6.
Crisi dell’ordine neoliberista e società psicotica.
Dall’euforia all’angoscia

La cosiddetta globalizzazione, basata sul ruolo egemonico degli Stati Uniti, sul ruolo delle istituzioni internazionali sovranazionali, sulla finanziarizzazione, sulle liberalizzazioni e sulla flessibilizzazione del lavoro, ha il merito storico di aver accelerato la crescita della potenza tecno-economica su scala globale, ma ha anche la responsabilità di aver rafforzato poteri impersonali e sfuggenti. In questo modo, essa ha messo in discussione il principio di sovranità che con la modernità si è affermato come presupposto di ogni ordine istituzionale. È questa la ragione di fondo della crisi politica che vediamo diffondersi un po’ in tutti i paesi: quale compito svolgere e quale potere esercitare sono domande che risuonano senza una chiara risposta.

Durante i decenni della fase finanziario-consumerista, quando l’espansione (soggettiva e strutturale) sembrava illimitata, lo stato d’animo prevalente tanto fra le élite quanto tra la popolazione è stato l’euforia. Sembrava davvero che, oltre le critiche, si fosse finalmente scoperta la pietra filosofale della crescita infinita. Non che mancassero le tensioni e i problemi. Ma il balsamo della crescita leniva ogni ferita.

La crisi del 2008 può essere vista come il fragoroso collasso di quell’ambizioso tentativo. In sostanza, l’infarto del 2008 e la lunga crisi che ne è seguita, e nella quale ancora ci muoviamo, ha smentito la pretesa del sistema finanziario di essere in grado di prevedere e gestire qualsiasi variabile potenzialmente capace di metterne a repentaglio la stabilità. In quel tipo di sistema si pensava che qualsiasi “cigno nero”, secondo la definizione di un celebre libro, ovvero qualsiasi evento eccezionale e a bassissima probabilità, avrebbe potuto essere assorbito dal sistema. Le equazioni su cui si fondava l’intera architettura finanziaria dicevano questo, ma alla prova dei fatti si sono rivelate tremendamente sbagliate.

Dal punto di vista organizzativo, il neoliberismo ha prodotto un’idea formidabile, ovvero che si potesse creare un ecosistema di mercato in cui la finanza, attraverso liberalizzazione, tecnicizzazione e deregulation, avrebbe potuto crescere all’infinito, diventando capace di assorbire qualsiasi tipo di rischio e, in questo modo, di garantire la crescita dell’economia che avrebbe prodotto come effetto secondario la crescita della società e delle persone.

La crisi ci ha risvegliato in modo traumatico. Recessione economica mondiale, terrorismo islamista, nascita dell’Isis, focolai bellici diffusi, risveglio della Cina capitalista e centralista, rafforzamento della Russia di Putin, della Turchia di Erdogan, della Corea del Nord di Kim Jong-un, grandi migrazioni, costruzione di nuovi muri. Il mondo post-2008 è radicalmente diverso da quello fiducioso e fondamentalmente semplificato che l’ha preceduto durante la fase di espansione neoliberista.

In pochi anni siamo così passati dall’euforia all’angoscia, alimentata tanto dalle persistenti difficoltà economiche quanto dall’esposizione quotidiana a una violenza indiscriminata che spara nel mucchio e può colpire chiunque, in qualsiasi momento. Un cambiamento da prendere molto sul serio se, come ha scritto Franz Neumann, il grande studioso del nazismo, nelle moderne società di massa l’angoscia è il movente principale per la formazione di regimi autoritari. È dunque questa l’eredità più impegnativa della fine del neoliberismo: riconsegnarci alla necessità di affrontare il nostro futuro comune in una condizione storica che negli ultimi tre decenni si è trasformata radicalmente.

Gli assetti sociali, politici e istituzionali dei paesi avanzati sono sotto pressione. È evidente che siamo entrati in un nuovo secolo: ne saremo all’altezza? In una società sommersa dai beni materiali e avvolta dal flusso continuo della comunicazione non è più la disuguaglianza a strutturare il conflitto sociale. Almeno apparentemente, a prevalere è piuttosto la questione della sicurezza e persino dell’integrità fisica. I singoli individui, inseriti all’interno di reti sociali sempre più piccole e fragili, si sentono esposti a tutto: alla violenza, al terrorismo, alla delinquenza spicciola, all’inquinamento, alle sofisticazioni alimentari, alle scorribande finanziarie. Vulnerabili e soli in una situazione di grande instabilità. Come si fa a non essere arrabbiati?1

In realtà, l’intensità di questo sentimento di abbandono ricalca in modo piuttosto preciso la curva delle disuguaglianze sociali. I ceti più abbienti e più istruiti avvertono solo debolmente questi rischi. Sia perché ne sono obiettivamente protetti, sia perché hanno più strumenti culturali a disposizione per leggere quanto sta avvenendo. Sono invece soprattutto i ceti popolari (definiti non solo dal basso reddito o da una condizione lavorativa instabile ma anche dai bassi livelli di istruzione e dalla segregazione spaziale nelle periferie) verso cui convergono quote sempre più ampie del ceto medio impoverito, secondo un processo che si potrebbe definire di proletarizzazione sociale e intellettuale, a esserne interessati. Le conseguenze sui sistemi politici, già evidenti da molti anni, esplodono oggi di fronte alle bombe dei terroristi e ai rischi di guerra. Con il risultato che in questa fase, e non è la prima volta nella storia recente, la protesta sociale viene monopolizzata dai partiti di una nuova destra.

Si guardi lo stato delle principali democrazie: dappertutto si vedranno partiti istituzionali – di centro-destra o di centro-sinistra, a seconda di contingenti situazioni nazionali – il cui obiettivo è cercare di salvare il salvabile, sempre più spesso con un’alleanza di governo che mette insieme quello che rimane dei partiti tradizionali di destra e di sinistra per mantenere la governabilità. Uno scenario nel quale da tempo si trovano Germania e Italia e verso cui tende ora anche la Francia.

Intanto, tutto attorno ai palazzi del potere si organizzano gruppi che crescono sfruttando il malcontento. Al loro interno prevale un immaginario legato alle semplicistiche idee, in un mondo complesso e spesso caotico, di ordine e di pulizia. Non solo in Ungheria e in Polonia, ma persino in Svezia o in Olanda – a lungo considerate democrazie ultrasolide – a crescere sono i partiti che si richiamano a questi principi. Dal Front National alla Lega fino all’America di Trump, nessun paese, in questo momento, ne è immune.

In questo scenario, il caso italiano si pone in modo originale. In un paese che si trascina da molti anni, la sventagliata populista è, nel suo insieme, addirittura maggioritaria. Ma, per fortuna, anche profondamente frammentata: il Trump italiano (Berlusconi), sceso in campo vent’anni fa, continua a tenere una quota non piccola di voti (per lo più moderati); Salvini e Meloni raccolgono le parti più rancorose dell’elettorato ma non riescono a raggiungere un consenso tale da poter contare veramente qualcosa. In questa stessa area si muove poi il movimento di Grillo che introduce una variante non da poco. Il M5S è infatti molto più equivoco sui tradizionali canoni politici: molti dei suoi elettori e dei suoi eletti vengono dalla sinistra e non si sentono di destra. E soprattutto, i 5 Stelle si avvantaggiano della curvatura generazionale della crisi italiana conquistando molti consensi tra chi ha meno di quarant’anni. Ecco perché l’ipotesi grillina – più traversale rispetto alla destra in senso stretto – ha un maggiore potenziale di successo.

Sono ormai diversi anni che la miccia è stata innescata. E per quanto ci si possa consolare dicendo che gli anticorpi democratici sono forti, il cerchio sembra stringersi sempre di più. Anche perché, a causa delle persistenti instabilità, la base sociale che sostiene l’ordine sociale neoliberale tende a ridursi, stretta com’è fra le difficoltà interne e gli attacchi esterni. La protesta va nella direzione di una società che vuole chiudersi. Quasi il movimento di ritorno di un pendolo: dopo la stagione dell’individualismo spinto, l’apertura globalista e multiculturale viene vista come il fattore critico che radicalizza i problemi sociali. Nei fatti, la capacità di attrazione del pensiero neoliberista si è enormemente ridotta rispetto ai tempi di Reagan e della Thatcher. Anche perché, da molti punti di vista, è proprio il liberismo selvaggio una delle cause della situazione nella quale ci troviamo.

A difendere i resti di quella dottrina rimane solo un establishment economico, istituzionale e culturale, tendenzialmente impaurito e privo di idee, che fatica a capire quello che sta accadendo: e cioè che il progetto dell’ultima parte del secolo, che si immaginava un individualismo sempre più spinto, quasi atomizzato, associato a un cosmopolitismo astratto, non funziona più. Ancora dominate dall’etica individualista e consumerista (che ovviamente rimane prevalente anche negli stessi ceti che protestano), le élite ostinatamente sembrano non saper riconoscere, e ancor meno interpretare, il bisogno diffuso di un maggior legame sociale. Letta con i parametri di chi è più forte e trae dall’apertura numerosi vantaggi, la protesta è stata negata per anni in nome di un modello che ha fatto della mobilità incondizionata, dell’innovazione tecnica, dell’efficienza e dell’eccellenza i soli punti di riferimento. Dentro un immaginario cosmopolitico, individualista e tecnocratico. Senza considerare che esso riguarda e favorisce, in realtà, solo una minoranza.

In questo gioco, l’acuirsi delle tensioni internazionali, con i conseguenti flussi migratori, rischia di innescare una spirale pericolosa. In mancanza di un’idea di futuro, e di risposte adeguate all’oggi, a dilagare è la paura di perdere quel poco che si ha. Tanto più per tutti quelli per i quali non sembra più possibile darsi un orizzonte di vita positivo – un’ombra che avvolge tanto la popolazione anziana quanto quella giovanile. Su un punto però bisogna fare massima attenzione, evitando di essere elitari, arroganti e sordi: a essere regressive sono le risposte prospettate per tutti questi bisogni, non le domande che salgono dalla società intercettate dai gruppi definiti populisti semplicemente perché gli altri non vogliono o non sono capaci di ascoltare.

Forse qui sta il punto che continua a essere rimosso. Una volta che la storia ci ha costretto a lasciare alle spalle il neoliberismo, quale modello di crescita capace di combinare la proiezione al cambiamento con il bisogno di radicamento è possibile immaginare?

È nella difficoltà a rispondere a questa domanda che si misura l’inadeguatezza dell’offerta politica degli ultimi anni. Per colmare il divario accumulatosi tra la vita delle persone e i modelli teorici di riferimento, occorre aggiornare al più presto le nostre mappe cognitive e concettuali, reintegrando il bisogno di sicurezza nella cornice della nostra vita sociale e ripensando l’idea stessa di crescita, tralasciando ovviamente idee oblique e poco utili come quelle della “decrescita felice”. Sicuramente non c’è molto tempo per dare risposte convincenti a queste domande, ma la risposta giusta si troverà solo ascoltando la voce che sale dal profondo delle nostre società.

A quasi dieci anni dall’infarto finanziario, il sistema capitalistico non è ancora riuscito a ritrovare un equilibrio né tanto meno a mettere in campo un nuovo scambio sociale in grado di aprire una nuova stagione di crescita. I segnali di disagio sociale e malessere individuale sembrano diffusi. Chi sta male sta male per conto suo, mentre le protezioni istituzionali tendono a calare, con riferimenti collettivi sempre più vaghi. Da qui la crescente sfiducia che si registra un po’ in tutti i paesi nei confronti della classe dirigente e politica in particolare.

Ciò che sorprende è il fatto che l’arretramento del ceto medio e dei salari registrato nei paesi avanzati non abbia prodotto conflitto sociale aperto e leggibile, almeno secondo i canoni a cui ci avevano abituato le società precedenti. Il malessere è diffuso, ma rimane latente perché non riesce a canalizzarsi in forme organizzate e aperte di conflitto. Nella crisi della rappresentanza, in un quadro di frammentazione, disillusione e sfiducia, il disagio e le disuguaglianze trovano forme carsiche di espressione secondo due varianti prevalenti.

Nella prima variante, il malessere alimenta forme molecolari, episodiche e violente di protesta. Si può parlare qui di “individualizzazione del conflitto”, quasi che la propria guerra personale sia rimasta l’unica causa a cui dedicarsi. Le cronache sono da tempo piene di vicende drammatiche legate ora al terrorismo di matrice religiosa, che interessa soprattutto il mondo islamico, ora alla violenza intrafamigliare, in particolare al femminicidio, ora alle stragi effettuate da singoli, per lo più maschi, in un momento di disperazione che porta al crollo del senso. In tutti questi casi, il disagio non produce conflitto perché non è possibile nemmeno il reciproco riconoscimento tra coloro che pure condividono una comune condizione di deprivazione. Per recuperare una parola antica del linguaggio sociologico, la fine del ciclo capitalistico finanziario-consumerista ci ha portati in un’epoca di anomia, dove la vita sociale rischia di finire nel caos avendo perso i punti di riferimento in base ai quali è stata costruita. In una società altamente frammentata, l’aggregazione – per non dire l’associazione – degli interessi è oggettivamente difficile. Con il risultato che si fa una gran fatica a concordare su qualche obiettivo da perseguire insieme. Nella società liquida, il solidus che la solidarietà comporta, e che è anche il presupposto del conflitto sociale, si sgretola.

In tale contesto il malessere si trasforma facilmente in angoscia, che tende ad associarsi alla violenza. Una violenza, in questo caso, priva di un bersaglio preciso, senza un senso o una direzione, diretta contro innocenti che rappresentano la società nel suo insieme, vero oggetto del proprio risentimento. Un comportamento rafforzato dalla certezza di finire sulle prime pagine dei giornali. Con un ruolo fondamentale giocato dalla rete, che non solo amplifica messaggi e immagini anche estremamente violente, ma soprattutto rende disponibili identificazioni immaginarie per privatissimi disegni criminali.

Il caso dei giovani jihadisti è particolarmente interessante nell’illustrare il legame perverso che può oggi stabilirsi tra azione del singolo, forma di organizzazione reticolare, impatto mediatico e riferimenti simbolici globali. Secondo O. Roy, molti dei giovani islamici che aderiscono a gruppi terroristici hanno tagliato i ponti con la loro famiglia d’origine. Occidentalizzati, essi si trovano in mezzo al guado, dato che non vogliono né la cultura dei genitori né quella “occidentale”, ridotta a simbolo dell’odio che nutrono verso se stessi. A partire da queste premesse, la carriera fondamentalista nasce, da un lato, nel quadro di una socializzazione con alcuni “compagni” con i quali si sperimenta un senso di fratellanza molto stretto, sconosciuto in una società avanzata, e, dall’altro, da un’identificazione immaginaria con un “Islam puro”, di cui i ragazzi trovano rappresentazioni molto potenti in Internet, al di là di qualsiasi mediazione con la concretezza della vita di una qualche comunità locale o insegnamento religioso. È proprio l’identificazione immaginaria la miccia che, in taluni casi, accende una nuova personalità onnipotente, dominata dalla voglia di rivincita e dalla fascinazione della pulsione di morte. In una forma di “nichilismo individualistico” che si appoggia su un’interpretazione puramente fantasmagorica e strumentale della religione, la lotta che questi giovani abbracciano è contro il mondo nel quale vivono e contro il blocco delle possibilità di vita che si trovano davanti.

Nella seconda variante, la domanda inascoltata che viene dai ceti medi e popolari non produce aggregazioni politiche capaci di una lettura critica, né tanto meno di un’azione costruttiva. Il malcontento viene qui incanalato da sentimenti di tipo reattivo, con una forte vena autoritaria, a matrice identitaria (non di rado associati a istanze etniche o religiose), a cui ci si appella per opporsi al cosmopolitismo astratto, visto come minaccia all’integrità propria e della propria comunità di appartenenza. Sono questi i sentimenti di rivolta che attraversano il ceto medio impoverito dei nostri giorni: sentimenti che riescono a trovare una seppur provvisoria forma di condensazione post-ideologica solo in figure antiestablishment tipo Trump o Le Pen. A questo punto, che cosa si può dire di una società a elevata disuguaglianza, incerta nelle sue dinamiche e in cui il conflitto sociale prende queste forme?

L’interpretazione che si può suggerire è che la società contemporanea, quella cioè che viene dopo i vent’anni di espansione associati alla globalizzazione neoliberista e i dieci di contrazione post-crisi finanziaria, nella quale la capacità di costruire comunità di senso si è ormai molto ridotta, dove i canali istituzionali sono più fragili e ben poco efficaci, questa società ha tratti di tipo psicotico.

Sul punto si è, di recente, soffermato anche lo psicologo Pietro Barbetta (2016). In psicologia, la psicosi è quella condizione nella quale la capacità di accettare, riconoscere e gestire gli elementi problematici della realtà tende ad affievolirsi. Nei sistemi psicotici “conflitto”, per definizione, significa “distruzione”. Così, di fronte a un problema che pesa sulla sua vita, lo psicotico tende, almeno fino a un certo punto, a rimuovere la difficoltà evitando il conflitto: l’imperativo è che bisogna far sempre finta che tutto vada bene. Alla lunga insostenibile, una tale operazione induce meccanismi di difesa (svalutazione, scissione, identificazione proiettiva, diniego, onnipotenza, per proteggere l’individuo dalla disintegrazione) altamente problematici. Come suggerisce Barbetta, “un’epoca psicotica funziona come un individuo psicotico, ma non a livello individuale o famigliare, bensì a livello di sistema sociale”. Se l’individuo psicotico è del tutto sottomesso e impotente, non è in grado di coordinarsi e delira, lo stesso accade a un sistema sociale psicotico: il delirio è collettivo e si compone di individui incontenibili. “I pensieri incontenibili si materializzano in agenti incontenibili. Quando nei sistemi psicotici la contraddizione non può più essere rimossa, anziché aprire una discussione, la soluzione sta nel rivolgersi a un’istanza superiore (Dio, il leader ecc.), preposta, nella mente di chi lo fa, ad annientare la parte ‘altra’, considerata come problematica.” Il che rischia di portare all’esplosione di forme sincopate, violente e/o autoritarie, di conflitto.

Come si è visto, viviamo in una fase storica in cui, nonostante l’aumento delle disuguaglianze, il conflitto sociale organizzato è stato rimosso ormai da diversi decenni. Il rischio è che il sommarsi di condizioni sempre più disuguali e il crollo delle aspettative causato dalla crisi finanziaria, e da quella che è stata chiamata “stagnazione secolare”, accentuino i tratti di una “società psicotica”, cioè profondamente sofferente ma al tempo stesso incapace di immaginare, e ancor più praticare, vie concrete di soluzione. In questo senso, si può dire che una società psicotica è una società impolitica. Se così è, allora si può spiegare perché il collasso dello scambio finanziario-consumerista, provocato dalla crisi del 2008, tenda a produrre forme disorganizzate di rabbia e protesta, individualizzate o collettive, secondo le due varianti citate che, al di là della loro fenomenologia, in comune hanno un carico di distruttività molto elevato. Avremmo bisogno di tornare a un mondo politico,2 in cui i partiti, e più in generale i corpi intermedi, tornino a canalizzare le istanze e le domande delle persone e dei gruppi presenti nella società. Ma non sappiamo come sia possibile.

Ecco perché la transizione in corso è davvero molto delicata. Una società psicotica è infatti quella che non riesce più a fare i conti con ciò che non va, con i propri limiti e le proprie contraddizioni. E per questo rinuncia a cercare le soluzioni praticabili. Ma soprattutto essa perde la fiducia che proprio dai problemi che si devono affrontare possa scaturire – attraverso la pazienza e la creatività – qualcosa di desiderabile.

Note

1 La rabbia può mettere in pericolo una società aperta e un intero sistema politico come quello democratico. La rabbia porta alla ricerca di un capro espiatorio che, come vedremo meglio in seguito, in questo tempo è sempre più spesso rappresentato dai migranti. Nello stesso orizzonte fantasmatico, tipico dei momenti in cui si cerca una via d’uscita alla grande confusione, si inscrivono le teorie complottiste che si pongono come spiegazioni semplificate ma rassicuranti di fronte alla complessità del mondo. Davanti al buio gnoseologico, di fronte alla difficoltà di comprendere la complessità dei fenomeni, ci si affida a quello che vorremmo sentirci dire, a spiegazioni onnicomprensive del reale, totalmente campate per aria e senza nessuna evidenza scientifica, che però sono in grado di semplificare e spiegare in modo comprensibile, per quanto fantasioso, la realtà. Sempre più spesso, i politici, per essere eletti, cavalcano questo tipo di teorie e si tratta di un grande pericolo. Basta ricordare che, in passato, specie a inizio Novecento, le teorie cospirazioniste, come quella dei Protocolli dei savi di Sion, ebbero un effetto devastante causando l’ondata di antisemitismo europeo che sarebbe poi culminata nella Shoah e nell’elezione di governi autoritari e dittatoriali.

2 Per “politico” bisogna pensare a una partecipazione attiva alla sfera pubblica, a quella Vita Activa, come la chiamava Hannah Arendt, capace di esaltare l’azione del singolo all’interno della comunità. Anzi, solo all’interno della comunità che l’uomo abita, conosce e di cui si occupa ciascuno riesce a trovare se stesso e la propria dimensione. Seguendo questo tipo di orizzonte, in cui la politica torna a essere ciò che essenzialmente è, ovvero partecipazione individuale e condivisa alla costruzione del benessere comune, è possibile uscire dal modello escludente e atomizzato che ha portato alla crisi e proiettarsi all’interno di un nuovo orizzonte politico ed economico, all’interno di quel nuovo scambio che abbiamo chiamato sostenibile-contributivo e di cui diremo nei prossimi capitoli. Ecco perché soltanto attraverso la politica, ovvero attraverso un modo diverso di attivarsi sia individualmente sia comunitariamente, attraverso dunque un modo diverso di essere nel mondo attivamente e generativamente, è possibile uscire dalla crisi. Per comprendere cosa si intenda per “politica”, nell’accezione di occuparsi attivamente di ciò che è pubblico, ovvero condiviso e comune, è significativo un brano della già citata Hannah Arendt: “Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-fra [in-between] mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo. La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda”, Vita Activa, Bompiani, Milano 2008, p. 39.