Quando il boss incassa (regolarmente) l’assegno Inps
Il 9 maggio 2010 la polizia di Napoli arresta Luigi Cimmino, 50 anni, noto come Giggino, il superboss del Vomero. È stato condannato per associazione a delinquere, viene ritenuto uno dei capi della camorra, promotore del clan che controlla il quartiere collinare e chic della città, in tribunale ha ottenuto l’attestato di «criminale abituale». Gestisce affari, organizza spedizioni punitive, detta le regole dell’estorsione e del mercato della droga. Eppure per l’Inps è incapace di badare a se stesso. Proprio così: incapace totale. Pratica numero 755 del 2009, municipalità Arenella-Vomero, Servizio attività sociali e educative: il superboss Cimmino è invalido perché non sa badare a se stesso. E per questo motivo l’Istituto di previdenza gli versa regolarmente pensione e indennità di accompagnamento.
Possibile? Possibile. Anzi, a dirla tutta, la pensione d’invalidità, per quanto scandalosa, è una delle poche cose non illegali della vita di Giggino ’o boss del Vomero. Personaggio da prendere con le molle, per il resto: era già un pezzo grosso a metà degli anni Novanta, in forte ascesa fin da quel periodo, e perciò nel mirino dei clan rivali. Infatti, sotto casa sua, nel 1997 si svolse una feroce sparatoria che costò la vita a Silvia Ruotolo, innocente mamma, che cadde uccisa davanti ai suoi figli: il vero obbiettivo di quell’agguato era proprio Giggino, ma i sicari lo mancarono. Non lo mancarono, invece, le forze dell’ordine qualche anno dopo: nel 2001 fu arrestato e portato all’Aquila, dove venne sottoposto al 41-bis, carcere duro. Ma fu durante quel periodo di detenzione, nel 2007, che riuscì a ottenere la dichiarazione di «infermo di mente e incapace di provvedere a se stesso». «Cimmino legge i libri di psichiatria» sussurrò radio carcere. «Sa simulare la pazzia.» I soliti invidiosi da galera? Può darsi: la commissione sanitaria, comunque, non diede retta alle malelingue e accese semaforo verde alla pratica. Trascrivendo l’assurdo su sentenza ufficiale: il boss sa gestire benissimo la camorra, ma in compenso non sa gestire se stesso.
Forte di questo documento, Giggino, appena tornato libero nel 2008, vergò subito due scritti: una lettera a un giornale per promettere, come suo dovere, che non avrebbe mai più commesso reati e una lettera all’Inps per chiedere, come suo diritto, la pensione da invalido. Inutile dire che lui non tenne fede all’impegno, l’Inps, invece, sì. Così il boss poté ricominciare a fare il suo mestiere di boss, come prima più di prima, con l’unica differenza che, a fine mese, incassava il sostegno dello Stato sotto forma di assegno previdenziale. Ad accorgersi della bizzarra situazione fu un funzionario di polizia, che andò a cercare Cimmino nel quartiere. Non riusciva a trovarlo e si sentì suggerire: «Chieda informazioni al suo tutore». «Il tutore? Ha un tutore?» «Sicuro, dotto’.» «E perché?» «Perché la legge dice che è incapace di badare a se stesso.» Così è venuta fuori tutta la storia: da oltre un anno il superboss incassava la pensione. L’Inps aveva saldato puntualmente anche gli arretrati fino al 1° dicembre 2007, come da pratica 755 del 2009. Tutto in regola, insomma. Camorra a parte.
Cosa nostra, pensione loro. Com’è possibile che i boss che hanno seminato sangue e morte vengano ricompensati dallo Stato con generosi vitalizi? Com’è possibile che ci siano anziani che lavorano una vita per avere la minima e picciotti che incassano assai di più pur avendo timbrato tutta la vita solo il cartellino della lupara? La domanda risuona nelle stanze della commissione Antimafia nella seduta del 19 maggio 2010. Quel giorno uno dei membri, l’onorevole Gianluca Buonanno, presenta un’interrogazione: «Non vorrei che alcuni dei mafiosi, cui abbiamo sequestrato i beni, avessero poi l’assegno sociale…». Il 21 maggio 2010 va in onda un servizio di «Striscia la notizia» in cui il senatore Giuseppe Lumia, veterano della commissione Antimafia, denuncia lo scandalo delle pensioni ai boss, seppur con mille precauzioni: «Ho chiesto un approfondimento… Voglio verificare…».
Un approfondimento? Voglio verificare? Per carità, la cautela è sempre d’obbligo, specie in materie così delicate. Ma il veterano Lumia dovrebbe sapere che sono più di dieci anni che la questione è all’ordine del giorno. Siamo ancora all’«approfondimento»? Al «voglio verificare»? A sollevare il caso, correva l’anno del Signore 1998, fu un illustre collega di Lumia, oggi suo lanciatissimo compagno di schieramento: Nichi Vendola, a quel tempo vicepresidente della commissione Antimafia. Vendola compilò e depositò, infatti, un vero e proprio dossier sull’Onorata Previdenza. Era un elenco preciso e puntuale dei boss con la pensione pagata dallo Stato. Si scoprì così che Salvatore Di Gangi, accusato di essere il capomafia dell’Agrigentino, prendeva 2 milioni di lire al mese in quanto ex impiegato di banca; Vito Vitale, uno dei capi di Cosa nostra, aveva una pensione Inail, oltre che un assegno di disoccupazione agricola dell’Inps; Giuseppe Rancadore, capomafia di Trabia, prendeva la pensione sociale da 400.000 lire al mese, come anche sua moglie; e Giuseppe Farinella, presunto boss di San Mauro Castelverde, era titolare di pensione d’invalidità…
«Incredibile, inquietante, sconcertante» scrisse in quei giorni l’«Osservatore Romano». Intervenne l’allora ministro dell’Interno, Giorgio Napolitano: «La questione va affrontata». Fioccarono interrogazioni in Parlamento. L’Inps, chiamato in causa, fu costretto a giustificarsi: «Noi non possiamo negare le pensioni ai boss. Ci obbliga la legge. Se volete, cambiatela». Volessero o no, è difficile dire: comunque la legge non è stata cambiata. E così, da allora, le denunce sono continuate: nell’agosto 1999 «L’Espresso» scrive che fra i boss con la pensione ci sono anche Michele Greco detto «il Papa» (285.000 lire al mese), Bernardo Brusca (una di vecchiaia da 293.000 lire e una di invalidità da 795.000), il boss di Cinisi Procopio di Maggio (606.000 lire incassate fin dalla metà degli anni Settanta), Francesco Madonia (709.000 lire) e Giuseppe Calò detto «Pippo» (709.000 lire).
Nel 2000 Marianna Bartoccelli sul «Giornale» denuncia il caso di Gioacchino Pennino, il «Buscetta della politica», ex medico, già collaboratore di giustizia, che all’inizio degli anni Novanta lascia l’Italia per ritirarsi all’estero e «vivere una tranquilla vita da pensionato»: tranquilla sicuro, dal momento che l’Enpam è costretta a versargli 35 milioni di lire al mese, somma riconosciutagli per la «totale e permanente invalidità all’esercizio dell’attività professionale sanitaria». E nel 2004, sempre sul «Giornale», Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica svelano l’esistenza di altri casi clamorosi, come quello di Giuseppe Morabito detto «’u tiradrittu», che aveva ricevuto per 22 anni, compresi i 12 di latitanza, l’assegno dell’Inps mandando la moglie a incassarlo ogni mese («Pratica regolare, abbiamo le mani legate» ribadiscono all’istituto), o come quello di Vincenzo Maranto, boss delle Madonie, che univa la passione per il vitalizio previdenziale alla passione per le auto. E ogni mese aveva un dubbio: ma allo sportello postale ci vado con la Bmw o con una delle mie Rover? E perché non in Ferrari?
Accumulare tanti denari e un assegno da pensionati, del resto, dev’essere una specie di hobby, per gli uomini delle cosche. Nel 2001, per esempio, viene arrestato Vincenzo Virga, considerato il riciclatore dei soldi dei Corleonesi: abilissimo a muoversi nella giungla degli appalti, titolare attraverso prestanome di numerose società, proprietario di infiniti beni mobili e immobili. Le forze dell’ordine gli sequestrano svariati miliardi. Ebbene: l’ingente ricchezza non gli impediva di continuare a riscuotere da alcuni lustri una modesta pensioncina. Gli era stata riconosciuta quando aveva 39 anni e da allora non ha mai smesso di incassarla, nemmeno da latitante: in quel frangente si premurava di mandare una persona di sua fiducia a ritirarla, pur di non perdere l’appuntamento…
Che ci volete fare? I boss mafiosi sono così: ci tengono a far rispettare i loro diritti. Nell’aprile 1996, per dire, ma il fatto si è saputo solo anni dopo, Caterina Briganti, moglie di Rocco Musolino, ritenuto uno degli esponenti di spicco della ’ndrangheta, era entrata in banca e si era fatta consegnare 5 miliardi di lire dal conto corrente del marito. Insieme, però, aveva provveduto anche a incamerare la «minima» dell’Inps, cioè la pensione prevista dalla legge per chi non ha redditi sufficienti per sopravvivere. Nel luglio 2010 la Direzione investigativa antimafia di Palermo sequestra agli eredi di Arturo Messina, boss di Agrigento, 5 milioni di euro: Messina aveva presentato domanda per la pensione d’invalidità e solo la morte sopraggiunta nel 2008 gli aveva impedito di incassarla. Pensione d’invalidità? Con 5 milioni di euro in tasca? Nel frattempo si è scoperto che il vitalizio previsto per le vittime della camorra (1033 euro al mese) veniva regolarmente pagato anche alla moglie di un boss. «Signora, ma lei non è vittima della camorra.» «E come non lo sono? Mio padre è stato ucciso…» «Ma suo padre fu ucciso per una vendetta trasversale.» «Sempre vittima fu…»
Alla fine, l’unico boss senza pensione sembra essere proprio Totò Riina, il «capo dei capi». E pensare che negli archivi dev’esserci ancora il modulo Inps che firmò, appena compiuti i 65 anni, chiedendo l’assegno sociale con tanto di indicazioni per il pagamento in delega alla moglie Antonietta Bagarella. Lo Stato gli aveva appena sequestrato beni per 12 miliardi di lire, ma lui voleva il vitalizio per i nullatenenti, imitando, in questo, mamma Maria Concetta, che anni prima aveva rivendicato una spericolata «pensione di guerra» («Mio figlio e mio marito furono uccisi da una bomba e io rimasi ferita.» «Sì, signora, ma non sarà stato un attentato mafioso?» «Macché: colpa della guerra.» «Ma se la guerra è finita da un pezzo!» «Residuato bellico fu.»). A «Totò ’u curtu», però, andò male. L’Inps chiese lumi alla guardia di finanza: «Che dobbiamo fare?». Le Fiamme gialle risposero che Riina era tutt’altro che povero: «Gode di redditi non compatibili con la pensione sociale». Risultato: il boss dei Corleonesi ha dovuto rispondere in tribunale anche di una denuncia per tentata truffa all’Inps e false certificazioni…
Comunque sia, tutto quello che abbiamo raccontato finora dimostra che, dall’Onorata Previdenza (1998) a oggi, delle pensioni ai mafiosi si è sempre saputo. E si è molto parlato. Epperò non si è mai fatto niente per rimediare. Così di tanto in tanto sui giornali, magari in qualche trafiletto o sulle edizioni locali, salta fuori un altro caso, un altro scandalo, un’altra denuncia. Nel 2004, per esempio, un pentito racconta ai giudici che Francesco Biondo, detto «il Folle», uomo della cosca di San Lorenzo, è riuscito a guadagnarsi la pensione d’invalidità tenendo chiuso per sei mesi un occhio. «È un occhio malato assai» ripeteva a tutti, fino a quando ha ottenuto l’agognata visita medica e di conseguenza la pensione. Subito dopo, zac, l’occhio si è riaperto come d’incanto e la vista è tornata dieci decimi, ottima anche per prendere la mira.
Nel luglio 2010 «la Provincia pavese» dà la notizia dell’arresto di un presunto boss della ’ndrangheta nel sud della Lombardia: si chiama Pino Neri, secondo i magistrati sarebbe ricco sfondato, ma davanti allo Stato figura come «nullatenente». L’unico conto formalmente intestato a lui è quello su cui arriva la sua pensione d’invalidità. E come se non bastasse, nell’ottobre 2010 viene arrestato a Palermo Giovanni Trapani, 54 anni, ritenuto il reggente del clan di Ficarazzi: aveva un patrimonio di 3 milioni di euro, eppure tutti i mesi riscuoteva un assegno da 700 euro, in quanto disoccupato. Altri soldi sottratti all’Inps.
La domanda è: se di tutto ciò si discute da anni, se queste notizie finiscono stampate sui giornali (seppur in corpo piccolo o in edizioni locali), se sull’argomento sono già stati redatti nel corso degli anni documentati dossier, com’è che il veterano della commissione Antimafia Lumia arriva a maggio 2010 a chiedere un «approfondimento» per «verificare»? Che aspettano ad approfondire? Che aspettano a verificare? Forse in tale importante consesso non c’è nessuno che legga i giornali? Nessuno che faccia per loro una rassegna stampa? Pochi giorni dopo la vaga denuncia a «Striscia la notizia», un altro parlamentare, Massimiliano Fedriga, capogruppo della Lega Nord in commissione Lavoro, ha presentato una proposta di legge per abrogare le pensioni ai boss mafiosi («Disposizioni concernenti la sospensione e la revoca del trattamento pensionistico per i soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale o condannati per reati di terrorismo o di criminalità organizzata», C. 3541). Ricordate? Ne parlavano già i dirigenti Inps nel 1998, ma la legge non fu mai approvata. E questa volta come andrà? Per il momento, nel novembre 2010, dopo un po’ di polemica fra i partiti, qualche discussione in commissione, la presentazione di un paio di emendamenti, la Camera ha dato il via libera al provvedimento. Si aspetta l’approvazione del Senato, nella speranza che fra dodici anni qualcuno non salti di nuovo fuori a stupirsi e magari a concedere un’intervista al Gabibbo («Le pensioni ai mafiosi! che scandalo!»). Chiedendo, poi, con molta determinazione «un approfondimento».