12.
Nuovi consumatori, nuovi beni

1. Nuovi consumatori

In realtà il mondo delle imprese sta cercando di riposizionarsi perché capisce che la domanda sulla natura della crescita economica non è retorica, ma costituisce la vera questione da affrontare nei prossimi anni. E non si pensi che si tratti di una novità. Qualcosa del genere accade tutte le volte in cui gli assetti capitalistici, entrando in crisi, devono ridefinirsi. Nella nostra storia recente, l’ultima volta in cui accadde qualcosa del genere fu negli anni settanta, quando a entrare in crisi fu lo scambio fordista-welfarista. Sono due i fattori da tenere in considerazione.

In primo luogo, negli ultimi anni, nei paesi avanzati, l’unica parte di domanda che ha mostrato un certo dinamismo è stata quella legata alla sempre più diffusa sensibilità ambientale e/o sociale. Non stiamo parlando dell’intera platea dei consumatori, ma della parte più avanzata per reddito e istruzione. Per esempio, nel suo ultimo rapporto annuale, la Coop tratteggia così quelli che chiama “i nuovi italiani”: “i più magri d’Europa (20 milioni fanno sport), entusiasti hanno aderito alla sharing economy (il 5 per cento usa le piattaforme), considerano l’ambiente un bene primario e la ricerca della sostenibilità dal carrello della spesa è diventata un credo diffuso: attenti alle etichette, sono anche primi per raccolta differenziata e più dell’80 per cento considera immorale vestirsi con pelli, pellicce e piume. Il risveglio della mobilità passa anch’esso dal green: +48 per cento le vendite di auto ibride nei primi sei mesi di quest’anno, quasi 57.000 le e-bike acquistate nel 2015”. Qualcuno potrebbe stupirsi o storcere il naso di fronte a queste indicazioni. Ma non c’è nessuno snobismo. Molto concretamente, questi dati rendono conto di un avanzamento culturale che esprime nuove sensibilità valoriali in via di metabolizzazione: rispetto delle regole ambientali, sensibilità sociale e qualità dei rapporti di lavoro sono tutti aspetti che, un po’ per volta, si stanno affermando come valori a cui i consumatori tengono e che, non a caso, le imprese più intelligenti hanno già chiaramente colto.

Questa direzione è poi confermata dagli orientamenti dei più giovani, che sono particolarmente attenti alla sostenibilità dei prodotti che consumano. Ad esempio, un recente studio della PricewaterhouseCoopers (Think Sustainability, The Millennials view) sul modo in cui i millennials percepiscono la sostenibilità delle aziende di moda ha portato a risultati abbastanza sorprendenti: “Il 58 per cento dei millennials crede che le aziende di moda non prestino sufficiente attenzione al tema sostenibilità e l’88 per cento è convinto che dovrebbero comunicare in maniera più chiara e trasparente dove, da chi e come viene prodotto un capo d’abbigliamento. Eppure, l’81 per cento sarebbe disposto a pagare un sovrapprezzo per un prodotto sostenibile. […] Al momento dell’acquisto la vera promessa che le aziende fanno sulla sostenibilità è legata all’etichetta che accompagna il capo, che per il 66 per cento dei millennials descrive non solo la provenienza ma soprattutto l’impegno e la garanzia dell’azienda sul capo che è stato acquistato. […] Cosa succede se scoprono che l’azienda ha adottato un comportamento irresponsabile con impatti ambientali e/o sociali? Il 52 per cento sicuramente non comprerà più da quelle aziende – distruggono il prodotto – si sentono traditi nella fiducia all’acquisto accordata. Tra i delusi, il 21 per cento non elimina i prodotti, ma condivide il proprio disappunto sui social. […] Il 41 per cento dei millennials afferma infatti che la sostenibilità può aumentare in maniera significativa la fedeltà verso un brand. Il comportamento d’acquisto consapevole si traduce in una maggiore informazione pre-acquisto, dichiarata dal 32 per cento dei rispondenti all’indagine.”1 Al di là di mille difficoltà e resistenze, è difficile pensare che il futuro non sia segnato da queste nuove sensibilità culturali che gradualmente si fanno strada all’interno delle società avanzate.

2. Nuovi beni

Ma non si tratta solo di nuovi consumatori. Al livello di sviluppo a cui siamo arrivati, occorre riflettere anche su quali possano essere i nuovi beni in grado di aprire nuovi spazi economici per il nostro futuro. Nell’epoca dello scambio finanziario-consumerista, a dominare è stato un individualismo sempre più spinto. L’idea centrale, come si è visto, è stata quella di stimolare il desiderio individuale reificandolo in beni ed esperienze di consumo. Certamente, questo meccanismo continuerà a operare anche in futuro: non c’è da dubitare che i consumi individuali siano destinati a rimanere una parte importante della domanda ancora per molti anni.

In un certo senso, il primo scenario neotaylorista altro non è che il tentativo di continuare a spingere sull’acceleratore in questa stessa direzione, massimizzando l’efficienza e contenendo i costi. Ma oltre a essere contraddittorio – dato che, volendo salvaguardare gli spazi di libertà individualistica, deve combinarsi politicamente con un discorso di chiusura – tale soluzione è anche irrealistica: con quali soldi i consumatori acquisteranno i beni prodotti se il lavoro viene sfruttato, o addirittura eliminato?

Ma non è detto che questa sia l’unica via percorribile.

Si può forse pensare realisticamente che il consumo individuale sia la molla della crescita in una società invecchiata, con almeno mezzo secolo di benessere alle spalle? È vero che viviamo più a lungo e in condizioni migliori di salute. Ma rimane il fatto che, per quanto stimolata, una persona di sessant’anni non consumerà mai come una di trenta. Uscire dalla crisi allora, oggi come sempre, richiede di cambiare paradigma. Cioè gli occhiali con cui si guarda alla realtà. Serve uno sforzo di creatività per rispondere alla domanda: quali saranno i nuovi beni capaci di creare nuove possibilità economiche e insieme far crescere il livello di soddisfazione personale e sociale? Cioè, attorno a quali nuove dimensioni di valore si potrà organizzare il prossimo ciclo di sviluppo capitalistico?

Un primo capitolo ha a che fare con le infrastrutture della vita sociale. Una società complessa è certamente un’organizzazione che ha bisogno di essere continuamente rinnovata. In gran parte del mondo occidentale, l’ondata neoliberista ha fatto mettere tra parentesi l’investimento in infrastrutture che invece rimane una porta fondamentale per accedere al futuro. Ciò di cui c’è bisogno è una nuova visione strategica che ridisegni le infrastrutture ereditate dal secolo scorso in base ai bisogni e alle opportunità del Ventunesimo secolo.

Come tutti sappiamo, poi, un’altra parte della risposta è associata all’innovazione tecnologica e alle nuove possibilità che essa porterà. Un punto ripetuto mille volte, ma di cui non sempre si riconoscono le implicazioni. Se ciò è vero, allora investire nella ricerca – e prima ancora nella formazione – rimane una necessità imprescindibile. Ma dire “innovazione tecnica” di per sé non basta, perché può significare cose molto diverse. Ad esempio, una società neotayloristica. Il discorso cambia se per innovazione si intende un processo integrale che investe nella dimensione umana, culturale e organizzativa di un’intera comunità, sapendo riconoscere il talento e le capacità di tutti. Questo è particolarmente vero oggi, perché i cambiamenti annunciati saranno in grado di modificare in profondità il nostro modo di vita.

Abbiamo già parlato della digitalizzazione. Ma ugualmente importante, se non di più, sarà il tema della salute, destinata a diventare sempre più decisiva negli anni a venire. Nella visione neotayloristica, sia il digitale sia il neomedicale possono essere ricondotti in modo diverso a una domanda ancora più tecnica e individualizzata. Ma possono essere interpretati anche in modo opposto.

Si pensi al welfare. Grande conquista della cultura europea, alla sua nascita ha espresso l’idea di una cittadinanza – cioè di un’appartenenza – associata a diritti sociali garantiti dallo stato, cioè dalla comunità politica. Nella stagione finanziario-consumerista, questo impianto ha subìto forti rimaneggiamenti, anche se in Europa non è stato del tutto smantellato. Tuttavia, la trasformazione è stata rilevante, anche nel Vecchio continente. A poco a poco il welfare ha dimenticato la sua origine – di essere cioè la base istituzionale del legame tra i cittadini – per diventare il ricettacolo di una domanda individualizzata pressoché infinita (il “consumismo sanitario”) che il budget pubblico ha cercato di gestire o ricorrendo all’indebitamento o aprendo alla privatizzazione. Con il risultato di creare un apparato sempre più complesso e oneroso che di fatto costituisce uno dei nodi nevralgici delle società avanzate. In fondo, che cosa c’è di più prezioso della salute e della vita?

Adesso ci troviamo davanti a un nuovo passaggio cruciale. È chiaro infatti che se non vuole finire nella logica neotaylorista, il welfare va ripensato. Se guardiamo avanti, la logica binaria stato-mercato, affermatasi in questi anni, non basterà più. Come suggeriscono i dati ricordati sopra, nei prossimi anni la forbice tra bisogni e copertura statale tenderà ad allargarsi ancora di più. Se non si farà nulla, questo vuoto sarà riempito da operatori privati sostenuti da grandi investitori finanziari, mossi dall’unico obiettivo del guadagno. Per evitare questo risultato, con i rischi evidenti che comporta, l’unica via è ripensare il welfare ritornando alla sua origine.

Più che un insieme di prestazioni individualizzate – che rientrano, cioè, nella logica del modello di consumo – il welfare va dunque concepito di nuovo in rapporto a un progetto di società, a un modo di stare in relazione, di vivere la propria individualità all’interno di una comunità di appartenenza. Dalla qualità di questo rapporto, reciproco e sostenibile, dipende una buona parte del nostro futuro. Il welfare non va ridotto alle pur necessarie tecnicalità delle politiche sociali, né a semplice meccanismo di spesa. Al contrario, esso va pensato come un processo intimamente associato alla dinamica stessa dello sviluppo. Più che un costo, il welfare è un investimento: di crescita individuale, di capacitazione, di soddisfazione, di tutela e cura, di coesione. Metterci in questa prospettiva ci aiuterebbe a valutare meglio, in un’ottica economica più adeguata e approfondita, l’impatto di determinate politiche e la loro efficacia. Proviamo a tradurre concretamente questo principio generale.

Una delle grandi sfide di fronte a cui si troverà l’organizzazione del welfare nei prossimi anni sarà sicuramente quella del rapporto con l’invecchiamento della popolazione. Come abbiamo visto precedentemente, nei paesi del Nord del mondo l’invecchiamento è destinato ad accentuarsi per i prossimi decenni. Con ricadute potenzialmente molto significative sulla spesa sociale. Questo tema ci porta a uno degli aspetti centrali, ovvero la tutela della salute di chi è fragile o non-autosufficiente. Di fatto, un tale diritto difficilmente potrà essere garantito solo tramite risorse pubbliche e private (risparmio delle famiglie, pensioni, assegni di accompagnamento). Nel futuro che ci aspetta la capacità delle pensioni di proteggere l’età post-lavorativa appare molto dubbia. In Italia, ad esempio, il Censis prevede che il 62 per cento dei lavoratori dipendenti che oggi sono tra i venticinque e i trentaquattro anni riceverà una pensione inferiore ai mille euro. E per i lavoratori autonomi le cose potrebbero essere persino peggiori.

Per quanto si possa efficientizzare il sistema, non si troverà una soluzione sostenibile a questo tipo di problemi limitandosi a ragionare secondo una logica prestazionale. Quando si ha a che fare con bisogni sociali e/o sanitari, che stanno alla base del welfare, a fare la differenza (anche in termini di costi) sono la qualità della persona, con la sua consapevolezza, il suo benessere fisico, le sue competenze culturali e le sue reti relazionali, e la compattezza della rete dei servizi, contro la logica puramente burocratica e specialistica. Di fronte alla domanda di protezione generata da società invecchiate, il welfare del futuro deve essere riconcettualizzato nei termini di un’infrastruttura sociale capace di mettere a valore le relazioni sociali che, al di là dell’ideologia liberista, rimangono essenziali per gestire i bisogni della popolazione.

Il punto è capire che nessuno può imporre relazioni a qualcun altro. Ma le relazioni non sono semplicemente un fatto privato, il prodotto di una scelta individuale. Esse si radicano e prosperano solo se si creano le condizioni istituzionali e le forme di vita atte a sostenerle. Sono diversi gli aspetti su cui va focalizzata l’attenzione: “l’ospedale nel territorio, le farmacie come punto di snodo e luoghi di servizio al pubblico. Unitamente a una scelta che dovrebbe enfatizzare la cura domiciliare. Cioè la pratica (che è ovviamente organizzativa e gestionale) che consente di curare i pazienti nella loro casa. I malati sarebbero contenti. Le casse pubbliche pure, visto che quasi tutti gli osservatori hanno sottolineato come l’esborso – a parità di condizioni di cura e in una situazione di maggiore soddisfazione – sarebbe molto contenuto”.2 Se non si vuole accettare il destino di un welfare insostenibilmente ridotto sempre più solo a merce – e perciò, alla fine, appannaggio dei ceti più benestanti – è necessario rimettere al centro la sua natura sociale e relazionale con scelte lungimiranti e intelligenti, capaci cioè di capire di che cosa si sta parlando.

Un secondo ambito molto interessante per cogliere la ridefinizione dei rapporti tra economia e società, tra individuo e contesto, è la casa. L’edilizia è un settore molto importante per l’economia sia perché muove capitali ingenti, sia perché è ad alta densità di lavoro, direttamente e indirettamente. È quasi impossibile immaginare un equilibrio macroeconomico e occupazionale senza un comparto edilizio sufficientemente prospero. D’altra parte, le forme dell’abitare incidono pesantemente sui modi di vita, sulle dinamiche della socialità e sulle relazioni. Nella situazione in cui ci troviamo sorge la domanda: quale potrà mai essere la domanda di case da soddisfare nel prossimo futuro? In effetti, se la pensiamo come una domanda individuale privata, è molto difficile immaginare uno sviluppo interessante: dove potremo costruire nuove case e soprattutto per chi, visto che la popolazione giovane è così limitata? Non sto parlando di cose futuribili. Già in questi ultimi anni, in Italia il calo del settore edilizio è stato drammatico: tra il 2005 e il 2015 i permessi per nuove abitazioni sono passati da 305.000 a meno di 50.000.

Tuttavia, se si guarda il problema in un’altra prospettiva le cose cambiano completamente. Il nostro parco case presenta, infatti, almeno due criticità: molte abitazioni sono inefficienti dal punto di vista energetico (sostenibilità) e della qualità della vita relazionale, pensate come sono in epoca industriale. Ciò di cui abbiamo bisogno sono case che esprimano “valori” diversi: una socialità migliore, forme di mutuo aiuto minimamente organizzate, spazi condivisi ecc. Un livello di benessere superiore a quello che abbiamo raggiunto si potrà ottenere solo ripensando i modelli abitativi delle nostre case e dei nostri quartieri nella direzione di una maggiore attenzione agli aspetti quantitativi e relazionali.

Tuttavia, questa domanda potenziale, di enorme portata, non potrà esplicitarsi né produrre il suo prezioso contributo economico se si rimane prigionieri di una concezione esclusivamente individualistica. Per farla emergere occorre anche qui un cambio di paradigma che, riconcettualizzando l’idea stessa del “bene abitazione” (più complesso, multidimensionale, accessibile solo con altri), stimoli la convergenza di una varietà di interessi: proprietari che si mettono insieme e sono capaci di esprimere una domanda aggregata come modo per raggiungere una più elevata qualità della vita; pubbliche amministrazioni in grado di introdurre nuove regole, incentivi fiscali adeguati, forme di partecipazione pubblica più avanzate; gruppi professionali e associativi disposti a collaborare per creare sinergie ed economie contestuali; soggetti finanziari capaci di sostenere investimenti che raggiungono ritorni interessanti e a basso rischio nel medio-lungo termine. Il tutto in un quadro di integrazione tra la dimensione pubblica e privata, economica e sociale che sarebbe impossibile ottenere rimanendo nella prospettiva finanziario-consumerista.

Il welfare e la casa, che peraltro costituiscono due componenti importanti di un’economia avanzata, sono emblematici di una questione più generale: come possiamo pensare quella parte emergente di economia che sta tra la semplice domanda individuale di natura privatistica e l’offerta di beni statali sostenuta dalla redistribuzione (tassazione e spesa pubblica)? Si tratta, in altre parole, di rispondere al seguente interrogativo: come è possibile organizzare sensatamente una domanda che sia individuale ma, al tempo stesso, rimandi anche a dimensioni relazionali e sociali?

I settori da ripensare in questa prospettiva sono molteplici: dalla mobilità alla formazione, dalla ricerca alla gestione dei rifiuti. Tutti ambiti in cui il tema del valore condiviso di cui parla Porter è centrale. Nell’economia di domani, ciò che sta tra lo stato e il mercato è destinato a divenire una componente decisiva per gli equilibri economici complessivi. Beninteso, complementare e non sostitutiva, rispetto a quelle canoniche: mercato individuale, spesa pubblica, export.

Per compiere tale passaggio è dunque necessario un salto culturale. Ciò che sta in mezzo tra stato e mercato, infatti, non coincide con quello che in questi trent’anni abbiamo chiamato “terzo settore”, in larga parte ridotto a fornitore a basso costo di servizi in conto terzi (lo stato). È molto di più. Ed è molto più dinamico e strategico: sarà infatti proprio questo l’ambito principale per la sperimentazione e l’innovazione, dove i nuovi consumatori e i nuovi beni potranno far nascere, in forme che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare, le cose più interessanti del mondo che ci aspetta. In questo spazio del “valore contestuale” potranno proliferare forme ibride tra ciò che nel corso del tempo abbiamo rigorosamente separato: il consumo con la socialità, la produzione con la partecipazione, l’impresa con i problemi sociali, la rete con i nuovi bisogni, il welfare con la relazione, la dimensione pubblica con l’autorganizzazione sociale.

All’interno di questo nuovo paradigma bisogna ripensare quindi l’idea di beni pubblici, intendendo la parola “pubblico” non come un sinonimo di statale, ma come bene relazionale e/o condiviso, che ha senso e si valorizza proprio in quanto riferibile a una comunità (sia essa un territorio, un’associazione, un’impresa ecc.). In questo senso è l’opposto di quello che troppo spesso, in Italia, è stato chiamato bene statale, ovvero un bene che non è di nessuno, di cui nessuno in realtà deve prendersi cura, perché tanto “ci pensa lo stato”. D’altro canto, è chiaro che privatizzare, come statalizzare, vuol dire togliere un bene alla comunità, sottraendolo alla responsabilità di chi dovrebbe prendersene cura. L’unica soluzione ai problemi che ci troviamo ogni giorno ad affrontare è immaginare una terza via tra pubblico e privato, cominciando di nuovo a pensare un orizzonte economico in cui attorno a un bene si possa riorganizzare – in modo leggero e plurale – il legame sociale. Il bene di comunità è un bene che può esistere e generare valore, ed essere valorizzato a sua volta, soltanto se tutti quelli che sono interessati, che sono riguardati da quel bene, se ne occupano.

È questo il passaggio successivo al concetto, più vago ma certo non meno importante, di “bene comune”, che altrimenti rischia di restare una bella formula senza contenuto. Poiché non è possibile che un cittadino si occupi di tutti i beni comuni di un’intera nazione, è ragionevole supporre che ciascuno sia interessato al territorio in cui si trova, in cui abita e per cui ha un interesse particolare: “Non c’è un bene comune del quale possiamo assumerci la gestione se non c’è una relazione anche fisica. Non stiamo parlando solamente del grande museo, ma anche del parco cittadino, della biblioteca, del centro sociale, dell’ospedale, del presidio territoriale… Insomma tutti quegli ambiti nei quali si può esercitare una cittadinanza attiva e imprenditrice in un’ottica di strutturare e consolidare il ben vivere”.3 Vista in tale orizzonte, questa nuova tipologia di beni ha tutte le caratteristiche per diventare una delle leve essenziali per l’innovazione sociale dei prossimi anni, un ambito decisivo per la produzione di nuovo valore, luogo di uno scambio positivo tra l’individuo e il suo contesto sociale, snodo di un rinnovato patto sociale intergenerazionale e di una logica economica che fa i conti con la sostenibilità. E non basteranno le pur importanti riforme legislative. Sarà necessario accompagnare e sostenere nuove “esperienze istituenti”, capaci di sperimentare nuove declinazioni di attenzioni antiche (quali la mutualità e la solidarietà) e al contempo di tenere insieme ritorno economico, offerta di prestazioni e legami sociali.

Note

1 Comunicato stampa di Think Sustainability, The Millennials view, 21 giugno 2016, PricewaterhouseCoopers.

2 Johnny Dotti, Maurizio Regosa, Buono è giusto. Il welfare che costruiremo insieme, pp. 100-101.

3 Ivi, p. 150.