8.
Primo scenario: efficienza per sicurezza
(o come pensare di tornare a crescere spremendo di più il limone)

1. Populismo

Da qualche anno si parla molto di populismi, un termine passe-partout ormai diventato uno schermo che impedisce di penetrare la superficie delle cose. In realtà, infatti, questa parola nasconde le difficoltà che gran parte dell’establishment, specie se occidentale, sta incontrando nel riconoscere la portata di quello che sta avvenendo. Molti semplici cittadini intuiscono un forte senso di disorientamento di fronte al mondo che li circonda, che è troppo complesso, veloce e grande per poter essere compreso.

Come abbiamo visto, per molti anni la risposta alla crisi è stata tecnocratica (nelle due varianti soft e hard). In sostanza, come sempre succede nelle fasi storiche in cui si producono delle discontinuità, i centri di potere hanno impiegato tutte le loro energie per riavviare il motore di una macchina ingolfata. Sostanzialmente continuando a usare le categorie interpretative valide nel recente passato. Ma anche laddove qualche risultato è stato ottenuto (si pensi soprattutto agli Usa), la matassa non si è sbrogliata. Anzi.

In questo momento, ci sarebbe bisogno di politica. Ma la politica è esattamente ciò che, nella stagione della globalizzazione, ha perso autorevolezza. Almeno a livello nazionale. Un po’ dappertutto il ceto politico appare opaco e spento, comunque non all’altezza dei problemi che si devono affrontare. Le ragioni che spiegano questo fenomeno sono numerose, ma l’impreparazione che sembra accomunare gran parte dei governanti contemporanei non è un fatto casuale. Piuttosto è il sintomo della difficoltà strutturale che la politica contemporanea accusa nei confronti delle questioni che attraversano le società avanzate. Il risultato è quello che conosciamo: la domanda che sale dalla società non viene riconosciuta né tanto meno interpretata. D’altra parte come potrebbe essere diversamente, visto che abbiamo passato gli ultimi decenni a scarnificare la democrazia e le sue premesse tutti presi dal mito dell’espansione infinita che dispensava dalla responsabilità del pensare?

Non deve dunque stupire che, in tale contesto, la domanda di politica stenti a trovare una forma di espressione adeguata, finendo facilmente nelle mani dei nuovi imprenditori politici che si richiamano alla potenza nazionalistica nella forma confusa dei populismi senza progetto, forti ormai un po’ in tutti i paesi.

Ciò che accomuna Le Pen, Trump o Wilders è il richiamo a un’appartenenza politica di matrice nazionalistica, con venature etniche, a cui ci si appella per porre un limite alle istanze della globalizzazione che ha predicato un cosmopolitismo astratto. Istanze che non si limitano alla sola dimensione economica, ma investono anche altri aspetti basilari della vita – come i rapporti tra culture e religioni diverse, l’identità di genere, le forme della riproduzione della vita – spesso affrontati con una superficialità disarmante.

Di fronte a cambiamenti tanto profondi quanto incerti, la risposta viene cercata nell’appello all’identità o alla tradizione. E per cercare di trovare un punto di appoggio per fondare un limite di fronte a ciò che sembra perdersi nell’illimitato – e così tentare di immaginare una nuova sintesi per tornare a sentirsi uniti – risulta più facile richiamarsi alla nazione, cioè a un mito originario che alla fine si basa sulla classica contrapposizione amico-nemico, che non sforzarsi di chiarire come fare per ricostruire lo stato e le forme della convivenza civile. È questo stato d’animo che spiega come mai gran parte dell’opinione pubblica sia così fatalmente attratta dalle sirene della democrazia illiberale. La cosa non dovrebbe sorprenderci. Nei momenti di caos e di anomia, la trappola della “servitù volontaria” – descritta già nel 1576 da é. de La Boétie come quella condizione nella quale alla libertà si preferisce la sottomissione a un potere che, nel nome dell’unità e dell’ordine, diventa col tempo tirannico – è sempre pronta a scattare, catturando ampi strati di elettorato stanchi e sfiduciati. È perché spira questo vento che, come già in altri momenti storici del passato, la sicurezza tende a diventare il tema che detta l’agenda politica.

Fuori dall’Occidente una tale dinamica è ancora più esplicita. A differenza di qualche anno fa, la democrazia non sembra più il modello istituzionale vincente, destinato a propagarsi in tutto il mondo. Al contrario, un po’ ovunque si affermano regimi più o meno autocratici che hanno un orientamento cauto, se non ostile, nei riguardi della globalizzazione.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, poi, la complessità istituzionale non mette al riparo le società contemporanee dal rischio di scalabilità da parte di piccoli gruppi o addirittura di singole persone. Il problema nasce dal fatto che le istituzioni contemporanee – sempre più grandi e difficili da governare – da sole sono astratte e fredde, non riuscendo più a esprimere alcuna attrattiva simbolica. Per imporsi sui loro membri esse hanno dunque bisogno di utilizzare modalità regolamentative rigide, che tendono però ad aggravare la perdita di significato e il senso di appartenenza. I sentimenti antiestablishment nascono in questo brodo di coltura.

Il fatto è che, nonostante tutto, la nostra vita insieme continua ad avere un enorme bisogno simbolico che, nel contesto in cui viviamo, solo leadership carismatiche sembrano riuscire a soddisfare. Anche perché, per quanto i sistemi tecnici e amministrativi che organizzano la nostra vita sociale seguano criteri e logiche standardizzate e automatiche, il processo decisionale lascia comunque ampi spazi di azione e decisione che facilmente finiscono nelle mani di piccole oligarchie, più o meno elettive. Questo fa sì che le istituzioni contemporanee risultino esposte a incursioni di piccoli gruppi che tendono a impossessarsi delle leve del potere reale, nell’implicita assunzione che i sistemi siano ormai troppo complessi per poter contemplare una vera democrazia. Con il linguaggio di M. Weber, ciò produce inedite combinazioni tra potere legale razionale e potere carismatico, laddove l’uno non può esistere e operare efficacemente senza l’altro.

Questo effetto si rafforza per il fatto che le istituzioni continuano a essere strumenti indispensabili per il potere dei singoli e dei gruppi. Contrariamente a quello che sostiene l’ideologia individualista, la sproporzione insormontabile tra il singolo e i sistemi della potenza contemporanea rimane irrisolta. In questa situazione, il potere delle persone ha la necessità di appoggiarsi a qualche dimensione istituzionale o a qualche apparato sistemico per potersi affermare e rendersi visibile. E questo semplicemente perché l’agire individuale non basta a se stesso e ha bisogno di un moltiplicatore, che trova nella dimensione istituzionale. È, infatti, l’acquisizione di un ruolo di comando all’interno di una grande istituzione (apparati dello stato, università, grandi imprese, banche, ospedali, media) ciò che consente al singolo individuo l’accesso ai circuiti del potere contemporaneo con i vantaggi correlati: ricchezza, visibilità, relazioni, informazioni e conoscenze.1

Fino a oggi, la debolezza dei populismi è stata nel fatto che non hanno ancora identificato una vera e propria strategia economica per uscire dalla crisi. Dire “America first” può certo suonare bene nelle orecchie degli elettori arrabbiati. Eppure non dice granché sulla strada da seguire effettivamente per rilanciare la crescita e per placare il malcontento.

È chiaro che invertire la direzione di marcia che ha caratterizzato la lunga stagione neoliberista – che, come abbiamo visto, ha dato luogo allo scambio finanziario-consumerista – non è compito facile per nessuno: come si intende sostenere la crescita economica? Attirando i capitali? Riducendo le importazioni? Aumentando la competitività delle imprese americane? Aumentando la spesa militare?

Tutte domande che al momento aspettano ancora di trovare risposta. Il rischio è che alla fine una tale indeterminatezza nella politica economica possa portare alla guerra. È vero, a opporsi a un esito simile c’è l’alto livello dell’integrazione economica e tecnica ereditato dagli anni della globalizzazione. Ci sono grandi interessi economici che non vedono affatto di buon occhio una tale soluzione. Ma quando ci si dovesse trovare nei pasticci dal punto di vista economico, la pressione per l’opzione militare non potrebbe che crescere. Tanto più che, nell’attuale panorama mondiale, ci sono varie potenze (Russia, Turchia, Cina, Corea del Nord, solo per citarne alcune) che possono avere tutto l’interesse a provocare uno show down militare. E il forte aumento delle spese militari deciso da Trump nelle prime settimane del suo governo non è certo un bel segnale. Ma, lasciando sullo sfondo questa soluzione disastrosa, verso quale tipo di modello capitalistico potrebbero virare i governi a trazione populista che hanno vinto le recenti elezioni?

2. Digitalizzazione

È per rispondere a tale domanda che potrebbe entrare in scena un certo modo di intendere la sempre più imminente digitalizzazione dell’intera vita sociale. In realtà, siamo solo sulla soglia della futura società digitale. Da quando Internet è stato introdotto nei primi anni novanta sono state gettate solo le premesse per la creazione di una nuova organizzazione sociale in grado di mettere a frutto le enormi possibilità del digitale: è stata costruita la rete, sono stati venduti pc, tablet, telefonini, si sono sviluppate nuove applicazioni. Adesso si è pronti per un vero e proprio salto di qualità. Nei prossimi anni, con quello che si chiama “the Internet of things” e la “fabbrica 4.0”, molte cose sono destinate a cambiare radicalmente.

Come tutte le tecnologie, la digitalizzazione non è né buona né cattiva. Dipende dall’uso che se ne fa. Infatti proprio questa infrastruttura è alla base anche della seconda via d’uscita, di cui parleremo più avanti. B. Stiegler ha chiamato “grammatizzazione” la conseguenza dell’applicazione tayloristica al lavoro umano in generale. Egli l’ha definita come l’insieme delle dinamiche di registrazione, formalizzazione e discretizzazione che permettono l’archiviazione e la riproducibilità di gesti e linguaggi. È proprio attraverso la grammatizzazione che, nel corso della modernità, si sono affermate le forme di controllo del processo d’individuazione psichica e collettiva.

Non è difficile comprendere che la digitalizzazione rende possibile un nuovo stadio del processo di grammatizzazione, grazie alla discretizzazione di gesti, comportamenti e movimenti che compiamo in qualsiasi ambito della nostra vita privata e pubblica (Stiegler 2013:92-93). Attraverso lo sviluppo e l’affermarsi della società digitale, sia il lavoro sia il consumo saranno trasformati. Niente sarà più come prima.

In ambito produttivo la cosiddetta “fabbrica 4.0” – caratterizzata dall’uso intensivo e capillare di robot autonomi, realtà aumentata, cloud, big data e analitica, internet delle cose industriali, integrazione dei sistemi orizzontali e verticali, simulazione e produzione additiva – è destinata a trasformare il nostro modo di lavorare. La nuova connettività, interna ed esterna, aumenterà l’adattività dell’impresa, con tempi più rapidi di reazione, riduzione degli sprechi, produzioni di tipo sartoriale. Nuovi livelli di integrazione digitale permetteranno alle macchine di relazionarsi tra loro e di apprendere continuamente, accelerando così i processi innovativi e sviluppando forme di “automazione intelligente”. L’ottimizzazione della produzione, che sarà ottenuta anche attraverso l’accelerazione dell’integrazione tra uomo e macchina e la messa a sistema di tutte le informazioni utili lungo il processo che dall’innovazione arriva alla vendita, resterà l’obiettivo fondamentale del nuovo modello di produzione, spingendolo verso livelli ancora più elevati di efficienza.

Sappiamo già che la robotizzazione2 avrà un forte impatto sull’occupazione. Nei prossimi anni, una buona parte dei lavori impiegatizi di tipo esecutivo sarà cancellata. E con essa aumenterà la capacità di controllo (anche remoto) del lavoro, con tutte le ambivalenze che ciò comporta. Già oggi si va diffondendo lo smart working, che permette il lavoro a casa sulla base di controlli anche più stringenti di quelli possibili in ufficio.

Sul fronte del consumo, a fare la differenza sarà la tracciabilità di tutto ciò che facciamo – di ciò che ci piace, dei nostri gusti, delle nostre scelte –, che permetterà di creare un profilo costantemente aggiornato di chi siamo, di ciò che vogliamo e dunque del prodotto che, probabilmente, desideriamo in un determinato momento. Ovviamente restiamo sempre individui liberi di scegliere. Anzi, ci sentiamo ancora più liberi di prima, perché ci sembra di essere sciolti dalle relazioni di prossimità, dato che siamo costantemente in contatto con tutto il mondo. Una libertà a portata di clic.

Tuttavia non tutto è come sembra.

Il problema è che non esiste uomo senza una comunità alla quale relazionarsi e a cui, in qualche modo, rendere conto. E ciò è (ancora più) vero anche per gli abitanti di una società avanzata che vivono in ambiente digitalizzato. È infatti mediante la scia che lasciamo di noi stessi attraverso i nostri percorsi digitali che mandiamo i segnali che altri possono raccogliere e con cui possono scegliere di entrare in relazione. Come all’interno di una qualsiasi comunità. E come molte delle dinamiche di una comunità ci rimangono nascoste, così succede anche in questo caso. Basti pensare al più importante motore di ricerca del mondo, Google, il filtro e il catalizzatore delle nostre idee e desideri, la nostra porta sul mondo. Quando digitiamo il nome di un prodotto o una località, quello che ci compare in cima alla schermata è spesso un indirizzo sponsorizzato che ha interesse a parlarci sulla base di un’informazione profumatamente pagata. Lo stesso motore di ricerca, d’altra parte, nel darci le informazioni che cerchiamo fa riferimento al nostro profilo, costruito attraverso un algoritmo basato su tutte le ricerche che abbiamo fatto in precedenza. Ciò porta a suggerimenti ritagliati sulla nostra storia che tendono a confermarci in quello che siamo già.

Il punto fondamentale è che, nella società digitale, i dati sono il nuovo petrolio. È questo l’implicito del grande capitolo dei big data, punto cardine attorno al quale si stanno già riorientando le strategie di marketing. L’idea di fondo è che miliardi di individui lasciano miliardi di tracce che rappresentano gusti, desideri, scelte che interessano moltissimo alle aziende. Raccolti e decifrati, questi dati permettono di sapere molte cose sui potenziali clienti. Ecco perché il data mining diventa oggi così fondamentale.

Sebbene uno scenario orwelliano in cui possa esistere una sorta di direttore unico delle coscienze e del gusto sia tutt’altro che probabile, è evidente che questa innovazione radicale nella raccolta e segmentazione dei dati darà vita a nuove forme della relazione tra gli individui e le strutture che saranno in grado di organizzare tali informazioni. Ci dirigiamo sempre di più verso un mondo in cui sarà possibile prevedere gusti e comportamenti individuali come si prevedono i fenomeni atmosferici.

Rispetto al modello degli ultimi decenni, la strategia di stimolazione consumeristica – che all’interno del paradigma che abbiamo ereditato è la benzina a far girare l’economia – è dunque destinata a cambiare. Il nuovo obiettivo sarà quello di controllare e funzionalizzare le singole pulsioni individuali attraverso automatismi fondati sulla rete, creando una stimolazione personalizzata capace di sfruttare meccanismi mimetici (Stiegler 2016:51). Una logica d’azione gestita tramite algoritmi capaci di mettere a regime – più rapidamente, e quindi al di là di un qualsiasi pensiero volontario o processo decisionale cosciente – ogni situazione, anche la più transitoria. Una potenza di calcolo capace di sfruttare somiglianze e differenze interpersonali e infrapersonali, dato che ciascuno di noi segue routine di comportamento ed elabora criteri di decisione che possono essere mappati, seguiti e influenzati.

Infine, la digitalizzazione apre un nuovo scenario nella misura in cui consumo e produzione potranno essere integrati all’interno della catena del valore in un modo impensabile anche solo qualche anno fa. Le nuove piattaforme digitali – che permettono di collegare direttamente clienti e fornitori di servizi (si pensi a Uber per quanto riguarda i servizi di trasporto urbano) – rendono possibili già oggi tipi di scambio altamente innovativi, incluso lo scambio di lavoro. Tutto ciò apre interrogativi sul modo in cui la rivoluzione che ci attende sarà gestita, perché è chiaro che siamo di fronte a qualcosa in grado di modificare lo scambio che lega insieme interessi economici, sociali e politici.

A questo proposito si deve osservare che, penetrando in modo capillare in tutte le attività umane e assumendo l’elaborazione algoritmica come criterio di misurazione ed elaborazione, la digitalizzazione costituisce un’infrastruttura tecnologica ideale per l’affermarsi di quella che Stiegler chiama la “società automatica”. Tale nuovo modello sociale punta a utilizzare un nuovo tipo di governance cibernetica che E. Morozov (2014) ha chiamato “regolazione algoritmica”. Tale modello, ad alta intensità statistica, si basa su due principi fondamentali: i) l’abbandono di ogni gerarchia a vantaggio di una normatività derivante dall’elaborazione statistica del mondo in tempo reale; ii) la rimozione di tutte le forme di confronto con gli individui. In questo modo, continua Morozov, l’algoritmo “ci offre una buona soluzione tecnocratica della politica senza politica”.

Rispetto al passato, ciò che fa la differenza è che la società digitalizzata è in grado di aumentare enormemente la capacità di controllo e di efficientizzazione di ogni attività umana. L’antico sogno del Panopticon – elaborato da J. Bentham – è oggi finalmente a portata di mano: da remoto, tutto può essere messo sotto controllo, misurato e quindi efficientizzato, senza più un confine preciso tra pubblico e privato, tra consumo e produzione. Dove il criterio della performance, definita da parametri di tipo tecnoeconomico, assume un valore universale e ubiquo. Qui non si vuole dire che questo debba essere il nostro destino. Come si vedrà più avanti, la rete può infatti condurre a un esito diametralmente opposto. E tuttavia sarebbe pericoloso non segnalare un orizzonte come questo.

3. Neotaylorismo digitale: ovvero efficienza per sicurezza

Per questa via, la soluzione alla crisi nella quale ci troviamo potrebbe prendere la forma di un “neotaylorismo digitale” su scala societaria, e avrebbe l’obiettivo di spingere ancora più avanti l’interdizione della relazione sociale e politica a vantaggio della sola mediazione tecnica su base individualistica. Uno scenario nel quale si scambia efficienza per sicurezza, attraverso la mediazione di una politica tendenzialmente autoritaria. Una soluzione che va nella direzione di costruire un “neotaylorismo societario”, dove la società è vista come una grande fabbrica in cui tutto deve funzionare e la democrazia va contingentata per ottenere contemporaneamente efficienza economica e sicurezza sociale.

Alla fine dell’Ottocento F.W. Taylor fornì i criteri per un’organizzazione scientifica della fabbrica con lo scopo di massimizzare l’efficienza produttiva attraverso una precisa segmentazione dell’attività lavorativa. L’idea centrale di Taylor era che un’organizzazione efficiente, pensata centralisticamente, sarebbe stata preferibile alla somma di una serie di capacità professionali possedute da singoli o da un gruppo di operai. Anche se la teoria di Taylor è sempre stata molto controversa, non si potrà negare che essa ha avuto un enorme impatto sull’evoluzione del modo di lavorare nella fabbrica moderna.

Oggi la digitalizzazione pervasiva rende teoreticamente possibile l’estensione all’intera società della logica tayloristica che si basa sulla frammentazione delle operazioni, la loro misurazione e il loro controllo centralizzato. Tra le grandi aziende contemporanee, Amazon permette, forse meglio di tutte le altre, di vedere cosa potrebbe significare “società neotayloristica”. L’impresa creata da Jeff Bezos è un mediatore digitale, capace di organizzare un’enorme quantità di consumatori costantemente monitorati nei loro gusti e desideri attraverso una piattaforma digitale a cui si viene invitati a iscriversi attraverso sconti e servizi riservati. Accumulando una conoscenza approfondita dei gusti e delle propensioni dei propri clienti, Amazon è in grado di entrare in una relazione con ogni cliente, al quale offre suggerimenti personalizzati. Ma, allo stesso tempo, Amazon è un colosso della logistica e muove merci da tutto il mondo organizzandole in una distribuzione capillare che arriva fin nei luoghi più remoti e che si caratterizza per velocità e affidabilità. Per questo motivo, l’impresa americana è alla ricerca perenne della massima efficienza, unica possibilità per avere sempre prezzi vantaggiosi e tempi di consegna sorprendenti, cioè le due qualità che l’hanno resa la piattaforma di acquisto più usata in assoluto. Per farlo, adotta modelli organizzativi straordinariamente efficienti e standardizzati che, per loro stessa natura, devono servirsi di macchinari robotizzati, rimuovendo la potenziale fallacia del fattore umano. Di recente, Amazon ha aperto il primo supermercato “senza casse né cassieri”, mentre non mancano le denunce (sempre difficili da documentare) di lavoratori che hanno accusato l’azienda di imporre ritmi di lavoro disumani.

Ciò di cui Amazon è un caso emblematico è che, con il digitale, i confini della fabbrica, insieme alla divisione “industriale” tra produzione e consumo, tendono a sparire. Si tratta di un passaggio cruciale, sul quale è necessario riflettere con attenzione.

La capillare penetrazione della rete e la digitalizzazione di ogni strumento e di ogni ambiente della nostra vita personale e collettiva permette, oggi per la prima volta nella storia, di concepire l’intera vita sociale come una grande fabbrica, in cui ogni singolo atto (di produzione, consumo o anche di riproduzione) può essere monitorato ed efficientizzato. Muoversi in questa direzione ha certamente alcuni svantaggi (perdita della privacy, ulteriore standardizzazione delle attività umane, aumento del controllo), ma ha il grosso vantaggio di poter mettere in produzione quote sempre più ampie della vita sociale e umana, assoggettando alla logica dell’efficienza ambiti che fino a oggi ne sono rimasti esclusi. Rendendo così possibili nuovi margini di crescita quantitativa.

Con la digitalizzazione, la logica tayloristica potrebbe essere applicata non più solo alle industrie, ma anche alle città, agli ospedali, alle stazioni. Inoltre, grazie agli efficaci strumenti di controllo in remoto di cui dispone, non c’è luogo (casa, strada ecc.), né attività (lavoro ma anche salute, tempo libero, formazione ecc.) che in linea di principio possa rimanere al di fuori del suo sguardo telescopico. Infine, a venire inclusa in questa logica produttivistica non sarebbe più solo la forza fisica del lavoratore, ma anche l’intelligenza dei ricercatori, il desiderio dei consumatori, il bios dei cittadini, coinvolgendo oltre al tempo di lavoro anche il tempo libero, fonte irrinunciabile per la nascita di nuovi mercati, per la realizzazione di innovazioni tecniche e per il raggiungimento di una maggiore efficienza complessiva.

L’obiettivo di fondo del modello neotaylorista su base societaria non può che essere quello “di spremere ancora di più il limone”, così da rendere ancora più efficiente la società nel suo insieme. Secondo il modello che, in una recente pubblicazione due ricercatori americani, R. Calo e A. Rosenblat (2017), hanno efficacemente chiamato “taking economy”.

Al suo interno, non solo il lavoratore ma anche il consumatore deve stare al passo, se necessario, con i supporti medicali più opportuni per sostenere la performatività fisica, cognitiva, emozionale. In un modello in cui sono le élite le prime a dover essere smart, cioè veloci, giovani e brillanti, in grado di corrispondere alla struttura adattiva e di problem solving del nuovo modello emergente.

D’altra parte, come il modello della fabbrica di fine Ottocento, anche il neotaylorismo societario non ha bisogno di una crescita culturale e personale. Al contrario, ha bisogno di una società disciplinata che sia capace di dissimulare, o almeno di rendere tollerabile, il rigido controllo sociale a cui è assoggettata. Tuttavia, un’organizzazione simile può presentarsi contemporaneamente come garante di quella sicurezza che viene avvertita come il bene di cui si ha maggiore mancanza, specie tra i gruppi meno abbienti. Ed è proprio qui che può scattare l’alleanza tra interessi economici, politici populisti e gruppi sociali arrabbiati. Un incontro che potrebbe avvenire almeno attorno a tre questioni.

In primo luogo, attorno alla bandiera “efficienza per sicurezza” come condizione per poter tornare a godere dei vantaggi di quel benessere che oggi sembra sfuggirci. Una società che non si sente sicura diventa meno efficiente e meno propensa al consumo. Una società insicura non vede nel futuro nulla di positivo ed è meno incentivata sia a competere, perché non vede prospettive di crescita e miglioramento davanti a sé, sia a consumare, perché si ripiega su se stessa e predilige il risparmio al consumo nell’attesa di tempi bui. Allora, per rassicurare la società, si può arrivare al punto di individuare un capro espiatorio su cui canalizzare tutte le paure e i timori. Tale dinamica trova oggi il suo “naturale” punto di condensazione attorno alla questione dei migranti che, in presenza di una politica incapace di tracciare alcuna visione positiva, rischia di diventare il collante per costruire muri e barriere e, per questa via, far collassare l’ordine internazionale, se non addirittura quello democratico. Il punto è molto delicato. Come ha osservato G. Agamben (2005:145), “se i rifugiati [...] rappresentano, nell’ordinamento dello stato-nazione moderno, un elemento così inquietante, è innanzitutto perché, spezzando la continuità fra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità, essi mettono in crisi la funzione originaria della sovranità moderna. Esibendo alla luce lo scarto fra nascita e nazione, il rifugiato fa apparire per un attimo sulla scena politica quella nuda vita che ne costituisce il segreto presupposto”. Ecco perché i migranti rappresentano la scintilla ideale per chi vuole appiccare il fuoco dello scontro e della facile propaganda della paura e della chiusura.3

In secondo luogo, l’incontro può avvenire attorno a un’alleanza occulta tra potere politico e potere economico, interessati entrambi a sfruttare le informazioni private che possono portare a forme più complete e subdole di controllo dei comportamenti individuali. Il tutto nel nome di una maggior efficienza tecnica e/o democratica da raggiungere. Qualcosa che, in realtà, sta già succedendo. Come si è detto, oggi il nuovo petrolio è nelle informazioni e nei dati. L’era dei big data ci dice questo. Il proliferare delle interconnessioni, dei social network che diventano un tutt’uno con la nostra vita, ci sottopone a una schedatura costante per quanto riguarda chi siamo, cosa vogliamo, cosa sogniamo di essere e di avere. In questo modo si può targettizzare su ciascun individuo lo stimolo più adeguato. Con il rischio che i gusti di un determinato consumatore possano essere non solo esauditi, ma persino generati e pilotati, attraverso l’enorme massa di dati a disposizione in rete. Bisogni indotti, ecco un’altra forma di controllo. Oltretutto, questa enorme massa di dati permette alla politica di impostare una verifica capillare su qualsiasi attività umana e, in nome della sicurezza, di intervenire dappertutto, minando così libertà personali che dovrebbero essere intoccabili.

In terzo luogo, il punto di incontro può realizzarsi attorno all’idea di ottenere ulteriori e continui aumenti di produttività con l’aiuto di una segmentazione ben calibrata tra gli haves e gli havenots. Non si dimentichi che un modello neotaylorista funziona soprattutto in una società fortemente gerarchica e segregata, che solo una politica autoritaria può garantire. Ed è su questa base che potrebbe realizzarsi una convergenza tra capi politici con tendenze autoritarie e interessi economici ispirati in senso neotayloristico. In questa visione, l’ulteriore aumento di produttività sarebbe possibile, come abbiamo visto, rendendo ogni momento della nostra vita sociale utile per produrre, anzi, per rendere più efficiente la produzione. Con la tecnologia digitale a costituire l’infrastruttura tecnica per un modello capace di intervenire sia sui gusti ben segmentati di ogni singolo cittadino, sia sulla performatività lavorativa di ciascuno, di fatto esposto ventiquattro ore su ventiquattro e in qualsiasi luogo allo sguardo vigile del dispositivo digitale.

Il rischio è che in questi anni di “stato nascente”, al di là di quello che sembra (e persino forse al di là delle intenzioni dei protagonisti), la nuova politica “populista” possa allearsi con un nuovo regime economico infinitamente più decentrato, ma anche più controllato di quello che abbiamo conosciuto fino a oggi. Diventando un paravento, fondamentalmente distorsivo, capace di un accecamento dell’opinione pubblica e forse anche di aprire la strada a regimi più autoritari.

Per quanto possa suonare sgradevole, un nuovo scambio fondato su efficienza per sicurezza non è così improbabile come potrebbe sembrare a prima vista, soprattutto se si tiene conto che esso è nelle condizioni di sfruttare a proprio vantaggio il disordine lasciato in eredità dal neoliberismo. Non sarebbe la prima volta che a stagioni di grande apertura seguono fasi caratterizzate da un’opposta tendenza alla chiusura. Il paradosso, per la verità solo apparente, è che dopo trent’anni di predicazione neoliberista il ritorno del legame sociale si produca per negazione (contro gli “altri”: gli immigrati o comunque i nemici al di là del muro) e per astrazione (mediante sistemi astratti, digitalizzati, procedurali, sicuritari).

Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un’idea di legame sociale derivata dalla combinazione tra una riduzione sempre più acuta della società a sistema tecnico da rendere più efficiente e il ricorso a un armamentario nazionalistico, sostenuto e corredato di componenti religiose o etniche e usato come collante immaginario di una società in realtà ancora più individualizzata.

Non è detto che un modello del genere riesca a installarsi nei paesi occidentali, dove la ricchezza della nostra base sociale costituisce certamente un elemento ostativo. Ma come non pensare che questo modello possa rivelarsi molto attraente per altre culture, ad esempio per la Cina? E che cosa ne deriverebbe per lo stesso Occidente se il più grande paese orientale si rivolgesse verso questa soluzione?

Note

1 D’altra parte le posizioni di potere, che incrociano la dimensione istituzionale e personale, sono a loro volta caratterizzate da una fondamentale instabilità. Ecco perché chi si trova in tali posizioni investe molte risorse per stabilizzarsi, vuoi costruendo reti relazionali protettive, vuoi accumulando risorse in grado di patrimonializzare ciò che hanno ottenuto.

2 In un’intervista a “Quartz” del 17 febbraio 2017, Bill Gates afferma che i governi dovrebbero tassare le compagnie che usano robot per sostituire gli uomini. Questo permetterebbe di rallentare un po’ il pur inarrestabile processo di automazione e di finanziare, attraverso questa tassazione, altri tipi di servizi come quelli riguardanti la cura degli anziani, delle persone non autosufficienti, delle scuole. Tra l’altro questi servizi sono, ovviamente, dei lavori che richiedono unicamente una presenza umana qualificata e interessata. Inoltre, in questo tipo di scelte direzionali e di prospettiva di lungo termine, si può comprendere anche quale dovrebbe essere il ruolo regolatore, di incoraggiamento e direzionamento, che la politica dovrebbe svolgere all’interno del nuovo paradigma economico-sociale.

3 La questione dei migranti è complessissima e non va semplificata. Costruire muri non è certo la soluzione. Ma la necessaria apertura richiede poi politiche serie che, consapevoli della difficoltà dei processi di integrazione, non riducano la questione solo alla quantità di risorse economiche pompate nel sistema. Nella logica dello scambio finanziario-consumerista. L’immigrazione non è solo una maledizione. Può essere addirittura una benedizione. Ma a certe precise condizioni.