PARTE SECONDA

I

L’oggetto della storia è la vita dei popoli e dell’umanità. Cogliere in modo immediato ed esprimere a parole, descrivere la vita non tanto dell’umanità ma di un popolo singolo, appare impossibile.

Tutti gli storici antichi usarono un unico metodo per descrivere e cogliere la vita di un popolo, che apparentemente è inafferrabile. Descrissero l’attività di singoli uomini che erano a capo di quel popolo e questa attività esemplificava per loro l’attività dell’intero popolo.

Alle domande in che modo singoli uomini potessero costringere i popoli ad agire secondo la loro volontà e da che cosa fosse a sua volta guidata la volontà di questi uomini, gli antichi rispondevano così: alla prima domanda, ammettendo una volontà divina che assoggettava i popoli alla volontà di un uomo eletto; e alla seconda domanda ammettendo che quella stessa divinità dirigesse la volontà dell’eletto a una meta predestinata.

Questi problemi venivano perciò risolti dagli antichi con la fede nell’intervento diretto della divinità alle opere e alle imprese del genere umano.

La storia moderna ha respinto nella sua teoria entrambe queste posizioni.

Sembrerebbe che, respinta la credenza degli antichi nella sottomissione degli uomini alla divinità e in un fine prestabilito, verso il quale sarebbero guidati i popoli, la storia moderna si sarebbe dovuta occupare non delle manifestazioni del potere, ma delle cause che lo rendono possibile. Ma questo non è avvenuto. Respinte in teoria le concezioni degli storici antichi, nella pratica continua a seguirle.

Al posto di uomini dotati di potere divino e direttamente guidati dalla volontà divina, la storia moderna ha messo o degli eroi dotati di capacità eccezionali, sovrumane, o semplicemente degli uomini di vario genere, dai monarchi ai giornalisti, che governano le masse. Al posto delle finalità di un tempo, gradite alla divinità, dei popoli ebreo, greco, romano, che agli antichi apparivano come finalità del movimento del genere umano, la storia moderna ha posto finalità proprie: il bene del popolo francese, tedesco, inglese e, nella sua più alta astrazione, il bene della civiltà di tutto il genere umano, con la qual cosa si intende di solito alludere ai popoli che occupano il piccolo angolo nord-occidentale di un grande continente.

La storia moderna ha respinto le credenze degli antichi senza sostituirle con nuove concezioni e la logica della loro posizione ha costretto gli storici, che avevano apparentemente rinnegato il potere divino dei re e il fato degli antichi, a giungere per altra via allo stesso punto, all’ammissione cioè che: 1) i popoli sono guidati da singoli uomini; 2) esiste un determinato scopo verso il quale muovono i popoli e il genere umano.

Tutte le opere degli storici moderni, da Gibbon a Buckle, nonostante l’apparente diversità di vedute e l’apparente novità delle loro opinioni, hanno alla base queste due vecchie e inevitabili tesi.

In primo luogo, lo storico descrive l’attività di singoli individui che a suo avviso dirigono il genere umano: uno considera tali soltanto i monarchi, i condottieri, i ministri, un altro, oltre ai monarchi, gli oratori, i riformatori, i filosofi e i poeti. In secondo luogo, lo scopo verso il quale l’umanità procede, è noto allo storico: per uno questo scopo è la grandezza dello stato romano, spagnolo o francese, per un altro è la libertà, l’uguaglianza, un certo genere di civiltà di un piccolo angolo del mondo chiamato Europa.

Nel 1789 si ha a Parigi un fermento; esso cresce, si espande e assume la forma di un movimento di popoli da occidente verso oriente. Questo movimento si dirige più volte verso oriente, entra in urto con un contromovimento da oriente a occidente: nel 1812 raggiunge il suo limite estremo, Mosca e, con singolare simmetria, si verifica allora un contromovimento da oriente a occidente, esattamente come nel primo movimento, trascinando con sé i popoli intermedi. Il movimento di ritorno raggiunge il punto di partenza del movimento nato in occidente, Parigi, e si acquieta.

In questo periodo di tempo - vent’anni - un’enorme quantità di campi non vengono arati, le case vengono bruciate, il commercio muta indirizzo, milioni di persone impoveriscono, arricchiscono, emigrano, e milioni di uomini, cristiani, che professano la legge dell’amore per il prossimo, si uccidono a vicenda.

Che cosa significa tutto questo? Perché è accaduto? Che cosa ha indotto questi uomini a incendiare le case e a uccidere i loro simili? Quali sono state le cause di questi avvenimenti? Quale forza ha indotto gli uomini ad agire in tal modo? Ecco le domande involontarie, ingenue e più che legittime che si pone il genere umano, quando si imbatte nei monumenti e nelle tradizioni di questo periodo di tempo ormai trascorso.

Per dare una risposta a queste domande l’umanità si rivolge alla scienza storica, che ha come scopo di far sì che i popoli e l’umanità conoscano se stessi.

Se la storia seguisse ancora le concezioni degli antichi, direbbe: la divinità, a ricompensa o a punizione del suo popolo, ha dato il potere a Napoleone e ha guidato la sua volontà verso il raggiungimento dei suoi scopi divini. E la risposta sarebbe chiara ed esauriente. Si poteva credere o non credere nel significato divino di Napoleone, ma per chi vi avesse creduto, in tutta la storia di questo periodo tutto sarebbe stato comprensibile e non vi sarebbe stato spazio per nessuna contraddizione.

Ma la storia moderna non può rispondere in questo modo. La scienza non ammette le concezioni degli antichi riguardo al diretto intervento della divinità nelle opere degli uomini ed è costretta a dare altre risposte.

La storia moderna, rispondendo a queste domande, dice: volete sapere che cosa significa questo movimento, da che cosa è stato prodotto, e quale forza ha provocato questi avvenimenti? Sentite:

«Luigi XIV era un uomo molto orgoglioso e supponente; aveva le tali amanti e i tali ministri e governò male la Francia. Gli eredi di Luigi XIV furono anche loro degli uomini deboli e governarono anche loro male. Ebbero le tali amanti e i tali favoriti. Inoltre alcuni uomini scrissero in quei tempi dei libri. Alla fine del XVIII secolo a Parigi si riunirono una ventina di persone che cominciarono a dire che tutti gli uomini sono liberi e uguali. Questi uomini uccisero il re e molti altri. In quella stessa epoca la Francia aveva un uomo geniale, Napoleone. Egli vinceva tutti ovunque, ossia ammazzava molta gente perché era molto geniale. E andò ad ammazzare, non si sa perché, gli africani e li ammazzò così bene e fu tanto astuto e intelligente che, tornato in Francia, ordinò a tutti di sottomettersi a lui. E tutti gli obbedirono. Diventato imperatore, andò di nuovo ad ammazzare gente in Italia, in Austria e in Prussia. E anche là ne uccise molta. In Russia intanto c’era l’imperatore Alessandro, il quale decise di restaurare l’ordine in Europa e perciò entrò in guerra con Napoleone. Ma nel 1807 ad un tratto fece amicizia con lui, e nel 1811 di nuovo litigò e di nuovo si misero entrambi ad ammazzare molta gente. E Napoleone guidò seicentomila uomini in Russia e occupò Mosca; ma poi all’improvviso scappò da Mosca e allora l’imperatore Alessandro, aiutato dai consigli di Stein e di altri, riunì i popoli d’Europa contro il perturbatore della sua quiete. Tutti gli alleati di Napoleone diventarono d’un tratto suoi nemici; e questo esercito marciò contro Napoleone che aveva raccolto nuove forze. Gli alleati sconfissero Napoleone, entrarono in Parigi, costrinsero Napoleone ad abdicare e lo spedirono nell’isola d’Elba, senza privarlo del titolo di imperatore e dimostrandogli grande rispetto sebbene cinque anni prima (e così un anno dopo) questi avvenimenti, lo considerassero tutti un bandito fuori legge. E salì al trono Luigi XVIII, che fino a quel momento sia i francesi che gli alleati avevano solo schernito. Napoleone, versando lacrime davanti alla sua vecchia Guardia, abdicò e andò in esilio. Poi abili statisti e diplomatici (in particolare Talleyrand, che era riuscito a sedersi prima di un altro in una certa poltrona e aveva ampliato in tal modo i confini della Francia) ebbero lunghi colloqui a Vienna, colloqui che resero i popoli felici o infelici. Ad un certo punto diplomatici e monarchi per poco non vennero a lite; ed erano già pronti a comandare di nuovo ai loro eserciti di ammazzarsi a vicenda; ma in quel momento Napoleone fece ritorno in Francia con un battaglione, e i francesi che tanto lo odiavano gli si sottomisero immediatamente tutti, dal primo all’ultimo. Ma i monarchi alleati se ne adontarono e andarono di nuovo a combattere contro i francesi. E vinsero il geniale Napoleone e lo trasferirono all’isola di Sant’Elena, giudicandolo di nuovo un bandito. E laggiù l’esiliato, separato da coloro che erano cari al suo cuore e dalla sua amata Francia, morì su uno scoglio di morte lenta e tramandò ai posteri le sue grandi imprese. E in Europa si affermò la reazione e tutti i sovrani ripresero di nuovo a opprimere i loro popoli.»

Sarebbe un errore credere che questa sia una presa in giro una caricatura dei racconti degli storici. Al contrario, ci siamo limitati ad esporre in modo molto attenuato quelle risposte contraddittorie che non rispondono alle domande, che ci dà tutta la storia, dai libri di memorie e di storie dei singoli stati fino alle storie universali e a quelle di nuovo genere - le storie della cultura - di quell’epoca.

La stranezza e la comicità di queste risposte dipendono dal fatto che la storia moderna è simile a un sordo che risponda a domande che nessuno gli rivolge.

Se il fine della storia è la descrizione del movimento dell’umanità e dei popoli, la prima domanda a cui occorre rispondere, altrimenti tutto il resto diventa incomprensibile, è la seguente: qual è la forza che muove i popoli? A questa domanda la storia moderna si affanna a risponderci o che Napoleone era molto geniale o che Luigi XIV era molto orgoglioso o che ci sono stati alcuni scrittori che hanno scritto alcuni libri.

Tutte cose che possono essere vere, e l’umanità è pronta a convenirne, ma non è questo che essa domanda. Tutto questo potrebbe essere interessante se noi ammettessimo un potere divino, fondato su se stesso e sempre eguale, che governa i popoli attraverso i Napoleoni, i Luigi e gli scrittori, ma noi non ammettiamo un potere del genere, e perciò, prima di parlare dei Napoleoni, dei Luigi e degli scrittori, bisogna dimostrare che esiste un legame tra queste persone e il movimento dei popoli.

Se in luogo del potere divino mettiamo un’altra forza, bisogna spiegare in che cosa consiste questa nuova forza, perché proprio in questa forza sta tutto l’interesse della storia.

La storia sembra supporre che questa forza si capisca da sé e sia nota a tutti. Ma nonostante tutta la buona volontà di riconoscere questa nuova forza come nota, chi leggerà molte opere storiche involontariamente dubiterà che questa nuova forza, interpretata in modo così diverso dagli stessi storici, sia a tutti perfettamente nota.

II

Qual è la forza che muove i popoli?

Gli scrittori di biografie particolari e gli storici di singoli popoli intendono questa forza come un potere inerente agli eroi e ai dominatori. Secondo le loro descrizioni, gli avvenimenti si verificano esclusivamente per volontà dei Napoleoni o degli Alessandri o, in genere, di quelle persone sulle quali lo storico concentra la sua attenzione. Le risposte che questo genere di storici danno alla domanda su quale sia la forza che muove gli avvenimenti sono soddisfacenti, ma solo finché si ha a che fare con un solo storico per ogni singolo avvenimento. Ma non appena gli storici di diverse nazionalità e concezioni cominciano a descrivere il medesimo avvenimento, le risposte che essi danno perdono subito ogni significato, perché questa forza viene interpretata da ognuno di loro non solo in modo diverso, ma spesso del tutto opposto. Uno storico afferma che un avvenimento fu causato dal potere di Napoleone, un altro afferma che è stato causato dal potere di Alessandro, un terzo dal potere di un altro personaggio. Oltre a ciò, gli storici di questo tipo si contraddicono l’un l’altro anche nelle spiegazioni che danno della forza sulla quale si basa il potere dello stesso personaggio. Thiers, bonapartista, dice che il potere di Napoleone era fondato sulla sua virtù e sulla sua genialità; Lanfrey repubblicano, dice che era fondato sulla sua canaglieria e sull’inganno del popolo. Cosicché gli storici di questo genere, distruggendo le posizioni l’uno dell’altro, con ciò stesso distruggono il concetto della forza che produce gli eventi e non danno nessuna risposta al quesito fondamentale della storia.

Gli storici di storie universali, che si devono occupare di tutti i popoli, sembrano riconoscere l’erroneità delle concezioni degli storici particolari riguardo alla forza che produce gli avvenimenti. Per essi questa forza non è un potere inerente agli eroi e ai capi, ma la considerano come il risultato di molte forze variamente dirette. Descrivendo una guerra o l’assoggettamento di un popolo, gli autori di storie universali non ricercano la causa dell’avvenimento nel potere di una singola persona, ma nell’interferenza reciproca delle azioni di molte persone collegate con l’avvenimento.

Secondo questa concezione, il potere dei personaggi storici, risultando come il prodotto di molte forze, non può più venir considerato come una forza che di per sé produce gli avvenimenti. Tuttavia, questi storici nella maggior parte dei casi impiegano di nuovo la concezione del potere come della forza che produce di per sé gli avvenimenti e che è con essi in rapporto di causa. Secondo la loro esposizione, ora il personaggio storico è un prodotto del suo tempo e il suo potere è solo il prodotto di varie forze; ora il suo potere è una forza che produce gli avvenimenti. Gervinus, Schlosser, per esempio, ed altri ancora, ora dimostrano che Napoleone è un prodotto della rivoluzione, delle idee del 1789 e così via, ora dicono apertamente che la campagna del 1812 e altri avvenimenti che sono loro sgraditi sono semplicemente il prodotto di una mal indirizzata volontà di Napoleone e che le stesse idee del 1789 vennero arrestate nel loro sviluppo dagli arbitri di Napoleone. Le idee della rivoluzione, l’orientamento generale degli avvenimenti produssero il potere di Napoleone. Ma il potere di Napoleone soffocò le idee della rivoluzione e l’orientamento generale degli avvenimenti.

Questa strana contraddizione non è affatto casuale. Non solo la si incontra da ogni passo, ma tutte le descrizioni degli autori di storie universali sono costituite da una serie conseguente di contraddizioni del genere. Questa contraddizione deriva dal fatto che dopo essersi addentrati nel terreno dell’analisi, questi storici si fermano a metà strada.

Per trovare le forze componenti di una risultante, è necessario che la somma delle componenti sia eguale alla risultante. Questa condizione non è mai rispettata dagli storici generali, e perciò, per spiegare la forza risultante, debbono necessariamente ammettere, oltre alle componenti che sono insufficienti, un’altra forza inspiegabile che agisce sulla risultante.

Lo storico particolare, descrivendo la campagna del 1813 o la restaurazione dei Borboni, dice apertamente che questi avvenimenti sono stati prodotti dalla volontà di Alessandro. Ma lo storico Gervinus, respingendo quest’opinione dello storico particolare, cerca di dimostrare che la campagna del 1813 e la restaurazione dei Borboni, oltre la volontà di Alessandro, ebbero come causa l’attività di Stein, di Metternich, di m.me de Staël, di Talleyrand, di Fichte, di Chateaubriand e di altri. La somma di queste componenti, però, cioè l’azione reciproca di Chateaubriand, di Talleyrand, di m.me de Staël e di altri, evidentemente non è eguale a tutta la risultante, e cioè a quel fenomeno per cui milioni di francesi si assoggettarono ai Borboni. Dal fatto che Chateaubriand, Talleyrand, m.me de Staël e altri si siano detti tra loro le tali e talaltre parole derivano soltanto i loro rapporti reciproci, ma non l’assoggettamento di milioni di uomini. E perciò, per spiegare in che modo da questi loro rapporti sia derivato l’assoggettamento di milioni di uomini, cioè come da componenti eguali soltanto ad una A sia derivata una risultante eguale a mille A, lo storico deve necessariamente ammettere di nuovo quella forza del potere che ha negato, riconoscendovi il risultato di forze molteplici, e cioè deve ammettere una forza inspiegabile che agisce sulla risultante. È ciò che fanno gli storici generali. E di conseguenza non solo contraddicono gli storici particolari, ma anche se stessi.

Gli abitanti delle campagne, non avendo un’idea chiara delle cause della pioggia, dicono, a seconda che desiderano la pioggia o il bel tempo, che il vento ha scacciato le nubi o che il vento ha portato le nubi. Non si comportano diversamente gli storici generali: a volte, quando gli garba, quando serve alla loro teoria, dicono che il potere è il risultato degli avvenimenti, altre volte, quando devono dimostrare qualcosa d’altro, dicono che il potere produce gli avvenimenti.

Un terzo tipo di storici, che si chiamano storici della cultura, seguendo la via tracciata dagli storici generali, che riconoscono spesso negli scrittori e nelle gran dame forze capaci di produrre gli avvenimenti, interpretano questa forza in modo completamente diverso. Essi la vedono nella cosiddetta cultura, nell’attività intellettuale.

Gli storici della cultura sono perfettamente conseguenti nei confronti dei loro predecessori, gli storici generali: poiché se è possibile spiegare gli avvenimenti storici col fatto che alcune persone sono state in questo o quel rapporto tra di loro, perché non spiegarli col fatto che alcune persone hanno scritto questi o quei libri? Questi storici, fra l’immenso numero di sintomi che accompagnano ogni fenomeno vivente, scelgono il sintomo dell’attività intellettuale e dicono che questo sintomo è la causa. Ma, nonostante tutti gli sforzi per dimostrare che la causa di un dato avvenimento è nella corrispettiva attività intellettuale, solo con molta fatica si può ammettere che tra l’attività intellettuale e il movimento dei popoli vi sia qualcosa di comune, ma non si potrà in nessun modo ammettere che sia l’attività intellettuale a dirigere le azioni degli uomini, poiché fenomeni come le terribili carneficine della rivoluzione francese, derivanti dalle prediche sull’uguaglianza degli uomini, o le guerre spietate e le repressioni, derivanti dalla predicazione dell’amore, sono in contrasto con questa supposizione.

Ma anche ammettendo che siano giuste tutte le astute e complesse elocubrazioni di cui abbondano queste storie; anche ammettendo che i popoli siano guidati da una certa forza indefinibile chiamata idea, il quesito fondamentale della storia o resta senza risposta, oppure all’antico potere dei monarchi e all’influenza dei consiglieri e di altre persone, introdotto dagli storici generali, si aggiunge ancora la nuova forza dell’idea, il cui nesso con le masse richiede una spiegazione. È possibile capire che Napoleone abbia avuto il potere e perciò quel certo evento si sia verificato; con un po’ di buona volontà si può anche capire che Napoleone, insieme con altre influenze, sia stato causa di un avvenimento; ma in che modo il libro Contrat social abbia fatto sì che i francesi si siano messi a massacrarsi a vicenda è una cosa che non può essere capita se non si spiega il nesso causale tra questa nuova forza e l’avvenimento.

Indubbiamente esiste un nesso tra tutto ciò che si trova a vivere in uno stesso periodo, e perciò esiste la possibilità di trovare un certo nesso fra l’attività intellettuale degli uomini e il loro movimento storico, così come si può trovare un nesso del genere tra il movimento dell’umanità e il commercio, l’artigianato, il giardinaggio e quel che volete. Ma è difficile capire perché l’attività intellettuale degli uomini appaia agli storici della cultura come la causa o l’espressione di tutto il movimento della storia. A una simile conclusione gli storici possono essere giunti solo in base a queste considerazioni: 1) la storia è scritta dai dotti, e perciò per loro è stato piacevole e naturale pensare che l’attività della loro categoria costituisca il fondamento del movimento di tutta l’umanità, come è naturale e piacevole pensare altrettanto per i commercianti, gli agricoltori, i soldati (e questo non risulta soltanto perché i commercianti e i soldati non scrivono libri di storia); 2) l’attività spirituale, l’istruzione, la civiltà, la cultura, l’idea, sono tutti concetti poco chiari, non ben definiti, sotto la cui copertura è molto comodo usare parole che hanno un significato ancora meno chiaro, e che sono facilmente applicabili a qualsiasi teoria.

Ma tralasciando di parlare del valore intrinseco di questo genere di storie (che forse saranno anche necessarie per qualcuno o per qualche cosa), le storie della cultura a cui si stanno sempre più riducendo tutte le storie universali, sono degne di nota per il fatto che, esaminando in modo serio e particolareggiato le varie dottrine religiose, filosofiche, politiche in quanto cause degli eventi, ogni volta che si trovano a dover descrivere un concreto fatto storico, come, per esempio, la campagna del 1812, lo descrivono involontariamente come un prodotto del potere, dicendo apertamente che la suddetta campagna è un prodotto della volontà di Napoleone. Esprimendosi così, gli storici della cultura involontariamente si contraddicono, o almeno dimostrano che quella nuova forza da loro escogitata non esprime gli eventi storici, e che l’unico mezzo per comprendere la storia è quel potere che essi non vorrebbero riconoscere.

III

Avanza una locomotiva. Si domanda: da che cosa è mossa? Un contadino dice: è il diavolo che la fa muovere. Un altro dice che la locomotiva avanza perché si muovono le ruote. Un terzo afferma che la causa del movimento è nel fumo portato via dal vento.

Il contadino è inconfutabile: ha escogitato una spiegazione totale. Per confutarlo, bisognerebbe che qualcuno gli dimostrasse che il diavolo non esiste o che un altro contadino gli spiegasse che non è il diavolo, ma il tedesco che fa muovere la locomotiva. Solo allora, dalle contraddizioni, si accorgerebbero di aver torto entrambi. Ma colui che afferma che la causa è nel movimento delle ruote si smentisce da sé, perché, una volta che si è inoltrato nel terreno dell’analisi, deve procedere sempre più oltre, e spiegare la causa del movimento delle ruote. E finché non sarà arrivato all’ultima causa del movimento della locomotiva, cioè al vapore compresso nella caldaia, non avrà il diritto di fermarsi nella ricerca della causa. Colui invece che ha spiegato il movimento della locomotiva col fumo spinto indietro dal vento, avendo notato che il movimento delle ruote non forniva la causa, ha preso il primo sintomo che gli è capitato sotto gli occhi e lo ha contrabbandato come causa.

L’unico concetto che può spiegare il movimento della locomotiva è il concetto di una forza eguale al movimento visibile.

L’unico concetto per mezzo del quale può essere spiegato il movimento dei popoli è il concetto di una forza eguale a tutto il movimento dei popoli.

E invece sotto questo concetto i vari storici intendono forze completamente diverse, ma tutte non eguali al movimento visibile. Alcuni vi vedono una forza direttamente inerente agli eroi, come il contadino vedeva il diavolo nella locomotiva; altri una forza derivante dà diverse altre forze, come il movimento delle ruote; altri ancora l’influsso intellettuale, come il fumo portato via dal vento.

Fino a quando si scriveranno le storie di singoli personaggi, siano essi i Cesari, gli Alessandri o i Luteri, e non la storia di tutti, di tutti gli uomini senza eccezioni che hanno preso parte agli avvenimenti, non sarà possibile descrivere il movimento del genere umano senza il concetto di una forza che induce gli uomini a indirizzare la loro attività verso un dato scopo. È l’unico concetto di questo genere noto agli storici è quello del potere.

Questo concetto è l’unica manovella per mezzo della quale si può manovrare il materiale storico così come oggi viene esposto, e chi spezza questa manovella, come ha fatto Buckle senza conoscere un altro metodo per affrontare il materiale storico, non fa che privarsi dell’ultima possibilità di servirsene. L’indispensabilità del concetto di potere per spiegare i fenomeni storici è dimostrata nel migliore dei modi dagli stessi storici generali e dagli storici della cultura che apparentemente respingono il concetto di potere, ma continuamente vi fanno ricorso.

La scienza storica, per quanto riguarda i problemi dell’umanità, è fino ad oggi simile al denaro in circolazione, alle banconote e alla moneta sonante. Le biografie e le storie dei singoli popoli sono simili alle banconote. Possono circolare e adempiere al loro ufficio senza danno per nessuno, anzi con utilità, finché non sorge la questione da che siano garantite. Basta dimenticare la questione in che modo la volontà degli eroi sia causa degli avvenimenti e le storie dei Thiers diventeranno interessanti. Ma come il dubbio sull’effettivo valore delle banconote sorge o dal fatto che essendo facile fabbricarle, si incominci a fabbricarne molte, o dal fatto che si voglia convertirle in oro, così sorge il dubbio sul reale valore delle storie di questo genere, o dal fatto che ne vengono fuori troppe, o dal fatto che qualcuno d’animo semplice si metta a chiedere: ma con quale forza Napoleone ha fatto questo? Vuole cioè convertire la cartamoneta corrente nell’oro puro di un concetto reale.

Gli storici generali e gli storici della cultura sono invece simili a uomini che avendo notato gli inconvenienti delle banconote, avessero deciso di fabbricare, invece della cartamoneta, moneta sonante con un metallo che non ha la consistenza dell’oro. La moneta effettivamente riuscirebbe sonante, ma solo sonante. La carta poteva ancora ingannare gli ignari, ma la moneta sonante ma non pregiata, non può ingannare nessuno. Così come l’oro è oro solo quando può essere usato non solo come mezzo di scambio, ma anche per farne oggetti, così anche gli storici generali saranno oro solo quando saranno in grado di rispondere al quesito essenziale della storia: che cos’è il potere? Gli storici generali per ora rispondono a questo quesito in modo contraddittorio, mentre gli storici della cultura lo eliminano del tutto, rispondendo a qualcosa di completamente diverso. E come i gettoni simili all’oro possono essere usati soltanto fra persone che sono d’accordo di riconoscerli come oro, così anche gli storici generali e gli storici della cultura, non rispondendo ai quesiti essenziali, posti loro dall’umanità, possono servire, per certi loro scopi, da moneta corrente per le università e per quella folla di lettori amanti dei libri seri, come essi amano chiamarli.

IV

Respinta la concezione degli antichi basata sulla soggezione, per volere divino, della volontà del popolo a un eletto e sulla soggezione di questa volontà alla divinità, la storia non può fare un solo passo avanti senza contraddirsi, a meno che non scelga una delle due alternative: o far ritorno all’antica credenza nell’intervento diretto della divinità nelle azioni umane, o chiarire con precisione il significato di quella forza che produce gli eventi storici e che si chiama potere.

Tornare al primo punto è impossibile: la credenza di un tempo è distrutta, e perciò è necessario spiegare il significato del potere.

Napoleone ordinò di adunare l’esercito e di andare alla guerra. Questo modo di raccontare le cose ci è talmente abituale, ci siamo talmente assuefatti a questo punto di vista, che chiedere come mai seicentomila uomini siano andati in guerra dopo che Napoleone ha detto certe parole ci sembra addirittura assurdo. Egli aveva il potere e perciò venne eseguito ciò che egli aveva ordinato.

Questa risposta è perfettamente soddisfacente se crediamo che il potere gli sia stato dato da Dio. Ma se non lo crediamo, si rende necessario definire che cosa sia questo potere di un uomo sugli altri.

Questo potere non può essere quel potere diretto dato dalla superiorità fisica di un forte su un debole, superiorità basata sull’impiego o sulla minaccia di impiego della forza fisica, come ad esempio il potere di Ercole; non può essere neanche fondato sulla superiorità della forza morale, come credono, anime semplici, alcuni storici, i quali sostengono che i personaggi storici sono degli eroi, cioè uomini dotati di una particolare forza d’animo e di mente chiamata genialità. Questo potere non può essere fondato sulla superiorità della forza morale, poiché, senza parlare di uomini-eroi, del tipo di Napoleone, sulle cui qualità morali le opinioni sono molto contrastanti, la storia ci mostra che né i Luigi XI, né i Metternich, che hanno governato milioni di uomini, si distinsero per una particolare forza spirituale, ma al contrario furono per la maggior parte moralmente più deboli di ognuno dei milioni di uomini che governarono.

Se la fonte del potere non sta nelle qualità fisiche né in quelle morali della persona che lo detiene, è evidente che la fonte di questo potere deve trovarsi al di fuori della persona, in quei rapporti con le masse in cui si trova la persona che detiene il potere.

Proprio così intende il potere la scienza del diritto, quella specie di banco di cambio della storia, che promette di convertire in oro puro il concetto storico del potere.

Il potere è la somma di tutte le volontà delle masse, trasferito per consenso esplicito o tacito sui governanti scelti dalle masse.

Nell’ambito della scienza del diritto, costituita di ragionamenti sull’assetto che dovrebbero avere lo stato e il potere, se fosse possibile dar loro un assetto, tutto ciò è molto chiaro, ma, qualora la si applichi alla storia, questa definizione del potere esige ulteriori chiarimenti.

La scienza del diritto considera lo stato e il potere come gli antichi consideravano il fuoco, come qualcosa di esistente in assoluto. Per la storia, invece, lo stato e il potere sono soltanto dei fenomeni, così come per la fisica del nostro tempo il fuoco non è un elemento, ma un fenomeno.

Da questa fondamentale differenza tra le concezioni della storia e della scienza del diritto deriva che la scienza del diritto può esprimersi dettagliatamente sull’assetto che a suo avviso bisognerebbe dare al potere e su che cosa sia un potere che esiste, immobile, al di fuori del tempo; ma è impotente a rispondere ai problemi storici sul significato di un potere che muta nel tempo.

Se il potere è la somma delle volontà delle masse trasmessa a chi governa, Pugačëv rappresenta dunque la volontà delle masse? Altrimenti, perché la rappresenta Napoleone I? Perché Napoleone III, quando fu catturato a Boulogne, fu considerato un delinquente, e poi lo divennero coloro che egli fece catturare?

Nelle rivoluzioni di palazzo, alle quali prendono parte a volte due o tre persone, la volontà delle masse si trasferisce sul nuovo personaggio? Nei rapporti internazionali, la volontà delle masse di un popolo si trasferisce sul conquistatore di questo popolo? Nel 1808 la volontà della Confederazione renana si trasferì forse su Napoleone? La volontà della massa del popolo russo si trasferì su Napoleone durante il 1809 quando le nostre truppe, alleate ai francesi, marciarono contro l’Austria?

A queste domande si può rispondere in tre modi:

1) riconoscendo che la volontà delle masse si trasferisce sempre incondizionatamente su quel o quei governanti che esse hanno scelto, e che perciò ogni insorgere di un nuovo potere, ogni lotta contro un potere già trasferito deve essere considerato soltanto come una distruzione del vero potere;

2) riconoscendo che la volontà delle masse si trasferisce sui governanti condizionatamente, a condizioni ben note e determinate, e dimostrando che tutte queste limitazioni, questi urti e anche queste distruzioni del potere derivano dalla inosservanza da parte dei governanti di quelle condizioni sotto le quali il potere è stato loro affidato;

3) riconoscendo che la volontà delle masse si trasferisce sui governanti condizionatamente, ma a condizioni non note e determinate, e che l’insorgere di molti poteri, le loro lotte e la loro caduta derivano soltanto dalla maggiore o minore osservanza da parte dei governanti di quelle condizioni ignote, in virtù delle quali si trasferiscono da certe persone a certe altre le volontà delle masse.

E proprio in questi tre modi gli storici spiegano i rapporti tra le masse e i governanti.

Alcuni storici, non comprendendo nella loro semplicità di spirito, il problema del significato del potere - e alludiamo a quegli scrittori di storie particolari e di biografie di cui si è parlato più sopra - sembrano riconoscere che la somma delle volontà delle masse si trasferisce sui personaggi storici incondizionatamente, e perciò, descrivendo un qualsiasi potere, questi storici suppongono che questo potere sia l’unico assoluto e autentico e che ogni altra forza che si contrappone ad esso non sia un potere, ma una distruzione del potere, una violenza.

La loro teoria, buona per i periodi storici primitivi o pacifici, quando invece la si applica ai periodi complessi e tempestosi della vita dei popoli, quando sorgono contemporaneamente e lottano fra di loro diversi poteri, ha questo inconveniente, che lo storico legittimista dimostrerà che la Convenzione, il Direttorio e Bonaparte sono stati soltanto violazioni del potere, mentre il repubblicano e il bonapartista dimostreranno il primo che la Convenzione e il secondo che l’Impero erano il vero potere e che tutto il resto è stato una violazione del potere. È evidente che in tal modo, smentendosi reciprocamente, le spiegazioni del potere date da questi storici sarebbero buone solo per bambini in tenera età.

Riconoscendo la falsità di questo modo di vedere la storia, un altro gruppo di storici sostiene che il potere si fonda sulla trasmissione condizionata della somma delle volontà delle masse ai governanti e che i personaggi storici hanno il potere solo a condizione di eseguire il programma che per tacita intesa è stato deferito loro dalla volontà del popolo. Ma gli storici non ci dicono in che consista questo programma condizionante, o, se ce lo dicono, si contraddicono continuamente tra di loro.

A ognuno di questi storici, a seconda del suo punto dì vista di ciò che costituisce lo scopo del movimento, questo programma sembra consistere nella grandezza, nella ricchezza, nella libertà, nell’istruzione dei cittadini della Francia o di un altro stato. Ma, senza parlare delle contraddizioni fra gli storici nel concepire questo programma, anche ammettendo che esista un programma comune a tutti, i fatti storici contraddicono sempre questa teoria. Se le condizioni sotto le quali si trasmette il potere consistono nella ricchezza, nella libertà, nell’istruzione del popolo, perché i Luigi XIV e gli Ivan IV portano tranquillamente a termine il oro regno, mentre i Luigi XVI e i Carlo I sono giustiziati dai loro popoli? A questa domanda gli storici rispondono dicendo che l’attività di Luigi XIV, contraria al programma, si ripercosse su Luigi XVI. Ma perché mai non si ripercosse su Luigi XIV e XV; perché doveva proprio ripercuotersi su Luigi XVI? E quale è il termine di scadenza di questa ripercussione? A queste domande non ci sono e non ci possono essere risposte. E altrettanto poco si spiega, in questa teoria, la causa del fatto che la somma delle volontà resti per secoli nelle mani dei governanti e dei loro successori, e poi ad un tratto, nel giro di cinquant’anni, venga ceduto alla Convenzione, al Direttorio, a Napoleone, ad Alessandro, a Luigi XVIII, di nuovo a Napoleone, a Carlo X, a Luigi Filippo, al governo repubblicano, a Napoleone III. Nello spiegare questi rapidi passaggi della volontà dei sudditi da un personaggio all’altro, e specialmente per quanto riguarda le relazioni internazionali, le conquiste e le alleanze, questi storici devono involontariamente ammettere che parte di questi fenomeni non costituiscono già più un legittimo trasferimento della volontà, ma semplici fatti fortuiti dipendenti ora dall’astuzia, ora dagli errori o dalla perfidia, o dalla debolezza di un diplomatico o di un monarca o di un capopartito. Cosicché la maggior parte dei fenomeni della storia: guerre intestine, rivoluzioni, conquiste, non sono rappresentati da questi storici come prodotti della trasmissione di libere volontà, ma come il prodotto della volontà mal diretta di uno o più uomini, e cioè, di nuovo, come violazioni del potere. E per questo anche questo gruppo di storici presenta gli eventi storici come deviazioni della teoria.

Questi storici sono simili a quel botanico che, avendo notato che certe piante escono dal seme con due cotiledoni, sostenesse che tutto quanto cresce, cresce soltanto sdoppiandosi in due cotiledoni, e che la palma e il fungo, e persino la quercia, ramificandosi nel loro pieno sviluppo e non avendo più la forma di due cotiledoni, sono eccezioni alla teoria.

Un terzo gruppo di storici riconosce che la volontà delle masse si trasmette ai personaggi storici condizionatamente, ma che queste condizioni ci sono ignote. Essi dicono che i personaggi storici hanno il potere solo perché eseguono la volontà delle masse, che si è trasferita su di loro.

Ma in tal caso, se la forza che muove i popoli non risiede nei personaggi storici, ma nei popoli stessi, in che cosa consiste il significato di questi personaggi storici?

Questi personaggi, dicono questi storici, esprimono la volontà delle masse; la loro attività rappresenta l’attività delle masse.

Ma in tal caso sorge la domanda: tutta l’attività dei personaggi storici è espressione della volontà delle masse o solo una certa parte di quest’attività? Se tutta l’attività dei personaggi storici è espressione della volontà delle masse, come pensano alcuni, le biografie dei Napoleoni e delle Caterine, con tutti i particolari dei pettegolezzi di corte, sono espressioni della vita dei popoli; cosa palesemente assurda; se invece solo un aspetto dell’attività di un personaggio storico è espressione della vita dei popoli, come pensano altri presunti filosofi della storia, per stabilire quale sia l’aspetto dell’attività del personaggio storico che esprime la vita del popolo occorre prima sapere in che consista la vita del popolo.

Imbattendosi in questa difficoltà, gli storici di questo gruppo escogitano la più oscura, impalpabile e generica delle astrazioni alla quale si possa ricondurre il maggior numero di eventi e dicono che in questa astrazione è contenuto lo scopo del movimento dell’umanità. Le astrazioni più comuni accettate da quasi tutti gli storici sono: la libertà, l’uguaglianza, l’istruzione, il progresso, la civiltà, la cultura. Avendo fissato come scopo del movimento del genere umano una qualsiasi astrazione, gli storici studiano gli uomini che hanno lasciato dietro di sé il maggior numero di ricordi: re, ministri, condottieri, scrittori, riformatori, papi, giornalisti, nella misura in cui tutti questi personaggi, a loro avviso, hanno favorito o contrastato quella data astrazione. Ma siccome nulla dimostra che lo scopo del genere umano consista nella libertà, nell’uguaglianza, nell’istruzione o nella civiltà e siccome il legame delle masse con i governanti e gli illuminati del genere umano è fondata solo sull’arbitraria supposizione che la somma delle volontà delle masse si trasmetta sempre alle persone che notiamo di più, l’attività di milioni di uomini che emigrano, incendiano, abbandonano l’agricoltura, si annientano a vicenda non si esprime mai nella descrizione dell’attività di una decina di persone che non incendiano case, non si occupano di agricoltura, non uccidono i loro simili.

La storia ce lo dimostra ad ogni passo. Il fermento dei popoli dell’occidente alla fine del secolo scorso e il loro tendere verso oriente sono forse spiegati dall’attività di Luigi XIV, XV e XVI, delle loro amanti, dei loro ministri, o dalla vita di Napoleone, di Rousseau, di Diderot, di Beaumarchais e di altri?

Il movimento del popolo russo verso oriente, verso Kazan’ e la Siberia trova forse espressione nei particolari del carattere morboso di Ivan IV e nella sua corrispondenza con Kurbskij?

Il movimento dei popoli durante le crociate si spiega forse studiando la vita dei Goffredi e dei Luigi e delle loro dame? Per noi è rimasto incomprensibile il movimento dei popoli da occidente a oriente, senza alcuno scopo, senza una guida, con una folla di vagabondi con Pietro l’Eremita. E ancor più è rimasta incomprensibile la cessazione di questo movimento proprio quando i protagonisti della storia avevano chiaramente stabilito uno scopo ragionevole e santo alle crociate: la liberazione di Gerusalemme. Papi, re e cavalieri incitavano il popolo alla liberazione della Terra Santa, ma il popolo non ci andava, perché quella causa ignota che lo aveva indotto prima al movimento non esisteva più. La storia dei Goffredo e dei maestri cantori non può evidentemente contenere in sé la vita dei popoli la storia dei Goffredo e dei maestri cantori, mentre la storia della vita dei popoli e dei loro impulsi è rimasta sconosciuta.

Ancor meno ci spiega la vita dei popoli la storia degli scrittori e dei riformatori.

La storia della cultura ci spiega gli impulsi, le condizioni di vita e le idee di uno scrittore o di un riformatore. Veniamo a sapere che Lutero aveva un carattere irascibile e che faceva i tali discorsi, veniamo a sapere che Rousseau era diffidente e che ha scritto i tali e i talaltri libri, ma non veniamo a sapere perché dopo la Riforma í popoli si massacrassero, e perché durante la rivoluzione francese avvenisse altrettanto.

Se si uniscono questi due tipi di storia, come fanno gli storici più moderni, avremo una storia di monarchi e di scrittori, ma non la storia della vita dei popoli.

V

La vita dei popoli non può essere racchiusa nella vita di alcuni uomini, poiché il legame che intercorre fra questi pochi uomini e i popoli non è stato trovato. La teoria secondo la quale questo legame è fondato sul trasferimento della somma delle volontà ai personaggi storici è un’ipotesi non confermata dall’esperienza storica.

La teoria che la somma delle volontà delle masse si trasferisce sui personaggi storici può forse spiegare molte cose nel campo della scienza del diritto e forse è necessaria ai suoi fini, ma applicata alla storia, appena insorgono rivoluzioni, conquiste, guerre civili, non appena insomma comincia la storia, questa teoria non spiega nulla.

Questa teoria sembra inconfutabile proprio perché l’atto di trasmissione della volontà del popolo non può essere sottoposto a verifica, dato che non è mai esistito.

Qualunque avvenimento si verifichi, chiunque si metta alla testa dell’avvenimento, la teoria può sempre dire che il dato personaggio si è messo alla testa dell’avvenimento perché la somma delle volontà si era trasferita su di lui.

Le risposte date da questa teoria ai problemi della storia sono simili alle risposte di un uomo che guardando una mandria in movimento e non prendendo in considerazione né la diversa bontà del pascolo nei vari punti del terreno, né i movimenti del pastore, cercasse le cause di questa o quella direzione presa dalla mandria basandosi sull’animale che procede in testa alla mandria.

«La mandria va in quella direzione perché la bestia che procede in testa la guida lì e la somma delle volontà di tutti gli altri animali è trasmessa a questo che guida la mandria.» Così risponde la prima categoria di storici, i quali ammettono la trasmissione incondizionata del potere.

«Se gli animali che camminano in testa alla mandria cambiano, questo accade perché la somma delle volontà di tutti gli animali si trasmette da una guida all’altra, a seconda che quell’animale guidi o no nella direzione scelta da tutta la mandria.» Così rispondono gli storici che ammettono che la somma delle volontà delle masse si trasmette ai governanti a determinate condizioni, che essi ritengono note. (Secondo questo genere di osservazioni capita molto spesso che l’osservatore, basandosi sulla direzione da lui scelta, consideri come guide quelli che, in seguito a cambiamenti nella direzione delle masse, non sono più in testa, ma di fianco e talvolta in coda).

«Se gli animali che stanno in testa al gregge cambiano continuamente e continuamente cambia la direzione di tutto il gregge, ciò accade perché, per ottenere la direzione che ci è nota, gli animali trasmettono le loro volontà a quegli animali che noi vediamo meglio, e per studiare il movimento del gregge bisogna osservare tutti gli animali che ci colpiscono di più e che si muovono da tutti i lati del gregge.» Così dicono gli storici della terza categoria, che considerano espressioni del loro tempo tutti i personaggi storici, dai monarchi ai giornalisti.

La teoria della trasmissione della volontà delle masse ai personaggi storici è soltanto una perifrasi, un’enunciazione con altre parole degli stessi termini del problema.

Qual è la causa degli avvenimenti storici? Il potere. Che cosa è il potere? Il potere è la somma delle volontà trasmesse a una sola persona. A quali condizioni si trasmettono le volontà delle masse a una sola persona? Alla condizione che quella data persona esprima le volontà di tutti gli uomini. Insomma il potere è il potere. Insomma il potere è una parola il cui significato ci è incomprensibile.

Se il campo della conoscenza umana si limitasse al solo pensiero astratto, dopo aver sottoposto a critica la spiegazione che del potere ci dà la scienza, l’umanità arriverebbe alla conclusione che il potere è soltanto una parola e che non esiste nella realtà. Ma, oltre al pensiero astratto, l’uomo, per conoscere i fenomeni, dispone dell’esperienza, con la quale verifica i risultati del pensiero. E l’esperienza dice che il potere non è una parola, ma un fenomeno realmente esistente.

A parte il fatto che nessuna descrizione dell’attività collettiva degli uomini può fare a meno del concetto di potere, l’esistenza del potere è dimostrata sia dalla storia che dall’osservazione degli avvenimenti contemporanei.

Quando si verifica un avvenimento, appare sempre un uomo o diversi uomini, secondo la volontà dei quali l’avvenimento sembra accadere. Napoleone III ordina e i francesi vanno nel Messico. Il re di Prussia e Bismarck ordinano e le truppe vanno in Boemia. Napoleone I ordina e le truppe vanno in Russia. Alessandro I ordina e i francesi si assoggettano ai Borboni. L’esperienza ci dimostra che qualsiasi avvenimento si verifichi, esso è sempre collegato con la volontà di uno o più uomini che l’hanno ordinato.

Per la vecchia abitudine di vedere l’intervento divino nelle azioni umane, gli storici vogliono vedere la causa di un evento nella manifestazione della volontà della persona investita del potere; ma questa conclusione non è confermata né dal ragionamento, né dall’esperienza.

Da una parte il ragionamento ci dimostra che l’espressione della volontà di un individuo - le sue parole - è soltanto una parte dell’attività generale che si esprime in un avvenimento, come per esempio in una guerra o in una rivoluzione; e perciò, se non si ammette una forza incomprensibile e soprannaturale - un prodigio - non si può sostenere che le parole possano essere la causa diretta del movimento di milioni di uomini; d’altra parte, se anche si ammette che le parole possano essere la causa di un evento, la storia dimostra che le espressioni della volontà dei personaggi storici nella maggior parte dei casi non producono alcun effetto, che cioè sovente i loro ordini non solo non vengono eseguiti, ma a volte accade persino proprio l’opposto di ciò che essi hanno ordinato.

Se non ammettiamo l’intervento divino nelle azioni umane, non possiamo considerare il potere come la causa degli eventi.

Il potere, dal punto di vista dell’esperienza, è soltanto un rapporto di dipendenza tra l’espressione della volontà di una persona e l’esecuzione di questa volontà da parte degli altri uomini.

Per spiegarci le condizioni di questa dipendenza dobbiamo anzitutto ripristinare il concetto di espressione della volontà, riferendolo all’uomo e non alla divinità.

Se la divinità dà un ordine, esprime la propria volontà, come ci mostra la storia degli antichi, l’espressione di questa volontà non dipende dal tempo e non è provocata da nulla, dato che la divinità non è in alcun modo legata agli avvenimenti. Ma, parlando di ordini, che sono l’espressione della volontà di uomini i quali operano nel tempo e sono legati fra di loro, per spiegarci il nesso fra gli ordini e gli avvenimenti, noi dobbiamo ripristinare: 1) la condizione di tutto ciò che accade: la continuità del movimento nel tempo tanto degli eventi quanto del singolo che dà gli ordini; e 2) la condizione del legame necessario in cui si trova chi dà gli ordini nei confronti di chi li esegue.

VI

Soltanto l’espressione della volontà divina, che non dipende dal tempo, può riferirsi a tutta una serie di eventi destinati a compiersi dopo diversi anni o secoli, e soltanto la divinità, da nulla indotta, può determinare, unicamente in base alla sua volontà, la direzione del movimento dell’umanità; l’uomo, invece, opera nel tempo e partecipa di persona agli eventi.

Ripristinando la prima condizione dimenticata, la condizione del tempo, noi vedremo che nessun ordine può essere eseguito senza che vi sia un ordine precedente che renda possibile l’esecuzione dell’ordine successivo.

Nessun ordine appare mai arbitrariamente e nessun ordine include in sé tutta una serie di avvenimenti; bensì ogni ordine deriva da un altro e non si riferisce mai a tutta una serie di eventi, ma sempre e soltanto a un solo momento dell’avvenimento.

Quando diciamo, per esempio, che Napoleone ordinò alle truppe di andare in guerra, noi riuniamo in un unico ordine, espresso in un dato momento, tutta una serie di ordini consecutivi, dipendenti l’uno dall’altro. Napoleone non poteva ordinare la campagna di Russia e non la ordinò mai. Ordinò oggi di scrivere certe carte a Vienna, a Berlino, a Pietroburgo; l’indomani, certi decreti e ordini per l’esercito, la flotta e l’intendenza, e così di questo passo: milioni di ordini che formarono una serie di ordini corrispondenti a una serie di avvenimenti che portarono le truppe francesi in Russia.

Se Napoleone durante tutto il periodo del suo regno dà ordini per la spedizione in Inghilterra, e per nessun’altra delle sue imprese spende tanti sforzi e tanto tempo, e tuttavia, ciò nonostante, non tenta neanche una volta di realizzare il suo progetto, ma compie invece la spedizione in Russia, - con la quale, secondo una convinzione da lui espressa più volte, ritiene vantaggioso essere alleato - questo accade perché i primi ordini non corrispondevano, mentre i secondi corrispondevano a una serie di avvenimenti.

Perché un ordine venga sicuramente eseguito occorre che un uomo impartisca un ordine che possa essere eseguito. Ma sapere ciò che possa e ciò che non possa essere eseguito è impossibile, non solo per la campagna napoleonica in Russia, alla quale presero parte milioni di uomini, ma anche per l’avvenimento meno complesso, giacché per l’esecuzione dell’uno e dell’altro ordine ci si può sempre imbattere in milioni di ostacoli. Per ogni ordine eseguito ve ne sono sempre moltissimi che non vengono eseguiti. Tutti gli ordini impossibili non si legano con l’avvenimento e non vengono eseguiti. Soltanto quelli che sono possibili si legano in una serie consecutiva di ordini, corrispondenti a serie di avvenimenti, e vengono eseguiti.

La nostra erronea impressione che l’ordine che precede l’avvenimento sia la causa dell’avvenimento stesso, deriva dal fatto che quando l’avvenimento si è compiuto e tra migliaia di ordini sono stati eseguiti soltanto quelli che si legavano con gli avvenimenti, noi dimentichiamo tutti gli altri ordini che non sono stati eseguiti, perché non potevano esserlo. Inoltre, la fonte principale del nostro errore in questo proposito deriva dal fatto che, nell’esposizione storica, tutta una serie di innumerevoli, svariati, minimi avvenimenti, come, per esempio, quella che portò le truppe francesi in Russia, viene generalizzato in un unico avvenimento in base al risultato che questa serie di avvenimenti ha prodotto e, conformemente a questa generalizzazione, si generalizza anche tutta la serie di ordini in un’unica manifestazione della volontà.

Noi diciamo: Napoleone volle e fece la campagna in Russia. In realtà, non troveremo mai in tutta l’attività di Napoleone nulla che rassomiglia all’espressione di questa volontà, mentre vedremo una serie di ordini o di manifestazioni della sua volontà, dirette nel modo più vario e indeterminato. Dalla serie innumerevole di ordini di Napoleone non eseguiti venne a formarsi la serie di ordini che furono eseguiti per la campagna del 1812, non perché questi ordini ultimi in qualcosa differissero dagli altri non eseguiti, ma perché la serie di questi ordini coincise con la serie di avvenimenti che portarono le truppe francesi in Russia, così come disegnavano con uno stampo l’una o l’altra figura non ha importanza la maniera o la direzione in cui vi sono stati distesi i colori, ma quella figura intagliata nello stampo nel quale il colore è stato disteso da tutte le parti.

Cosicché, esaminando nel tempo il rapporto fra gli ordini e gli avvenimenti noi troviamo che un ordine non può essere in alcun caso la causa dell’avvenimento, ma che fra l’uno e l’altro esiste una certa determinata dipendenza.

Per capire in che cosa consista questa dipendenza è necessario ristabilire un’altra condizione dimenticata di ogni ordine che non provenga dalla divinità, ma dall’uomo, e consistente nel fatto che l’uomo stesso che ordina partecipa all’avvenimento.

Appunto questo rapporto fra chi ordina e coloro a cui l’ordine viene dato costituisce ciò che si chiama potere. Questo rapporto consiste in quanto segue:

Per svolgere un’attività collettiva gli uomini si raggruppano sempre in determinate associazioni, nelle quali, nonostante la differenza dello scopo che si propone l’azione collettiva, il rapporto fra gli uomini che partecipano all’azione rimane sempre identico.

Raggruppandosi in queste associazioni, gli uomini si mettono sempre fra loro in un rapporto tale per cui la maggior parte prende parte nel modo più diretto e una parte minore prende parte in modo meno diretto a quell’azione collettiva per la quale si uniscono.

Di tutte queste associazioni nelle quali gli uomini si raggruppano per compiere azioni collettive una delle più precise e definite è l’esercito.

Ogni esercito è composto da membri inferiori in quanto a grado militare: i soldati semplici che sono sempre il maggior numero; di graduati: caporali e sottufficiali, il cui numero è inferiore ai primi; di superiori di grado che sono ancor meno numerosi, e così via, fino alla suprema autorità militare che si concentra in una sola persona.

L’ordinamento militare può essere rappresentato in modo perfettamente esatto da un cono nel quale la base con il diametro maggiore è formata dai soldati semplici; la sezione che sta sopra la base, meno ampia, dai gradi superiori dell’esercito e così via fino al vertice del cono, il cui vertice sarà costituito dal comandante in capo.

I soldati, che sono il maggior numero, costituiscono i punti più bassi del cono e la sua base. Il soldato di persona infilza, squarcia, brucia, depreda e riceve sempre per queste azioni un ordine dei - superiori; ma non dà mai ordini. Il sottufficiale (il numero dei sottufficiali è già minore) passa più di rado all’azione che non il soldato, ma già dà ordini. L’ufficiale ancora più di rado compie direttamente l’azione e ancor più spesso dà ordini. Il generale, ordina alle truppe di marciare, indicando l’obiettivo, e non usa quasi mai le armi. Il comandante in capo non può mai prender parte di persona all’azione e si limita a dare soltanto le disposizioni generali per il movimento delle masse. Lo stesso rapporto degli uomini fra di loro si verifica in ogni raggruppamento di persone che mirano a un’attività comune: nell’agricoltura, nel commercio e in ogni amministrazione.

E così, senza dividere artificiosamente tutti i punti del cono, che si fondono insieme, cioè tutti i gradi dell’esercito, o gli incarichi e le posizioni di qualsiasi amministrazione, o impresa comune, dagli infimi ai superiori, si delinea una legge in base alla quale, per compiere azioni collettive, gli uomini si raggruppano tra loro in un certo rapporto per cui, quanto più direttamente partecipano alla realizzazione dell’azione, tanto meno possono dar ordini e tanto maggiore è il loro numero; e viceversa quanto minore è la partecipazione diretta che prendono all’azione stessa, tanto più danno ordini e tanto minore è il loro numero; ascendendo in tal modo dagli strati inferiori fino a quell’ultima e unica persona che prende minor parte all’avvenimento e più di tutti concentra la sua attività nel comando.

Questo rapporto tra le persone che ordinano e quelle a cui gli ordini vengono dati costituisce l’essenza del concetto di potere.

Ristabilendo le condizioni di tempo in cui avvengono tutti gli avvenimenti, abbiamo trovato, che l’ordine viene eseguito solo quando si riferisce a una corrispondente serie di eventi. Ristabilendo poi la necessaria condizione del legame fra chi ordina e chi esegue, abbiamo trovato che, per la loro stessa natura, coloro che ordinano prendono patte minore all’avvenimento e che la loro attività è esclusivamente rivolta a impartire ordini.

VII

Quando si svolge un avvenimento qualsiasi, gli uomini esprimono le loro opinioni e i loro desideri al riguardo e, poiché l’evento scaturisce da un’azione collettiva di molti uomini, una delle opinioni o dei desideri che vengono espressi immancabilmente si realizza, anche se in modo approssimativo. Quando una delle opinioni espresse si avvera, questa opinione si lega all’avvenimento come un ordine che lo ha preceduto.

Alcuni uomini trasportano una trave. Ciascuno esprime la sua opinione sul modo e dove trasportarla. Gli uomini trasportano la trave e risulta che la cosa è stata fatta come ha detto uno di loro. Lui ha dato l’ordine. Ecco l’ordine e il potere nel loro aspetto primitivo.

Chi più ha lavorato di braccia, meno ha potuto riflettere su ciò che faceva e considerare ciò che poteva risultare dall’azione comune, e dar ordini. Chi più ha dato ordini, occupato con le parole, evidentemente meno ha potuto agire con le braccia. E maggiore è il numero di uomini che dirigono la loro azione verso un dato fine, ancora più nettamente spicca una categoria di uomini che tanto meno prendono una parte diretta all’attività comune quanto più la loro attività si concentra nell’impartire ordini.

L’uomo, quando agisce da solo, si porta sempre dentro di sé una certa serie di considerazioni che hanno guidato - così gli sembra - la sua attività passata che gli servono da giustificazione per la sua attività presente e che lo guidano nel progettare le azioni future.

Esattamente lo stesso fanno gli uomini quando si radunano in molti lasciando a coloro che non partecipano all’azione di escogitare considerazioni, giustificazioni e congetture riguardo alla loro attività comune.

Per cause a noi note o ignote i francesi cominciano a massacrarsi e a scannarsi a vicenda. E questo avvenimento è accompagnato da una giustificazione che gli corrisponde, la volontà espressa dagli uomini circa il fatto che esso è necessario per il bene della Francia, per la libertà e per l’eguaglianza. Gli uomini smettono di scannarsi a vicenda e questo avvenimento è accompagnato da una giustificazione; la necessità dell’unità del potere, della resistenza all’Europa e così via. Uomini vanno da oriente a occidente, uccidendo i loro simili, e quest’avvenimento è accompagnato - a mo’ di giustificazione - da frasi sulla gloria della Francia, la bassezza dell’Inghilterra e così via. La storia ci dimostra che queste giustificazioni di un avvenimento non hanno alcun senso generale e si contraddicono fra loro, come l’uccisione di un uomo in conseguenza del riconoscimento dei suoi diritti, e l’uccisione di milioni di uomini in Russia allo scopo di umiliare l’Inghilterra. Ma queste giustificazioni per i contemporanei sono indispensabili.

Queste giustificazioni tolgono ogni responsabilità morale agli uomini che producono gli avvenimenti. Questi scopi temporanei sono simili alle spazzole che procedono davanti al treno per sgomberare la via lungo i binari: rimuovono dal cammino la responsabilità morale degli uomini. Senza queste giustificazioni non si potrebbe spiegare la domanda più semplice che si presenta quando esaminiamo un evento qualsiasi: come mai milioni di uomini compiono delitti collettivi, guerre, omicidi, ecc.?

Date le attuali complesse forme della vita statale e sociale in Europa, è forse possibile immaginare un qualsiasi avvenimento che non sia prescritto, indicato, ordinato da sovrani, ministri, parlamenti, giornali? Esiste una qualche azione collettiva che non abbia trovato giustificazione nell’unità dello stato, nella nazionalità, nell’equilibrio europeo, nella civiltà? Cosicché ogni evento accaduto coincide inevitabilmente con qualche desiderio espresso e, ricevendo una sua giustificazione, si presenta come il prodotto della volontà di una o più persone.

Ovunque si diriga una nave in movimento, si vedrà sempre davanti a essa il flusso delle onde che essa fende. Per gli uomini che si trovano sulla nave il movimento di questo flusso sarà l’unico movimento visibile.

Soltanto guardando da vicino, momento per momento, il movimento di questo flusso e paragonando questo movimento con il movimento della nave, ci convinceremo che ogni istante del movimento del flusso è determinato dal movimento della nave e che siamo stati indotti in errore dal fatto che noi stessi senza accorgercene ci muoviamo.

Notiamo la stessa cosa seguendo momento per momento il movimento dei personaggi storici (ossia ristabilendo la condizione necessaria di tutto ciò che accade: la condizione della continuità del movimento nel tempo) e non tralasciando di badare al necessario legame dei personaggi storici con le masse.

Quando la nave procede in un’unica direzione, davanti ad essa si trova sempre lo stesso flusso; quando muta spesso di direzione, spesso cambiano anche i flussi che corrono davanti a essa. Ma, dovunque la nave volti la prua, ci sarà sempre un flusso che ne precederà il movimento.

Qualunque cosa accada, risulterà sempre che essa è stata prevista e ordinata. Dovunque si diriga la nave, il flusso, pur senza guidarla e senza rafforzarne il movimento, le sarà davanti e, da lontano, non solo ci sembrerà che si muova a suo arbitrio ma addirittura che diriga il movimento della nave.

Esaminando soltanto quelle espressioni della volontà dei personaggi storici che vengono riferite agli avvenimenti come ordini, gli storici hanno supposto che gli avvenimenti dipendano dagli ordini. Esaminando invece gli stessi avvenimenti e quel nesso con le masse in cui si trovano i personaggi storici, abbiamo trovato che i personaggi storici e i loro ordini dipendono dagli avvenimenti. Ne è prova indubbia il fatto che, per quanto numerosi siano stati gli ordini, l’avvenimento non si compie se non vi convergono altre cause; ma non appena l’avvenimento si compie, qualunque esso sia, nel novero di tutte le volontà continuamente espresse da parte di diverse persone ve ne sono alcune che, per il significato e il tempo, possono riferirsi all’avvenimento come ordini.

Giunti a questa conclusione noi possiamo rispondere in modo aperto e positivo a quei due quesiti essenziali della storia:

1) Che cos’è il potere?

2) Qual è la forza che produce il movimento dei popoli?

1) Il potere è il rapporto tra una data persona e le altre persone nel quale la suddetta persona tanto meno prende parte all’azione quanto più esprime opinioni, supposizioni e giustificazioni riguardo all’azione collettiva in via di compimento.

2) Il movimento dei popoli non è prodotto dal potere, né dall’attività intellettuale e nemmeno dall’unione dell’uno e dell’altra, come hanno pensato gli storici, ma dall’attività di tutti gli uomini che prendono parte all’avvenimento e che si raggruppano sempre in modo che quelli che prendono maggiormente parte diretta all’avvenimento si assumono la minore responsabilità di esso, e viceversa.

Dal punto di vista morale, causa di un avvenimento appare il potere; dal punto di vista fisico, coloro che si assoggettano al potere. Ma, poiché l’attività morale è impensabile senza quella fisica, la causa dell’avvenimento non si trova né nell’una, né nell’altra, ma nell’unione di entrambe.

Ovvero, in altre parole, il concetto di causa non è applicabile al fenomeno che abbiamo in esame.

In ultima analisi giungiamo a quel circolo perpetuo, a quel limite estremo a cui giunge in ogni campo del pensiero la mente umana a patto non giochi con il suo oggetto. L’elettricità produce il calore, il calore produce l’elettricità. Gli atomi si attraggono, gli atomi si respingono.

Parlando dell’azione reciproca del calore e dell’elettricità o degli atomi noi non siamo in grado di dire perché questo avviene e diciamo che è così perché è impensabile che sia altrimenti, che si tratta di una legge. Lo stesso vale anche per i fenomeni storici. Perché si verifica una guerra o una rivoluzione? Noi non lo sappiamo; noi sappiamo soltanto che, per realizzare questa o quest’altra azione, gli uomini si raggruppano in determinate associazioni alle quali tutti partecipano; e diciamo che è così perché è impensabile che sia altrimenti, che si tratta di una legge.

VIII

Se la storia avesse a che fare con fenomeni esterni, l’aver stabilito questa legge semplice ed evidente sarebbe sufficiente e noi avremmo concluso il nostro ragionamento. Ma la legge della storia si riferisce all’uomo. Una particella di materia non può dirci che essa non sente affatto il bisogno di attrazione e di repulsione e che quanto sosteniamo non è vero; l’uomo, invece, che è oggetto della storia, dice apertamente: io sono libero e perciò non soggiaccio a leggi.

La presenza della questione, anche se non espressa, del libero arbitrio dell’uomo si fa sentire a ogni passo della storia.

Tutti gli storici che hanno riflettuto in modo serio si sono trovati di fronte a questo problema. Tutte le contraddizioni, le oscurità della storia, la falsa strada lungo la quale questa scienza procede, sono fondate unicamente sull’insolubilità di questo problema.

Se la volontà di ogni uomo fosse libera, se cioè ognuno potesse agire come gli garba, tutta la storia sarebbe una serie di casi slegati.

Se anche un solo uomo fra milioni di uomini avesse in un millennio la possibilità di agire liberamente, cioè a suo piacimento, è evidente che un solo atto libero di quest’uomo, contrario alle leggi, distruggerebbe la possibilità dell’esistenza di qualsiasi legge per tutto il genere umano.

Se esiste anche una sola legge che regoli le azioni degli uomini, allora non può esservi libero arbitrio, poiché la volontà umana deve sottostare a questa legge.

In questa contraddizione consiste il problema del libero arbitrio, che dai tempi più remoti impegna le migliori menti dell’umanità e dai tempi più remoti è stato posto in tutta la sua enorme importanza.

Il problema consiste in questo, che, guardando l’uomo come oggetto d’osservazione, da qualsiasi punto di vista (teologico, storico, etico, filosofico) noi troviamo la legge generale della necessità alla quale egli soggiace, allo stesso modo di tutto ciò che esiste. Guardandolo invece dall’interno, come ciò di cui abbiamo coscienza, noi ci sentiamo liberi.

Questa coscienza è una fonte di conoscenza di sé completamente separata e indipendente dalla ragione. Mediante la ragione l’uomo osserva se stesso, ma conosce se stesso solo attraverso la coscienza.

Senza la coscienza di sé sono impensabili qualsiasi osservazione e impiego della ragione.

Per comprendere, osservare, concludere, l’uomo deve prima essere cosciente d’esser vivo. L’uomo sa di essere vivo in quanto essere dotato di volontà, cioè ha coscienza della sua volontà. E questa sua volontà, che costituisce l’essenza della sua vita, l’uomo la sente e non può sentirla altrimenti che come libera.

Se, sottoponendosi all’osservazione, l’uomo vede che la sua volontà è regolata sempre in base a una medesima legge (sia che egli osservi la necessità di prendere del cibo, sia l’attività del cervello o qualunque altra cosa), egli non può intendere questa direzione sempre identica della sua volontà se non come una limitazione di essa. Ciò che non fosse libero non potrebbe essere limitato. La volontà dell’uomo gli appare limitata appunto perché egli non può sentirla altrimenti che come libera.

Voi dite che io non sono libero. Ma io sollevo e abbasso un braccio. Chiunque capisce che questa risposta illogica è una prova inconfutabile della libertà.

Questa risposta è l’espressione della coscienza che non sottostà alla ragione.

Se la coscienza della libertà non fosse una fonte di conoscenza di se stessi separata e indipendente dalla ragione, sarebbe soggetta al ragionamento e all’esperienza; ma in realtà una simile soggezione non si dà mai ed è impensabile.

Una serie di esperienze e di ragionamenti dimostra ad ogni uomo che egli, come oggetto d’osservazione, soggiace a determinate leggi, e l’uomo vi si sottomette e non lotta mai contro la legge di gravità o la legge dell’impenetrabilità dei corpi una volta che le ha conosciute. Ma la stessa serie di esperienze e di ragionamenti gli dimostra che la piena libertà, di cui ha coscienza in sé, è impossibile; che ogni sua azione dipende dal suo organismo, dal suo carattere e dai motivi che agiscono su di esso; l’uomo tuttavia non si piega mai alle deduzioni di queste esperienze e di questi ragionamenti. Avendo appreso dall’esperienza e dal ragionamento che la pietra cade verso il basso, l’uomo vi crede indubitabilmente e in ogni caso aspetta il verificarsi della legge che ha conosciuto.

Ma, avendo appreso in modo altrettanto indubbio, che la sua volontà soggiace a determinate leggi, egli a questo non crede né può credere.

Per quanto l’esperienza e il ragionamento si mostrino all’uomo che nelle stesse condizioni, con lo stesso carattere, agirà allo stesso modo di prima, egli, accingendosi per la millesima volta nelle stesse condizioni e con lo stesso carattere all’azione che termina sempre nello stesso modo, si sente sempre assolutamente sicuro di poter agire come vuole, quanto lo era prima dell’esperienza. Qualsiasi uomo, sia il selvaggio che il pensatore, per quanto il ragionamento e l’esperienza gli dimostrino in modo inconfutabile che è impossibile immaginare due azioni diverse nelle medesime condizioni, sente che, senza questa assurda idea (che costituisce l’essenza della libertà), non può immaginarsi la vita.

Sente che per quanto sia impossibile, è così, perché senza questa idea della libertà non solo non capirebbe la vita, ma non potrebbe vivere neanche per un istante.

Non potrebbe vivere perché tutte le aspirazioni degli uomini, tutti gli stimoli alla vita sono soltanto stimoli ad aumentare la libertà. Ricchezza - povertà, gloria - oscurità, potere - sottomissione, forza - debolezza, salute - malattia, istruzione - ignoranza, lavoro - ozio, sazietà - fame, virtù - vizio sono soltanto gradi, maggiori o minori, della libertà.

Immaginarsi un uomo privo di libertà non è possibile se non immaginandolo privo di vita.

Se il concetto di libertà appare alla ragione come un’assurda contraddizione, come la possibilità di compiere due azioni diverse nelle medesime condizioni o come un’azione senza causa, questo dimostra soltanto che la coscienza non soggiace alla ragione.

Questa coscienza della libertà, incrollabile, inconfutabile, non soggetta né all’esperienza né al ragionamento, riconosciuta da tutti i pensatori e sentita da tutti gli uomini senza eccezione, questa coscienza senza la quale è impensabile una qualsiasi rappresentazione dell’uomo, costituisce l’altro aspetto del problema.

L’uomo è stato creato da un Dio onnipotente, clemente e onnisciente. Che cos’è il peccato, il concetto del quale deriva dalla coscienza della libertà? Ecco il problema della teologia.

Le azioni degli uomini soggiacciono a leggi generali e immutabili enunciate dalla statistica. In che cosa consiste la responsabilità dell’individuo di fronte alla società, il cui concetto deriva dalla coscienza della libertà? Ecco il problema del diritto.

Gli atti dell’uomo dipendono dal suo carattere innato e dai motivi che agiscono su di lui. Che cosa sono la coscienza morale e la coscienza del bene e del male degli atti che derivano dalla coscienza della libertà? Ecco il problema dell’etica.

L’uomo, in relazione con la vita di tutti gli uomini, appare soggetto alle leggi che determinano tale vita. Ma lo stesso uomo, indipendentemente da questo legame, appare libero. Come dev’essere considerata la vita trascorsa dei popoli e dell’umanità: come un prodotto della libera o della non libera attività degli uomini? Ecco il problema della storia.

Soltanto nella nostra presuntuosa epoca di volgarizzazione del sapere, grazie al più forte strumento dell’ignoranza: la diffusione della stampa, il problema del libero arbitrio è stato portato su un terreno sul quale il problema stesso non può esistere. Nella nostra epoca la maggior parte dei cosiddetti uomini d’avanguardia, cioè una masnada di ignoranti, ha scambiato i lavori dei naturalisti, che si occupano solo di un aspetto del problema, per la soluzione di tutto il problema.

L’anima e la libertà non esistono, perché la vita dell’uomo si esprime attraverso movimenti muscolari, e i movimenti muscolari sono condizionati dall’attività nervosa; l’anima e la libertà non esistono, perché in una certa era siamo derivati dalle scimmie, - dicono, scrivono e stampano costoro, non sospettando neppure lontanamente che già migliaia di anni fa da tutte le religioni, da tutti i pensatori non solo è stata riconosciuta, ma non è mai stata negata quella stessa legge della necessità, che essi con tanto accanimento si sforzano oggi di dimostrare tramite la fisiologia e la zoologia comparata. Essi non si accorgono che la funzione delle scienze naturali in questo problema consiste solo nel servire da strumento per illuminarne un aspetto. Giacché sostenere che, dal punto di vista dell’osservazione, la ragione e la volontà non sono altro che secrezioni (sécrétion) del cervello, e che l’uomo, seguendo una legge universale, in un certo periodo che non ci è noto si sia potuto sviluppare dagli animali inferiori non fa altro che confermare sotto nuova forma la verità, riconosciuta millenni or sono da tutte le religioni e da tutte le teorie filosofiche, che dal punto di vista della ragione l’uomo è sottoposto alle leggi della necessità, ma non aiuta minimamente a risolvere il problema, che ha un altro e opposto aspetto basato sulla coscienza della libertà.

L’ipotesi che gli uomini, in un’era sconosciuta, siano derivati dalle scimmie è altrettanto comprensibile quanto quella che gli uomini siano derivati in epoca ignota da una manciata di terra (nel primo caso la x è l’epoca; nel secondo, l’origine), e il problema in qual modo si concili la coscienza di libertà dell’uomo con la legge della necessità alla quale l’uomo soggiace, non può essere risolto con la fisiologia comparata e con la zoologia, perché nella rana, nel coniglio e nella scimmia noi possiamo osservare soltanto un’attività neuro-muscolare, mentre nell’uomo oltre a un’attività neuro-muscolare riscontriamo anche una coscienza.

I naturalisti e i loro seguaci, che pensano di risolvere questo problema, sono simili a stuccatori che siano stati incaricati di imbiancare un lato del muro di una chiesa e che, approfittando dell’assenza del direttore dei lavori, in un eccesso di zelo intonacassero anche le finestre, e le icone, e le impalcature, e i muri non ancora consolidati e si rallegrassero, dal loro punto di vista di stuccatori, perché tutto è riuscito ben liscio e uniforme.

IX

Rispetto agli altri rami del sapere che hanno cercato di risolvere questo problema, la soluzione del problema della libertà e della necessità per la storia ha il vantaggio che in essa questo problema non si riferisce all’essenza stessa della volontà umana, ma al manifestarsi di tale volontà nel passato e in date condizioni.

Nella soluzione di questo problema, la storia si trova, nei confronti delle altre scienze, nella posizione di una scienza sperimentale rispetto alle scienze speculative.

Come suo oggetto la storia non ha la volontà dell’uomo, ma la rappresentazione che noi ce ne facciamo.

E perciò per la storia non esiste, come per la teologia, l’etica e la filosofia, il mistero insolubile dell’unione di libertà e necessità. La storia considera una rappresentazione della vita dell’umanità in cui l’unione di queste due contraddizioni si è già compiuta.

Nella vita reale ogni avvenimento storico, ogni azione umana viene compreso in modo molto chiaro e definito, senza che si avverta la minima contraddizione, sebbene ogni avvenimento appaia in parte come libero, in parte come necessario.

Per risolvere il problema del come si uniscano la libertà e la necessità e di che cosa costituisca l’essenza di questi due concetti, la filosofia della storia può e deve prendere una strada opposta a quella seguita dalle altre scienze. Invece di definire in se stessi i concetti di libertà e di necessità e quindi ricondurre i fenomeni della vita a queste definizioni, dall’enorme congerie di fenomeni di sua pertinenza e che si rappresentano sempre in dipendenza dalla libertà e dalla necessità, la storia deve dedurre la definizione dei concetti stessi di libertà e di necessità.

Qualunque sia la rappresentazione che esaminiamo dell’attività di molti o di un solo uomo, noi non la possiamo comprendere altrimenti che come un prodotto in parte della libertà dell’uomo, in parte delle leggi di necessità.

Sia che si parli delle migrazioni dei popoli o delle invasioni dei barbari, o dei decreti di Napoleone III, o dell’azione compiuta da un uomo un’ora fa, consistente nel fatto d’aver scelto una certa direzione tra le tante possibili per la sua passeggiata, noi non notiamo la minima contraddizione. La misura della libertà e della necessità, che ha guidato le azioni di questi uomini, è per noi chiaramente definita.

Molto spesso l’idea di una maggiore o minore libertà varia a seconda del punto di vista dal quale noi esaminiamo il fenomeno; ma sempre ogni azione umana non ci si presenta altrimenti che come una determinata unione di libertà e di necessità. In ogni azione considerata noi vediamo una certa parte di libertà e una certa parte di necessità. E sempre, quanta più libertà vediamo in un’azione qualsiasi, tanto meno vi vediamo la necessità; e quanto maggiore è la necessità, tanto minore è la libertà. Il rapporto della libertà con la necessità aumenta e diminuisce a seconda del punto di vista da cui consideriamo l’azione; ma questo rapporto rimane sempre inversamente proporzionale.

Un uomo che annega e che si aggrappa a un altro e lo fa affogare, o una madre affamata, spossata dall’allattamento del figlio, che ruba del cibo, o un uomo addestrato alla disciplina che nel plotone di esecuzione uccide a un comando un uomo indifeso appaiono meno colpevoli, cioè meno liberi e più soggetti alla legge della necessità a chi conosce le condizioni in cui si trovavano, e più liberi a chi non sa che quell’uomo stava egli stesso annegando, che la madre era affamata, che il soldato faceva parte del plotone d’esecuzione ecc. Esattamente nello stesso modo, un uomo che vent’anni fa ha commesso un omicidio e poi è vissuto tranquillamente senza nuocere a nessuno appare meno colpevole, e il suo atto più sottoposto alla legge della necessità per chi lo considera dopo vent’anni, e più libero per chi consideri quello stesso atto il giorno dopo in cui era stato commesso. E nello stesso modo ogni azione di un pazzo, di un ubriaco o di un uomo fortemente eccitato appare meno libera e più necessaria a chi conosce lo stato d’animo dell’uomo che ha commesso l’azione, e più libera e meno necessaria a colui che non lo conosce. In tutti questi casi aumenta o diminuisce il concetto di libertà e, di conseguenza, diminuisce o aumenta il concetto di necessità, sempre a seconda del punto di vista da cui si considera l’azione. Cosicché, quanto maggiore appare la necessità, tanto minore appare la libertà. E viceversa.

La religione, il buon senso dell’umanità, le scienze del diritto e la stessa storia intendono in modo eguale questo rapporto fra la necessità e la libertà.

Tutti i casi, senza eccezione, nei quali aumenta e diminuisce la nostra idea della libertà e della necessità hanno solo tre basi:

1) Rapporto dell’uomo che ha compiuto l’azione con il mondo esterno,

2) con il tempo, e

3) con le cause che hanno prodotto l’azione.

1) Il primo punto è dato dal maggior o minor rapporto a noi visibile dell’uomo con il mondo esterno, dalla nozione più o meno chiara di quel determinato posto che ogni uomo occupa rispetto a tutto ciò che esiste contemporaneamente a lui. È quella base a causa della quale appare evidente che l’uomo che annega è meno libero e più soggetto alla necessità dell’uomo che si trova sulla terraferma; quella base a causa della quale le azioni di un uomo che vive in stretto contatto con altri uomini in una località popolosa, le azioni di un uomo legato alla famiglia, all’impiego, alle sue faccende, appaiono indubbiamente meno libere e più soggette alla necessità delle azioni di un uomo solo e isolato.

Se noi osserviamo un uomo solo, senza rapporti con tutto ciò che lo circonda, ogni sua azione ci sembra libera. Ma se noi vediamo anche un suo qualsiasi rapporto con ciò che lo circonda, se vediamo un suo legame con chicchessia: con una persona con cui parla, con un libro che legge, con il lavoro da cui è occupato, perfino con l’aria che lo circonda, perfino con la luce che cade sugli oggetti che gli stanno intorno, vediamo che ciascuna di queste condizioni ha su di lui un influsso e dirige almeno un aspetto della sua attività. E, quanto più ci avvediamo questi influssi, tanto più diminuisce la nostra idea della sua libertà e aumenta quella della necessità alla quale è sottoposto.

2) Il secondo punto è: il maggior o minor rapporto, temporaneo e visibile, fra l’uomo e il mondo esterno; la più o meno chiara visione del posto che l’azione dell’uomo occupa nel tempo. Questa è la base a causa della quale la caduta del primo uomo, che ha avuto come sua conseguenza l’origine del genere umano, ci appare evidentemente meno libera che non il matrimonio di un uomo d’oggi. È la base in conseguenza della quale la vita e l’attività degli uomini che sono vissuti secoli fa, collegate a me nel tempo, non possono apparirmi così libere come la vita contemporanea, le cui conseguenze mi sono ancora ignote.

La gradualità dell’idea circa la maggiore o minore libertà e necessità a questo riguardo dipende dal maggiore o minore intervallo di tempo intercorso fra il compimento dell’atto e il giudizio su di esso.

Se io considero un’azione da me compiuta un momento prima, approssimativamente nelle stesse condizioni in cui mi trovo ora, la mia azione mi appare indubbiamente libera. Ma se esamino un’azione compiuta un mese fa, trovandomi ormai in altre condizioni, riconosco involontariamente che se quell’azione non fosse stata compiuta, molte cose utili, piacevoli e anche necessarie che ne sono conseguite non avrebbero avuto luogo. Se poi mi trasferisco con il ricordo a un atto ancora più lontano, compiuto dieci o più anni fa, le conseguenze del mio atto mi appariranno ancor più evidenti, e mi riuscirà difficile immaginare che cosa sarebbe accaduto se quell’atto non avesse avuto luogo.

Quanto più indietro mi trasferirò con i ricordi, o, che è lo stesso, nell’avvenire con il giudizio, tanto più il mio ragionamento sulla libertà dell’atto diventerà dubbio.

La stessa progressione nella sicurezza della parte che spetta al libero arbitrio nelle azioni collettive dell’umanità noi troviamo nella storia. Un avvenimento contemporaneo ci appare senza alcun dubbio come opera di persone che ci sono tutte note; ma in un avvenimento più lontano noi vediamo già le inevitabili conseguenze al di fuori delle quali non possiamo immaginarci nient’altro. E quanto più andiamo indietro nel nostro esame degli avvenimenti tanto meno essi ci appaiono arbitrari.

La guerra austro-prussiana ci appare come un’indubbia conseguenza delle azioni dell’astuto Bismarck, ecc.

Le guerre napoleoniche, sebbene in modo più dubbio, tuttavia ci appaiono ancora come opera della volontà di eroi; ma nelle crociate vediamo già un avvenimento che occupa un posto ben determinato e senza del quale la storia moderna dell’Europa sarebbe inconcepibile, sebbene ai cronisti delle crociate questo avvenimento apparisse soltanto come opera della volontà di alcuni personaggi. Se poi passiamo alla migrazione dei popoli, a nessuno oggi viene in mente che dipendesse dall’arbitrio di Attila rinnovare il mondo europeo. Quanto più si trasporta indietro nella storia l’oggetto dell’osservazione tanto più dubbia diventa la libertà degli uomini che hanno prodotto gli eventi e tanto più evidente la legge della necessità.

3) Il terzo punto è la maggiore o minore nostra capacità di accesso a quell’infinita serie di cause che costituisce un’esigenza inevitabile della ragione e nella quale ogni fenomeno capito - e perciò ogni azione dell’uomo - deve avere il suo posto determinato, come conseguenza delle azioni precedenti e causa delle successive.

Su questo si fonda il fatto che le nostre azioni e quelle degli altri uomini ci appaiono, da una parte, tanto più libere e meno soggette alla necessità quanto più ci sono note le leggi fisiologiche, psicologiche e storiche dedotte dall’osservazione, alle quali l’uomo è soggetto, e quanto più sicuramente è stata da noi osservata la causa fisiologica, psicologica o storica dell’azione; d’altra parte, quanto più semplice è l’azione osservata e quanto meno complicato per carattere e intelligenza è quell’uomo la cui azione consideriamo.

Quando assolutamente non comprendiamo la causa di un’azione, si tratti di un delitto, di un’opera buona o anche di un’azione indifferente al bene e al male, in quest’azione noi riconosciamo la massima percentuale di libertà. Nel caso di un delitto noi esigiamo soprattutto un castigo; nel caso di una buona azione apprezziamo soprattutto l’azione stessa. Nel terzo caso riconosciamo la presenza della massima individualità, originalità, libertà. Ma se anche una sola delle innumerevoli cause ci è nota, riconosciamo già una certa parte di necessità e chiediamo minor pena per il delitto, riconosciamo minor merito nell’azione virtuosa e minor libertà nell’azione che ci era sembrata originale. Il fatto che il delinquente sia cresciuto in un ambiente di canaglie già attenua la sua colpa. L’abnegazione di un padre, di una madre, il sacrificio con la possibilità di una ricompensa sono più comprensibile di un sacrificio senza motivo, e perciò sembrano meno meritevoli di simpatia, meno liberi. Il fondatore di una setta, di un partito, un inventore ci riescono meno sorprendenti quando sappiamo come e da che cosa è stata preparata la loro attività. Se noi abbiamo una lunga serie di esperienze, se la nostra osservazione è costantemente rivolta alla ricerca dei rapporti di causa ed effetto nelle azioni umane, le azioni degli uomini ci appariranno tanto più necessarie e tanto meno libere quanto più sicuramente noi colleghiamo gli effetti con le cause. Se le azioni considerate sono semplici e noi abbiamo avuto la possibilità di osservare un’enorme quantità di azioni del genere, la nostra idea della loro necessità sarà ancora più piena. L’atto disonesto del figlio di un padre disonesto; la cattiva condotta di una donna capitata in un certo ambiente, il ritorno all’ubriachezza di un uomo che è stato un alcoolizzato, e così via, sono azioni che tanto meno ci appaiono libere quanto più ce ne risulta comprensibile la causa. Se poi l’uomo di cui esaminiamo l’azione si trova al più basso livello dello sviluppo mentale, come un bambino, un pazzo, un idiota, conoscendo le cause dell’azione e la elementarità del carattere e della mente, noi vediamo già una parte così grande di necessità e così poca libertà, che non appena ci è nota la causa che deve produrre l’atto, possiamo già prevederlo.

Solo su questi tre punti si fondano i concetti delle circostanze attenuanti la colpa e della non imputabilità dei delitti, che esistono in tutte le legislazioni. L’imputabilità appare minore o maggiore a seconda della maggiore o minore conoscenza delle circostanze in cui si trovava la persona la cui azione è sottoposta a giudizio, secondo il maggiore o minore intervallo di tempo intercorso fra il momento in cui l’azione è stata compiuta e il momento in cui viene giudicata e secondo la maggiore o minore comprensione delle cause dell’azione.

X

Così la nostra concezione della libertà e della necessità gradualmente aumenta e diminuisce a seconda del maggiore o minore legame con il mondo esterno, della maggiore o minore lontananza nel tempo dalle cause in base alle quali esaminiamo i fenomeni della vita umana.

Cosicché, se consideriamo la situazione di un uomo, il cui legame con il mondo esterno è più noto e maggiore il periodo di tempo intercorso tra il giudizio di un suo atto e il momento in cui è stato compiuto e più accessibili le cause del suo atto, ci facciamo l’idea di una massima necessità e di una libertà minima. Se invece consideriamo una persona in una situazione di minor dipendenza dalle cause esterne; se la sua azione è stata compiuta in un momento vicinissimo al momento presente e le cause della sua azione ci sono inaccessibili, ci facciamo l’idea di una necessità minima e di una libertà piena.

Ma sia nell’uno che nell’altro caso, per quanto mutiamo il nostro punto di vista, per quanto cerchiamo di chiarirci il più possibile il legame in cui l’uomo si trova con il mondo esterno, o per quanto esso ci sembri incomprensibile, per quanto si allunghi o si abbrevi il periodo di tempo; per quanto comprensibili o incomprensibili ci siano le cause, non possiamo mai immaginarci né una completa libertà, né un’assoluta necessità.

1) Per quanto cerchiamo di rappresentarci un uomo che non subisce nessuna influenza del mondo esterno, non riusciremo mai a concepire una libertà nello spazio. Ogni azione dell’uomo è inevitabilmente condizionata da ciò che lo circonda e dallo stesso corpo dell’uomo. Io alzo una mano e l’abbasso. La mia azione mi sembra libera; ma, alla domanda se avrei potuto alzare la mano in qualsiasi direzione, vedo che ho alzato la mano in quella direzione che avrebbe incontrato meno ostacoli sia nei corpi che mi circondano, sia nella struttura stessa del mio corpo. Se fra tutte le possibili direzioni ne ho scelto una, l’ho scelta perché quella direzione presentava minori ostacoli. Perché la mia azione sia libera è necessario che essa non incontri nessun ostacolo. Per potersi rappresentare un uomo libero, dobbiamo immaginarlo fuori dello spazio, cosa evidentemente impossibile.

2) Per quanto si cerchi di avvicinare il momento del giudizio al momento in cui è avvenuta l’azione, non otterremo mai il concetto della libertà nel tempo. Poiché se considero un atto compiuto un secondo prima, devo comunque riconoscere la non libertà di quell’atto in quanto è inchiodata a quel momento nel quale è stata compiuta. Posso alzare una mano? Io la alzo, ma mi domando: potevo non alzare la mano in quel momento che è ormai passato? Per convincermene nel momento successivo non la alzo. Ma io non ho alzato la mano in quel momento in cui mi domandavo se ero libero. Ormai è trascorso del tempo, che non era in mio potere fermare, e la mano che allora ho alzato e l’aria in cui allora ho fatto quel movimento non sono più la stessa aria che ora mi circonda, né la stessa mano, con la quale ora non faccio un movimento. Quel momento in cui si è compiuto il primo movimento è irrevocabile e in quel momento io potevo fare un solo movimento e qualunque movimento io avessi fatto, quel movimento poteva essere soltanto uno. Il fatto che nel momento seguente io non abbia alzato la mano non dimostra che potevo non alzarla. E siccome il mio movimento poteva essere uno solo in quel momento non poteva essere un altro. Per rappresentarselo libero bisogna immaginarlo nel presente, al limite tra passato e futuro, cioè fuori del tempo, il che è impossibile.

3) Per quanto aumenti la difficoltà di capire le cause, non riusciremo mai a rappresentarci una libertà assoluta, cioè senza cause. Per quanto a noi resti inaccessibile la causa di un’espressione della volontà in un’azione nostra o altrui, la prima esigenza dell’intelletto è la supposizione e la ricerca di una causa, senza la quale qualsiasi fenomeno è inconcepibile. lo alzo la mano per compiere un atto indipendente da ogni causa, ma il fatto che io voglia compiere un atto che non ha causa è la causa della mia azione.

Ma anche se, rappresentandoci un uomo assolutamente al riparo da ogni sorta di influenze, considerandone soltanto un’azione momentanea del presente e supponendo che essa non sia provocata da nessuna causa, ammettessimo un residuo di necessità infinitamente piccolo, pari a zero, neanche in questo caso giungeremmo al concetto della piena libertà dell’uomo, poiché un essere impermeabile agli influssi del mondo esterno, che si trova fuori del tempo e non dipende da cause, non è più un uomo.

Allo stesso modo non possiamo mai immaginare un’azione umana senza che la libertà vi abbia parte e sia sottoposta soltanto alla legge della necessità.

1) Per quanto aumenti la nostra conoscenza delle condizioni spaziali in cui si trova l’uomo, questa conoscenza non può mai essere completa, dato che il numero di queste condizioni è infinitamente grande, com’è infinito lo spazio. E perciò, dato che non tutte le condizioni che influiscono sull’uomo sono definite, non si ha mai un’assoluta necessità, ma esiste una certa parte di libertà.

2) Per quanto si estenda il periodo di tempo tra il fenomeno che esaminiamo e il momento del giudizio, sarà sempre un periodo finito, mentre il tempo è infinito, e perciò anche sotto questo riguardo non si potrà mai avere un’assoluta necessità.

3) Per quanto sia accessibile la catena delle cause di una qualsiasi azione, non potremo mai conoscere l’intera catena, poiché essa è infinita, e di nuovo non otterremo mai un’assoluta necessità.

Ma, oltre a ciò; anche se, ammettendo un residuo minimo di libertà pari a zero, noi ammettessimo in un caso qualsiasi, come, per esempio, in un uomo morente, in un embrione, in un idiota, una totale mancanza di libertà, per ciò stesso distruggeremmo il concetto stesso di uomo così come noi lo consideriamo, poiché, non appena non esiste la libertà, non esiste più l’uomo. E perciò la rappresentazione di una azione umana soggetta alla sola legge della necessità, senza il minimo residuo di libertà, è altrettanto impossibile della rappresentazione di un’azione umana assolutamente libera.

Perciò, per rappresentarci un’azione umana soggetta alla sola legge della necessità, senza libertà, noi dobbiamo ammettere la conoscenza di una infinita quantità di condizioni spaziali, di un periodo di tempo infinitamente grande e di una infinita serie di cause.

Per rappresentarci un uomo completamente libero, non soggetto alla legge della necessità, dobbiamo rappresentarlo solo al di fuori dello spazio, al di fuori del tempo e al di fuori di ogni dipendenza dalle cause.

Nel primo caso, se fosse possibile la necessità senza la libertà, giungeremmo alla definizione della legge della necessità attraverso la stessa necessità, cioè a una forma senza contenuto.

Nel secondo caso, se fosse possibile la libertà senza necessità, giungeremmo a una libertà incondizionata al di fuori del tempo, dello spazio e delle cause, la quale libertà per il fatto stesso di essere incondizionata e non limitata da nulla non sarebbe altro che un contenuto senza forma.

Giungeremmo insomma a quelle due basi sulle quali si fonda la concezione del mondo che ha l’uomo: all’inaccessibile essenza della vita e alle leggi che determinano quest’essenza.

La ragione dice: 1) Lo spazio con tutte le forme che gli dà la sua apparenza - la materia - è infinito e non può essere pensato altrimenti. 2) Il tempo è un infinito movimento senza un solo momento di quiete e non può essere pensato altrimenti. 3) Il nesso fra le cause e gli effetti non ha principio e non può avere fine.

La coscienza dice: 1) Io sono sola e tutto ciò che esiste si riduce a me; di conseguenza, io includo lo spazio; 2) io misuro il tempo che passa con il momento immobile del presente nel quale solo so di vivere; di conseguenza, io sono fuori del tempo; e 3) io sono al di fuori delle cause, poiché mi sento causa di ogni manifestazione della mia vita.

La ragione esprime le leggi della necessità. La coscienza esprime l’essenza della libertà.

La libertà non limitata da nulla è l’essenza della vita nella coscienza dell’uomo. La necessità senza contenuto è la ragione dell’uomo con le sue tre forme.

La libertà è ciò che si considera. La necessità è ciò che considera. La libertà è il contenuto. La necessità è la forma.

Soltanto separando queste due fonti della conoscenza, che stanno tra di loro come forma e contenuto, si ottengono in modo separato i concetti, che reciprocamente si escludono e che non possono essere conosciuti, di libertà e di necessità.

Soltanto unendoli otteniamo una piena rappresentazione della vita dell’uomo.

Al di fuori di questi due concetti che reciprocamente si delimitano - come forma e contenuto - non è possibile alcuna rappresentazione della vita.

Tutto ciò che sappiamo della vita degli uomini è soltanto un dato rapporto tra libertà e necessità, cioè tra coscienza e leggi della ragione.

Tutto ciò che sappiamo del mondo esterno della natura è soltanto un dato rapporto tra le forze della natura e la necessità, tra l’essenza della vita e le leggi della ragione.

Le forze della vita della natura sono al di fuori di noi e noi non ne abbiamo coscienza; noi chiamiamo queste forze gravità, inerzia, elettricità, forza animale e così via; al contrario siamo coscienti della forza vitale dell’uomo e la chiamiamo libertà.

Ma, come la forza di gravità in se stessa incomprensibile pur essendo sentita da ogni uomo, ci è comprensibile solo nella misura in cui conosciamo le leggi della necessità alle quali è soggetta (dalla prima nozione che tutti i corpi sono pesanti fino alla legge di Newton); così anche la forza della libertà, in se stessa incomprensibile, di cui ognuno ha coscienza, ci è comprensibile solo nella misura in cui conosciamo le leggi della necessità alle quale è soggetta (cominciando dal fatto che ogni uomo muore fino alla conoscenza delle leggi economiche o storiche più complesse).

Qualsiasi conoscenza equivale a ricondurre l’essenza della vita alle leggi della ragione.

La libertà dell’uomo si distingue da ogni altra forza per il fatto che l’uomo ne è cosciente; ma per la ragione essa non si distingue in alcun modo da qualsiasi altra forza. La forza di gravità, l’elettricità o l’affinità chimica si distinguono fra loro solo perché queste forze sono diversamente definite dalla ragione. Nello stesso modo la forza della libertà dell’uomo per la ragione si distingue dalle altre forze della natura solo per la definizione che ne dà la ragione. La libertà senza la necessità, cioè senza le leggi della ragione che la definiscono, non si distingue in nulla dalla gravità, dal calore o dalla forza vegetativa; per la ragione è soltanto una vaga, indefinibile sensazione della vita.

E, come l’indefinibile essenza della forza che muove i corpi celesti, l’indefinibile essenza della forza del calore, dell’elettricità, o della forza dell’affinità chimica, o della forza vitale costituiscono il contenuto dell’astronomia, della fisica, della chimica, della botanica, della zoologia ecc., così l’essenza della forza della libertà costituisce il contenuto della storia. Ma come l’oggetto di qualsiasi scienza è il modo di manifestarsi di questa ignota essenza della vita, e in sé quest’essenza può essere soltanto l’oggetto della metafisica, così le manifestazioni della forza della libertà umana nello spazio, nel tempo e in dipendenza dalle cause costituisce l’oggetto della storia; mentre la libertà in se stessa è oggetto della metafisica.

Nelle scienze sperimentali chiamiamo leggi della necessità ciò che ci è noto; chiamiamo forza vitale ciò che ci è ignoto. La forza vitale è solo l’espressione di un residuo ignoto di ciò che noi sappiamo dell’essenza della vita.

Esattamente lo stesso nella storia: ciò che ci è noto lo chiamiamo leggi della necessità; ciò che ci è ignoto, libertà. La libertà, per la storia, è soltanto l’espressione di un residuo ignoto di ciò che sappiamo delle leggi della vita dell’uomo.

XI

La storia esamina le manifestazioni della libertà dell’uomo in connessione con il mondo esterno, nel tempo e nella dipendenza dalle cause, definisce cioè questa libertà con le leggi della ragione; e perciò la storia è una scienza solo in quanto questa libertà è definita da queste leggi.

Per la storia, il riconoscimento della libertà degli uomini come una forza che può influire sugli avvenimenti storici, cioè come una forza non soggetta a leggi, è la stessa cosa che per l’astronomia il riconoscimento della libera forza di movimento delle forze celesti.

Questo riconoscimento distrugge la possibilità dell’esistenza delle leggi, cioè di qualsiasi conoscenza. Se esiste anche un solo corpo che si muove liberamente, non esistono più le leggi di Keplero e di Newton e non esiste più nessuna rappresentazione del movimento dei corpi celesti. Se esiste una sola azione libera dell’uomo, non esiste alcuna legge storica e alcuna concezione degli eventi storici.

Per la storia esistono linee di movimento delle volontà umane, un’estremità delle quali si nasconde nell’ignoto, mentre all’altra estremità si muove nello spazio, nel tempo e in dipendenza dalle cause la coscienza della libertà che hanno gli uomini nel presente.

Quanto più si apre davanti ai nostri occhi questo spettacolo del movimento, tanto più evidenti sono le leggi di questo movimento. Cogliere e definire queste leggi è il compito della storia.

Dal punto di vista da cui la scienza storica considera attualmente il suo oggetto, per la via che essa segue, nella ricerca delle cause dei fenomeni nel libero arbitrio degli uomini, formulare delle leggi per la scienza è impossibile, poiché, per quanto noi limitiamo la libertà degli uomini, non appena la riconosciamo come una forza non soggetta a leggi, l’esistenza di una legge è impossibile.

Solo limitando questa libertà all’infinito, considerandola cioè come una grandezza infinitamente piccola, noi ci convinceremo dell’assoluta inaccessibilità delle cause, e allora, invece di andare alla ricerca delle cause, la storia si porrà come compito la ricerca delle leggi.

La ricerca di queste leggi è già cominciata da molto tempo quei nuovi metodi del pensiero, che la storia deve assimilare, vengono elaborati contemporaneamente a quel processo di autodistruzione a cui si sta avviando la vecchia storia frantumando sempre più le cause dei fenomeni.

Per questa via hanno proceduto tutte le scienze umane. Giungendo all’infinitamente piccolo, la matematica, la più esatta delle scienze, abbandona il processo di frantumazione e affronta il nuovo processo di sommare le incognite infinitamente piccole. Trascurando il concetto di causa, la matematica ricerca la legge, cioè le proprietà comuni a tutti gli elementi ignoti infinitamente piccoli.

Sebbene in altre forme, hanno seguito lo stesso percorso concettuale anche le altre scienze. Quando Newton ha formulato la legge di gravità, non ha detto che il sole o la terra hanno la proprietà di attrarre; ha detto, che tutti i corpi, dal più grande al più piccolo, hanno una proprietà di attrazione reciproca, ossia, lasciando da parte la questione della causa del movimento dei corpi, ha formulato una proprietà comune a tutti i corpi, da quelli infinitamente grandi a quelli infinitamente piccoli. Lo stesso fanno le scienze naturali: lasciando da parte la questione della causa, esse ricercano le leggi. Sulla stessa via si trova anche la storia. E se la storia ha per oggetto lo studio del movimento dei popoli e dell’umanità e non la descrizione di episodi tratti dalla vita degli uomini, essa deve, eliminando il concetto di causa, ricercare le leggi che siano comuni a tutti gli elementi infinitamente piccoli, eguali fra loro e indissolubilmente legati fra loro dalla libertà.

XII

Da quando è stato scoperto e dimostrato il sistema di Copernico il semplice riconoscimento che non è il sole a muoversi ma la terra ha distrutto tutta la cosmografia degli antichi. Sarebbe stato possibile, confutando il sistema, mantenere la vecchia concezione sul movimento dei corpi; ma, senza confutarlo, era impossibile continuare nello studio dei mondi tolemaici. Ma anche dopo la scoperta di Copernico, i mondi tolemaici continuarono a essere studiati ancora per lungo tempo.

Da quando per la prima volta un uomo ha detto e dimostrato che la quantità delle nascite o dei delitti è soggetta a leggi matematiche e che date condizioni geografiche e politico-economiche determinano questa o quella forma di governo, che determinati rapporti tra la popolazione e la terra producono movimenti di popoli, da allora sono state distrutte nella loro sostanza le basi sulle quali si edificava la storia.

Sarebbe stato possibile confutando le nuove leggi conservare la vecchia concezione della storia, ma, senza confutarle, non era possibile, parrebbe, continuare a studiare i fatti storici come un prodotto della libera volontà degli uomini. Poiché, se si è costituita una certa forma di governo o si è compiuto un certo movimento di popolo in seguito a determinate condizioni geografiche etnografiche o economiche, la volontà di quegli uomini che consideriamo come fondatori di quella forma di governo o propulsori di quel dato movimento di popolo, non può più essere considerata la causa.

E tuttavia la storia antica continua a essere studiata insieme con le leggi della statistica, della geografia, dell’economia politica, della filologia comparata e della geologia, che contraddicono apertamente le sue posizioni.

Nella filosofia della natura la lotta fra le vecchie e le nuove concezioni è stata lunga e accanita. La teologia difendeva le vecchie concezioni e accusava le nuove di distruggere la rivelazione. Ma quando la verità ha finito con il prevalere, la teologia si assestò altrettanto saldamente sul nuovo terreno.

Altrettanto lunga e accanita è la lotta che si svolge ai giorni nostri tra le vecchie e le nuove concezioni della storia ed esattamente nello stesso modo la teologia si pone a difesa delle vecchie concezioni e accusa le nuove di distruggere la rivelazione.

Sia nell’uno che nell’altro caso da tutte e due le parti la lotta scatena le passioni e soffoca la verità. Da una parte, entrano in gioco paura e il rimpianto per tutto l’edificio costruito durante i secoli; dall’altra la passione della distruzione.

Agli uomini che lottavano contro la nascente verità della filosofia della natura sembrava che, se avessero riconosciuto quella verità, sarebbe andata distrutta la fede in Dio, nella creazione dell’universo, nel miracolo di Giosué figlio di Naim. Ai difensori delle leggi di Copernico e di Newton, per esempio, a Voltaire, pareva che le leggi dell’astronomia distruggessero la religione e Voltaire impiegava le leggi della gravità come un’arma contro la religione.

Esattamente nello stesso modo sembra oggi che basti riconoscere la legge della necessità perché siano distrutti il concetto di anima, di bene e di male e tutte le istituzioni statali ed ecclesiastiche edificate su questi concetti.

Esattamente nello stesso modo anche oggi, come Voltaire ai suoi tempi, i difensori non riconosciuti della legge della necessità adoperano questa legge come un’arma contro la religione, laddove, esattamente come la legge di Copernico in astronomia, la legge della necessità nella storia non solo non distrugge ma anzi consolida quelle basi sulle quali si edificano le istituzioni statali ed ecclesiastiche.

Come allora nell’astronomia, così oggi nel problema storico, tutta la diversità delle concezioni si basa sul riconoscimento o non riconoscimento di un’unità assoluta che serva da misura per i fenomeni visibili. Nell’astronomia era l’immobilità della terra; nella storia è l’indipendenza della persona, la libertà.

Come per l’astronomia la difficoltà di ammettere il movimento della terra stava nel rinunciare alla sensazione immediata dell’immobilità della terra e all’analoga sensazione del moto dei pianeti, così anche per la storia la difficoltà di riconoscere la subordinazione della personalità alle leggi dello spazio, del tempo e della causalità consiste nel rinunciare alla sensazione immediata di indipendenza della propria personalità. Ma come nell’astronomia la nuova concezione diceva: «È vero, noi non percepiamo il movimento della Terra, ma, ammettendone l’immobilità, arriviamo a un assurdo; ammettendo invece il movimento che pur non sentiamo, giungiamo a formulare delle leggi,» così nella storia la nuova concezione dice: «È vero, noi non sentiamo la nostra dipendenza, ma, ammettendo la nostra libertà, arriviamo a un assurdo; ammettendo invece la nostra dipendenza dal mondo esterno, dal tempo e dalle cause giungiamo a formulare delle leggi.»

Nel primo caso bisognava rinunciare alla coscienza dell’immobilità nello spazio e riconoscere un movimento, che non avvertivamo; nel caso presente è altrettanto necessario rinunciare a una libertà di cui abbiamo coscienza e riconoscere una dipendenza che non siamo in grado di avvertire.