Venti invalidi. Tutti nella stessa famiglia
Di fronte a tanti falsi ciechi, be’, non resta che aprire gli occhi. E, in effetti, l’italico campionario abbonda di situazioni che potrebbero perfino strappare un sorriso, se non nascondessero un vizio tragico: a Palermo una sorda viene assunta come centralinista; a Roma un paraplegico fa il maratoneta; ad Avellino un paralizzato ara i campi; a Bari uno senza mani guida il camion… A Monteforte Irpino è stata scoperta una donna di 62 anni che, stando ai documenti di invalidità, non avrebbe potuto nemmeno alzarsi dal letto: ogni mattina, invece, andava a zappare i pomodori nell’orto, poi tornava a casa, si metteva la tuta e cominciava a fare jogging. Peccato che la marcialonga, per lei, sia finita in caserma. Con tanto di doccia fredda.
Nel maggio 2009 a Genova è stato fermato un ladro acrobata: si arrampicava sui cornicioni, volava sui tetti, saltellava fra le ringhiere dei balconi. Hanno scoperto che era invalido al 75 per cento. «Avete ragione, ma la pensione non mi basta» ha provato a scusarsi lui. Gli hanno dato 6 anni.
A Ponzano Veneto nel febbraio 2011 viene scoperto un cinquantasettenne falso paralitico: risultava affetto da tetraparesi e invalido al 100 per cento, ma tre volte alla settimana andava a ballare la rumba e la salsa al circolo delle danze sudamericane. Il giochetto è costato alle casse previdenziali 170.000 euro…
Ad Arzano (Napoli) nel 2005 è stata beccata una famiglia, venti persone, tutte con la pensione d’invalidità Inps: il marito, la moglie, i tre figli, le due nuore, il genero, due zie, la nonna, i consuoceri, quattro cugini e altre due cognate. Nessuno di loro, ovviamente, risultava in possesso dei requisiti: il capofamiglia, presunto cieco, guidava l’automobile; uno dei suoi familiari, presunto paralitico, è stato fotografato mentre camminava trasportando sulle spalle enormi pacchi. La Procura ha stimato il valore del raggiro: 3.770.000 euro. Solo per una famiglia? Possibile? Ma sicuro: i magnifici venti, infatti, oltre che il mensile, si erano fatti pagare anche tutti gli arretrati.
E se la famiglia non vi basta, ecco il quartiere dell’inganno: a Napoli, infatti, nel gennaio 2010 è stato scoperto un intero rione popolato di falsi pazzi. Siamo al Pallonetto di Santa Lucia, nella zona di via Chiatamone, subito alle spalle dei grandi alberghi della città: qui, su poche migliaia di abitanti, sono stati individuati ben 400 malati di mente con assegno di invalidità al seguito. Stando ai dati ufficiali, dunque, quelle strade dovrebbero pullulare di psicopatici, con una concentrazione impressionante di schizofrenici, paranoici e nevrotici, roba che al confronto il manicomio è un’oasi di razionalità. Ma vi pare? In realtà basta scavare un po’ per scoprire che nello stesso quartiere, poco tempo prima, era stato individuato un giro di malaffare fondato sui falsi ciechi: 53 persone arrestate. Che i dispensatori di pensioni truffa abbiano solo pensato di cambiare specialità? Ma se è così, perché concentrarsi proprio sulla follia? Che sia un segno dei tempi? Nel febbraio 2011, nel quartiere Chiaia, viene fuori invece il filone dei tumori inventati: per intascare la pensione d’invalidità si fingevano malattie incurabili e, con l’aiuto di medici compiacenti, si trasformavano semplici nei in cancri maligni. Come se la truffa all’Inps non fosse, già di per sé, un cancro abbastanza maligno.
In effetti, sono almeno tre decenni che lottiamo contro i falsi invalidi. Senza grandi risultati, si direbbe. E pensare che verso la metà degli anni Ottanta, con l’ottimismo proprio dell’era craxiana, l’allora ministro competente, Gianni «balla balla» De Michelis, si diceva sicuro della vittoria finale. I giornali, in quel periodo, avevano sollevato la polemica sull’argomento, riempiendosi di grandi titoli a effetto: Invalida totale balla la mazurka; Cieco al 100 per cento vince il torneo di tennis; Zoppo vince la maratona; Anziana signora inabile al 70 per cento ottiene il porto d’armi; Sordo suona nella banda musicale; Sordomuto addetto al centralino…
All’epoca diventò quasi mitico il paesino di Militello Rosmarino, fra Messina e Palermo, dominato dalla dinastia Lo Re, in particolare dal celebre Vincenzo detto «Lo Re delle Pustole», che era riuscito a far avere, in quel centro di 1200 anime, oltre 500 pensioni di invalidità. Tutti sciancati a Militello, tutti monchi, accecati, tisici o poliomielitici, compresi un certo Biagio (invalido al 70 per cento per «reumatismo articolare e ipoacusia bilaterale di tipo trasmissivo») e un certo Giuseppe (invalido pure lui al 70 per cento per «ipoacusia trasmissiva bilaterale»), oltre che cieco («riduzione del visus») e storpio («artrosi lombosacrale»): Giuseppe e Biagio, però, nonostante questo carico di sciagure personali, ogni domenica sfidavano eroicamente il dolore per scendere in campo con la locale squadra di calcio. Che cosa non si fa per il pallone, eh? Fra l’altro, molti degli invalidi di Militello Rosmarino figuravano come domiciliati proprio a casa del «Re delle Pustole»: arrivavano da tutti i paesi del circondario e prendevano residenza lì. «Che cosa ci vuol fare, signor giudice?» disse Vincenzo quando fu portato in tribunale per spiegare l’anomala circostanza. «Lo sanno tutti che odio stare da solo…»
Grazie a follie come queste le pensioni d’invalidità erano arrivate a livelli record. Pensate che fino al 1983 la legge non prevedeva nemmeno la possibilità di un controllo: sei un finto zoppo? Lo resti per tutta la vita. Sei un finto orbo? Nessuno ti toglierà la pensione. E qui arrivò il primo intervento dei governi socialisti, conditi di craxismo e ottimismo. «Le false invalidità? Un problema del passato» proclamò De Michelis nel 1984, come se il tema potesse essere seppellito per sempre. Illuso. In realtà, il numero dei vitalizi pagati in nome della lesione fisica permanente continuò a crescere e nel 1989 raggiunse il record assoluto: 4.568.000, quasi 1 invalido ogni 10 persone. Fu allora che venne varato un nuovo intervento, decisamente più severo. E gli effetti, questa volta, si videro davvero: otto anni dopo, nel 1997, le pensioni d’invalidità erano scese a quota 3.418.528, nel 2002 erano arrivate addirittura a 1.766.785, un quarto di quelle che venivano pagate tredici anni prima. Poi, all’improvviso, un’altra inversione di rotta. Ricominciò la salita: nel 2003 le pensioni d’invalidità erano 1.834.208, due anni dopo tornavano a superare la barriera dei 2 milioni (2.101.896), quindi nel 2006 si assestavano a 2.391.994, e via via, sempre più in alto, come la grappa Bocchino, fino ad arrivare ai 2.862.509 del 2010, che non saranno i 4 milioni e passa di vent’anni fa ma, insomma, fanno già ben sperare. O, meglio, disperare. I casi, in effetti, sono due: o la fata nera della sfiga, dopo alcuni anni di distrazione, è tornata ad abbattersi sul nostro Paese, ripopolando le province di ciechi, storpi, sciancati e sordomuti, oppure qualcuno ciurla nel manico.
Comunque sia, in pochi anni la spesa per le pensioni d’invalidità, che si era ridotta in modo significativo, ha ripreso la sua tumultuosa impennata. Dai 6 miliardi di euro dei primi anni Duemila ai 16,1 miliardi del 2010. Fra l’altro con le solite differenze inspiegabili fra provincia e provincia, regione e regione, città e città: perché a Napoli c’è 1 pensione d’invalidità ogni 41 cittadini mentre a Lodi ce n’è 1 ogni 115 e a Varese 1 ogni 117? Sempre colpa della fata nera? O la sfiga in realtà ci vede benissimo? Perché in Campania viene erogato 1 assegno di accompagnamento ogni 28 abitanti e in Lombardia, invece, 1 ogni 40? Perché i titolari di pensione d’invalidità sono l’8,4 per cento degli abitanti di Nuoro e solo il 2,5 per cento di quelli di Milano? Perché i due terzi dei sussidi vengono erogati al Sud e invece nel Trentino, in tutto il 2009, è stata concessa una sola (leggasi: una) pensione d’invalidità?
A Taranto, dove c’è un invalido ogni due famiglie, hanno raccontato Paolo Griseri ed Emanuele Lauria sulla «Repubblica», la commissione di verifica dell’Inps ha rilevato cartelle mediche di sedicenti malati di mente che conducono aziende da soli. A Enna, medici incaricati di rivedere le invalidità concesse hanno scoperto malattie accertate nel 1980 e mai più verificate. E a Carlentini, nel Siracusano, è finito nei guai Francesco Zappalà, presidente della sezione dell’Anmic, l’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili: stando alle accuse, si appoggiava a un medico compiacente che rilasciava certificati a pacchi in cambio di voti alle elezioni. Una signora ci è rimasta male: «Pure mio marito è candidato…» ha protestato. Si è lamentata al telefono, è stata intercettata e ha raccontato tutto ai magistrati che hanno aperto un’inchiesta per voto di scambio: invalidità contro preferenze elettorali. «Le pensioni fasulle sono una miniera» confessa un medico anonimo alla «Repubblica» «producono almeno un deputato l’anno…»
Troppi scandali, troppe ingiustizie. Così nel 2009 è stato deciso (un’altra volta! come ai tempi di De Michelis!) un severo piano di controlli. Sono partite verifiche a tappeto in tutta Italia. Nel 2009 sono state esaminate 200.000 pensioni d’invalidità e ne sono state cancellate di botto 22.000 (cioè l’11 per cento). Nel 2010 ne sono state esaminate 100.000 e ne sono state cancellate di botto 23.000 (cioè il 23 per cento). Ciò significa che 1 indennità su 4, a quella data, veniva incassata indebitamente. Una su 4: non è poco, no? Dopo trent’anni di lotta contro le false invalidità, dopo che la battaglia è stata dichiarata vinta decine di volte… In alcune regioni, poi, i dati sono anche più impressionanti: sarebbe falsa 1 pensione su 2 (il 53 per cento) in Sardegna e in Umbria (il 47 per cento), poco di meno in Campania (il 43 per cento) e in Sicilia (il 42 per cento). A Napoli si tocca quota 55 per cento, a Cagliari il 64 per cento, a Benevento il 52 per cento. Mentre a Milano, per dire, nel 2010 sono state effettuate 2532 verifiche: le pensioni d’invalidità false erano solo 85 (il 3 per cento). Non è cambiato nulla, insomma. Anzi, le differenze fra le varie zone d’Italia sembrano aumentare con il passare del tempo, almeno da quando la competenza per l’accertamento dell’invalidità è passata alle Regioni, lasciando però l’onere finanziario in capo all’Inps: perfetto esempio di federalismo suicida, che deresponsabilizza gli enti locali. Permettendo alle amministrazioni meno virtuose di essere assai munifiche. Sempre e solo con i denari altrui, ovviamente.