4.
Le scabrose eredità dello scambio
finanziario-consumerista
Nei vent’anni del regime liberaldemocratico, il mondo è diventato più ricco e più integrato, ma ha anche accentuato le linee di tensione e le disuguaglianze. Alle nostre spalle c’è un periodo storico che ha sprigionato un’energia straordinaria che adesso occorre imparare a gestire. Come sempre, quando un ciclo capitalistico termina, lascia sul terreno tutta una serie di questioni irrisolte che tendono ad aggravarsi quando il sistema va fuori giri. E. Mounier parlava a questo proposito di “disordine stabilito” per dire che il capitalismo tende a nutrirsi di elementi dinamici e caotici destinati però a creare momenti di crisi e di difficoltà. Un’interpretazione che certamente vale anche per il neoliberismo. A quasi dieci anni di distanza dall’inizio della crisi, sono almeno cinque i focolai di disordine che la rottura dello scambio sociale finanziario-consumerista ci lascia in eredità.
1. Disordine sociale
Nel post-crisi, dopo diversi decenni,1 la disuguaglianza è tornata al centro del dibattito istituzionale e non.2 Istituzioni come l’Imf3 e l’Oecd4 ridiscutono oggi il trade-off tra crescita economica e disuguaglianza accettato e promosso durante l’epoca neoliberista. In effetti, negli ultimi venticinque anni, si è registrata una significativa redistribuzione di ricchezza dal basso verso l’alto della scala sociale. Il caso americano è impressionante. L’erosione della classe media e del suo potere d’acquisto è arrivata al punto da rendere gli Stati Uniti il paese Ocse più diseguale dopo Turchia e Portogallo. Negli ultimi tre decenni il salario mediano del lavoratore americano tipo (maschio tra i trentacinque e i quarantaquattro anni) è rimasto stagnante, tanto che nel 2008 la sua remunerazione monetaria era (corretta per l’inflazione) più o meno equivalente a quella dei primi anni settanta. E tutto ciò mentre i guadagni dell’1 per cento più ricco si erano triplicati5 e i redditi da capitale erano cresciuti ancora più velocemente. Secondo l’analisi dell’Economic Policy Institute, a partire dagli anni ottanta l’1 per cento più ricco si è accaparrato i sette ottavi dell’aumento del reddito da capitale. In sostanza, i ceti medi e bassi non soltanto hanno beneficiato solo in minima parte dei frutti degli spettacolari aumenti di produttività registrati dalle economie occidentali negli ultimi decenni,6 ma sono anche rimasti esclusi dai guadagni finanziari.
Il problema è che, con la crisi del 2008, quando l’espansione finanziaria si è interrotta, il reddito disponibile si è ridotto e la disoccupazione è aumentata. Ciò che si era tenuto nascosto non poteva che diventare manifesto.
Il punto è che l’origine delle disuguaglianze non va cercata tanto nella recessione – che certamente ha aggravato la situazione – quanto nella logica dello scambio finanziario-consumerista, che immaginava di aggirare il problema redistributivo con l’espansione finanziaria. Anche grazie alle aspettative crescenti che era in grado di alimentare. Un castello di carte che quando è crollato – con quote importanti della popolazione che non hanno solo dovuto sopportare un significativo peggioramento delle condizioni di vita – ha fatto esplodere la questione. Con il paradosso che la responsabilità principale del venir meno della promessa di un miglioramento continuo e generalizzato delle condizioni di vita materiali della popolazione è stata addebitata quasi integralmente alla classe politica, rea di non essere più capace di difendere gli interessi popolari.7
2. Disordine demografico
Con questa espressione si deve intendere il sommarsi di un duplice effetto: l’invecchiamento del Nord del mondo, da un lato, e la pressione migratoria dal Sud del mondo, dall’altro.
L’invecchiamento è un problema di tutti i paesi europei,8 ma è destinato a colpire anche Usa e Cina. Forse non del tutto inaspettatamente, una stagione di potente espansione dell’Io si conclude con un grande inverno demografico.
La ragione è evidente. L’incremento del benessere e la maggiore libertà individuale spingono le società avanzate a non curarsi di un elemento basilare dell’esistenza, ossia l’alleanza tra le generazioni. L’aumentata libertà che si fa totem assoluto di individualità autoreferenziale riduce la capacità di proiettarsi nel futuro attraverso la generazione e la cura di un’altra persona. La nostra vita personale viene fatta coincidere con tutta la vita disponibile e con tutto il mondo. Un’idea fanatizzata di individualità che finisce per compromettere la nostra capacità di pensare la vita dopo di noi. L’idea di generare il futuro attraverso una persona di cui prenderci cura sembra aver perso ogni significato, tanto che la vita nascente viene vista sempre più spesso come un impedimento all’esercizio della nostra piena libertà. E che non si tratti di esagerazioni lo dice il fatto che nel giro di mezzo secolo si è passati dalla generazione del boom economico – quella degli anni sessanta – a quella dei millennials e dei nidi vuoti, con un rovesciamento che lascia davvero senza fiato.
I dati del Census Bureau americano confermano che i trend di invecchiamento della popolazione sono destinati a pesare enormemente sugli equilibri futuri. Con una quota di popolazione oversessantacinque che, nell’epicentro della crisi (Italia, Spagna, Germania e paesi dell’Est), raggiungerà in pochi anni il 30 per cento, le dinamiche del reddito e dei consumi sono destinate a cambiare in profondità. Guardando qualche altro dato dell’US Census Bureau9 si può notare come la popolazione anziana subirà, entro il 2050, un aumento vertiginoso: in Europa passerà da 130 a 197 milioni, ovvero dal 17 per cento al 28 per cento della popolazione totale; in Nord America passerà da 54 a 95 milioni, ovvero dal 15 per cento al 21 per cento. Dei venticinque paesi con la percentuale più ampia di popolazione anziana, ventidue sono in Europa, con Germania e Italia ai primi posti. Un dato in un certo senso ancora più allarmante è quello sulla natalità: in media, ogni coppia, per essere “rimpiazzata” in futuro, dovrebbe fare almeno 2,1 figli. In Europa siamo molto al di sotto (1,6), con la Germania che si ferma a 1,38 e l’Italia che arriva addirittura a 1,29.
Anche se non ci piace ricordarlo, la demografia ha effetti strutturali di cui non si può non tenere conto se vogliamo parlare della prossima crescita economica. Comunque sia, negli anni a venire non si potrà evitare di fare i conti con le conseguenze del mutato profilo demografico in termini di lavoro, consumi e previdenza sociale. Una popolazione più anziana penserà principalmente a risparmiare per garantirsi tranquillità negli anni rimasti da vivere. Perciò tenderà a voler conservare l’esistente e ad arroccarsi su vecchie posizioni, a garanzia dello status quo. Questo avrà conseguenze sui consumi – destinati in ogni caso a crescere meno – e sulla propensione all’innovazione. Inoltre, l’invecchiamento porta con sé una domanda di cure che rischia di sbilanciare la spesa pubblica. Già oggi sono i paesi con un profilo demografico più invecchiato quelli affetti da un debito pubblico maggiore. Ecco allora che si hanno tutti gli elementi per un conflitto intergenerazionale in cui i giovani rischiano di avere la peggio, costretti a portare sulle loro spalle gli effetti “demografici” dello scambio finanziario-consumerista.
A questo primo aspetto si somma, come un cerino buttato sulla benzina, il fenomeno migratorio. Al di là dei flussi provenienti dai paesi mediorientali, è chiaro che la grande questione riguarderà l’Africa, che ha la popolazione più giovane del mondo ed è pertanto in cerca di opportunità per uscire da una condizione di vita molto precaria e in molti casi inaccettabile. Oggi soltanto il 3,5 per cento della popolazione africana ha più di sessantacinque anni. Un dato destinato a non cambiare in poco tempo (secondo le stime attuali, nel 2050 gli ultrasessantacinquenni raggiungeranno il 7 per cento).
Un simile squilibrio demografico, associato alla crescente instabilità politica nel Medio Oriente e nella fascia mediterranea dell’Africa, è all’origine dell’aumento dei flussi migratori. Basti pensare che, secondo i dati del ministero dell’Interno, tra il 1997 e il 2013 la media degli arrivi si aggirava attorno ai 25.000 immigrati l’anno mentre sono stati 170.000 nel 2014, 154.000 nel 2015 per arrivare a 184.000 nel 2016. E questi sono dati riferiti unicamente all’Italia. Poi ci sono i dati relativi a tutti gli immigrati sbarcati in Grecia, con numeri analoghi a quelli dell’Italia, e quelli arrivati attraverso l’Europa continentale. Questi numeri sono sufficienti per dimostrare che il fenomeno dell’immigrazione potrà forse essere in qualche modo controllato, ma non fermato.10
Come sappiamo, è questo il problema più grande che la politica si trova oggi a fronteggiare. E non per caso: quello demografico è un fattore strutturale che in Occidente tendiamo a sottovalutare per la supremazia culturale dell’individualismo, che non riesce più a pensare oltre se stesso. Non c’è da stupirsi che, all’interno di una società in crisi d’identità, in crisi politica e in crisi economica, flussi migratori di tali dimensioni tocchino un nervo scoperto del Nord del mondo.
La quota di popolazione che si sente maggiormente minacciata dalla pressione migratoria appartiene alle fasce sociali più deboli e ai gruppi di età (giovani e anziani) più esposti: in un mondo dove le possibilità hanno improvvisamente cominciato a ridursi, la lotta per le (poche) risorse a disposizione è destinata a essere spietata. Il problema è che il disordine demografico ereditato dagli anni della globalizzazione genera oggi una tensione strutturale che nessuna bacchetta magica è in grado di appianare: al di là degli slogan pericolosamente rancorosi o superficialmente buonisti attorno ai quali si polarizza l’opinione pubblica, a fare la differenza sarà il modo in cui tale questione – che ci accompagnerà a lungo – sarà compresa e gestita.
3. Disordine politico
Il malcontento diffuso non produce conflitto aperto, ma crea lo spazio per l’azione di imprenditori della politica che cavalcano il malessere. Da qui sorge il problema dei populismi, cioè della creazione di un consenso che si aggrega intorno al più classico dei capri espiatori: l’immigrato.
Un antico proverbio dice che chi semina vento raccoglie tempesta. E così è per le società avanzate dove per anni si è rafforzato l’individuo a discapito della comunità. Honneth (2002), Boltanski, Chiapello (2011) e Sennett (2016) – solo per citare alcuni tra i più noti – hanno per anni continuato a ripetere che l’ampliamento delle libertà quantitative non si sarebbe automaticamente tradotto in un miglioramento qualitativo nella vita delle persone. E che il benessere materiale non avrebbe rafforzato le democrazie. Per questo, tali autori hanno parlato di “ideologia neoliberale”: alle nuove modalità di organizzazione del lavoro e della produzione è corrisposta una flessibilizzazione delle esistenze, che per tanti si traduce nel lato oscuro dell’incertezza, del culto della performance, della sofferenza psichica, del sacrificio di tutto ciò che dura.
A ciò si aggiunga la sistematica destrutturazione operata, nel ciclo storico appena concluso, di quella che una volta si poteva chiamare “sfera pubblica”. Non si dimentichi che lo scambio fordista-welfarista aveva dietro di sé una comunità politica molto coesa, che gestiva centralisticamente la comunicazione e il consenso. Cosa che si è rovesciata negli ultimi decenni: il consenso è diventato sempre più instabile, la comunicazione sempre più emozionale e caotica fino a scoprire, più di recente, che fake news e post-verità creano un mondo di fantasmi dove è sempre più difficile distinguere il vero dal falso. Messo in discussione il valore della verità, oggi facciamo sempre più fatica ad avere un’idea simile di cosa sia la realtà.
Così, nel momento in cui l’espansione non è più sufficiente (dopo il 2008), la politica viene richiamata in campo. Ma il suo rientro è molto problematico: difficilissimo creare nuove alleanze sociali; difficilissimo prendere decisioni tempestive; difficilissimo disporre di personale preparato; difficilissimo stabilizzare il consenso elettorale.
Tutto ciò è all’origine di quello che in questi anni è stato chiamato populismo. Ma il termine rischia ormai di essere fuorviante perché oggi è il popolo a chiedere una qualche soluzione che l’establishment sembra incapace di dare. Sebbene sia esagerato parlare di crisi del sistema democratico, esistono tuttavia questioni che hanno mutato profondamente il rapporto con l’elettorato a partire da quello che era, all’interno di una democrazia rappresentativa, il ruolo d’intermediazione svolto dai partiti e dalle parti sociali. La fine delle ideologie – cioè sistemi di pensiero che, permettendo di dare un ordine alle idee politiche, aiutavano a delineare progetti di lungo periodo in cui era possibile riconoscersi per tutta o buona parte della vita – ha di fatto indebolito la capacità di interpretazione della realtà da parte dei gruppi intermedi, inclusi i partiti. Questo ha fatto emergere – come soluzione illusoria a un problema strutturale – il rapporto diretto tra “il capo” e il popolo, al di là delle mediazioni sociali e istituzionali. In un mondo in cui tutto diventa più veloce e più difficile da capire, vince la frase a effetto, lo slogan semplificatorio e rassicurante anche se impossibile da realizzare. Al di là di ogni confronto serio con la realtà dei fatti. Anche per questo le istituzioni democratiche sembrano sempre più preda della trappola del consenso indicata dalla scuola della public choice: i politici dicono solo ciò che gli elettori vogliono sentirsi dire, indipendentemente dalla realtà della proposta, e tentano di fare solo ed esclusivamente quello che porterà loro più voti, indipendentemente dalla bontà del programma. Anche l’identità politica, dunque, si indebolisce nell’annullamento delle storiche distinzioni tra destra e sinistra, aumentando la confusione generale e rendendo sempre più difficile stabilizzare un qualche consenso in mezzo a un rumore di fondo assordante.
Senza contare che la politica nazionale si trova davanti a un problema oggettivo: proprio per via della interconnessione del mondo, della caduta delle frontiere, della facilità di spostamento, dei capitali che viaggiano in un istante da un lato all’altro del pianeta influenzando l’economia di questo o quel paese, la politica deve fronteggiare sfide globali con strumenti locali e perciò sembra sempre più impotente, come uno strumento vecchio che non è più in grado di intervenire sulla società. Ma ciò non può che avere conseguenze di ampia portata, dato che, come sappiamo, senza politica non c’è società.
Come per la questione demografica così anche per quella politica, la crisi porta alla luce le conseguenze di lungo periodo del modello finanziario-consumerista, che l’espansione finanziaria riusciva appunto a mascherare. I populismi prendono piede perché le opinioni pubbliche sono disorientate e confuse. Il disinvestimento educativo e il dissesto comunicativo sono le cause profonde della fragilità democratica dei nostri giorni.
4. Disordine economico-finanziario
Per parlare dell’eredità difficile della stagione eroica della finanziarizzazione bisogna partire dalla constatazione che la crisi iniziata nel 2008 ha mandato definitivamente in soffitta quelli che si ritenevano assunti economici indiscutibili. Del resto è proprio a causa di questo fideismo economico-finanziario che la crisi ha avuto e sta avendo proporzioni epocali. Veniamo, infatti, da una stagione prometeica in cui ci eravamo convinti che i sistemi e gli strumenti finanziari, come mezzi tecnici, avrebbero davvero permesso di assorbire qualsiasi rischio. In fondo, è stata proprio questa presunzione di infallibilità ad avere generato la bolla esplosa poi nel 2008. Crollato il mito, occorre tornare a chiedersi a che cosa serva la finanza. Si tratta di una questione rilevante, sulla quale la politica dovrebbe intervenire per riportare ordine stabilendo nuove regole. Ma nessuna autorità politica sembra avere la forza per farlo.
In un’economia avanzata, la finanza è la preziosa e indispensabile cinghia di trasmissione tra le opportunità di sviluppo e i capitali necessari per permettere a tali opportunità di realizzarsi. Tuttavia, il problema che oggi abbiamo è capire come far sì che la finanza torni a svolgere la sua funzione originaria – quella di essere uno strumento a servizio della crescita dell’economia reale – smettendo di essere un circuito autoreferenziale che arricchisce pochi strozzando lo sviluppo delle tante iniziative che sorgono nella trama larga del sistema economico e sociale. E che vi sia un problema di fondo che ostinatamente si finge di non vedere ce lo dice il paradosso che attanaglia l’economia contemporanea e che la teoria economica prevalente (di matrice neoclassica) non riesce a spiegare: un’offerta di moneta sovrabbondante, prodotta da una politica economica superespansiva e con tassi di interesse sotto zero, insieme alla deflazione (e tassi di crescita modesti). Si tratta di un paradosso perché, secondo la teoria, ma anche secondo l’esperienza vissuta fino a oggi, con questo tipo di politica dovremmo avere inflazione (e crescita). Per usare una metafora, l’economia contemporanea è come una macchina in cui l’acceleratore, pur spinto al massimo, non riesce a trasmettere forza cinetica alle ruote. Semplicemente perché la forza va dispersa in qualche punto durante il percorso di trasmissione. Come è stato osservato, “negli ultimi anni le banche centrali dei paesi sviluppati hanno immesso miliardi su miliardi per riportare l’inflazione intorno al 2 per cento, livello considerato normale ed equilibrato. Ma nessuna vi è riuscita. In questo momento l’inflazione negli Usa è all’1,1 per cento, nella zona euro allo 0,4 per cento (ma con parecchie aree in deflazione), in Gran Bretagna allo 0,6 per cento e in Giappone a -0,5 per cento. […] C’è qualcosa che non funziona nella teoria monetarista. Evidentemente nella formula manca l’elemento qualitativo della domanda: se l’aumento di offerta di moneta finisce nelle mani della sfera più ricca della popolazione (numericamente una minoranza) non c’è verso di far aumentare l’inflazione. Viceversa, se la moneta finisce nelle tasche del ceto medio-basso (quello numericamente più corposo e l’unica forza in grado di smuovere l’inflazione) le cose cambiano”.11
Questo stato delle cose ci dice che, ancora oggi, i circuiti tra finanza ed economia reale non funzionano come dovrebbero. Non riescono ad attivare le energie economiche e finiscono solo per alimentare circuiti finanziari autoreferenziali che non fanno che rafforzare la concentrazione della ricchezza. Come dimostrano i livelli degli indici borsistici, che continuano a bruciare tutti i record12 pur in presenza di aumenti dell’economia reale piuttosto contenuti.
Può essere utile, a questo riguardo, osservare che ci troviamo in una situazione simile a quella degli anni settanta, e in particolare al momento in cui veniva meno lo scambio fordista-welfarista. Anche allora la teoria economica prevalente, di ispirazione keynesiana, non riusciva a spiegare il paradosso di avere insieme stagnazione e inflazione. Per questo, in quegli anni, si coniò il termine stagflazione per indicare qualcosa che sfuggiva alla teoria economica.
Oggi come allora, per risolvere il problema sarebbe necessario cambiare il paradigma ermeneutico, cosa che, come sappiamo, è sempre molto difficile da realizzare. Il risultato è quello che vediamo: benché sia evidente che l’espansione finanziaria oggi non sia più capace di essere il traino della crescita economica, la teoria economica – esattamente come accadde negli anni settanta – non riesce a far fronte al mutamento radicale delle condizioni storiche. Anzi, di fronte alla contraddizione evidente che impedisce un vero rilancio, si insiste nel dire che a essere sbagliata non è la teoria ma la realtà!
Il problema è che il disordine finanziario ereditato dal neoliberismo – e che non abbiamo ancora cominciato ad affrontare – vanifica gli effetti delle politiche espansive, che pure sono necessarie. Dovrebbe essere evidente che le politiche monetarie da sole non bastano. E prolungarle troppo nel tempo, senza i necessari interventi strutturali, espone a effetti potenzialmente molto negativi. Come ad esempio annotava la Consob nel suo report di fine 2015: “Tassi di interesse negativi, pur potendo incidere positivamente sulle variabili reali e finanziarie nel breve periodo, possono tuttavia alimentare vulnerabilità nel lungo periodo, producendo effetti distorsivi su: assunzione di rischio; allocazione delle risorse; tutela degli investitori”.13 In sostanza, nella situazione in cui ci troviamo, i mercati finanziari sono una sorta di diga che, invece di aprire le paratie facendo fluire ordinatamente l’acqua verso i campi da coltivare, blocca il flusso gonfiandosi a dismisura e lasciando i campi desertificati. Nonostante tutto, lo scollamento e la mancanza di fiducia tra finanza ed economia reale continuano a rimanere un problema irrisolto.
5. Disordine ambientale
Attorno a questo tema l’attenzione diventa sempre maggiore, basta pensare alla rilevanza data all’ultimo vertice sul clima di Parigi del dicembre 2015 in cui anche paesi come la Cina, storicamente avversi ad accordi che prescrivessero la riduzione delle emissioni, hanno riconosciuto che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta, impegnandosi pertanto ad accelerare la riduzione delle emissioni dei gas che generano l’effetto serra. Questo accordo, sebbene sottoposto a clausole di autogoverno dei singoli paesi, che non saranno soggetti a controlli di agenzie ambientali esterne, rappresenta comunque un significativo passo avanti nel riconoscimento definitivo della grande questione ambientale e della necessità di perseguire una crescita sostenibile. Perché è proprio questo il punto. Per troppi anni è stato propagandato il messaggio secondo il quale “attenzione all’ambiente” equivaleva a “riduzione della crescita, dello sviluppo”. Ma sviluppo e crescita non sono concetti intercambiabili, perché è possibile che ci sia una crescita senza sviluppo. Lo sviluppo, infatti, per essere tale, necessita di includere forti connotati qualitativi. Dunque, lo sviluppo c’è solo se migliora la condizione della vita non soltanto oggi, attraverso la crescita, ma anche in futuro attraverso la sua sostenibilità. Sarebbe dunque irragionevole e insensato pagare il prezzo della crescita oggi con pezzi di futuro.
La questione ecologica, in particolare quella dello sviluppo sostenibile, è stata posta con forza a partire dagli anni settanta. Basta ricordare che The Limits to Growth, uno dei più rilevanti studi, se non il più rilevante, che ha acceso la luce sul modo in cui l’ecosistema della Terra avrebbe reagito ed eventualmente resistito a una crescente industrializzazione e a un forte aumento della popolazione, fu pubblicato nel 1972. Questo studio si basava su cinque variabili fondamentali: popolazione mondiale, industrializzazione, inquinamento, produzione di cibo, sfruttamento delle risorse. Già da allora si tracciavano con chiarezza i pericoli a cui poteva andare incontro una società sottoposta a un regime di crescita economica incontrollata e priva di attenzione verso tutti quei fattori che fanno convergere il concetto di crescita in quello di sviluppo. Nei decenni successivi, con l’arrivo sulla scena dell’economia mondiale di grandi paesi come la Cina, l’India, il Sud-Est asiatico e, in parte, il Brasile, il livello di inquinamento ha raggiunto livelli allarmanti.
Il progressivo aumento del benessere, il soddisfacimento dei bisogni primari, il miglioramento delle condizioni di vita, una maggiore attenzione per il futuro e per la qualità del luogo in cui si vive, hanno fatto crescere negli anni una consapevolezza ecologica. È per questo che in tempi recenti si è riusciti a giungere a conclusioni condivise sulla difesa dell’ambiente, come gli accordi di Parigi con l’ulteriore ampliamento del ricorso alle energie rinnovabili e un impegno più profondo, organizzato e sistemico, per la difesa dell’ecosistema. Tuttavia – come dimostra anche la posizione del neoeletto presidente americano D. Trump – siamo ancora molto lontani dall’aver risolto il problema, tanto più che i diversi livelli di benessere strutturano un campo di interessi sui temi ecologici molto articolato e assai difficile da armonizzare. La sfida rimane quella di fare in modo che la conciliazione tra l’aspetto quantitativo e quello qualitativo riesca a essere vista come uno stimolo per sviluppare il potenziale di nuove aziende, nuove tecnologie e nuovi modi di fare impresa. Una sfida che può essere vinta solo andando al di là dello scambio finanziario-consumerista e del suo immaginario illimitatamente espansivo.
Note
1 Eg. Reich riporta che il tema della disuguaglianza torna nel dibattito pubblico dopo ottant’anni (Reich 2011, 2012) grazie alla diffusione sulla stampa di report quali, ad esempio, il xxx del Congressional Budget Office che ha fatto da volano al dibattito pubblico sulla concentrazione di reddito, ricchezza e potere politico. Si consideri anche, per contro, che le analisi della Grande depressione di M. Friedman-A. Schwartz (del 1971) e di B. Bernanke (del 2000) non contengono alcuna menzione alla disuguaglianza.
2 Eg. Il “Financial Times” nel 2012 ha lanciato uno speciale sulla disuguaglianza prodotta dal capitalismo come minaccia per la democrazia storicamente radicata in classi medie maggioritarie.
3 Eg. “Osserviamo che periodi di crescita più lunghi si associano positivamente a una distribuzione del reddito più egualitaria. (…) Su orizzonti più lunghi, una riduzione della disuguaglianza e una crescita sostenuta potrebbero essere quindi i due lati della stessa medaglia” Two sides of the same coin? Imf staff discussion note 8 aprile 2011 imf.org p. 3; “Se è vero che la disuguaglianza incentiva l’intrapresa e l’innovazione, è anche vero che la disuguaglianza, oltre certi limiti, depriva di risorse una parte del capitale umano, con conseguenze economiche negative” Imf: Redistribution, Inequality and Growth (Imf: Redistribuzione, Disuguaglianza e Crescita).
4 Eg. Divided we stand: Why inequality keeps rising, Oecd, 2011.; Growing inequal? Income distribution and poverty in Oecd countries, Oecd, 2008.
5 Vedi anche Salverda W., Mayhew K. (2009), pp. 126-154.
6 Dall’elaborazione dati Cea, su base Bureau of Labor Statistics, messi in una scala logaritmica, il salario reale medio (Cpi deflator) è rimasto più o meno stazionario dagli anni settanta (o lievemente cresciuto se si considera l’output deflator) attorno ai 150 punti, mentre la real output per hour (la produzione per ora di lavoro) è più che duplicata nello stesso periodo, superando nel 2013 i 400 punti. Economic Report of the President 2014 (https://www.gpo.gov/fdsys/pkg/ERP-2014/content-detail.html).
7 Secondo Stiglitz (2011:146), “la disoccupazione può essere attribuita ad una debolezza della domanda aggregata (la domanda totale di beni e servizi da parte dei consumatori, delle imprese, del governo e degli esportatori di un’economia). E oggi, in un certo senso, l’intera caduta della domanda aggregata può essere ricondotta all’estrema disuguaglianza in cui ci troviamo”.
8 Al di là delle pur importanti differenze che si registrano tra i diversi casi nazionali, effetto delle politiche adottate (o non adottate, come in Italia) in questi anni.
9 An aging world: 2015. International Population Reports, US Census Bureau, marzo 2016.
10 Già oggi, e ancor di più nei prossimi anni, un altro fattore importante nel causare i movimenti migratori è costituito dai cambiamenti climatici associati al riscaldamento globale
11 Vito Lops, Perché la nuova era dei tassi bassi mette in discussione i manuali di economia, “Il Sole 24 Ore”, 6 ottobre 2016.
12 Per vedere quanto sia stato impressionante l’aumento della Borsa negli ultimi anni, a fronte di una crisi sociale di cui non si vede la fine, basta guardare la progressione, dal marzo 2009 al febbraio del 2017, dei principali indici di borsa a partire dal Dow Jones che è passato da 6626 punti a 20.412. L’indice inglese Ftse100 è passato da 3625 a 7282. Il Dax di Francoforte da 3843 punti a 11.775. Il Ftse Mib italiano da 12.332 a 19.134. Il Cac 40 francese da 2632 a 4786. L’Ibex 35 spagnolo passato da 6936 a 9510. Si può notare come, a fronte di un aumento comunque molto significativo, gli indici francese, spagnolo e italiano hanno avuto performance inferiori rispetto a quello inglese ma, soprattutto, nettamente inferiori rispetto a quelli tedesco e americano.
13 Consob Informa, 9 novembre 2015, p. 1.