sono state soltanto pezze d’appoggio riciclate da stagioni precedenti. Sembrava che vecchie ricette potessero rispondere a nuove esigenze. Ma come è sempre più evidente, questa strategia non funziona. Oggi avvertiamo la necessità di qualcosa che nessuna delle vecchie soluzioni è stata in grado di fornire. Sentiamo la mancanza di un orizzonte condiviso in cui riconoscere noi stessi e gli altri. E la sensazione di essere schegge in balia degli eventi in un mondo sempre più complesso è all’origine di un malessere diffuso. La preoccupante avanzata delle teorie complottiste, alimentata dall’uso sconsiderato della tecnologia, altro non è che una richiesta di comprensione di quello che succede attorno a noi, una domanda di senso in un mondo che sembra averne sempre meno.
Le grandi cornici storiche di riferimento si sono progressivamente esaurite. La religione, anche a causa di un fondamentalismo laicista che sottrae forza all’orizzonte spirituale, oscilla tra pulsioni fondamentaliste e aspirazioni di rilancio, mentre la vita collettiva rischia di prodursi in un vuoto esistenziale e metafisico che non siamo in grado di colmare. La politica sta attraversando un momento molto difficile. All’interno di un mondo interconnesso, in cui gli effetti di un’azione in qualsiasi parte del pianeta possono riflettersi direttamente su ciò che accade in un’altra, la politica vede ridursi gli strumenti di cui dispone per intervenire e rischia di non comprendere più con esattezza quale sia la sua funzione. Così i politici, come in equilibrio su una tavola da surf, sembrano concentrati solo nel tentativo di non cadere in acqua. Incapaci di indicare una prospettiva a società disorientate.
A peggiorare le cose vi è la caduta dell’ultima ideologia, quella di un mercato panacea di tutti i mali. Il grande sogno neoliberista di un pulsante ecosistema finanziario capace di ricomprendere in sé tutti i rischi della società e generare crescita illimitata ha perso smalto nell’urto violento con la realtà che aveva fatto finta di non vedere.
Veniamo da una stagione in cui abbiamo creduto che fosse possibile sostituire a qualsiasi cornice di riferimento condivisa l’idea del benessere come unico obiettivo davvero perseguibile. Il resto si sarebbe sistemato da solo. Come dire, l’intendance suivra! Ma la richiesta di un senso, di una comunità di condivisione, di un orizzonte a cui guardare insieme, il bisogno di uno scopo attraverso il quale trovare il nostro posto nel mondo non possono limitarsi al semplice benessere materiale, che pure è essenziale. Ciò di cui avvertiamo il bisogno è una nuova condizione in cui ritrovare la nostra capacità di esprimerci come persone libere e di riconoscerci come comunità inclusive.
La buona notizia è che le cose sono in movimento. È vero, se ci si guarda intorno, come sempre nei tornanti della storia, ci sono molte ragioni per essere preoccupati. Ma dove cresce il pericolo, crescono anche la speranza e lo sforzo di un suo superamento.
Il percorso che seguirò in questo libro si fonda sull’idea che il 2008 abbia segnato la conclusione di un ciclo storico iniziato per rispondere alla crisi di quello precedente, avvenuta tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta.
Nelle sue mutevoli forme storiche, il capitalismo si è sempre strutturato attorno a un determinato scambio sociale in grado di definire un punto di equilibrio tra interessi sociali, economici e politici. Per interessi sociali si devono intendere i compositi, e spesso confliggenti, interessi materiali e simbolici di gruppi diversi per la posizione che occupano sulla scala sociale e per il loro status di maggioranza o di minoranza rispetto all’insieme della popolazione. Gli interessi economici sono quelli legati all’accumulazione del capitale, sotto forma di profitto e/o di rendita. Infine, gli interessi politici, legati all’ottenimento del consenso, sono definiti dalle politiche governative che decidono le linee guida dell’intervento istituzionale. Ne sono un esempio i livelli di spesa pubblica e di tassazione o il riconoscimento di certi diritti individuali. Ogni fase capitalistica, in relazione al variare delle condizioni economiche, degli equilibri politici e delle domande sociali, si definisce sulla base di uno scambio, cioè di una particolare convergenza, per quanto provvisoria, tra questi diversi interessi in gioco.
Lo schema interpretativo che seguirò nelle prossime pagine distingue tre fasi attraversate dal capitalismo nel Secondo dopoguerra.
La prima, che si avvia nel periodo post-bellico e si prolunga fino alla crisi culturale e strutturale cominciata tra il 1968 e il 1969, ha avuto per fondamento lo scambio che in letteratura è chiamato fordista-welfarista.
Dalla crisi di questo modello è poi emersa una diversa soluzione che ha caratterizzato la seconda fase – di norma definita neoliberista –, i cui tratti hanno iniziato a stabilizzarsi a partire dagli anni ottanta. Il neoliberismo ha trovato in Margaret Thatcher e in Ronald Reagan i propri paladini politici e nella caduta del Muro di Berlino l’evento storico fondativo. In realtà, con le categorie di questo libro, quella alle nostre spalle è stata la stagione dello scambio finanziario-consumerista. “Finanziario”, in ragione della centralità del processo di finanziarizzazione, ovvero degli effetti della deregolamentazione e della ingegnerizzazione finanziaria che hanno reso possibile la massiccia estensione delle possibilità di accesso al credito e dunque all’indebitamento. “Consumerista”, per via della centralità del consumo come fonte del benessere e dell’identità, oltre che della crescita economica.
La crisi del 2008 ha spezzato gli equilibri di quest’ultimo scambio. A quasi dieci anni di distanza è ormai evidente che, nonostante gli sforzi di rimettere in azione il modello, il cambiamento delle condizioni storiche è tale da rendere irreversibile la sua crisi. La terza fase è quella che ci aspetta e che nascerà dalla risposta che sapremo dare alla crisi in corso. L’instabilità nella quale viviamo da anni spinge verso la creazione di nuovi assetti che si consolideranno solo nel momento in cui saranno tratteggiati i termini di un nuovo scambio sociale.
Non esiste una sola via d’uscita. Come in tutte le fasi di passaggio, le dinamiche in atto sono necessariamente ancora incerte. Per questo, nella seconda parte, cercherò di dare conto delle piste principali che vanno emergendo, e prenderò posizione a favore di quello che chiamo “scambio sostenibile-contributivo”, orientato a ricostruire su basi nuove la relazione tra economia e società.
L’idea di fondo è che siamo ancora in tempo per pensare un esito positivo, una soluzione che non si limiti a riportarci al 2007 – cosa che, oltre a non essere possibile, non è nemmeno desiderabile – ma che riesca a proiettarci al 2020, o meglio al 2025, in un mondo anche solo di poco migliore di quello in cui abbiamo vissuto. Immaginare un nuovo scambio sociale vuol dire rispondere, da un lato, alla domanda che chiede cosa potrebbe significare “crescita” nelle economie avanzate, in particolare passando per una ridefinizione della nozione di valore e della sua misurazione; dall’altro, significa individuare quali politiche governative potrebbero abilitare i diversi gruppi sociali a nuove forme di partecipazione, contribuzione e riconoscimento.