15.
Il treno che passa
Sia la soluzione neotaylorista sia quella sostenibile-contributiva fanno i conti con l’eredità del neoliberismo e rielaborano la questione del legame sociale. Ma mentre la prima soluzione pensa il legame sociale nei termini di una chiusura, che comporta una cesura difficile e dolorosa, la seconda lo pensa nel quadro di una relazionalità ridefinita, non negata.
In tutti i casi, dopo il ciclo storico finanziario consumerista, si tratta di riscoprire il fatto che per andare avanti l’essere umano è in relazione all’ambiente, agli altri, al contesto. E ciò non retoricamente ma concretamente, negli assetti della nostra vita sociale. Il problema è come far sì che questo elemento, ciò che è mancato al neoliberismo, diventi qualcosa capace di produrre un valore che non riguardi solo la dimensione economica, ma investa anche la vita democratica e più in generale il ben vivere dei cittadini.
Al fondo c’è, naturalmente, una questione antropologica: si tratta di pensare l’io non più solo come un consumatore, ma anche come un contributore che, dentro una rete di relazioni, partecipa a produrre un valore che è qualità personale, relazionale e collettiva. Nella consapevolezza che solo producendo valore contestuale si diventa capaci di stare dentro al gioco di una globalizzazione che, negli anni a venire, sarà più contrattuale, più negoziale e, per certi versi, più competitiva.
Imparare a produrre valore condiviso, legato alla contribuzione e insieme a una distribuzione del reddito meno iniqua, è la via che conduce i paesi occidentali verso una nuova prosperità. Lo scambio sostenibile-contributivo, infatti, è passibile di rovesciare il processo di proletarizzazione che il neoliberismo ha causato nelle società avanzate, sia sul piano materiale – con le fortissime disuguaglianze economiche interne, la cui ampiezza nel 2008 ha eguagliato quella del 19291 – sia su quello simbolico, con l’esasperazione dell’individualizzazione, la perdita di competenze e l’assimilazione alla cultura consumerista. Tutti fattori che, come è sempre più evidente, ostacolano la piena realizzazione delle persone e lo sviluppo armonico della società.
Niente di nuovo sotto il sole. Ancora una volta, il problema da risolvere è del tutto simile a quello che dovette affrontare Keynes dopo i disastri degli anni trenta: “rilegare” economia e società come presupposto per tenere insieme prosperità e democrazia. Anche se la soluzione che dobbiamo cercare di mettere a punto non può che essere diversa, in sintonia con lo spirito e le condizioni del nostro tempo.
Per il nostro paese, che da anni versa in uno stato di profonda crisi, tutto ciò è una buona notizia. L’Italia, infatti, ha tutte le qualità per essere il luogo ideale dove aprire il cantiere di questo nuovo paradigma. Invece di guardare sempre, e spesso unicamente, alle esperienze virtuose degli altri paesi, dovremmo imparare anche a recuperare e rilanciare elementi della nostra storia che, per tradizione politica, culturale e sociale, sono aspetti unici del nostro paese e che possono essere utilissimi per il futuro che abbiamo davanti. Troppo spesso, il “modello italiano” è considerato semplicemente come subalterno agli standard dettati dai paesi del Nord Europa o del mondo anglosassone. Pur presentando indubbiamente numerosi aspetti patologici (il familismo amorale, il corporativismo, il campanilismo, l’allergia alle regole, l’incuria della dimensione pubblica, il nazionalismo esasperato ecc.), la nostra tradizione ha anche alcuni tratti che non si trovano in nessun’altra parte del mondo.2 Che ci rendono unici e, per molti aspetti, invidiati. Aspetti che vanno ricondotti a quella nostra capacità di tenere assieme ciò che altrove è separato: il bello con la funzione, la mano con la testa, il singolo con la comunità e, soprattutto, il particolare con l’universale. È dal nostro genius loci, capace di valorizzare l’unicità di ogni esistenza, che nasce quella caratteristica varietà italiana che è poi anche il segreto della nostra creatività. Una tradizione storicamente capace di forgiare forme istituzionali innovative e plurali (dalle università alle banche, dai conventi agli ospedali) e che rende il nostro paese una sommatoria di luoghi tutti diversi l’uno dall’altro.
Dopo gli anni dell’espansione illimitata, che ci hanno visto in difficoltà, l’avvento dello scambio sostenibile-contributivo potrebbe permetterci di recuperare e valorizzare questa nostra matrice culturale. Fino a renderci leader di un nuovo modello capace di trovare una relazione nuova tra la creatività del singolo e l’integrazione della comunità, tra le necessità della crescita economica e le esigenze dello sviluppo sociale, tra innovazione tecnica e nuove esperienze istituenti. Il nostro passato è ricchissimo di esperimenti esaltanti in questo senso. L’ultimo in ordine di tempo – purtroppo troppo spesso dimenticato – è quello di Adriano Olivetti che aveva chiaramente visto, e provato a mettere direttamente in pratica, una “terza via” tra stato e mercato, immaginando uno sviluppo sostenibile basato sulla valorizzazione del territorio e delle comunità di persone che lo abitano. Una massimizzazione della valorizzazione locale all’interno di una prospettiva – com’era quella della Olivetti – globale.
La conclusione a cui queste pagine arrivano è dunque un’affermazione che oggi suona quasi eretica: al di là delle tante fatiche e del tanto dolore provocato, questa lunga crisi potrebbe rivelarsi l’occasione per far nascere un mondo migliore di quello che abbiamo lasciato con il suo inizio. Non si tratta solo di riparare una macchina, di riprendere i sentieri interrotti. L’ambizione che ci deve guidare è ben maggiore: cambiare paradigma per raggiungere mete strutturalmente e culturalmente al di fuori della portata della stagione storica alle nostre spalle. Il futuro è ancora possibile. La speranza non è ancora morta. Il desiderio non è ancora appassito.
Il treno della storia sta passando davanti ai nostri occhi. Proviamo a non perderlo.
Note
1 L’indice di Gini negli Usa segnava, nel 2008, un valore simile a quello che registrò nel 1929 (www.gini-research.org). Tali disuguaglianze, come mostrato nell’Allegato 4, si sono addirittura ampliate nel dopo-crisi.
2 Si deve soprattutto a Zamagni, Bruni (2012) la preziosa riflessione sul modello di economia civile che caratterizza la tradizione italiana. Lo scambio sostenibile-contributivo si pone nel solco di questa tradizione, aggiornandolo alle condizioni del periodo storico che stiamo attraversando.