Una falsa pensione? Costa 6000 euro
«Allora quello mi dice: signora, lei c’ha qualcuno per le tessere e i codici fiscali…» «Ha qualcuno per fare che cosa?» «Per fare gli invalidi civili con la tessera, codice fiscale e seimila euro.» «Quindi lei fa pensioni false?» «Come?» «Seimila euro chi li voleva?» «Cosa scusi?» «Signora! Lei ha detto: tessera, codice fiscale e seimila euro…» «Sì.» «Quindi erano pensioni false?» «Sì, sì.»
La signora Rosa Capra (anzi, «Capra Rosa di Puliflash», come si definisce lei) ha un’impresa di pulizie a Palermo, lava i pavimenti delle Asl. Quando si presenta in tribunale il 12 ottobre 2009 annaspa tra il dialetto e l’affanno («Me la dai un po’ d’acqua, mamma mia, fammi questo favore perché io soffro di pressione alta…»). Dice di avere un avvocato di fiducia, ma questo non si presenta. Parla in dialetto, corre veloce, non riesce nemmeno a pronunciare le formule di rito. Alla fine, però, ammette tutto. Ammette cioè di far parte dell’organizzazione criminale che ha battuto ogni record mondiale di pensioni false.
«Quindi lei ha consegnato i soldi?» «Sì, sì.» «A titolo di tangente?» «Sì, sì.» «Per ogni pratica seimila euro?» «Sì, prima erano a lire e poi raddoppiarono perché prima mi ricordo che con la lira erano tremila…» «Cioè tre milioni?» «Sì.» «Allora la cifra iniziale era di tre milioni?» «Sì.» «Poi sono diventati seimila euro. Ma con quale criterio di accumulazione? Tre milioni dovrebbero diventare mille e cinquecento euro secondo il cambio ufficiale…» «Così. Prima era tre milioni. Ora seimila euro perché la vita era più cara.» «Ah, molto più cara.» «Sì, sì. Ma il dottore giustamente stava bene, lui aveva il Mercedes…»
Rosa Capra di Puliflash è una dei cosiddetti «spicciafaccende», cioè quelli che agivano da intermediari tra i funzionari dell’Inps corrotti e i falsi invalidi. Finisce tra gli imputati del maxiprocesso: oltre 1000 persone indagate, un danno erariale calcolato in svariate decine di milioni di euro, un sistema criminoso, scoperto nel 2006, che prosperava rigoglioso da almeno due decenni. Permettendo al «dottore» (e non solo a lui, evidentemente) di concedersi la Mercedes e altri lussi…
Al Borgo Vecchio, quartiere popolare palermitano a cinque minuti a piedi dal teatro Politeama, le pensioni d’invalidità si comprano e si vendono un tanto al chilo, nella piazza del quartiere … Circolava fino a qualche anno fa fra pescivendoli, carnezzieri e bancarelle di frutta e verdura un cristianuzzu che ti sbrigava la pratica, ti organizzava la visita medica, pensava a tutto lui…
Così scrive «Il Sole-24 Ore». E Rosa Capra era proprio una dei «cristianuzzi», come quelli citati nell’articolo. Sbrigava la pratica, pensava a tutto lei. Per questo la chiamavano «spicciafaccende». Incassava la tangente, faceva arrivare la pensione. «Quante pratiche ha affidato?» «E che ne so io, io mi pozzu ricordare tutti i pratiche che ci dava?» Pozzu ricordare? E che ne sa lei? S’intende, ovviamente, che la signora Rosa Capra era falsa invalida. E suo figlio (30 anni) pure. E sua sorella aveva appena presentato la domanda quando «u finimundu scoppiò».
Vale la pena immergersi nella lettura degli atti del maxiprocesso, tra sfoghi in dialetto e contorcimenti da questura, vale la pena immergersi, facendo lo slalom tra i cavilli e le intercettazioni, per capire qualcosa di più di questo scandalo infinito dei falsi invalidi, al di là del solito titolo trillato sul giornale Falsi ciechi che guidano, Sordomuti che fanno i centralinisti e Zoppi che vincono la maratona. Vale la pena perché a un certo punto, fra tanti paradossi, è inevitabile chiedersi: ma come nasce tutto ciò? Come funziona? Perché nessuno riesce a estirpare davvero questo scandalo? Perché continua a ripetersi e moltiplicarsi? E la prima cosa che stupisce, nei voluminosi atti del processo di Palermo, è proprio il modo in cui i protagonisti parlano della vicenda. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Quasi come se fosse un atto di generosità.
C’era una signora mischina, gente così, tutti poveri e mazziati, se ne andavano a fare prestiti di qua e di là nei Findomestic. Diceva: nun mi vonnu dari u punteggio. E allora io ci dicevo: senta c’è un medico qua se lei vuole io ci faccio avere quello che… Così mi trovavo di fronte all’officina dove c’era l’ufficio del signor Greco… ci consegnava una… prima ce li dava così, senza busta. Poi lui dice: no, signora Capra, mi deve fare una cortesia, quando mi deve dare i soldi e il codice fiscale e tessera li deve mettere dentro una busta. Ci dissi: devo comprare pure le buste?
Si capisce: il problema è comprare le buste. Per il resto, dov’è lo scandalo? Rosa Capra si sente quasi una benefattrice. C’è la signora che non ce la fa ad andare avanti, chiede i prestiti a Findomestic, povera e mazziata, perché «nun mi vonnu dari u punteggio»… E lei che fa? Va dal medico, prende l’appuntamento («No dentro l’ospedale, no dentro l’ufficio, ci distacchiamo fuori, la scusa che vado a prendere un caffè») e offre i 6000 euro, senza busta («Ma lui personalmente e educatamente come un medico civile disse: non si preoccupi che li prendo lo stesso.» Che galantuomo, si capisce: prende le mazzette anche se non sono dentro la busta gialla). E poi? «Mi dice: non si preoccupi che poi ci arriva il verbale a casa…»
«Ci arriva il verbale a casa», ecco tutto. Semplice, no? I soldi delle tangenti, secondo l’accusa, servivano per corrompere alcuni funzionari dell’Asl, un funzionario della Prefettura, un dipendente del ministero dell’Economia e un dipendente dell’Inps. Avevano messo a punto una perfetta organizzazione criminale («articolata, efficientissima e spregiudicata» la definisce il pm), che funzionava da due decenni e che in soli tre anni, fra il 2003 e il 2006, è riuscita a far avere la pensione d’invalidità a 620 persone che non ne avevano diritto.
L’iter ha inizio con l’accordo tra lo spicciafaccende e l’utente che non ha diritto alla pensione di invalidità. Tale personaggio contattava e si accordava col personale dell’Asl che aveva il compito di dare vita a una richiesta completamente falsa. Inoltre veniva falsificato integralmente il verbale della commissione medica e le firme dei sanitari. Successivamente tale pratica, completamente falsificata con la complicità del personale appartenente alle commissioni, veniva inoltrata all’ufficio distaccato del ministero del Tesoro. Anche in tale ufficio era necessario avere un contatto e l’accordo con il funzionario al quale venivano segnalate le pratiche false, che dovevano essere vidimate senza controlli di verifica. In tutto ciò lo spicciafaccende percepiva tutta la somma degli arretrati, parte della quale serviva a pagare i favori del personale dell’Asl: la somma degli arretrati si aggirava intorno ai 6000 euro circa, di cui 3000 venivano consegnati al personale Asl.
Uno dei protagonisti della truffa, Antonino Cusimano, ha confessato di aver fatto avere la pensione d’invalidità, oltre che a se stesso, alla sorella, alla figlia e a tre cognate. Un altro, Salvatore Sangiorgi, direttore amministrativo in Prefettura, ammette «l’imbarazzo e la vergogna» per aver «compromesso l’immagine di funzionario specchiato e integerrimo». Com’è successo?, gli chiedono in tribunale. E lui ammette di aver avuto una debolezza: «Ho pensato di far ottenere l’indennità di accompagnamento a mia moglie, che era già beneficiaria di una pensione». E lei l’ha avuta? «Sicuro. In 5-6 mesi, senza visita medica.» Non è il massimo per un funzionario specchiato e integerrimo, ma tant’è: da quel momento, dice, «mi sono ritrovato in una imprevedibile spirale di eventi che ancora oggi faccio fatica ad accettare». La spirale di eventi significa che per quattro o cinque anni ha continuato a far passare false pensioni come se piovesse, a grappoli di 20-25, e ogni volta naturalmente «con perplessità, avendo sempre mantenuto una condotta lecita e onesta». La condotta lecita e onesta, le perplessità e l’immagine di funzionario specchiato non hanno però impedito al dottor Sangiorgi di chiedere, oltre che l’assegno di accompagnamento per la moglie, anche la falsa pensione di invalidità per la madre («Un grave errore, signor giudice! Ah quanto sarebbe stato meglio resistere alla tendenziosa offerta…») e già che c’era anche la falsa pensione di invalidità per la cognata («Era da poco rimasta vedova, signor giudice, e pure in precarie condizioni di salute…»). «Avrei dovuto preferire ogni altra soluzione», si capisce: ma che ci volete fare? I funzionari specchiati e integerrimi a volte hanno il cuore tenero, soprattutto quando si tratta di madri e cognati. «Però vi garantisco, signor giudice, non appena avrò chiarito la mia posizione e certamente all’indomani della mia agognata scarcerazione, provvederò ad andare in pensione. Ne ho diritto.» Già, ne ha diritto. E speriamo che almeno quello non sia un diritto taroccato.