PARTE PRIMA
I
All’inizio del 1806 Nikolaj Rostov tornò a Mosca in licenza. Anche Denisov tornava a casa, a Voronež, e Rostov lo convinse a fare il viaggio con lui fino a Mosca e a fermarsi dai suoi. Alla penultima tappa, incontrarono un compagno d’arme. Denisov bevve tre bottiglie di vino insieme a costui e, sebbene fossero ormai vicino a Mosca, seguitò a dormire nonostante tutte le buche della strada, sdraiato sul fondo della slitta postale accanto a Rostov, il quale invece, via via che si avvicinavano alla città, diventava sempre più impaziente.
«Quanto c’è ancora? Quanto c’è ancora? Oh, queste strade insopportabili; queste botteghe, questi kalaèi, questi lampioni, questi vetturini!» seguitava a rimuginare Rostov anche quando ebbero fatto vidimare le loro licenze alla barriera della città e furono entrati in Mosca.
«Denisov, siamo arrivati! E lui dorme!» diceva, protendendosi con tutto il corpo, come se sperasse di accelerare così il movimento della slitta. Denisov non rispose.
«Ecco l’incrocio e l’angolo, dove sta Zachar, il vetturino; ed eccolo, Zachar, sempre con lo stesso cavallo. Ecco anche il negozietto dove andavamo a comperare il panforte. Quanto c’è ancora? Avanti!»
«Qual è la casa?» domandò il postiglione.
«Quella laggiù in fondo; quella casa grande, non la vedi? È la nostra casa,» disse Rostov; «è la nostra casa! Denisov! Denisov! Siamo arrivati.»
Denisov sollevò il capo, tossì e non rispose.
«Dmitrij,» chiese Rostov rivolgendosi al domestico seduto a cassetta. «Quel lume è acceso su da noi, vero?»
«Sì, signore; è acceso nello studio di vostro padre.»
«Allora vuol dire che non sono ancora andati a letto, eh? Tu che cosa ne dici? Mi raccomando, non dimenticarti di tirar subito fuori la mia giubba nuova,» aggiunse Nikolaj toccandosi i baffi che s’era fatto crescere di recente. «Cammina, sbrigati,» gridò al postiglione. «E tu, Vasja, svegliati una buona volta,» aggiunse rivolto a Denisov che di nuovo aveva lasciato cader la testa sul petto. «E cammina, insomma; ti darò tre rubli di mancia. Cammina!» gridò ancora, quando la slitta era ormai a tre case di distanza dal portone d’ingresso.
Gli sembrava che i cavalli non si muovessero. Alla fine la slitta voltò a destra verso l’ingresso; sopra la sua testa Rostov vide il noto cornicione con le modanature di stucco sbrecciate, gli scalini d’accesso, il pilastrino del marciapiede. Saltò giù dalla slitta ancora in moto e corse dentro l’androne. La casa si ergeva immobile, poco ospitale, come se non le importasse nulla dei nuovi arrivati. Nell’androne non c’era nessuno. «Dio mio! Staranno tutti bene?» pensò Rostov, fermandosi per un istante col cuore sospeso; poi si lanciò di corsa attraverso il vestibolo e su per i noti scalini consumati. La solita maniglia della porta, (che era sempre sporca e la contessa se ne adirava) si aprì col consueto, debole scatto. In anticamera ardeva una candela di sego.
Il vecchio Michajlo dormiva seduto sulla cassapanca. Prokofij, quel domestico così forte da riuscire a sollevare una carrozza afferrandola da dietro, se ne stava seduto a intrecciare dei lapti Egli gettò un’occhiata alla porta che si apriva e il suo volto sonnolento e indifferente assunse di colpo un’espressione fra esultante e sgomenta.
«Santi benedetti! Il giovane conte!» gridò, riconoscendo il suo giovane padrone. «Oh, caro? Ma come? Com’è possibile?»
E Prokofij, tremando per l’emozione, si precipitò verso la porta del salotto, certo con l’intenzione di annunciarlo; ma poi ci ripensò; tornò sui suoi passi e afferrò in alto, verso la spalla, il braccio del giovane padrone.
«Stanno tutti bene?» domandò Rostov, liberando il braccio dalla stretta.
«Sì, grazie a Dio! Stanno tutti bene. Hanno terminato ora di pranzare. Lasciati guardare, signoria!»
«Va proprio tutto bene?»
«Sì, grazie a Dio, grazie a Dio!»
Rostov, dimenticandosi completamente di Denisov e non volendo che nessuno prevenisse il suo arrivo, gettò via la pelliccia e corse in punta di piedi nel salone buio. Tutto appariva come sempre: gli stessi tavolini da gioco, lo stesso lampadario avvolto nella fodera; ma qualcuno lo aveva già visto. Egli non riuscì a correre fino al salotto: qualcuno irruppe fulmineo dalla porta laterale, gli buttò le braccia al collo e cominciò a baciarlo. Poi una seconda, una terza persona balzarono fuori da una seconda, da una terza porta. Ancora abbracci, ancora baci, ancora grida e lacrime di gioia. Egli non riusciva a distinguere dove e chi fosse il papà, chi Nataša, chi Petja. Tutti gridavano, tutti parlavano e lo baciavano nello stesso tempo. Soltanto la mamma non era fra loro: di questo si rendeva conto.
«E io che non lo sapevo… Nikoluška… caro!»
«Eccolo qua… il nostro… il mio caro Kolja… Come sei cambiato! Ma non ci sono candele, qui! Il tè!»
«Un bacio anche a me!»
«Anche a me, anima mia!»
Sonja, Nataša, Petja, Anna Michajlovna, Vera, il vecchio conte lo abbracciavano tutti insieme; e i domestici e le cameriere, riempiendo la stanza, si profondevano in un coro di saluti e di esclamazioni.
Petja gli si era appeso alle gambe.
«Anche a me!» gridava.
Nataša, dopo aver tirato a sé la faccia di Nikolaj e averla coperta di baci, si staccò di botto da lui e, tenendosi attaccata a una falda della sua giubba, saltava come una capra, stando sempre nello stesso posto, e lanciava grida acute di giubilo. Da ogni parte c’erano occhi che luccicavano di gioia e d’amore, da ogni parte c’erano labbra che chiedevano un bacio.
Anche Sonja, rossa come un papavero, si teneva attaccata a un braccio di Nikolaj. Era raggiante e teneva lo sguardo beato fisso negli occhi di lui, attendendo un suo sguardo. Ella aveva già compiuto i sedici anni ed era molto bella, specie in quel momento di felice, estatica animazione. Fissava Nikolaj senza distoglierne gli occhi, sorridendo e trattenendo il respiro. Lui la guardava con riconoscenza, ma continuava ad aspettare, a cercare qualcuno. La vecchia contessa non era ancora apparsa. Ma ecco echeggiarono dei passi sulla soglia: così rapidi che non potevano essere i passi di sua madre.
Eppure era lei, con indosso un abito nuovo che egli non conosceva ancora, confezionato mentre lui era via. Tutti lo lasciarono ed egli corse verso di lei. Quando s’incontrarono, lei si lasciò cadere singhiozzando sul suo petto. Non riusciva a sollevare il viso e glielo premeva sui freddi alamari della giubba. Denisov, al quale nessuno aveva fatto caso quando era entrato nella stanza, se ne stava immobile a guardarli, e si asciugava gli occhi.
«Vasilij Denisov, amico di vostvo figlio,» disse, presentandosi al conte che lo guardava con espressione interrogativa.
«Siate il benvenuto. Sì, lo so, lo so,» disse il conte, baciando ed abbracciando Denisov. «Nikoluška ci aveva scritto… Nataša, Vera, eccolo: è Denisov.»
Gli stessi visi felici, estatici, si rivolsero verso la figura arruffata di Denisov e lo circondarono.
«Caro Denisov!» strillò Nataša, fuori di sé per l’entusiasmo; balzò verso di lui, lo abbracciò e lo baciò. Tutti rimasero interdetti di fronte a quel gesto di Nataša. Anche Denisov arrossì; poi sorrise, prese la mano di Nataša e gliela baciò.
Denisov venne accompagnato nella stanza che gli era stata preparata, e tutti i Rostov si raccolsero nella stanza dei divani intorno a Nikoluška.
Al suo fianco sedeva la vecchia contessa e gli teneva una mano che baciava ogni momento. Gli altri, affollandosi intorno, coglievano ogni suo movimento, ogni sua parola, ogni suo sguardo e non distoglievano da lui gli occhi estatici e traboccanti d’affetto. Il fratello e le sorelle si disputavano e si rubavano a vicenda il posto più vicino a lui e s’azzuffavano per portargli il tè, il fazzoletto, la pipa.
Rostov era molto felice dell’amore che gli dimostravano; ma nel primo istante dell’incontro aveva conosciuto una tale beatitudine, che adesso questa felicità gli sembrava ormai troppo poco e continuava ad aspettare qualcosa, ancora e ancora.
Stanchi com’erano del viaggio, l’indomani mattina i nuovi arrivati dormirono fino alle dieci.
Nella stanza accanto erano state gettate alla rinfusa le sciabole, le sacche, le giberne, i bauli aperti, gli stivali sporchi di fango. Due paia di stivali appena lucidati, con gli speroni, erano stati appoggiati poco prima contro la parete. I domestici portavano i lavamani, l’acqua calda per radersi e gli abiti ripuliti. Nell’aria si sentiva odore di tabacco e di uomini.
«Ehi, Gviška, la pipa!» gridò la voce rauca di Vas’ka Denisov. «Vostov, alzati!»
Rostov, stropicciandosi gli occhi appiccicosi, sollevò il capo arruffato dal guanciale caldo.
«Che cosa c’è? È tardi?»
«Sono quasi le dieci,» rispose la voce di Nataša. Nella stanza accanto si udì un fruscio di abiti inamidati, un bisbiglio e un ridere di voci fanciullesche; nella porta appena socchiusa balenò qualcosa d’azzurro: nastri, capelli neri e volti allegri. Erano Nataša, Sonja e Petja, venuti a vedere se non si fossero ancora alzati.
«Nikolen’ka, alzati!» disse di nuovo la voce di Nataša dietro la porta.
«Subito!»
In quel momento Petja, nella stanza attigua, aveva visto una sciabola, l’aveva afferrata e, con l’entusiasmo che provano i ragazzini alla vista del fratello maggiore sotto le armi, del tutto dimentico che per le sorelle non stava bene vedere degli uomini svestiti, aprì la porta.
«È la tua sciabola?» gridò.
Le ragazze fecero un balzo indietro. Denisov, con occhi spaventati, si affrettò a nascondere le gambe pelose sotto la coperta, voltandosi a guardare il compagno in cerca di soccorso. La porta lasciò passare Petja e si richiuse. Dietro la porta echeggiarono delle risate.
«Nikolen’ka, vieni fuori in veste da camera,» esclamò la voce di Nataša.
«È la tua sciabola?» domandò ancora Petja.» O la vostra?» disse rivolgendosi con reverente rispetto al nero e baffuto Denisov.
Nikolaj si infilò in fretta gli stivali, indossò la veste da camera e uscì dalla stanza. Nataša si era infilata uno stivale con lo sperone e stava calzando l’altro. Sonja in quel momento stava girando su se stessa per far gonfiare il vestito e poi accovacciarsi. Tutte e due avevano dei vestiti nuovi, azzurri, ed erano fresche, colorite, allegre. Sonja scappò via; Nataša prese il fratello sotto braccio e lo condusse nella stanza dei divani. Qui cominciarono a parlare. Non avevano nemmeno il tempo di porsi delle domande e di rispondere su mille inezie che potevano interessare soltanto loro. Nataša rideva a ogni parola che lui diceva o che diceva lei, non perché quello che dicevano facesse ridere, ma perché era felice e non riusciva a contenere quella sua gioia che si traduceva in ilarità.
«Ah, com’è bello, com’è stupendo!» diceva, a qualunque proposito. Rostov sentì che sotto l’influsso di quei caldi raggi d’amore, per la prima volta in un anno e mezzo la sua anima e il suo viso si aprivano a quel sorriso fanciullesco che non aveva più avuto nemmeno una volta da quando aveva lasciato casa sua.
«No, ascolta,» diceva lei, «tu adesso sei proprio del tutto un uomo? Sono terribilmente contenta che tu sia mio fratello.» Gli toccò i baffi. «Mi piacerebbe sapere come siete fatti, voi uomini. Siete come noi? No?»
«Perché Sonja è scappata?» domandò Nikolaj.
«Oh, è tutta una storia!… Dimmi, come parlerai a Sonja? Dandole del tu o del voi?»
«Come capiterà,» disse Nikolaj.
«Dalle del voi, ti prego. Ti spiegherò poi.»
«Ma perché?»
«Be’, te lo dico subito. Lo sai che Sonja è mia amica: tanto amica che per lei mi sono bruciata un braccio.»
Sollevò la manica di mussolina, e sul braccino lungo e magro, su quel braccino tenero, verso la spalla, assai più su del gomito, mostrò una cicatrice rossa; proprio nel punto che anche gli abiti da ballo tengono nascosto.
«Mi sono bruciata io, per darle una prova d’amore. Semplice: ho arroventato sul fuoco una riga di ferro e l’ho schiacciata lì.»
Seduto nella sua antica stanza da studio, sul divano con i cuscinetti ai braccioli, e guardando gli occhi straordinariamente vivi di Nataša, Rostov era rientrato in quel mondo familiare dell’infanzia, che non aveva alcun senso per nessuno, tranne per lui, ma che a lui procurava uno dei più grandi piaceri della vita; anche la bruciatura sul braccio con la riga, come prova d’amore, non gli sembrò inutile: capiva e non se ne meravigliò.
«Ebbene? Solo questo?» domandò.
«Ah, siamo così amiche, così amiche! Questo è nulla. Sono sciocchezze, queste con la riga; ma noi siamo amiche per sempre. Lei, se comincia ad amare qualcuno, è per sempre. Io però questo non lo capisco, me ne dimentico subito.»
«Ebbene?»
«Così lei vuol bene a me e anche a te.» Nataša a un tratto arrossì. «Ti ricordi, prima della tua partenza… lei dice che tu devi dimenticare tutto… Ha detto: io lo amerò sempre, ma lui deve considerarsi libero. Non ti pare una cosa meravigliosa, una cosa veramente nobile? Sì, è molto nobile, vero?»
Nataša parlava in tono grave e commosso; si capiva che quanto diceva ora l’aveva già detto poco prima fra le lacrime. Nikolaj rifletteva.
«Io non ritiro per niente la mia parola,» disse. «E poi Sonja è un tesoro… quale uomo può essere così stupido da rinunciare alla propria felicità?»
«No, no,» si mise a gridare Nataša. «Di questo noi due abbiamo già parlato. Lo sapevamo che avresti detto così. Ma è una cosa impossibile, perché, capisci, se tu parli così, vuol dire che ti senti legato dalla parola data e allora sembra che lei l’abbia detto apposta. Allora vuol dire che, in fin dei conti, ti sposeresti con lei per forza e ne verrebbe fuori qualcosa che non va.»
Rostov capiva che tutto questo era stato meditato a lungo dalle due fanciulle. Anche il giorno prima Sonja l’aveva colpito per la sua bellezza. Ora, rivedendola di sfuggita, gli era sembrata ancora più bella. Era un’incantevole ragazza di sedici anni, che in modo palese lo amava con tutta la sua passione (di questo egli non aveva mai dubitato nemmeno per un istante). Perché dunque lui non avrebbe dovuto amarla, e perfino sposarla, subito? Ma… adesso c’erano tante altre gioie, tante altre occupazioni! «Sì, l’hanno studiata bene,» pensò, «ma per ora è meglio che resti libero.»
«Va bene,» disse, «ne parleremo. Ah, come sono contento di essere con te!» aggiunse. «Ma dimmi: e tu? Boris, non l’avrai tradito?» le domandò.
«Che sciocchezze!» gridò ridendo Nataša. «Non penso né a lui né a nessuno; non voglio saper niente.»
«Ah, davvero? Ma allora che intenzioni hai?»
«Io?» disse Nataša, e un sorriso felice le illuminò il volto. «Senti, hai mai visto Duport?»
«No.»
«Il famoso Duport, il ballerino, non l’hai mai visto? Allora non puoi capire. Io, ecco, guarda…»
E Nataša, inarcando le braccia e sorreggendo la gonna come si fa quando ci si accinge a ballare, fece di corsa alcuni passi, si rigirò, fece un entrechat, batté un piede contro l’altro e, ritta sulle punte, percorse qualche altro passo.
«Vedi che riesco a star ritta? Guarda,» disse; ma non riuscì a reggersi sulle punte. «Ecco cosa voglio io! Non mi sposerò mai con nessuno, farò la ballerina. Tu però non dirlo a nessuno.»
Rostov scoppiò in una risata così allegra e sonora, che Denisov dalla sua stanza ne provò invidia; Nataša a sua volta non potè trattenersi e scoppiò a ridere con lui.
«Non ti sembra bello?» continuava a dire.
«Bello. Con Boris, allora, non ti vuoi più sposare?»
Nataša arrossì.
«Io non voglio sposare nessuno. E lo dirò anche a lui, appena lo vedrò.»
«Ah, sì?»
«Sì, queste sono tutte sciocchezze,» continuò a cicalare Nataša. «Ma dimmi: è bravo Denisov?» domandò poi.
«Sì che è bravo.»
«Be’, addio per ora, vatti a vestire. Senti, fa paura Denisov?»
«Perché dovrebbe far paura?» domandò Nikolaj. «No, Vas’ka è un bravissimo ragazzo.»
«Lo chiami Vas’ka tu?… che buffo! Ma allora, è proprio bravo?»
«Sì, molto bravo.»
«Be’, sbrigati a venire a prendere il tè. Lo beviamo tutti insieme.»
Nataša si levò in punta di piedi e uscì dalla stanza come fanno le ballerine, ma sorridendo come sorridono soltanto le fanciulle di quindici anni quando sono felici. Incontrando Sonja in salotto, Nikolaj arrossì. Non sapeva come comportarsi con lei. Il giorno avanti, nel primo momento di gioia per essersi ritrovati, si erano scambiati un bacio, ma ora sentivano che questo non poteva ripetersi; e sentiva anche come tutti, sua madre e le sue sorelle, lo guardassero con aria interrogativa, in attesa di vedere come si sarebbe comportato con lei. Le baciò la mano e le rivolse la parola dandole del voi. Ma i loro occhi, incrociandosi, si diedero del «tu» e si baciarono con tenerezza. Con il suo sguardo lei gli chiese perdono perché, con l’ambasceria di Nataša, aveva osato rammentargli la promessa, e lo ringraziò per il suo amore. Lui, con il suo sguardo, la ringraziò per avergli offerto la libertà e disse che in un modo o nell’altro non avrebbe mai cessato di amarla, perché non amarla era impossibile.
«Com’è strano però,» disse Vera, cogliendo un momento di silenzio generale, «che Sonja e Nikolen’ka adesso si diano del “voi”, come se fossero due estranei.» L’osservazione di Vera era giusta, come tutte le sue osservazioni; ma, come accadeva per la maggior parte delle osservazioni, tutti ne furono imbarazzati. Non soltanto Sonja, Nikolaj e Nataša, ma anche la vecchia contessa, la quale paventava quell’amore del figlio per Sonja, che poteva privarlo di un brillante partito, si fece rossa come una ragazzina. Denisov, con grande meraviglia di Rostov, apparve in salotto con indosso un’uniforme nuova, con quella stessa aria da damerino che aveva in battaglia, e d’amabile cavalleria con le signore. Rostov non se lo sarebbe mai aspettato.
II
Di ritorno a Mosca dall’esercito, Nikolaj Rostov era stato accolto dai familiari come un figlio modello, come un eroe e come l’adorato Nikoluška; dai parenti, come un giovane simpatico, amabile e rispettoso; dai conoscenti, come un bel tenente degli ussari, esperto ballerino e uno dei migliori partiti di Mosca.
I Rostov conoscevano tutta Mosca, e quell’anno il vecchio conte, avendo finito di ipotecare tutte le proprietà, disponeva di denaro a sufficienza; perciò Nikoluška, diventato possessore di un cavallo da trotto, di un paio di pantaloni da equitazione all’ultima moda, di un tipo speciale come a Mosca non ne aveva ancora nessuno, e di stivali anch’essi all’ultima moda, con le punte più aguzze possibile e piccoli speroni d’argento, trascorreva il suo tempo molto allegramente. Tornato a casa, dopo un certo periodo di tempo necessario per riadattarsi alle vecchie condizioni di vita, ora provava una sensazione molto piacevole. Aveva l’impressione d’esser molto cresciuto, di esser diventato un uomo. La disperazione per la bocciatura all’esame di religione, i soldi fattisi imprestare da Gavrila per pagare il vetturino di piazza, i baci segreti con Sonja: di tutto questo si rammentava, come di cose da ragazzi, ormai remote. Adesso era un tenente degli ussari con il dolman argenteo, e la Croce di S. Giorgio; preparava il suo cavallo per le corse, insieme a noti intenditori, anziani e stimati. Conosceva una signora che abitava sul boulevard, e andava da lei la sera. Aveva diretto una mazurca al ballo degli Archarov e discusso di guerra col feldmaresciallo Kamenskij; frequentava il Club inglese e dava del tu a un colonnello di quarant’anni che Denisov gli aveva presentato.
A Mosca, la sua passione per l’imperatore si era un poco affievolita, perché nel frattempo non l’aveva più rivisto. Eppure parlava sovente dell’imperatore, del suo amore per lui, facendo capire che non diceva ancora tutto, che nei sentimenti che provava per il sovrano c’era qualcos’altro che non poteva essere capito; e condivideva di tutto cuore i sentimenti di adorazione allora in voga a Mosca per l’imperatore Aleksandr Pavloviè, al quale in quell’epoca era stato attribuito l’appellativo di «angelo incarnato».
Durante questo breve soggiorno in città, prima di ripartire per l’esercito, Rostov non solo non si avvicinò maggiormente a Sonja, ma, al contrario, se ne allontanò. Lei era molto bella, graziosa e in modo palese appassionatamente innamorata di lui; ma Nikolaj attraversava quel periodo della giovinezza in cui sembra che ci siano tante cose da fare, da non aver tempo per occuparsi di questo, il momento in cui un giovane ha paura di legarsi e ha cara quella libertà personale indispensabile a molte altre cose. Quando nel corso di questo nuovo suo soggiorno a Mosca pensava a Sonja, diceva tra sé: «Ah, ce ne saranno ancora tante altre come lei; anzi, ci sono già, in qualche posto, e io non le conosco ancora. Quando lo vorrò, potrò sempre occuparmi anche dell’amore, ma adesso non ne ho il tempo.» Inoltre, gli pareva che nel dedicarsi alle compagnie femminili ci fosse qualcosa d’umiliante per la sua mascolinità. Andava ai balli e frequentava signore e signorine fingendo di fare questo contro la sua volontà. Le corse, il Club inglese, le baldorie con Denisov, le visite laggiù erano un’altra cosa: tutto questo si addiceva a un baldo ussaro.
Ai primi di marzo il vecchio conte Il’ja Andrejè Rostov era tutto preso dai preparativi per un pranzo al Club inglese col quale si intendeva degnamente accogliere il principe Bagration.
Il conte, in veste da camera, andava avanti e indietro per la sala, dando disposizioni all’economo del circolo e al celebre Feoktist, il capo cuoco del Club inglese, in merito agli asparagi, ai cetrioli freschi, alle fragole, al vitello e al pesce per il pranzo offerto al principe Bagration. Sin dal giorno della fondazione del Club il conte ne era membro e presidente. Ora il Club gli aveva affidato l’organizzazione della festa in onore di Bagration, perché non c’era nessuno che sapesse organizzare un banchetto con altrettanta larghezza e senso d’ospitalità, e soprattutto non c’era chi fosse disposto, come lui, a rimetterci volentieri di tasca sua se ciò fosse stato necessario per la buona riuscita della cena. Il cuoco e l’economo del Club ascoltavano con facce radiose gli ordini del conte, perché sapevano che soltanto con lui si poteva guadagnar tanto su un pranzo del costo di diverse migliaia di rubli.
«Allora, bada bene, metti dei funghi nel brodo di tartaruga. Hai capito?»
«Ci saranno tre piatti freddi, dunque?…» domandò il cuoco.
Il conte rimase soprappensiero.
«Meno di tre non è possibile… la maionese, uno,» disse, piegando un dito…
«Allora dobbiamo comperare gli sterleti grossi?» domandò l’economo.
«Che cosa vuoi farci? Prendili, se proprio non vogliono farti uno sconto. Oh, santo cielo, a momenti me ne scordavo. Ci vuole un altro antipasto per la tavola. Ah, padri miei!» E il conte si prese la testa fra le mani. «Già, e chi porterà i fiori? Miten’ka! Ehi, Miten’ka! Fa’ un salto, qui vicino a Mosca,» disse, rivolgendosi all’amministratore che era accorso alla sua chiamata. «Fa’ un salto alla mia proprietà qui vicino a Mosca e ordina a Maksim, il giardiniere, di chiamare subito a raccolta i contadini. Di’ che faccia portare qui tutti i fiori delle serre, e che li avvolga per bene nei panni di feltro. Digli che per venerdì devono esserci qui duecento vasi.»
Dopo aver dato altre disposizioni, il conte stava per andare dalla contessa e riposarsi un poco; ma si ricordò di qualcos’altro che occorreva, tornò indietro, richiamò il cuoco e l’economo e riprese a dare disposizioni. Sulla soglia si udì un leggero passo maschile, un tinnire di speroni, ed entrò il giovane conte, bello, colorito, coi suoi baffetti neri, che palesemente si compiaceva della vita pacifica di Mosca e vi si crogiolava.
«Ah, mio caro, ho la testa che mi gira,» disse il vecchio, come vergognoso e sorridendo al figlio. «Se almeno ci fossi tu ad aiutarmi! Mancano ancora i cantori. L’orchestra ce l’ho, ma che dici? Se facessi venire anche gli zingari? È roba che a voi militari piace.»
«Davvero, papà, credo proprio che quando il principe Bagration si preparava alla battaglia di Schöngraben si dava meno da fare di voi adesso,» disse sorridendo il figlio.
Il vecchio conte finse di andare in collera.
«Sì, sì… dovresti provare, tu, invece di chiacchierare tanto!»
E il conte si rivolse al cuoco il quale, dal suo volto intelligente e rispettoso, attento e affabile, lanciava sguardi ora al padre ora al figlio.
«Come sono questi giovani, eh, Feoktist?» disse il conte. «Ci prendono in giro, noialtri vecchi.»
«Che volete farci, eccellenza; a loro piace mangiar bene, ma, quanto a preparar tutto e a servire, non è cosa che li riguardi.»
«Già, proprio così!» esclamò il conte, e afferrando allegramente il figlio per tutt’e due le braccia aggiunse: «Stammi a sentire, capiti proprio a puntino! Prendi subito la slitta a due cavalli, va’ da Bezuchov e digli che Il’ja Andrejè ti ha mandato a chiedergli delle fragole e degli ananassi freschi. Non se ne potrebbe trovare da nessun altro. Se lui non fosse in casa, va’ dalle principessine e chiedili a loro. Dopo va’ a Razguljaj - il cocchiere Ipatka sa dov’è - rintraccia Il’juška, lo zingaro, quello che ha ballato quella volta in casa Orlov, con indosso quella casacchina bianca, e portalo qui da me.»
«E lo devo portar qui con le zingare?» domandò Nikolaj, ridendo.
«Va’, va’!…»
In quel momento, a passi felpati, con quell’aria affaccendata e nel tempo stesso cristianamente sottomessa, che non l’abbandonava mai, Anna Michajlovna entrò nella stanza. Sebbene ogni giorno Anna Michajlovna s’imbattesse nel conte in veste da camera, ogni volta egli restava confuso e si scusava per il suo abbigliamento.
«Non fa nulla, caro amico,» disse lei, abbassando rassegnata la palpebre. «Quanto a Bezuchov ci vado io. Pierre è arrivato a Mosca, quindi potremo prendere dalle sue serre tutto quel che vi serve. E poi io ho bisogno di vederlo. Lui mi ha mandato una lettera da parte di Boris. Grazie a Dio, Borja adesso è allo stato maggiore.»
Il conte, lietissimo che Anna Michajlovna si assumesse una parte delle sue commissioni, ordinò di attaccare per lei la carrozza piccola.
«Dite a Bezuchov che venga al pranzo. Lo includo nell’elenco. Come va con sua moglie?» domandò.
Anna Michajlovna alzò gli occhi al cielo e sul volto si dipinse una profonda costernazione.
«Ah, caro mio, Pierre è molto infelice,» disse. «Se quel che dicono è vero, la cosa è orribile. Chi l’avrebbe mai pensato quando ci rallegravamo tanto della sua felicità? E pensare che è un’anima sublime, celestiale, il giovane Bezuchov! Lo compiango di cuore, e per quanto posso cercherò di consolarlo.»
«Ma perché, di che si tratta?» domandarono i due Rostov, il vecchio e il giovane.
Anna Michajlovna trasse un profondo sospiro.
«Dicono che Dolochov, il figlio di Mar’ja Ivanovna l’ha compromessa irrimediabilmente,» rispose Anna Michajlovna in un bisbiglio misterioso. «Bezuchov l’aveva protetto, l’ha invitato a casa sua a Pietroburgo; ed ecco… è arrivata lei, qui a Mosca, e quello scapestrato si è messo a farle la corte,» disse Anna Michajlovna, volendo esprimere la sua simpatia per Pierre, ma dimostrando invece con le sue intonazioni involontarie e con un mezzo sorriso la sua simpatia per lo scapestrato, come lei chiamava Dolochov. «Dicono che Pierre sia prostrato dal dolore.»
«Be’, in ogni caso ditegli di venire al Club: servirà a distrarlo. Sarà un banchetto memorabile.»
Il giorno dopo, il 3 marzo, passata l’una dopo mezzogiorno, duecentocinquanta membri del Club inglese e cinquanta invitati attendevano per il pranzo il caro ospite ed eroe della campagna austriaca, il principe Bagration. In un primo momento, ricevendo notizie sull’esito della battaglia di Austerlitz, Mosca era rimasta perplessa. In quell’epoca i russi erano così abituati alle vittorie che, appresa la sconfitta, alcuni semplicemente non vi avevano creduto, altri avevano cercato la spiegazione di un avvenimento così inaudito in qualche causa straordinaria. Al Club inglese, dove si riuniva la società più autorevole, più informata e influente, nel mese di dicembre, quando le notizie cominciarono ad affluire, ci si astenne da qualunque commento sulla guerra e sull’ultima battaglia, come se tutti si fossero accordati per non farne parola. Le persone che davano il la alle conversazioni, e cioè il conte Rastopèin, il principe Jurij Vladimirovič Dolgorukij, Valuev, il conte Markov, il principe Vjazemskij al Club non si facevano vedere, ma si riunivano nelle case e nei loro circoli privati; così, i moscoviti che parlavano sulla base delle voci altrui (e tra questi anche Il’ja Andrejè Rostov), per un certo periodo non coltivarono alcuna opinione precisa sull’andamento della guerra. I moscoviti sentivano che qualcosa non andava, ma pensavano che giudicare quelle notizie sfavorevoli era difficile, e che perciò era meglio tacere. Dopo qualche tempo, tuttavia, come i giurati escono dalla camera di consiglio, riapparvero anche i pezzi grossi che davano il la all’opinione del Club e tutti si misero a parlare in termini chiari e con cognizione di causa. Erano stati accertati i motivi di quell’avvenimento incredibile, impossibile, inaudito, e cioè la sconfitta dei russi. Tutto diventò chiaro e in ogni angolo di Mosca tutti presero a ripetere la stessa cosa. Questi motivi erano: il tradimento degli austriaci, il cattivo approvvigionamento dell’esercito, il tradimento del polacco Przebyszewski e del francese Langeron, l’incapacità di Kutuzov e (lo si diceva sottovoce) la giovinezza e l’inesperienza del sovrano, che si era affidato a persone malvage e inette. Ma le truppe, dicevano tutti, le truppe russe erano state straordinarie, avevano compiuto prodigi di valore. I soldati, gli ufficiali, i generali erano altrettanti eroi. L’eroe degli eroi era, comunque, il principe Bagration, che si era coperto di gloria con la sua impresa di Schöngraben e con la ritirata da Austerlitz, dove solo lui aveva saputo mantenere la sua colonna in buon ordine e aveva respinto per tutta la giornata un nemico due volte superiore. Al fatto che i moscoviti avessero eletto Bagration a loro eroe contribuiva la circostanza che a Mosca egli non aveva parenti e conoscenti, ed era praticamente un estraneo. Nella sua persona si rendeva onore al semplice combattente russo, senza relazioni e intrighi, ancora legato ai ricordi della campagna d’Italia e al nome di Suvorov. Oltre a questo, negli onori a lui tributati giuocava anche, e in larga misura, il sentimento di avversione e disapprovazione verso Kutuzov.
«Se non ci fosse Bagration, il faudrait l’inventer,» aveva detto Šinšin, il creatore di barzellette, parodiando il detto di Voltaire. Di Kutuzov nessuno diceva nulla e certuni lo insultavano a bassa voce, chiamandolo banderuola di corte e vecchio satiro.
Per tutta Mosca correvano le parole del principe Dolgorukov: «Tanto va la gatta al lardo…» il quale si consolava della nostra sconfitta col ricordo delle precedenti vittorie, e si ripetevano le parole di Rastopèin, secondo le quali i soldati francesi si devono eccitare alle battaglie con frasi altisonanti, con i tedeschi si deve ragionare a fil di logica, persuadendoli che è più pericoloso scappare che non andare avanti; ma che i soldati russi si devono soltanto trattenere e pregare: calma, più calma! Da tutte le parti si udivano sempre nuovi racconti su singoli esempi di coraggio dimostrati ad Austerlitz dai nostri ufficiali e dai nostri soldati. Chi aveva salvato una bandiera, chi aveva ucciso cinque francesi, chi aveva caricato da solo cinque cannoni. Si parlava anche di Berg (e chi non lo conosceva?), il quale, ferito alla mano destra, aveva impugnato la sciabola nella sinistra e aveva continuato ad avanzare. Di Bolkonskij non si diceva nulla: solo i suoi più intimi conoscenti rimpiangevano che fosse morto così immaturamente, lasciando la moglie incinta e quel vecchio originale di suo padre.
III
Il 3 marzo in tutte le stanze del Club inglese risuonava un ronzio di voci che conversavano e, come api nello sciame di primavera, i soci e gli invitati, chi in divisa, chi in frac, qualcuno ancora in parrucca incipriata e caffettano, camminavano avanti e indietro, si sedevano, sostavano in piedi, si raggruppavano e si sparpagliavano. I servitori in parrucca e livrea, calze di seta e scarpini, ritti a lato di ogni porta, attentissimi, si sforzavano di cogliere ogni gesto degli invitati e dei soci del Club per offrire i loro servigi. La maggior parte dei presenti erano persone anziane e rispettabili dai larghi volti sicuri di sé, le dita grosse, le voci e i gesti fermi. Invitati e soci di questa specie se ne stavano seduti ai soliti posti ben noti e si raccoglievano nei soliti e noti gruppi. Una piccola parte dei presenti era formata da invitati occasionali, in prevalenza giovani, e fra questi c’erano Denisov, Rostov e Dolochov, che era di nuovo ufficiale del reggimento di Semënov. Sui volti dei giovani, soprattutto dei militari, si coglieva quella espressione di sprezzante rispetto che sembra dire agli anziani: «A rispettarvi e a venerarvi siamo pronti, ma ricordatevi che l’avvenire è nostro.»
Anche Nesvickij era presente come socio anziano dei Club. Pierre, che per volontà della moglie si era lasciato crescere i capelli, tolti gli occhiali e vestito alla moda, girava per le sale con aria triste e depressa. Anche lì, come dappertutto, era circondato dalla consueta cerchia di persone che si inchinavano davanti alla sua ricchezza, ed egli le trattava con la noncuranza e la distratta consuetudine di un monarca.
Data la sua età, egli avrebbe dovuto stare con i giovani, ma per ragioni di censo e a causa delle sue relazioni si trovava a far parte del gruppo degli invitati anziani e più rispettabili, cosicché passava da un gruppo all’altro. I vecchi più autorevoli stavano al centro di crocchi ai quali si accostavano rispettosamente anche gli sconosciuti per ascoltare la voce di persone famose. Gruppi più numerosi si erano formati intorno al conte Rastopèin, a Valuev e a Naryškin. Rastopèin raccontava come i russi fossero stati schiacciati dagli austriaci in fuga e avessero dovuto aprirsi con la baionetta un varco tra i fuggitivi.
Valuev riferiva confidenzialmente che il generale Uvarov era stato inviato da Pietroburgo per indagare sull’opinione dei moscoviti a proposito della battaglia di Austerlitz.
In un terzo circolo Naryškin parlava della seduta del Consiglio di guerra austriaco, durante la quale Suvorov si era messo a gridare come un ossesso in risposta alle idiozie dei generali austriaci. Šinšin, anch’egli presente, disse scherzando che evidentemente Kutuzov aveva imparato male da Suvorov, anche l’arte tutt’altro che difficile di gridare come un ossesso; ma gli anziani lanciarono un’occhiata severa a quest’uomo che voleva far dello spirito, lasciandogli intendere così che in quella circostanza e in quel lungo era sconveniente parlare di Kutuzov in simili termini.
Il conte Il’ja Andrejè Rostov, indaffarato e frettoloso, si muoveva avanti e indietro con le sue scarpe morbide dalla sala da pranzo al salone, salutando in fretta e allo stesso modo le persone più o meno importanti che egli conosceva tutte, senza distinzione; di tanto in tanto cercava con gli occhi il suo elegante e prode figliuolo, fermava gioiosamente lo sguardo su di lui e gli ammiccava con gli occhi. Nikolaj era in piedi vicino a una finestra in compagnia di Dolochov, che aveva conosciuto da poco e alla cui conoscenza teneva in modo speciale. Il vecchio conte si avvicinò e strinse la mano a Dolochov.
«Vieni a casa nostra, te ne prego, dal momento che conosci il mio figliolo… laggiù avete fatto delle prodezze, insieme… Ah, Vasilij Ignat’iè!… salve, vecchio mio,» aggiunse poi, rivolgendosi a un anziano gentiluomo che passava; ma non aveva ancora terminato il saluto che tutto intorno si mise in movimento e un servitore, accorrendo con la faccia spaventata, annunciò: «È arrivato!»
Si udirono squilli di campanello; i direttori del Club si precipitarono avanti; gli invitati sparpagliati nelle varie stanze, come grani d’avena scossi su una pala, si affollarono in un sol mucchio e si fermarono nel grande salotto presso le porte del salone.
Sulla soglia dell’anticamera comparve Bagration, senza cappello e senza sciabola che, secondo l’uso del Club, aveva lasciato al portiere. Non portava il berretto di pelo d’agnello né il frustino a tracolla, così come l’aveva visto Rostov alla vigilia della battaglia di Austerlitz, ma un’uniforme nuova e attillata, con onorificenze russe e straniere e la stella di S. Giorgio dalla parte sinistra del petto. Era evidente che si era fatto tagliare i capelli e le fedine proprio in occasione del pranzo, e la sua fisionomia ne risultava sfavorevolmente mutata. Il suo volto era atteggiato a un’espressione ingenuamente festosa che, insieme con i suoi lineamenti duri e virili, gli conferiva un’espressione un po’ comica. Beklešov e Fëdor Petrovič Uvarov, che l’accompagnavano, sostarono sulla soglia, desiderosi che lui, come ospite d’onore, passasse avanti a loro. Bagration si confuse non volendo approfittare della loro cortesia; ci fu un attimo d’indugio sulla soglia e alla fine Bagration mosse avanti. Procedeva camminando sul parquet dell’anticamera con aria timida e impacciata, senza saper dove mettere le mani: gli era più congeniale e più facile camminare sotto i proiettili su un campo arato, come aveva marciato a Schöngraben in testa al reggimento di Kursk. I direttori del Club gli si fecero incontro alla prima porta, dicendogli in poche parole la loro gioia di accogliere un ospite così illustre; poi, senza attendere la sua risposta, quasi impossessandosi di lui lo circondarono e lo guidarono verso il salotto. Per la porta del salotto non era possibile passare a causa dei soci e degli invitati che vi si erano assiepati, che si pigiavano a vicenda e attraverso le spalle dei vicini allungavano il collo per guardare Bagration come se fosse stato una bestia rara. Il conte Il’ja Andrejè, con più energia di tutti gli altri, spingeva indietro la folla ridendo e ripetendo: «Largo, mon cher, largo, largo!» e portò gli ospiti nel salotto facendoli sedere sul divano centrale. I personaggi di maggior prestigio, i soci più rispettabili del Club circondarono i nuovi venuti. Il conte Il’ja Andrejè, facendosi di nuovo largo tra la folla, uscì dal salotto e ricomparve un minuto più tardi, accompagnato da un altro anziano del Club, recando un grande piatto d’argento che presentò al principe Bagration. Sul piatto posava un foglio con dei versi composti e stampati in onore dell’eroe. Bagration, vedendo il piatto, si guardò in giro con aria spaventata, come cercando aiuto. Sentendosi in balia di quella gente, con gesto deciso afferrò il piatto con tutte e due le mani, e lanciò uno sguardo desolato, pieno di rimprovero, al conte che gliel’aveva presentato. Qualcuno, servizievole, tolse il piatto dalle mani di Bagration, giacché questi sembrava disposto a tenerlo a quel modo per tutta la serata, senza lasciarlo nemmeno per andare a tavola, e attirò la sua attenzione sui versi. «E va bene, li leggerò,» parve dire Bagration e, rivolti i suoi occhi stanchi al foglio di carta, prese a leggere con un’aria seria e concentrata. Allora l’autore stesso di quei versi prese il foglio e cominciò a leggerlo. Il principe Bagration chinò il capo e si pose in ascolto.
Il secol d’Alessandro in te si esalti
difendi il nostro Tito sul suo trono,
sii ferreo duce e a un tempo generoso,
Rifeo in patria, Cesare sul campo.
E che il sin qui felice Napoleone,
conoscendo per prova Bagration,
più non osi turbare i russi Alcidi…
Ma non aveva ancora terminato di declamare i suoi versi, che la voce stentorea del maggiordomo annunciò: «Il pranzo è servito!» La porta venne spalancata, dalla sala da pranzo risuonò la polonaise: «Tuono della vittoria, echeggia, gioisci, Russia vittoriosa», e il conte Ilj’a Andrejè, dopo aver gettato uno sguardo contrariato all’autore dei versi che continuava la sua lettura, fece un grande inchino a Bagration. Tutti si alzarono, sentendo che il pranzo era più importante della poesia, e di nuovo Bagration s’incamminò davanti a tutti, verso la tavola. Al posto d’onore, fra i due Alessandri, Beklešov e Naryškin - il che non mancava d’avere un significato in riferimento al nome dell’imperatore - fecero accomodare Bagration. Trecento persone si disposero poi nella sala da pranzo, più o meno vicino all’ospite che si onorava, a seconda dei gradi e dell’importanza di ognuno, così come l’acqua si allarga e si spande maggiormente ove il fondo è più basso.
Proprio sul punto di cominciare il pranzo il conte Il’ja Andrejè presentò suo figlio al principe. Bagration, che l’aveva riconosciuto, disse qualche parola sconnessa e imbarazzata, come del resto tutte le parole che disse quel giorno. Mentre Bagration parlava con suo figlio, il conte Il’ja Andrejè guardava tutti dall’alto con gioia e con fierezza.
Nikolaj Rostov sedeva con Denisov e il suo nuovo amico Dolochov quasi al centro della tavolata. Di fronte a loro era seduto Pierre, a fianco del principe Nesvickij. Il conte Il’ja Andrejè era seduto davanti a Bagration con gli altri anziani del Club e si era messo al servizio del principe, personificando la cordialità moscovita.
Le sue fatiche non erano state vane. I suoi pranzi, fossero di magro o di grasso, erano sempre stupendi; e nondimeno egli non si sentì del tutto tranquillo fino a quando il banchetto non fu concluso. Ammiccava al dispensiere, bisbigliava ordini ai servitori e attendeva non senza emozione ogni portata, che pur conosceva. Tutto era magnifico. Fin dalla seconda portata, insieme al gigantesco storione (alla vista del quale Il’ja Andrejè arrossì di compiacenza e di timidezza), i domestici cominciarono a far saltare i turaccioli e a versare lo champagne. Dopo il pesce, che produsse una certa impressione, Il’ja Andrejè scambiò un’occhiata con gli altri anziani del Club.
«Ci saranno molti brindisi, è tempo di cominciare!» sussurrò. Prese in mano il calice e si alzò.
Tutti tacquero in attesa di ciò che avrebbe detto.
«Alla salute di sua maestà l’imperatore!» gridò mentre i suoi occhi buoni si inumidivano di lacrime di gioia e d’entusiasmo. Nello stesso istante l’orchestra riprese a suonare: «Tuono della vittoria, echeggia». Tutti si alzarono dai loro posti e gridarono «urrà!». Anche Bagration gridò «urrà!» con la stessa voce con la quale lo aveva gridato sul campo di Schöngraben. La voce entusiasta del giovane Rostov emerse sopra tutte le trecento voci. Egli per poco non piangeva.
«Alla salute di sua maestà l’imperatore,» gridò, «urrà!»
Bevve d’un fiato il suo calice, poi lo scaraventò per terra. Molti seguirono il suo esempio. A lungo continuarono quelle grida. Quando le voci tacquero, i servitori raccolsero i vetri rotti, e tutti si rimisero a sedere e a conversare sorridendo delle grida lanciate poco prima. Il conte Il’ja Andrejè si alzò di nuovo, guardò un biglietto posato accanto al suo piatto e pronunciò un brindisi alla salute dell’eroe della nostra ultima campagna, il principe Pëtr Ivanovič Bagration, e di nuovo i suoi occhi celesti si inumidirono di lacrime. «Urrà!» gridarono di nuovo le voci dei trecento invitati e, invece della musica, si udirono i cantori che eseguirono una cantata composta da Pavel Ivanovič Kutuzov.
Nessun ostacolo può fermare i russi,
Delle vittorie è pegno il valore,
Noi abbiamo soldati come Bagration,
Tutti i nemici ci cadranno ai piedi.
I cantori avevano appena terminato, quando seguirono altri e, poi altri brindisi, durante i quali il conte Il’ja Andrejè si commuoveva sempre più. Venne infranto un numero sempre più elevato di bicchieri e le grida echeggiarono sempre più forti. Bevettero alla salute di Beklešov, di Naryškin, di Uvarov, di Dolgorukov, di Apraksin, di Valuev, alla salute dei direttori del Club, di tutti i soci del Club, dell’organizzatore del ricevimento, e, infine, a parte, alla salute di chi aveva curato il pranzo, il conte Il’ja Andrejè. A questo brindisi il conte tirò fuori di tasca il fazzoletto e, coprendosene il volto, proruppe addirittura in lacrime.
IV
Pierre sedeva di fronte a Dolochov e a Nikolaj Rostov. Mangiava e beveva avidamente, come sempre, del resto. Ma chi lo conosceva bene capiva che quel giorno in lui era intervenuto un grande cambiamento. Durante tutto il pranzo rimase in silenzio, guardandosi attorno con gli occhi socchiusi e le sopracciglia aggrottate, oppure, con lo sguardo fisso e l’espressione assente, si fregava con il dito la radice dei naso. La sua faccia era cupa, costernata. Sembrava che non vedesse e non sentisse nulla di ciò che accadeva intorno a lui, e inseguisse un solo pensiero, penoso e non risolto.
Questa questione irrisolta che lo torturava erano le allusioni fattegli a Mosca dalla principessina circa l’assiduità di Dolochov presso sua moglie e la lettera anonima ricevuta quella mattina, nella quale, in quel tono di volgare motteggio proprio di tutte le lettere anonime, si diceva che, nonostante i suoi occhiali, lui vedeva male, e che la relazione di sua moglie con Dolochov era un segreto per lui soltanto. Pierre non aveva assolutamente creduto né alle allusioni della principessina, né alla lettera, ma adesso evitava di guardare Dolochov che gli stava seduto di fronte. Ogni volta che per caso il suo sguardo s’incontrava con i begli occhi sfrontati di Dolochov, Pierre sentiva che qualcosa di orribile, di mostruoso gli nasceva nell’anima, e si affrettava a guardare altrove. Ricordando senza volerlo tutto il passato di sua moglie e i suoi rapporti con Dolochov, Pierre si rendeva conto che quanto era scritto nella lettera poteva rispondere al vero, sarebbe potuto sembrare la verità se non si fosse trattato di sua moglie. Pierre non poteva non ricordarsi come Dolochov, il quale era stato completamente riabilitato dopo la campagna, fosse tornato a Pietroburgo e si fosse recato da lui. Approfittando della sua vecchia amicizia con Pierre, nel ricordo delle loro baldorie, Dolochov si era presentato senz’altro in casa sua e Pierre gli aveva dato alloggio e del denaro in prestito. Pierre rammentava il sorriso col quale Hélène aveva espresso il suo disappunto per il fatto che Dolochov abitasse in casa loro, come Dolochov gli avesse cinicamente lodato la bellezza della moglie e come da quel momento fino all’arrivo a Mosca egli non si fosse più staccato un solo momento da loro.
«Sì, è molto bello Dolochov,» pensava Pierre. «Io lo conosco bene. So che lui troverebbe un piacere tutto speciale nel disonorare il mio nome e ridere di me, proprio perché io mi sono occupato di lui, l’ho protetto, l’ho aiutato. Sì, capisco quale sapore tutto questo avrebbe aggiunto al suo inganno se tutto ciò fosse vero. Sì, se questa fosse la verità; ma io non ci credo, non ne ho il diritto, non posso crederlo.» Si ricordò dell’espressione che assumeva la faccia di Dolochov nei momenti di ferocia, come quando aveva legato il commissario di polizia alla schiena dell’orso e lo aveva scaraventato in acqua, o quando sfidava a duello una persona senza alcun motivo, oppure uccideva con una revolverata il cavallo di un postiglione. Quell’espressione appariva sovente sulla faccia di Dolochov, quando guardava Pierre. «Sì, è un bretteur,» pensava Pierre; «per lui uccidere un uomo non ha alcun significato; è certo convinto che tutti abbiano paura di lui e questo deve riempirlo di soddisfazione. Senza dubbio pensa che anch’io ne ho paura. In effetti, ho paura,» pensava Pierre. Poi, di nuovo, sull’orma di questi pensieri sentiva qualcosa di mostruoso nascergli dentro l’anima.
Dolochov, Denisov e Rostov erano adesso seduti di fronte a Pierre e sembravano molto allegri. Rostov chiacchierava gaiamente con i suoi due amici, uno dei quali era un ussaro temerario, l’altro un noto bretteur e scavezzacollo, e di tanto in tanto sbirciava con espressione ironica Pierre, il quale faceva spicco fra i convitati per la sua figura assorta, distratta e massiccia. Rostov guardava Pierre senza alcuna benevolenza, innanzitutto perché, ai suoi occhi di ussaro, Pierre altro non era se non un ricco borghese, il marito di una bella donna, in breve una femminuccia; in secondo luogo, perché Pierre, assorto e distratto qual era, non l’aveva riconosciuto e non aveva risposto al suo saluto. Quando si erano messi a bere alla salute dell’imperatore, Pierre, soprappensiero, non si era alzato in piedi e non aveva levato il calice.
«Ma voi che fate?» gli aveva gridato Rostov, fissandolo con uno sguardo entusiasta e al tempo stesso corrucciato. «Non sentite? Si brinda alla salute di sua maestà l’imperatore!»
Con un sospiro Pierre si alzò docilmente in piedi, tracannò il suo calice e, dopo aver atteso che tutti tornassero a sedere, si rivolse a Rostov col suo sorriso buono.
«Non vi avevo riconosciuto,» disse.
Ma Rostov aveva ben altro a cui pensare: stava gridando «urrà!».
«Perché non rinnovi la conoscenza,» disse Dolochov a Rostov.
«Oh, quello è un imbecille, che Dio lo conservi,» rispose Rostov.
«Bisogna avev viguavdo pev i maviti delle belle donne,» disse Denisov.
Pierre non sentiva quello che dicevano, ma sapeva che parlavano di lui. Arrossì e si volse dalla parte opposta.
«Ebbene, ora brindiamo alla salute delle belle donne,» esclamò Dolochov, e con un’espressione seria, ma un sorriso tirato agli angoli della bocca, si rivolse a Pierre tenendo il calice in mano.
«Alla salute delle belle donne, Petruša, e dei loro amanti.»
Pierre, con gli occhi bassi, bevve dal suo calice senza guardare Dolochov e senza rispondergli. Il domestico che distribuiva il testo della cantata di Kutuzov, posò il foglio davanti a Pierre come ospite di maggior riguardo. Egli avrebbe voluto prenderlo, ma Dolochov si piegò sopra la tavola, glielo strappò di mano e si mise a leggerlo. Pierre lanciò un’occhiata a Dolochov, le sue pupille si abbassarono: quel qualcosa di orribile e di mostruoso, che lo aveva torturato durante tutto il pranzo, si sollevò e si impossessò di lui. Egli si curvò sulla tavola con tutto il suo grosso corpo.
«Non abbiate l’ardire di prenderlo!» gridò.
Udendo quel grido e vedendo a chi era rivolto, Nesvickij e il vicino di destra subito si rivolsero spaventati a Bezuchov.
«Basta, basta, che fate?» mormorarono alcune voci spaventate. Dolochov guardò Pierre con un sorriso negli occhi chiari, allegri e crudeli, come se dicesse: «Ma sì, è proprio questo che mi dà gusto.»
«Non ve lo do,» proferì nettamente.
Pallido, con le labbra tremanti, Pierre gli strappò il foglio.
«Voi… voi… siete un mascalzone!… Io vi sfido,» disse; e scostando la sedia si alzò da tavola. Nello stesso istante in cui Pierre faceva quel gesto e pronunciava quelle parole, sentì che il problema della presunta colpevolezza di sua moglie - quel dilemma che lo aveva torturato nelle ultime ventiquattro ore - era definitivamente e indubitabilmente deciso in modo affermativo. Egli la odiava, ed era ormai per sempre disgiunto da lei. Nonostante Denisov lo scongiurasse di non immischiarsi in quella faccenda, Rostov accettò di essere il padrino di Dolochov, e dopo il pranzo trattò con Nesvickij, padrino di Bezuchov, le condizioni del duello. Pierre andò a casa, mentre Rostov, insieme a Dolochov e a Denisov, rimase fino a sera tarda al Club, ad ascoltare gli zigani e i cantori.
«A domani, allora, al bosco di Sokol’niki,» disse Dolochov congedandosi da Rostov sulla scaletta d’ingresso del Club.
«E tu sei tranquillo?» domandò Rostov.
Dolochov si fermò.
«Ecco,» disse, «in due parole ti svelerò il segreto dei duelli. Se tu vai a un duello e prima fai testamento e scrivi lettere commoventi ai genitori, se temi che ti possano ammazzare, sei un idiota e sicuramente sei spacciato; se invece vai con la ferma intenzione di uccidere senza indugio il tuo avversario, allora tutto va per il meglio. Come mi diceva un cacciatore d’orsi laggiù da noi, a Kostroma: l’orso, diceva, come si fa a non temerlo? Ma, appena lo vedi, la paura è bell’e passata e ciò che conta è che non se la svigni! Bene, e così anch’io. A demain, mon cher!»
Il giorno dopo, alle otto del mattino, Pierre e Nesvickij giunsero al bosco di Sokol’niki e vi trovarono Dolochov, Denisov e Rostov che li avevano preceduti. Pierre aveva l’aria di una persona occupata in chissà quali considerazioni che non riguardavano affatto ciò che doveva accadere. Il suo volto, disfatto, era giallognolo. Era evidente che quella notte non aveva dormito. Si guardava attorno distrattamente e strizzava gli occhi come sotto un sole troppo forte. Due pensieri dominavano la sua mente: la colpevolezza di sua moglie, sulla quale, dopo quella notte insonne, non gli restava più alcun dubbio, e l’innocenza di Dolochov, il quale non aveva motivo di rispettare l’onore di un uomo che gli era del tutto estraneo. «Forse, al suo posto, avrei fatto anch’io lo stesso,» pensava Pierre. «Anzi, ne sono certo: a che serve questo duello, questo assassinio? O lo uccido io, oppure sarà lui a colpirmi alla testa, a un gomito, a un ginocchio.» Un’idea gli passò per la mente: andarsene via di qui, scappare, nascondersi in qualche posto. Ma proprio nello stesso istante in cui gli venivano in mente idee simili, con un’espressione del tutto tranquilla e distaccata che suscitava il rispetto degli astanti, egli domandò: «Si farà presto? Siamo pronti?»
Quando tutto fu pronto, le sciabole piantate nella neve a indicare il limite che non si doveva superare e le pistole cariche, Nesvickij si accostò a Pierre.
«Non eseguirei il mio dovere, conte,» disse egli con voce timida, «e non giustificherei la fiducia e l’onore che mi avete fatto scegliendomi come vostro padrino, se in questo grave, gravissimo momento, non vi esprimessi francamente la mia opinione. Io ritengo che questo scontro non poggi su motivi sufficienti e non meriti che per esso si sparga del sangue… Voi avevate torto; vi eravate scaldato…»
«Sì, sì, è stata una cosa assolutamente stupida…» disse Pierre.
«Permettetemi dunque di trasmettere il vostro rammarico e sono sicuro che i nostri avversari acconsentiranno ad accogliere le vostre scuse,» disse Nesvickij, ancora non credendo - come le altre persone coinvolte nella faccenda e come del resto tutti in simili circostanze - che la cosa fosse realmente giunta al limite del duello. «Voi lo sapete, conte: è assai più nobile riconoscere un proprio errore che non spingere le cose fino all’irreparabile. Non c’è stata offesa da nessuna delle due parti. Permettetemi di spiegare…»
«Ma no, che cosa volete spiegare?» disse Pierre.
«Tanto è lo stesso… Allora, siamo pronti?» aggiunse.
«Ditemi soltanto come e dove andare, e dove debbo sparare,» disse, con un sorriso dolce e innaturale.
Pierre prese la pistola fra le mani e cominciò a far domande sul modo di far scattare il grilletto, giacché fino allora non aveva mai maneggiato una pistola, cosa che non osava confessare.
«Ah, sì, già, lo so… me n’ero dimenticato,» diceva.
Il luogo per il duello era stato scelto a un’ottantina di passi della strada dove era rimasta la slitta, in una piccola radura della pineta coperta di neve, che il disgelo degli ultimi giorni aveva sciolto. Gli avversari stavano a quaranta passi l’uno dall’altro, ai margini della radura. I padrini, misurando i passi, lasciarono impresse le loro orme sulla neve spessa e bagnata dal punto dove si trovavano fino alle sciabole di Nesvickij e di Denisov, che indicavano la barriera ed erano piantate a dieci passi l’una dall’altra. Il disgelo e la nebbia persistevano; a quaranta passi non si vedeva nulla. Da tre minuti tutto era pronto e tuttavia si esitava a cominciare. Tutti tacevano.
V
«Allora, si comincia?» esclamò Dolochov.
«E perché no?» rispose Pierre, sorridendo sempre allo stesso modo.
La situazione si fece terribile. Era evidente che nulla poteva più dirimere una questione come quella, iniziata con tanta leggerezza; essa ora procedeva da sé, indipendente ormai dalla volontà degli uomini, e doveva compiersi. Denisov per primo si fece avanti fino alla barriera e proclamò:
«Poiché gli avvevsavi hanno vifiutato di viconciliavsi, savà oppovtuno incominciave. Pvendeve le pistole e alla pavola tve venivsi incontvo. U…no! Due! Tve!…» gridò poi egli con ira e si tirò da parte.
I due avanzarono lungo i sentieri battuti, facendosi sempre più vicini e riconoscendosi attraverso la nebbia. Mentre si avvicinavano alla barriera, gli avversari avevano il diritto di sparare in qualunque momento. Dolochov procedeva lentamente, senza alzare la pistola, fissando il suo avversario con i suoi chiari, splendenti occhi celesti. Come sempre la sua bocca recava un’ombra di sorriso.
Alla parola «tre», Pierre si era fatto avanti a passi rapidi, uscendo dal sentiero tracciato e camminando sulla neve intatta. Teneva la pistola allungando in avanti il braccio destro, evidentemente temendo di poter uccidere con quella pistola se stesso. Badava a tenere il braccio sinistro indietro, perché d’istinto avrebbe voluto servirsene per sorreggere il braccio destro, mentre sapeva che questo non si poteva fare. Dopo esser uscito dal sentiero sulla neve e aver percorso circa sei passi, si guardò i piedi, di nuovo diede una rapida occhiata a Dolochov, contrasse il dito come gli era stato indicato e sparò. Poiché non si attendeva un rumore così forte, Pierre sussultò al proprio sparo, poi sorrise della propria reazione e si fermò. Al primo momento il fumo, particolarmente denso a causa della nebbia, gli impedì di vedere; ma l’altro sparo che lui si aspettava non veniva. Si sentivano solamente i passi affrettati di Dolochov e, tra il fumo, apparve la sua figura. Con una mano si premeva il fianco sinistro, con l’altra stringeva la pistola penzoloni. Il suo volto era pallido. Rostov accorse e gli disse qualcosa.
«N… no, no,» proferì tra i denti Dolochov; «no, non è finita.» Vacillando percorse ancora alcuni passi, fino a raggiungere la sua sciabola e cadde nella neve accanto ad essa. La sua mano sinistra era insanguinata, egli la strofinò contro il soprabito e vi si appoggiò. Il suo viso era pallido, accigliato, e gli tremava.
«Favo…» cominciò a dire, ma non poté pronunciare la parola d’un fiato, «favorite…» riuscì a dire poi con uno sforzo.
Frenando a fatica i singhiozzi, Pierre corse verso di lui e avrebbe già voluto oltrepassare lo spazio che separava le barriere, quando Dolochov gridò: «Alla barriera!» Pierre comprese di che si trattava, restò fermo accanto alla propria sciabola. Solo dieci passi li separavano. Dolochov lasciò cadere la testa sulla neve, vi diede avidamente un morso, sollevò nuovamente la testa, si raddrizzò, congiunse le gambe e si sedette, cercando un centro stabile di gravità. Inghiottiva la neve gelida e la succhiava; le sue labbra tremavano ma sempre sorridendo; gli occhi scintillavano per lo sforzo e la collera delle ultime forze che aveva raccolto. Alzò la pistola e cominciò a prendere la mira.
«Di fianco, proteggetevi con la pistola,» disse Nesvickij.
«Copritevi!» gridò anche Denisov, incapace di trattenersi, al suo avversario.
Con un mite sorriso di pietà e di pentimento, Pierre se ne stava indifeso con le gambe e le braccia spalancate, il largo torace proprio dinanzi a Dolochov, e lo guardava tristemente. Denisov, Rostov e Nesvickij strizzarono gli occhi. Nello stesso momento udirono uno sparo e un urlo furibondo di Dolochov.
«L’ho mancato!» gridò Dolochov, e si lasciò cadere stremato, con la faccia nella neve.
Pierre si prese il capo fra le mani. Si volse e si diresse verso il bosco, camminando sulla neve intatta e proferendo ad alta voce parole incomprensibili.
«Com’è stupido… com’è tutto stupido! La morte… la menzogna…» ripeteva, con la fronte aggrottata. Nesvickij lo fermò e lo condusse a casa.
Rostov e Denisov portarono via Dolochov ferito.
Dolochov giaceva nella slitta, silenzioso, con gli occhi chiusi, e non rispondeva nemmeno con una parola alle domande che gli facevano. Quando però entrarono in Mosca, improvvisamente egli tornò in sé, e sollevando il capo a fatica afferrò per una mano Rostov che gli stava seduto accanto. Rostov fu colpito dall’espressione totalmente mutata, tenera e solenne del volto di Dolochov.
«Ebbene, come ti senti?» domandò.
«Male, molto male. Ma non si tratta di questo. Amico,» disse Dolochov con voce rotta, «dove siamo? Siamo a Mosca, lo so. Per me non ha importanza, ma lei l’ho uccisa, l’ho uccisa… Lei non sopporterà questo. Non lo sopporterà…»
«Chi?» domandò Rostov.
«Mia madre. Mia madre, il mio angelo, il mio angelo adorato.» E Dolochov si mise a piangere, continuando a stringere la mano di Rostov. Quando si fu calmato un poco, spiegò a Rostov che lui viveva con sua madre, che se sua madre lo avesse visto moribondo, non avrebbe potuto reggere; cosicché supplicò Rostov di andare da lei e di prepararla.
Rostov andò innanzi per adempiere all’incarico. Con suo grande stupore, venne a sapere che, quel bretteur, quel turbolento attaccabrighe di Dolochov viveva, a Mosca, con la vecchia madre e con una sorella gobba ed era il più tenero dei figli e dei fratelli.
VI
Pierre negli ultimi tempi raramente si trovava con la moglie da solo a sola. Sia a Pietroburgo che a Mosca la loro casa era sempre piena di ospiti. La notte successiva al duello, egli, come spesso faceva, non andò in camera da letto, ma rimase nell’immenso studio del padre, quello stesso locale in cui il vecchio conte Bezuchov era morto.
Si sdraiò sul divano e avrebbe voluto addormentarsi per dimenticare tutto ciò che gli era accaduto, ma non ci riuscì. All’improvviso nell’anima gli si era sollevata una tale tempesta di sentimenti, di pensieri e di ricordi, che non soltanto non riusciva a prender sonno, ma nemmeno poteva restar fermo, e dovette saltar giù dal divano e mettersi a camminare a passi rapidi su e giù per la stanza. Ora lei gli si presentava com’era nei primi tempi dopo il matrimonio, con le spalle nude e lo sguardo languido e appassionato, e subito, accanto a lei, sorgeva il bel volto sfrontato, duro e beffardo di Dolochov, tremante e sofferente come nel momento in cui egli si era girato su se stesso ed era caduto nella neve.
«Cos’è accaduto, dunque?» si domandava. «Io ho ucciso l’amante, sì, l’amante di mia moglie. Sì, è accaduto proprio questo. Ma perché? Come ho fatto ad arrivare a tanto?»
«Perché ti sei sposato con lei,» gli rispondeva una voce interna.
«Ma qual è la mia colpa?» domandava lui. «Quella di averla sposata senza esserne innamorato, di aver ingannato me stesso e lei!» E gli si presentava al vivo quel momento, dopo la cena in casa del principe Vasilij, quando aveva pronunciato quelle parole che non riuscivano a uscirgli di bocca: «Je vous aime.» Tutto veniva da lì! «Anche allora io lo sentivo,» continuava a pensare, «lo sentivo che era tutto sbagliato, che io non avevo il diritto a quelle parole. Ed ecco le conseguenze.»
Gli venne alla mente la luna di miele e a quel ricordo arrossì. Ma particolarmente vivo, motivo di offesa e di vergogna era per lui il ricordo di come una volta, poco dopo il suo matrimonio, verso mezzogiorno fosse entrato in vestaglia di seta dalla camera da letto nello studio e qui avesse trovato l’amministratore capo il quale gli aveva fatto un rispettoso inchino, aveva dato un’occhiata a lui, poi alla sua vestaglia, e aveva avuto un lieve sorriso, come a manifestare così una deferente partecipazione alla felicità del suo principale.
«Quante volte sono stato fiero di lei, della sua maestosa bellezza, del suo garbo mondano,» pensava; «orgoglioso di questa mia casa in cui lei riceveva tutta Pietroburgo, orgogliosa di quella sua inaccessibile bellezza. Ma di che cosa ero orgoglioso? Allora credevo di non capirla. Quante volte, meditando sul suo carattere, mi sono detto che la colpa era mia, che io non la capivo, non capivo quella sua perpetua tranquillità, quella compiacenza di sé, e quell’assenza di passioni e di desideri; e tutto l’enigma stava in questa terribile parola, che lei è una donna viziosa; mi sono detto questa terribile parola e tutto è diventato chiaro! Anatol’ veniva da lei a farsi prestare del denaro e la baciava sulle spalle nude. Lei denaro non gliene dava, ma permetteva che lui la baciasse. Suo padre, scherzando, eccitava la sua gelosia; ma lei con un tranquillo sorriso rispondeva che non era così stupida da essere gelosa. Faccia pure quello che vuole, diceva di me. Una volta le domandai se non sentisse dei sintomi di gravidanza. Lei è scoppiata in una risata sprezzante e ha detto che non era così sciocca da desiderare di avere dei figli, e che da me figli non ne avrebbe mai avuti.»
Poi ricordò la grossolanità, la chiarezza delle idee di lei e la volgarità delle espressioni che le erano proprie nonostante l’educazione ricevuta nell’ambiente della migliore aristocrazia. «Non sono mica un’idiota… provati tu… allez vous promener,» diceva. Sovente, al cospetto del successo che ella incontrava fra gli uomini vecchi e giovani, e anche fra le donne, Pierre non riusciva a capacitarsi del perché egli, invece, non l’amasse. «Sì, io non l’ho mai amata,» diceva ora a se stesso, «io lo sapevo che lei è una donna corrotta,» andava ripetendosi, «ma non osavo confessarlo a me stesso. E adesso Dolochov: eccolo disteso sulla neve. Sorride a fatica e muore, forse, anche ora, rispondendo con una bravata al mio pentimento.»
Pierre era una di quelle persone che, nonostante una apparente cosiddetta debolezza di carattere, non cercano persone a cui confidare il proprio dolore. Egli si travagliava in solitudine.
«E colpevole di tutto è lei, lei sola,» diceva a se stesso. «Ma da questo che altro deriva? Perché mi sono legato a lei, perché le ho detto quelle parole, je vous aime, che erano una menzogna e ancor peggio di una menzogna?» si ripeteva. «La colpa è mia e ora devo sopportare… Che cosa? Che il mio nome sia disonorato, la mia vita infelice? Ma sono tutte sciocchezze,» pensò, «l’onore, il disonore… sono tutte cose convenzionali, indipendenti da me. Luigi XVI è stato giustiziato perché loro dicevano che era disonesto e criminale,» pensava Pierre; «e dal loro punto di vista avevano ragione, come pure avevano ragione quelli che per lui erano periti di una morte da martiri e lo annoveravano fra i santi. Poi Robespierre era stato giustiziato perché era un despota. Chi aveva ragione, chi aveva torto? Nessuno. Ma giacché sei vivo, ebbene: vivi! Domani morirai, come potevo morire io, un’ora fa. Vale la pena di tormentarsi, quando non si vive che un istante, in confronto all’eternità?»
Ma nel momento stesso in cui si sentiva tranquillizzato da questo genere di considerazioni, all’improvviso gli si presentava lei nei momenti in cui egli le esprimeva con maggior intensità il suo amore insincero; allora Pierre si sentiva affluire il sangue al cuore e di nuovo cedeva all’impulso di alzarsi, di muoversi, di fracassare tutto ciò che gli capitava sotto mano.
«Perché le ho detto: Je vous aime?» continuava a ripetersi. Si pose per la decima volta quella domanda e gli venne in mente quella battuta di Molière: Mais que diable allait-il faire dans cette galère? Pierre rise di se stesso.
Durante la notte chiamò il cameriere e gli ordinò di preparare i bagagli: intendeva partire subito per Pietroburgo. Non poteva restare con lei sotto lo stesso tetto. Non riusciva a immaginarsi come ora avrebbe potuto rivolgerle la parola. Decise che sarebbe partito l’indomani e le avrebbe lasciato una lettera per parteciparle la sua intenzione di separarsi da lei per sempre.
Al mattino, quando il cameriere entrò nello studio per portargli il caffè, Pierre era sdraiato sull’ottomana e dormiva, con un libro aperto in mano.
Si destò e si guardò a lungo intorno con aria spaventata, incapace di comprendere dove si trovasse.
«La signora contessa ha ordinato di chiedere se vostra eccellenza era in casa,» disse il cameriere.
Ma Pierre non fece in tempo a decidere la risposta, che la contessa in persona, in una bianca vestaglia di raso ricamata d’argento e pettinata con molta semplicità (due enormi trecce en diadème giravano due volte intorno alla sua testa leggiadra) entrò nella stanza con aria calma e maestosa; solo la fronte marmorea e leggermente convessa era solcata da una ruga di collera. Con quella solita calma a tutta prova, evitò di parlare in presenza del cameriere. Aveva saputo del duello ed era venuta per parlare di questo. Attese che il cameriere posasse il vassoio col caffè e fosse uscito. Pierre la guardava timidamente attraverso gli occhiali e, come una lepre accerchiata dai cani appiattisce le orecchie e continua a restare accucciata alla vista dei suoi nemici, così anch’egli provò a continuare la sua lettura; ma si rese conto che ciò era insensato, impossibile; e di nuovo le rivolse una timida occhiata. Lei non si era seduta e lo guardava con un sorriso di disprezzo, aspettando che il cameriere fosse uscito.
«Che cosa significa tutto questo? Che cosa avete combinato, ancora?» chiese severamente.
«Io? Che c’entro io?» disse Pierre.
«A quanto sembra, volete apparire coraggioso! Su, rispondete, che cosa significa questo duello? Che cosa volevate dimostrare? Che cosa? Vi sto facendo una domanda precisa.»
Pierre si voltò pesantemente sul divano, aprì la bocca, ma non poté rispondere.
«Se non volete rispondere, ve lo dirò io…» proseguì Hélène. «Voi credete a tutto quello che vi dicono. Vi hanno detto…» e scoppiò a ridere, «che Dolochov è il mio amante,» disse poi in francese con la sua brutale precisione di termini, pronunciando la parola «amante» come se fosse stata una parola qualsiasi: «E voi lo avete creduto! Ma con questo cos’avete dimostrato? Che cos’avete dimostrato con questo duello? Che siete un idiota, que vous étes un sot. Ma questo lo sapevano già tutti! E quale sarà la conseguenza di tutto questo? Che io diventerò lo zimbello di tutta Mosca; che chiunque potrà dire che voi, in stato di ubriachezza, in stato d’incoscienza, avete sfidato a duello un uomo di cui siete geloso senza alcun fondamento…» Hélène si andava accalorando e alzava sempre più la voce, «e che. è migliore di voi sotto tutti i rapporti…»
«Hmm… hmm…» mugolava Pierre, corrugando la faccia, senza guardarla e senza fare la minima mossa.
«E come avete potuto credere che fosse il mio amante?… Come? Forse perché mi è gradita la sua compagnia? Se voi foste più intelligente e più simpatico, avrei preferito la vostra.»
«Tacete, ve ne prego,» mormorò Pierre con voce rauca.
«E perché dovrei tacere? Io ho tutto il diritto di parlare, e dirò francamente che ben poche donne con un marito come voi non si prenderebbero degli amanti, des amants, ma io questo non l’ho fatto,» rispose Hélène.
Pierre avrebbe voluto dir qualcosa: la guardò con occhi strani, di cui ella non comprese l’espressione, e tornò a sdraiarsi. In quel momento egli soffriva fisicamente: provava un senso di oppressione al petto e non riusciva a respirare. Sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa per porre fine a quella sofferenza, ma ciò che intendeva fare era troppo terribile.
«È meglio che noi ci separiamo,» disse Pierre con voce soffocata.
«Separarci? Benissimo, purché voi mi assegniate un patrimonio,» rispose lei. «Separarci! Credete, con questo, di spaventarmi?»
Pierre saltò su dal divano e si gettò su di lei barcollando.
«Io ti ammazzo!» gridò; e, afferrata la lastra di marmo di un tavolo con una forza che sino a quel momento non sapeva di avere, fece un passo verso di lei, nell’atto di scaraventargliela addosso.
Il volto di Hélène assunse un’espressione spaventosa. Ella lanciò un grido e fuggì via. In lui s’era ridestata la natura del padre. Pierre sentì il trasporto e il fascino del furore. Scaraventò via la lastra fracassandola e, avvicinandosi a Hélène con le braccia spalancate, si mise a gridare: «Fuori!» con una voce così terribile che in tutta la casa quel grido fu udito con terrore. Dio sa che cosa Pierre avrebbe fatto, in quel momento, se Hélène non fosse fuggita dalla stanza.
Una settimana più tardi Pierre consegnava alla moglie una procura per l’amministrazione di tutte le sue proprietà nella Grande Russia, che costituivano più della metà del suo patrimonio; e, solo, partiva per Pietroburgo.
VII
Erano passati due mesi da quando a Lysye Gory era giunta la notizia della battaglia di Austerlitz e della fine del principe Andrej, ma nonostante tutte le ricerche e tutte le lettere inviate per via diplomatica, il corpo del principe non era stato ritrovato ed egli non figurava tra i prigionieri. La cosa più penosa per i suoi parenti era il fatto che sussistesse tuttavia la speranza che egli fosse stato raccolto dagli abitanti del posto, sul campo di battaglia, e forse ora giaceva convalescente o agonizzante in qualche luogo, solo, fra estranei, nell’impossibilità di dar notizie di sé. Sui giornali, dai quali il vecchio principe aveva avuto le prime notizie sulla sconfitta di Austerlitz, si scriveva, come sempre in modo assai vago e sommario, che dopo alcuni brillanti combattimenti i russi avevano dovuto ritirarsi, e questa ritirata era avvenuta in perfetto ordine. Da questi elementi il vecchio principe aveva capito che i nostri erano stati sconfitti. Una settimana dopo il giornale che aveva recato la notizia della battaglia di Austerlitz, arrivò una lettera di Kutuzov, il quale informava il principe della sorte toccata a suo figlio.
«Vostro figlio,» scriveva Kutuzov, «è caduto sotto i miei occhi, con la bandiera in mano, in testa al reggimento, da eroe degno di suo padre e della sua patria. Con unanime rincrescimento, mio e di tutto il nostro esercito, ignoriamo fino ad ora se egli sia vivo o no. Mi lusingo, insieme con voi, che vostro figlio sia vivo, giacché in caso contrario figurerebbe anch’egli nell’elenco degli ufficiali rinvenuti sul campo di battaglia che mi è stato trasmesso per mezzo dei parlamentari.»
Il vecchio principe ricevette questa notizia a tarda sera mentre era solo nel suo studio; il giorno dopo, come di abitudine, andò a fare la sua passeggiata mattutina, ma si mostrò taciturno con l’amministratore, col giardiniere e con l’architetto, e sebbene si capisse che era irritato, non si confidò con nessuno.
Quando alla solita ora la principessina Mar’ja si era recata da lui, egli stava al tornio e lavorava; ma non si voltò a guardarla come di consueto.
«Ah, la principessina Mar’ja!» esclamò in tono innaturale: e gettò lo scalpello. (La ruota girava ancora per inerzia. La principessina Mar’ja ricordò poi per molto tempo quel cigolio morente della ruota, che si era fuso dentro di lei con tutto ciò che era seguito.)
La principessina Mar’ja si avvicinò, vide la faccia di suo padre e a un tratto qualcosa le si spezzò nel cuore. La vista le si oscurò. Dal volto del padre, da quel volto non triste, né afflitto, ma adirato e contratto dallo sforzo che faceva per dominarsi, comprese che una sventura terribile, una sventura che l’avrebbe schiacciata, incombeva su di lei. Una sventura che ancora non conosceva, irrimediabile, inconcepibile: la morte di una persona amata.
«Mon père! Andrè!» esclamò la goffa, sgraziata principessina, con una grazia così inesprimibile nel suo dolore e nel suo oblio di se stessa, che il padre non poté sostenerne lo sguardo e con un singhiozzo si volse dall’altra parte.
«Ho ricevuto la notizia. Fra prigionieri non figura, fra gli uccisi non c’è. A quanto scrive Kutuzov,» esclamò con voce acuta, come se con quel grido avesse voluto scacciare la principessina, «non può che esser morto.»
La principessina non cadde, non venne meno. Era già pallidissima, ma quando ebbe udito quelle parole, il suo viso si trasformò e qualcosa brillò nei suoi magnifici occhi raggianti. Come se una gioia, una gioia suprema, indipendente dalle tristezze e dalle gioie di questo mondo, traboccasse al di sopra del dolore che la opprimeva. Ella dimenticò il timore che aveva di suo padre; gli si accostò, lo prese per una mano, lo attrasse a sé e gli cinse con le braccia il collo magro, dalle vene sporgenti.
«Mon père,» disse. «Non respingetemi; piangiamo insieme.»
«Miserabili, vigliacchi!» si mise a gridare il vecchio allontanando il volto da lei. «Condurre a rovina l’esercito, perdere gli uomini! Perché? Per che cosa? Va’, va’ a dirlo a Lise.»
La principessina si lasciò cadere senza forze in una poltrona accanto a suo padre e scoppiò a piangere. Ora rivedeva il fratello nel momento in cui si congedava da lei e da Lise con quel viso dolce e insieme altero. Lo vedeva nel momento in cui, con un misto di tenerezza e di ironia, si era messo al collo la piccola icona. «Credeva? Si era pentito della sua incredulità? Era là, adesso? Là, dove regnano la pace e la beatitudine perpetue?» pensava.
«Mon père, ditemi, com’è stato?» domandò, fra le lacrime.
«Va’, va’. È caduto nella battaglia alla quale hanno portato i migliori uomini russi e la gloria russa perché fossero uccisi. Va’ e dillo a Lise. Poi verrò io.»
Quando la principessina Mar’ja tornò dal colloquio con suo padre, la piccola principessa sedeva con un lavoro tra le mani. Ella guardò la principessina Mar’ja con quella particolare espressione - una sorta di tranquillo, felice sguardo interiore - che hanno solo le donne incinte. Si capiva che i suoi occhi non vedevano la principessina Mar’ja, ma guardavano nel profondo, dentro se stessa: in qualcosa di misterioso e gioioso che si compiva in lei.
«Marie,» disse, staccandosi dal telaio e abbandonandosi all’indietro, «dammi la tua mano.»
Prese la mano della principessina e se la pose sul ventre. I suoi occhi sorridevano aspettando, il labbruzzo soffuso di peluria si era sollevato ed era rimasto così, in un’espressione d’infantile letizia.
La principessina Mar’ja si pose in ginocchio davanti a lei e nascose il viso fra le pieghe dell’abito della cognata.
«Ecco, ecco: senti? Mi sembra così strano. E sai, Mar’ja, io gli vorrò tanto bene,» disse Lise con occhi scintillanti di felicità guardando la cognata.
La principessina Mar’ja non poteva alzare il capo: piangeva.
«Maša, che cos’hai?»
«Niente… mi sento triste, triste per Andrej,» rispose la principessina Mar’ja, tergendo le lacrime contro le ginocchia della cognata.
Nel corso della mattinata la principessina Mar’ja si accinse più volte a preparare la cognata, e ogni volta le venne da piangere. Queste lacrime, di cui la piccola principessa non comprendeva la ragione, nondimeno suscitavano la sua inquietudine, per quanto ella fosse poco osservatrice. Non diceva nulla, ma si guardava attorno inquieta, come cercando qualcosa. Prima di pranzo entrò nella sua camera il vecchio principe, che lei continuava a temere e che adesso mostrava un volto particolarmente irrequieto e rabbioso. Subito uscì di nuovo senza dire nemmeno una parola. Ella guardò la principessina Marja, poi rimase soprappensiero, con quell’espressione degli occhi che hanno le donne incinte e che denota una attenzione rivolta solo all’interno di se stessa, e all’improvviso scoppiò in lacrime.
«Avete ricevuto qualche notizia di Andrej?» domandò.
«No, lo sai che non possono ancora essere arrivate notizie; ma mon père è inquieto e io ho paura.»
«Allora, nulla?»
«Nulla,» disse la principessina Marja guardando fissa la cognata con i suoi occhi raggianti. Aveva deciso di non dirle nulla e aveva persuaso il padre a nascondere la notizia alla cognata fino a dopo il parto, che doveva avvenire a giorni. La principessina Mar’ja e il vecchio principe sopportavano e nascondevano il loro dolore ognuno a suo modo. Il vecchio principe non voleva sperare: aveva deciso fra sé che il principe Andrej era stato ucciso, e sebbene avesse inviato in Austria un funzionario alla ricerca di qualche traccia di suo figlio, aveva ordinato a Mosca un monumento funebre che intendeva erigere nel suo giardino e a tutti diceva che suo figlio era rimasto ucciso. Si sforzava di non recare modifiche al suo vecchio schema di vita, ma le forze lo tradivano: camminava meno, mangiava meno, dormiva meno e diventava ogni giorno più debole. La principessina Mar’ja, invece, sperava. Pregava per il fratello come per un vivente e aspettava da un momento all’altro la notizia del suo ritorno.
VIII
«Ma bonne amie,» disse la piccola principessa la mattina del 19 marzo, dopo pranzo.
Il suo piccolo labbro soffuso di peluria si sollevò secondo l’antica abitudine; però, come dal giorno dell’arrivo della terribile notizia in quella casa c’era un’eco di mestizia non soltanto nei sorrisi, ma anche nelle intonazioni dei discorsi e perfino nei passi, così anche ora il sorriso della piccola principessa, che cedeva allo stato d’animo generale anche senza conoscerne la ragione, era tale da rendere più viva che mai la generale mestizia.
«Ma bonne amie, je crains que le fruschtique (comme dit Foka, il cuoco) de ce matin ne m’aie pas fait du mal.»
«Che cos’hai, tesoro mio? Sei pallida. Sì, sei molto pallida,» disse spaventata la principessina Mar’ja avvicinandosi in fretta alla cognata col suo passo molle e pesante.
«Eccellenza, non sarebbe il caso di chiamare Mar’ja Bogdanovna?» domandò una delle cameriere presenti. (Mar’ja Bogdanovna, levatrice del capoluogo del distretto, era arrivata a Lysye Gory già da oltre una settimana.)
«Infatti,» confermò la principessina Mar’ja, «forse sarebbe il caso. Andrò io. Courage, mon ange!»
Baciò Lise e fece per uscire dalla camera.
«Ah, no, no!» sul viso della piccola principessa si aggiunse al pallore l’evidente, infantile paura dell’inevitabile sofferenza fisica.
«Non, c’est l’estomac… dites que c’est l’estomac, dites, Marie, dites…» E la piccola principessa scoppiò in un pianto da bambino, un pianto di corruccio, capriccioso e perfino un poco falso, torcendosi le piccole mani.
La principessina Mar’ja corse fuori dalla stanza per chiamare Mar’ja Bogdanovna.
«Oh, mon Dieu! Mon Dieu!» udì gridare alle sue spalle.
La levatrice, strofinandosi le piccole mani grassocce, le stava già venendo incontro con un viso grave e calmo.
«Mar’ja Bogdanovna! Mi sembra che le doglie siano cominciate,» disse la principessina Mar’ja fissando la donna con occhi dilatati dall’inquietudine.
«Che Dio sia lodato, principessina,» rispose Mar’ja Bogdanovna, senza affrettare il passo. «Voi ragazze, non c’è bisogno che le sappiate, queste cose.»
«Ma perché non è ancora arrivato il dottore da Mosca?» chiese la principessina Mar’ja. (Per desiderio di Lise e del principe Andrej, allo scadere del termine previsto qualcuno era stato mandato a Mosca a chiamare un ostetrico, e lo si attendeva da un momento all’altro.)
«Non importa, principessina, non preoccupatevi,» disse Mar’ja Bogdanovna, «anche senza il dottore tutto andrà bene.»
Cinque minuti dopo la principessina udì dalla sua camera che stavano spostando qualcosa di pesante. Si affacciò per vedere: i domestici stavano trasportando il divano di cuoio che era nello studio del principe Andrej. Sulle facce degli uomini era dipinta un’espressione solenne e pacata.
La principessina Mar’ja se ne stava seduta in camera sua, sola, ascoltando i rumori della casa: di tanto in tanto apriva la porta, quando li sentiva più vicini, e dava un’occhiata a ciò che stava succedendo in corridoio. Alcune donne andavano e venivano, a passi silenziosi, voltandosi a guardare la principessina e poi distogliendone lo sguardo. Lei non osava far domande; chiudeva la porta, tornava in camera sua e sedeva nella sua poltrona, oppure prendeva il libro di preghiere o si inginocchiava davanti al kiot. Purtroppo, e con suo stupore, sentiva che le preghiere non placavano la sua agitazione. A un tratto la porta della camera si aprì silenziosamente e sulla soglia comparve la sua vecchia njanja Praskov’ja Savišna, con la testa avvolta in un fazzoletto, che quasi mai (in seguito a una proibizione del principe) entrava nella stanza della principessina.
«Sono venuta a passare un momento con te, Mašen’ka,» disse la njanja; «e poi, ecco: ho portato i ceri delle nozze del principe per accenderli davanti alle sante icone, angelo mio,» disse ancora con un sospiro.
«Ah, come sono contenta, balia cara.»
«Dio è misericordioso, colombella mia.»
La njanja accese davanti al kiot i ceri ornati di filigrana d’oro e sedette a far la calza vicino alla porta. La principessina Marja prese un libro e si mise a leggere. Solo quando si udivano dei passi o delle voci, la principessina e la njanja si scambiavano un’occhiata, la prima in modo spaventato e interrogativo, la seconda in modo tranquillizzante. Da un capo all’altro della casa era diffuso e dominava su tutti lo stesso sentimento che provava la principessina Mar’ja seduta nella sua stanza. Cedendo alla credenza che quanto meno numerose sono le persone a sapere che una partoriente ha le doglie, tanto meno ella soffre, tutti fingevano di non sapere nulla, nessuno ne parlava; ma in tutti, al di sotto dei modi posati e rispettosi, dell’abitudine alle buone maniere instaurata dal principe in casa sua, si avvertiva un’ansia comune, una sorta di tenerezza e la convinzione che in quei momenti si compiva qualcosa di grande e d’incomprensibile.
Nella grande stanza delle cameriere non si udiva alcun suono di risate. Nell’office tutti erano seduti e tacevano come in attesa di qualcosa. Nei quartieri dei domestici ardevano torce e candele; nessuno dormiva. Il vecchio principe camminava nel suo studio appoggiando il piede sul calcagno e mandò Tichon da Mar’ja Bogdanovna per domandare come andassero le cose.
«Devi dire soltanto che il principe manda a domandare come va, poi vieni a riferirmi quello che ti verrà risposto.»
«Riferisci al principe che il parto è cominciato,» disse Mar’ja Bogdanovna, dopo aver guardato il messo in modo significativo. Tichon tornò dal principe a riferire.
«Bene,» disse il principe, chiudendo la porta dietro di sé. E da quel momento Tichon non udì più il minimo rumore nello studio.
Dopo aver atteso un poco, Tichon entrò nello studio come se avesse voluto rimettere in ordine le candele. Notando che il principe era sdraiato sul divano, Tichon lo guardò: vide la sua faccia alterata, scosse il capo, gli si avvicinò in silenzio, e datogli un bacio sulla spalla, uscì senza mettere in ordine le candele e senza dire perché fosse entrato. Il più solenne mistero che ci sia al mondo continuava a compiersi. Trascorse la sera, sopravvenne la notte. E quel senso di attesa e d’intenerimento al cospetto dell’incomprensibile non diminuiva, ma si faceva più intenso. Nessuno andò a dormire.
Era una di quelle notti di marzo in cui l’inverno sembra voler riprendere il sopravvento e rovescia con furia disperata le ultime nevi, le ultime tempeste. Incontro al dottore tedesco di Mosca, che era atteso da un momento all’altro, erano stati inviati cavalli freschi sulla strada maestra, e alla svolta della strada vicinale erano stati mandati anche uomini a cavallo muniti di lanterne, per accompagnare il medico e fargli strada tra i fossi e i pantani coperti di neve.
Già da un pezzo la principessina Mar’ja aveva messo da parte il libro: sedeva in silenzio fissando gli occhi raggianti sulla faccia rugosa della njanja che conosceva sin nei minimi particolari, su una ciocca di capelli grigi che spuntava da sotto il fazzoletto, sulla pelle floscia che le pendeva sotto il mento.
La njanja Savišna, con la calza fra le mani, raccontava con voce quieta, senza udire né capire lei stessa le proprie parole, cose raccontate centinaia di volte, su come la defunta principessa avesse partorito la principessina Mar’ja a Kišinëv, assistita da una contadina moldava che fungeva da levatrice.
«Se Dio vuole, i dottori non sono mai necessari,» diceva.
All’improvviso una raffica di vento investì uno dei telai senza vetri della stanza (per volontà del principe, all’arrivo delle allodole si toglieva sempre il doppio telaio a una finestra di ogni camera), e facendo scattare la maniglia mal chiusa, fece sbattere le tende di seta e spense la candela con una folata di freddo e di neve.
La principessina Mar’ja trasalì; la niania, posata la calza, si avvicinò alla finestra e, sporgendosi, fece l’atto di afferrare l’imposta che s’era spalancata. Il vento gelido scuoteva le punte del suo fazzoletto e le grige ciocche di capelli che ne uscivano di sotto.
«Principessina, matuška, c’è qualcuno che viene lungo il prešpekt!» disse, tenendo l’imposta senza richiuderla. «Con le lanterne: dev’essere il dottore…»
«Ah, che Dio sia lodato!» esclamò la principessina Mar’ja. «Bisogna andargli incontro: lui non sa parlare russo.»
La principessina Mar’ja si gettò addosso uno scialle e corse incontro all’ospite. Attraversando l’anticamera, vide dalla finestra che all’ingresso c’era una carrozza attorniata da lanterne. Uscì sulle scale. Sul pilastro della balaustra era posata una candela di sego che il vento faceva colare. Il domestico Filipp, con la faccia spaventata, era più in basso, sul primo pianerottolo della scala e reggeva un’altra candela. Ancora più in basso, oltre la rampa della scala, si udivano avvicinarsi dei passi. E, così almeno parve alla principessina Mar’ja, una voce nota stava dicendo qualcosa.
«Dio sia lodato!» diceva la voce. «E il babbo?»
«S’è sdraiato a riposare,» rispondeva la voce del maggiordomo Dem’jan, che si trovava già al pianterreno.
Poi la voce disse ancora qualcosa, qualcosa rispose Dem’jan, e i passi degli stivali di feltro cominciarono ad avvicinarsi più rapidi dietro l’invisibile svolta della scala. «Questo è Andrej!» pensò la principessina Mar’ja. «No, non può essere, sarebbe una cosa troppo straordinaria,» pensò ancora; e nel momento stesso in cui formulava questo pensiero, sul pianerottolo ove si trovava il domestico con la candela apparvero la figura e il volto del principe Andrej in pelliccia, col bavero coperto di neve. Sì, era lui, pallido e smagrito, e un’espressione mutata, stranamente raddolcita ma colma d’ansietà. Infilò la rampa delle scale e abbracciò la sorella.
«Non avete ricevuto la mia lettera?» domandò e, senza attendere la risposta - che in ogni caso non avrebbe avuto perché la principessina non poteva parlare - tornò indietro e, insieme con l’ostetrico che saliva dietro di lui (l’aveva incontrato all’ultima stazione di posta), si avviò di nuovo a rapidi passi su per la scala e di nuovo abbracciò la sorella.
«Quale destino!» mormorò. «Maša, cara!»
E, liberatosi degli stivali e della pelliccia, entrò nell’appartamento della principessa.
IX
La piccola principessa giaceva sui guanciali, con una cuffietta bianca in capo. (Le doglie l’aveva appena abbandonata.) I capelli neri le si attorcigliavano a ciocche sulle guance accese e sudate; la graziosa bocca vermiglia col labbro soffuso di peluria era socchiusa ed ella sorrideva con gioia. Il principe Andrej entrò nella camera e le si fermò davanti, ai piedi del divano sul quale ella giaceva. Gli occhi scintillanti, che avevano uno sguardo d’infantile spavento, si posarono su di lui senza cambiare espressione. «Voglio tanto bene a tutti, non ho fatto del male a nessuno, perché soffro dunque? Aiutatemi,» diceva la sua espressione. La principessa vedeva suo marito, ma non comprendeva il significato della sua apparizione in quel momento. Il principe Andrej fece il giro del divano e la baciò sulla fronte.
«Anima mia,» disse. Una parola che prima non diceva mai. «Dio è misericordioso…»
Lei lo guardò con aria interrogativa e d’infantile rimprovero.
«Da te io mi aspettavo un aiuto; e invece nulla, nulla: anche tu come gli altri!» dicevano i suoi occhi. Ella non si stupiva che lui fosse venuto; non capiva che fosse arrivato da lontano. L’arrivo di lui non aveva nessun rapporto con le sue sofferenze e con un loro possibile sollievo. Le doglie ricominciarono e Mar’ja Bogdanovna consigliò al principe Andrej di uscire dalla camera.
Entrò l’ostetrico. Il principe Andrej uscì, s’imbatté nella principessina Mar’ja e le si avvicinò di nuovo. Presero a parlare a bassa voce, ma il discorso si interrompeva di continuo, perché entrambi tendevano l’orecchio, in attesa.
«Allez, mon ami,» disse la principessina Mar’ja.
Il principe Andrej tornò nell’appartamento della moglie e sedette in attesa, nella prima stanza. Dalla camera di lei uscì una donna dal volto spaventato, e nel vedere il principe Andrej, rimase turbata. Egli si coprì la faccia con le mani e restò così per alcuni minuti. Dietro la porta si udivano lamenti penosi, d’impotenza, come quelli di un animale. Il principe Andrej si alzò in piedi, accostandosi alla porta, e fece per aprirla. Qualcuno la teneva serrata.
«Non si può, non si può!» esclamò dall’interno una voce concitata.
Egli si mise a camminare su e giù per la stanza. Le grida tacquero. Passarono ancora alcuni secondi. A un tratto un urlo terribile, un urlo non suo, perché lei non poteva urlare così, echeggiò nella camera. Il principe Andrej corse alla porta; l’urlo cessò, si udiva il vagito di un bimbo.
«Perché hanno portato qui un bambino?» pensò al primo istante il principe Andrej. «Un bambino? Quale bambino? Perché c’è un bambino lì dentro? Oppure è il bambino che è nato.?»
Quando a un tratto comprese tutto il gioioso significato di quel vagito, le lacrime lo soffocarono e, appoggiatosi con entrambi i gomiti sul davanzale, pianse, singhiozzando come piangono i bambini. Dalla camera uscì il dottore, con le maniche rimboccate, senza giacca, pallido, con la mascella che gli tremava. Il principe Andrej si rivolse a lui, ma il dottore lo guardò con aria smarrita, e senza dir parola passò oltre. Accorse fuori una donna e, vedendo il principe Andrej, s’immobilizzò imbarazzata sulla soglia. Egli entrò nella camera della moglie. Ella giaceva nella stessa posizione in cui egli l’aveva vista cinque minuti avanti, morta, e nonostante lo sguardo fisso e spento e il pallore delle guance, l’incantevole visetto infantile dal labbro ombreggiato di peluria aveva la stessa espressione di prima.
«Voglio tanto bene a tutti, non ho fatto del male a nessuno; e voi invece che cosa mi avete fatto?» diceva il suo grazioso, povero visetto di morta. In un angolo della camera, qualcosa di piccolo, e di rosso vagiva tra le bianche mani tremanti di Mar’ja Bogdanovna.
Due ore dopo il principe Andrej entrò a passi silenziosi nello studio del padre. Il vecchio sapeva già tutto. Era in piedi vicino alla porta, e non appena questa si aprì, senza dir nulla, con le sue braccia senili, cinse come una morsa il collo del figlio, e scoppiò in singhiozzi come un bambino.
Tre giorni dopo fu celebrato il servizio funebre per la piccola principessa, e per darle l’ultimo addio, il principe Andrej salì i gradini del catafalco. Anche nella bara c’era lo stesso viso, con gli occhi chiusi, ora, e tuttavia immutato. «Ah, che cosa mi avete fatto?» continuava a dire quel viso, e il principe Andrej sentì che nella sua anima qualcosa si era rotto, che egli era colpevole di una colpa che non avrebbe potuto riparare né dimenticare. Non poteva piangere. Anche il vecchio si avvicinò e baciò la manina di cera, che giaceva tranquilla posata sull’altra, e anche a lui il viso disse: «Ah, che cosa mi avete fatto! Perché?» E rabbiosamente il vecchio, alla vista di quel volto si volse dall’altra parte.
Dopo altri cinque giorni battezzarono il piccolo principe Nikolaj Andrejè. La madrina sosteneva col mento la fascia mentre il sacerdote ungeva con una penna d’oca le piccole palme rosse e grinzose e le piante dei piedi del neonato.
Il nonno, che faceva da padrino, tremando, timoroso di lasciarlo cadere, portò il neonato intorno al fonte di latta ammaccata colmo d’acqua battesimale, e lo passò alla madrina, la principessina Mar’ja. Il principe Andrej, col cuore stretto dal timore che facessero annegare il bambino, sedeva in un’altra stanza, in attesa che finissero d’impartire il sacramento. Quando la balia glielo portò diede uno sguardo felice al bambino e annuì in segno d’approvazione, quando essa gli comunicò che, gettato nel fonte battesimale, il grumo di cera sul quale erano stati appiccicati i capelli del bimbo non era andato a fondo, ma era rimasto a galla.
X
La partecipazione di Rostov al duello tra Dolochov e Pierre Bezuchov fu messa a tacere grazie agli sforzi del vecchio conte; e Nikolaj, invece di essere degradato come si aspettava, fu nominato aiutante di campo del governatore generale di Mosca. Di conseguenza non poté andare in campagna con tutta la famiglia, e a causa del suo nuovo incarico rimase tutta l’estate a Mosca. Dolochov era in via di guarigione e durante il periodo della convalescenza Rostov e Dolochov resero più saldo il vincolo della loro amicizia. Dolochov, da quando era degente, stava in casa della madre, che lo amava di un affetto tenero e appassionato. La vecchia Mar’ja Ivanovna, che si era affezionata a Rostov a causa della sua amicizia con Fedja, sovente gli parlava del figlio.
«Sì, conte, è un’anima troppo nobile e pura,» diceva, «in un mondo corrotto come in quello in cui viviamo. Nessuno ama la virtù, la virtù dà fastidio a tutti. Ditemi voi, conte, è stato giusto, è stato onesto il comportamento di Bezuchov? Fedja invece, nella sua generosità, gli voleva bene e anche adesso non gli porta rancore. Quelle birichinate a Pietroburgo - quello scherzo, sapete, che hanno fatto al commissario di polizia - quello scherzo l’hanno fatto insieme, no? Ebbene, Bezuchov non ha subito conseguenze, mentre tutto è ricaduto sulle spalle di Fedja! E quanto ha sofferto! È vero, lo hanno reintegrato nel grado; ma come non avrebbero potuto non reintegrarlo? Credo che di valorosi come lui, di veri figli della patria, ce ne fossero ben pochi laggiù. E adesso non mancava che questo duello! Ma ha forse dei sentimenti, un briciolo di onestà, questa gente? Sapevano bene che era figlio unico. E invece lo sfidano a duello e sparano diritto! Per fortuna che Dio ci ha fatto la grazia. E per che cosa, poi? Chi al giorno d’oggi non ha qualche intrigo? Che farci se Bezuchov è così geloso? Avrei capito che lo avesse lasciato capire fin da prima; la faccenda durava da un anno! E poi l’ha sfidato a duello pensando che Fedja non si sarebbe battuto perché gli deve dei soldi. Che bassezza! Che infamia! Io lo so, voi, caro conte, avete capito com’è fatto, il mio Fedja; per questo, credetemi, vi voglio bene con tutta l’anima. Sono pochi quelli che capiscono Fedja. È un’anima così alta, un’anima celestiale!»
Lo stesso Dolochov, durante la sua convalescenza, ripeteva spesso a Rostov parole che non ci si sarebbe mai attese da lui
«Mi considerano un uomo malvagio, lo so,» diceva; «e sia pure. Io non guardo in faccia a nessuno, tranne le persone alle quali porto affetto. Quelli che amo, li amo al punto di dare la vita, mentre gli altri, se si mettono sulla mia strada, li schiaccio. Ho una madre che adoro, una donna impagabile; poi ho due o tre amici e fra questi ci sei tu. Degli altri mi accorgo solo per quanto mi possono essere utili oppure nuocermi. E quasi tutti mi nuocciono, soprattutto le donne. Sì caro,» proseguiva, «di uomini ne ho incontrati che abbiano buoni sentimenti, che siano generosi, d’animo elevato; ma di donne che non fossero esseri venali - non importa se contesse o cuoche - non ne ho ancora incontrate. Non ho ancora conosciuto quella purezza celestiale, quella devozione che cerco nella donna. Se trovassi una donna simile, sarei pronto a dare la vita per lei. Ma queste!…» Egli ebbe un gesto sprezzante. «E, credimi, se ho ancora cara la mia vita, è soltanto perché spero ancora d’incontrare quella celestiale creatura capace di rigenerarmi, purificarmi ed elevarmi. Ma tu, questo, non lo capisci.»
«Non è vero, lo capisco benissimo,» rispondeva Rostov che sentiva l’influenza del suo nuovo amico.
In autunno i Rostov fecero ritorno a Mosca. Al principio dell’inverno tornò anche Denisov e si fermò in casa loro. Quel primo periodo dell’inverno 1806, che Nikolaj trascorse a Mosca, fu per lui e per tutta la sua famiglia uno dei più felici. Nikolaj recava con sé, in casa dei genitori, molta gente giovane. Vera era una bella ragazza di vent’anni; Sonja una giovinetta di sedici anni con tutto l’incanto di un fiore appena sbocciato; Nataša, a metà bimba e a metà signorina, ora infantilmente buffa, ora piena di fascino femminile.
A quel tempo in casa Rostov s’era andata formando una particolare atmosfera amorosa, come succede nelle case in cui ci sono ragazze molto giovani e molto graziose. Ogni giovanotto che venisse in casa Rostov, guardando quei visi giovani, sensibili, di ragazze che sorridevano a chissà cosa (ma probabilmente alla propria felicità), osservando quell’animato andirivieni, ascoltando quel cicaleccio incoerente ma affettuoso con tutti, pronto a tutto e pieno di speranza di quella gioventù femminile, ascoltando quei volubili suoni ora di canto, ora di musica, provava lo stesso sentimento di disposizione all’amore e di attesa della felicità che provava la gioventù di casa Rostov.
Fra i giovani introdotti in famiglia da Nikolaj, uno dei primi fu Dolochov, che in casa piacque a tutti fuorché a Nataša. A causa di Dolochov ella quasi litigò con suo fratello. Insisteva nel dire che era una persona malvagia, che nel duello con Pierre Bezuchov aveva ragione quest’ultimo e il torto era di Dolochov, che era antipatico e altezzoso.
«Non c’è proprio un bel nulla che io debba capire!» strillava Nataša con capricciosa testardaggine, «è un uomo cattivo, non ha buoni sentimenti. Invece Denisov sì che mi piace; sarà uno a cui piace far baldoria, tutto quello che vuoi; eppure lui mi piace. Come vedi, le cose le capisco. Non so come dirti: in Dolochov tutto è calcolato, e questo non mi va. Denisov…»
«Be’, Denisov è un’altra cosa,» rispondeva Nikolaj, lasciando intendere che, in confronto a Dolochov, perfino Denisov non era nulla. «Bisogna capire che anima ha Dolochov; bisogna vederlo con sua madre, ha un cuore grande così!»
«Questo io non lo so, ma con lui mi sento a disagio. Lo sai che si è innamorato di Sonja?»
«Che sciocchezze…»
«Ne sono sicura, vedrai.»
La predizione di Nataša si avverò. Dolochov, che non gradiva la compagnia delle signore, cominciò a frequentare assiduamente la casa, e ben presto (sebbene nessuno ne facesse parola) fu chiaro lo scopo per il quale ci veniva: ci veniva per Sonja. E Sonja, anche se mai avrebbe osato ammetterlo, lo sapeva, e ogni volta che Dolochov compariva, diventava rossa come un papavero.
Dolochov andava spesso a pranzo dai Rostov, non si lasciava sfuggire uno spettacolo a cui loro fossero presenti, e si recava ai balli degli adolescents da Jogel, il maestro di danze, che i Rostov frequentavano regolarmente. Rivolgeva un’attenzione particolare a Sonja e la guardava con tali occhi, che non soltanto lei non poteva sostenerne lo sguardo senza arrossire, ma arrossivano anche la vecchia contessa e Nataša.
Si vedeva che quell’uomo vigoroso e bizzarro era dominato dall’influsso prodotto in lui da quella graziosa giovinetta bruna, che pure era innamorata di un altro.
Rostov aveva notato qualcosa di nuovo fra Dolochov e Sonja, ma non indugiava a precisare a se stesso quali fossero quei loro nuovi rapporti. «Loro sono sempre innamorate di qualcuno,» pensava, riferendosi a Sonja e a Nataša. Ma, a differenza di prima, non si sentiva più a suo agio con Sonja e con Dolochov, e cominciò a trattenersi in casa meno sovente.
Nell’autunno del 1806 tutti presero a parlare della guerra contro Napoleone con calore anche maggiore dell’anno precedente. Fu stabilito non soltanto l’arruolamento di dieci reclute, ma anche di nove soldati della riserva ogni mille abitanti. Dovunque venivano scagliati anatemi contro Napoleone e a Mosca non si udiva parlare d’altro che della guerra imminente. Per i Rostov tutto l’interesse di quei preparativi di guerra si concentrava solo sul fatto che Nikolaj non voleva restare a Mosca a nessun costo e aspettava soltanto la fine del congedo di Denisov per partire insieme a lui, dopo le feste, alla volta del reggimento. L’imminente partenza non solo non gli impediva di divertirsi, anzi, ve lo incitava più che mai. Passava la maggior parte del tempo fuori casa, dedito a pranzi, ricevimenti e balli.
XI
Tre giorni dopo Natale Nikolaj pranzò a casa, cosa che negli ultimi tempi gli accadeva di rado. Era il pranzo ufficiale d’addio, poiché lui e Denisov sarebbero partiti per il reggimento dopo l’Epifania. A pranzo c’erano una ventina di persone, fra cui Dolochov e Denisov.
Mai in casa Rostov quel clima d’amore, quell’atmosfera piena di incantesimo amoroso si erano sentiti con tanta intensità come in quei giorni di festa. «Afferra gli istanti di felicità, forzati ad amare, innamorati anche tu! Di vero al mondo c’è questo soltanto; tutto il resto non sono che sciocchezze. E noi qui ci occupiamo solo di questo,» diceva quell’atmosfera.
Come sempre, Nikolaj era rincasato poco prima del pranzo, dopo aver sfiancato due pariglie di cavalli e non essere tuttavia riuscito a recarsi in tutti i posti dove sarebbe dovuto andare e dove lo avevano invitato. Non appena entrò, percepì la tensione dell’atmosfera amorosa che regnava nella casa, ma, oltre a questo si accorse di uno strano imbarazzo che regnava fra alcuni componenti del gruppo. Sonja, Dolochov, la vecchia contessa e, in parte, anche Nataša, apparivano più agitati degli altri. Nikolaj comprese che prima del pranzo qualcosa doveva essere accaduto fra Son’ja e Dolochov, e con la delicatezza di sentimenti che gli era propria, durante il pranzo fu molto affettuoso e cauto nel rivolgersi a entrambi. Quella stessa sera doveva esserci uno di quei balli da Jogel, che egli dava in occasione delle feste per i suoi allievi ed allieve.
«Nikolen’ka, verrai anche tu da Jogel? Ti prego, vieni,» gli disse Nataša, «lui ha insistito perché tu ci venga. Anche Vasilij DMitrič (cioè Denisov) ci viene.»
«Dove non andvei pev ovdine della contessa!» disse Denisov che in casa Rostov si era scherzosamente assunto il ruolo di cavalier servente di Nataša. «Sono pvonto a ballave anche il pas de châle.»
«Se farò in tempo! Ho promesso di andare dagli Archarov; c’è un ricevimento in casa loro,» rispose Nikolaj. «E tu?…» si rivolse poi a Dolochov. Ma appena ebbe posta quella domanda, si accorse che non avrebbe dovuto farlo.
«Sì, può darsi…» rispose Dolochov in tono freddo e irritato, dopo aver lanciato un’occhiata a Sonja; e, accigliatosi, guardò Nikolaj con la stessa espressione con la quale aveva guardato Pierre al pranzo del Club.
«Qualcosa c’è,» pensò Nikolaj, ed ebbe ancora una conferma a quella supposizione quando Dolochov subito dopo il pranzo se ne andò. Allora chiamò Nataša e le domandò che cosa fosse accaduto.
«Ti stavo appunto cercando,» disse Nataša, accorrendo verso di lui. «Io te lo dicevo, ma tu non volevi crederci!» aggiunse con aria trionfante. «Dolochov ha chiesto la mano di Sonja!»
Per quanto poco si fosse occupato di Sonja in quel periodo nell’udire quelle parole Nikolaj ebbe l’impressione che qualcosa s’infrangesse dentro di lui. Dolochov era un ottimo partito e, sotto certi aspetti, perfino brillante per Sonja, che era orfana e senza dote. Dal punto di vista della vecchia contessa e del mondo sarebbe stato un errore opporre un rifiuto. Perciò il primo moto di Nikolaj, all’udire quella notizia, fu un sentimento d’irritazione contro Sonja. Si preparava a dire: «Benissimo! È chiaro che bisogna dimenticare le promesse infantili e accettare la proposta,» ma non fece in tempo a parlare…
«Figurati che lei ha rifiutato, ha rifiutato assolutamente!» continuò Nataša. «Ha detto che ama un altro,» soggiunse, dopo una pausa.
«Sì, la mia Sonja non poteva agire diversamente!» pensò Nikolaj.
«Per quanto la mamma la pregasse, lei ha rifiutato, e io so che non cambierà parere. Lei quando ha detto una cosa…»
«E la mamma ha insistito!» disse amaramente Nikolaj.
«Sì,» rispose Nataša. «Non ti arrabbiare, Nikolen’ka, ma io so che tu non la sposerai. Io lo so; Dio solo sa perché, ma io ne sono sicura.»
«Ma no, questo non lo sai affatto,» disse Nikolaj, «ma io devo parlare con lei.»
«Sonja… Sonja è un incanto,» soggiunse con un sorriso.
«Sì, è un vero tesoro! Adesso te la mando.» E Nataša, dopo aver dato un bacio al fratello, scappò via.
Un minuto dopo entrò Sonja, spaurita, smarrita, con un’aria colpevole. Nikolaj le si fece accosto e le baciò la mano. Era la prima volta dopo il suo arrivo che parlavano a tu per tu e del loro amore.
«Sophie,» disse Nikolaj, dapprima timido e poi in tono sempre più franco, «intendete davvero rinunciare a un partito brillante e vantaggioso… lui è un uomo eccellente, nobile… è un mio amico…»
Sonja lo interruppe.
«Ho già rifiutato,» disse in fretta.
«Se voi rinunciate per me, ho paura che su me…»
Sonja lo interruppe di nuovo. Lo guardava con uno sguardo supplichevole e spaventato.
«Nicolas, non ditemi questo,» disse.
«No, devo. Forse è suffisance da parte mia, ma in ogni caso è meglio parlare. Se voi rifiutate per me, io vi debbo dire tutta la verità. Io vi amo, credo, più di ogni…»
«E questo mi basta,» disse Sonja avvampando.
«No, ma io mi sono innamorato mille volte e continuerò a innamorarmi sebbene non abbia per nessuna il sentimento di amicizia, di fiducia, d’amore che ho per voi. E poi sono giovane. Maman non vuole. Insomma, io non vi posso promettere nulla. E vi prego di riflettere sulla proposta di Dolochov,» disse, pronunciando con uno sforzo il cognome dell’amico.
«Non ditemi questo. Io non voglio nulla. Io vi amo come un fratello e vi amerò sempre e non ho bisogno d’altro.»
«Voi siete un angelo, io non vi merito, e ho solo paura d’ingannarvi.» E Nikolaj le baciò ancora una volta la mano.
XII
Da Jogel si svolgevano i più allegri balli di Mosca. Lo dicevano le mamme, impegnate a guardare le loro adolescentes che facevano i pas imparati da poco; e lo dicevano gli stessi adolescents e le adolescentes, che ballavano fino a crollare per la stanchezza; lo dicevano le ragazze fatte e i giovanotti che si recavano a quei balli con un’aria di degnazione e invece vi si divertivano più che in ogni altro posto. Proprio quell’anno a quei balli erano stati conclusi due matrimoni. Le due graziose piincipessine Gorèakov avevano trovato qui i giovani ai quali si erano fidanzate e che avevano poi sposato, rendendo così quei balli ancora più famosi. Di speciale, in quei balli, c’era il fatto che mancavano un padrone e una padrona di casa. C’era, svolazzante come una piuma, strisciante il piede secondo tutte le regole, il bonario Jogel che riceveva fior di denari per le lezioni impartite ai suoi invitati. Inoltre, qui conveniva solo chi intendeva ballare e divertirsi come lo vogliono le ragazze di tredici e quattordici anni che per la prima volta indossano un abito lungo. Tutte, salvo rare eccezioni, erano o figuravano graziose, tanto brillavano i loro occhi e tanto entusiasta era il loro sorriso. Certe volte le allieve migliori ballavano perfino il pas de châle, e fra queste la migliore era Nataša, che si distingueva per la sua grazia; ma a quest’ultimo ballo danzarono soltanto écossaises, anglaises, e la mazurca, che proprio allora era venuta di moda. Jogel aveva preso in affitto il salone di casa Bezuchov e il ballo, per generale consenso, riuscì molto bene. C’erano molte ragazze graziose, e le Rostov erano fra le più belle. Entrambe apparivano particolarmente felici e allegre. Quella sera Sonja, orgogliosa della domanda di matrimonio di Dolochov, del proprio rifiuto e della spiegazione che aveva avuto con Nikolaj, già a casa aveva cominciato a far giravolte impedendo alla cameriera di finir di pettinare le sue trecce, e adesso appariva raggiante di impetuosa esultanza.
Nataša, non meno fiera di indossare per la prima volta un abito lungo e di partecipare a un vero ballo, era ancora più felice. Tutt’e due erano vestite di mussola bianca con nastri rosa.
Nataša si era innamorata dal momento in cui aveva messo piede nella sala. Non era innamorata di nessuno in particolare, ma di tutti. Nell’attimo in cui guardava qualcuno, se ne sentiva innamorata.
«Ah, che bello!» diceva di continuo, correndo accanto a Sonja.
Nikolaj e Denisov passeggiavano per le sale osservando con aria affettuosa e protettrice quelli che ballavano.
«Com’è adovabile! Diventevà una bellezza,» disse Denisov.
«Chi?»
«La contessina Nataša,» rispose Denisov. «E come balla! Che gvazia!» aggiunse dopo una pausa.
«Ma di chi stai parlando?»
«Di tua sovella,» gridò Denisov, arrabbiandosi.
Rostov sorrise.
«Mon cher comte; vous êtes l’un des mes meilleurs écoliers, il faut que vous dansiez,» disse il piccolo Jogel avvicinandosi a Nikolaj. «Voyez combien de jolies demoiselles.» Con la stessa esortazione si rivolse a Denisov, che era anch’esso un suo vecchio allievo.
«Non, mon chev, je fevait tapissevie,» rispose Denisov. «Non vi vicovdate fovse come pvofittavo male delle vostve lezioni?»
«Oh no!» disse Jogel per consolarlo. «Eravate poco attento, ma avevate attitudine; sì, avevate attitudine.»
Incominciarono a suonare la mazurca, il ballo che da poco era in voga. Nikolaj non poté dire di no a Jogel e invitò Sonja. Denisov sedette accanto alle vecchie signore e, battendo il tempo con un gomito appoggiato alla sciabola, prese a raccontare qualcosa di buffo facendole ridere, mentre le signore non desistevano dal guardare la gioventù impegnata nel ballo. La prima coppia era formata dal maestro e da Nataša, che era l’orgoglio e la migliore allieva di Jogel. Muovendo morbidamente i suoi piccoli piedi calzati negli scarpini, Jogel s’involò per primo nella sala insieme con Nataša, che era intimidita ma eseguiva i suoi pas con gran cura. Denisov non le toglieva gli occhi di dosso e con la sciabola batteva il tempo, mentre la sua espressione diceva chiaramente che’egli non ballava solo perché non voleva, non perché non poteva. A metà della figura chiamò Nikolaj che gli passava accanto.
«Non è pvopvio così,» disse. «Questa è la mazuvca polacca, no? Pevò balla magnificamente.»
Sapendo che Denisov in Polonia era diventato addirittura famoso per la sua maestria nel ballare la mazurca polacca, Nikolaj corse da Nataša:
«Va’ a sceglierti Denisov come cavaliere. Sapessi come balla! Un prodigio!» disse.
Quando venne di nuovo il turno di Nataša, ella si alzò, e muovendo rapidamente le sue scarpine adorne di nastri, sola e un poco timida attraversò la sala di corsa, fino all’angolo dove stava seduto Denisov. Vedeva che tutti la guardavano e aspettavano. Nikolaj si accorse che Denisov e Nataša discutevano sorridendo e che Denisov diceva di no, ma sorrideva felice. Accorse.
«Ve ne prego, Vasilij DMitrič,» diceva Nataša, «venite, vi prego.»
«Ma pevché? Dispensatemi, contessina,» diceva Denisov.
«Suvvia, basta, Vasja,» disse Nikolaj.
«Mi si fanno le moine come se fossi un micio,» rispose scherzosamente Denisov.
«Canterò per voi una serata intera,» disse Nataša.
«Questa maga favà di me tutto quello che vuole!» disse Denisov e si sfibbiò la sciabola.
Uscì di tra le sedie, prese saldamente per mano la sua dama, sollevò il capo e scostò una gamba in attesa della battuta. Solo a cavallo e mentre ballava la mazurca la bassa statura di Denisov non si notava, ed egli sembrava davvero aitante come egli dentro di sé sentiva di essere. Attesa la battuta, lanciò di sottecchi uno sguardo trionfante e scherzoso alla sua dama; batté inaspettatamente un piede; poi, come una palla, rimbalzò elasticamente sul pavimento e volò via lungo il cerchio dei presenti trascinando con sé la sua dama. Attraversò volando metà della sala su un piede solo come se non scorgesse le sedie che aveva davanti e puntasse proprio contro di esse; ma di colpo, dopo aver battuto gli speroni, divaricò le gambe, poi si fermò sui tacchi, rimase così per un istante, con un fragore di speroni batté i piedi in uno stesso punto, rapidamente si rigirò, e percuotendo il piede destro con il sinistro, volò di nuovo lungo il cerchio. Nataša ad ogni momento intuiva ciò che lui aveva intenzione di fare, e senza nemmeno rendersi conto come, abbandonandosi a lui, lo seguiva. Ora egli la faceva roteare sulla mano destra, ora sulla sinistra; ora, lasciandosi cadere in ginocchio, la faceva girare intorno a sé, poi di nuovo si rialzava e si lanciava avanti precipitosamente, come se avesse voluto attraversare di corsa tutto il salone senza riprender fiato. Ora si fermava da capo all’improvviso, e da capo, inaspettatamente, tornava a inginocchiarsi. Quando, dopo aver fatto bravamente girare la sua dama davanti al posto di lei, batté gli speroni e le fece una riverenza, Nataša non gli fece nemmeno la riverenza di risposta. Fissò sconcertata gli occhi su di lui, e sorrise come se non lo riconoscesse.
«Ma questo che cos’è?» mormorò.
Sebbene Jogel non considerasse quella mazurca come quella vera, tutti furono ammirati della maestria di Denisov; cominciarono a invitarlo senza lasciargli un attimo di tregua, e i vecchi, sorridendo, si misero a discorrere della Polonia e del buon tempo antico. Con la faccia arrossata dalla mazurca, Denisov sedette vicino a Nataša tergendosi col fazzoletto, e per tutto il ballo non si allontanò più da lei.
XIII
Nei due giorni successivi al ballo, Dolochov non si fece vedere e Rostov non lo trovò in casa; il terzo giorno ricevette un suo biglietto.
«Dato che non intendo più frequentare casa vostra per i motivi che sai e parto per il reggimento, stasera do un piccolo banchetto di addio in onore dei miei amici. Ti aspetto all’Albergo d’Inghilterra.»
Il giorno indicato, dopo le nove, dal teatro dov’era stato insieme con i suoi e con Denisov, Rostov si recò all’Albergo d’Inghilterra. Venne subito accompagnato nella migliore sala dell’albergo, che Dolochov aveva affittata per tutta la notte. Una ventina di persone si affollavano intorno a una tavola davanti alla quale sedeva fra due candele Dolochov. Sulla tavola c’era del denaro in biglietti e monete d’oro, e Dolochov teneva banco. Dopo la domanda di matrimonio a Sonja e il rifiuto di lei, Nikolaj non s’era più incontrato con lui e provava un certo impaccio al pensiero di rivederlo.
Lo sguardo chiaro e gelido di Dolochov accolse Rostov quando egli era ancora sulla porta, come se Dolochov lo aspettasse da un pezzo.
«Non ci vediamo da molto tempo,» disse; «grazie di esser venuto. Mentre finisco di dar le carte verrà Iljuška con il coro.»
«Sono passato da casa tua,» disse Rostov, arrossendo.
Dolochov non gli rispose.
«Puoi puntare,» disse.
In quel momento Rostov si ricordò della strana conversazione avuta una volta con Dolochov. «Soltanto gli stupidi giocano affidandosi alla fortuna,» aveva detto allora Dolochov.
«O forse hai paura di giocare con me?» disse adesso Dolochov, come se avesse intuito il pensiero di Nikolaj, e sorrise.
Nel suo sorriso Rostov lesse lo stesso stato d’animo in cui egli si era trovato durante il pranzo al Club e in genere nei periodi in cui, come annoiato dalla vita d’ogni giorno, egli provava la necessità di uscirne con qualche azione strana, per lo più crudele.
Rostov si sentì a disagio; nella sua mente cercava, senza trovarla, una battuta scherzosa con la quale rispondere alle parole di Dolochov. Ma prima che vi riuscisse, Dolochov, guardandolo dritto in faccia, gli disse lentamente e scandendo le parole, in modo che tutti potessero udirlo:
«Ti ricordi, una volta abbiamo parlato del gioco…. Soltanto gli stupidi giocano fidando nella fortuna; sul sicuro si deve giocare, e io voglio provare.»
«Provare la fortuna o a colpo sicuro?» pensò Rostov.
«Ma forse è meglio che tu non giochi,» aggiunse Dolochov, e facendo schioccare il mazzo dal quale aveva strappato l’involucro, aggiunse ancora: «Banco, signori!»
E Dolochov, dopo aver spostato davanti a sé i denari, si preparò a tener banco. Rostov gli sedette accanto, e da principio non giocò. Dolochov ogni tanto gli gettava un’occhiata.
«Perché non giochi?» disse.
Stranamente, Nikolaj si sentì spinto a prendere una carta, a puntare una posta insignificante, pur di entrare nel gioco.
«Non ho denari con me,» disse Rostov.
«Ti faccio, credito!»
Rostov puntò cinque rubli su un’altra carta e perse; ne puntò altri cinque e perse di nuovo. Dolochov lo «ammazzò», ossia vinse dieci carte di seguito a Rostov.
«Signori,» disse Dolochov, dopo aver tenuto banco per un certo tempo, «vi prego di posare i denari sulle carte, altrimenti potrei sbagliarmi nel contare.»
Uno dei giocatori disse che sperava ci si potesse fidare di lui.
«Certo che ci si può fidare, ma ho paura di confondermi; vi prego dunque di posare i soldi sulle carte,» rispose Dolochov. «Tu non aver timore per i soldi, poi faremo i conti fra noi,» aggiunse, rivolto a Rostov.
Il gioco continuò; un cameriere serviva champagne senza interruzione.
Tutte le puntate di Rostov andavano male e a suo carico erano già segnati ottocento rubli. Stava per segnare su una sola carta ottocento rubli, ma poi ci ripensò e, mentre il cameriere gli serviva lo champagne, fece la solita puntata di venti rubli.
«Lascia così,» disse Dolochov, quantunque sembrasse non guardare Rostov. «Ti rifarai prima. Con gli altri perdo e con te vinco. O hai paura di me?» aggiunse.
Rostov gli diede retta; lasciò gli ottocento rubli che aveva segnato e giocò il sette di cuori con un angolo strappato, che aveva raccolto per terra. In seguito se ne ricordò assai bene. Mise il sette di cuori dopo avervi scritto sopra ottocento in cifre tonde e dritte con un gessetto rotto; tracannò il calice di champagne che gli era stato servito ed ora non era più fresco, sorrise alle parole di Dolochov, e, aspettando un sette col cuore sospeso, prese a guardare le mani di Dolochov che tenevano il mazzo. La vincita o la perdita di quel sette di cuori voleva dire molto, per Rostov. La domenica della settimana precedente il conte Ilja Andrejè aveva dato al figlio duemila rubli, e sebbene evitasse sempre di parlare di difficoltà economiche, gli aveva detto che quei soldi erano gli ultimi fino a maggio, e che perciò lo pregava di essere, per quella volta, un po’ meno scialacquatore. Nikolaj aveva risposto che per lui quella somma era perfino troppo, e che gli dava la sua parola d’onore di non aver più bisogno di denari fino a primavera. Adesso di questi soldi restavano milleduecento rubli. Dunque, quel sette di cuori non solo poteva fargli perdere milleseicento rubli, ma l’avrebbe costretto a mancare alla parola data. Egli guardava col cuore sospeso le mani di Dolochov e pensava: «Su, presto, dammi questa carta e io prendo il mio berretto, me ne vado a casa a cena con Denisov, Nataša e Sonja, e non prenderò mai più nelle mani una sola carta.» In quell’istante la sua vita domestica - gli scherzi con Petja, le conversazioni con Sonja, i duetti con Nataša, la partita a piquet col padre e perfino il suo letto tranquillo nella casa di via Povarskaja - gli apparivano davanti agli occhi con tanta evidenza, tanta chiarezza e tanto fascino, da sembrare che tutto ciò appartenesse a una felicità da tempo trascorsa, perduta e mai abbastanza apprezzata. Egli non poteva ammettere che uno stupido caso, facendo sì che il sette si posasse a destra invece che a sinistra, potesse privarlo di quella felicità che ora vedeva in modo nuovo, illuminata di una nuova luce, e precipitarlo nell’abisso di un’infelicità indefinibile, mai provata fino allora. Ciò non poteva accadere, e tuttavia aspettava col cuore sospeso il movimento delle mani di Dolochov. Queste mani rossicce dalle ossa forti, con i peli che spuntavano di sotto la camicia, posarono il mazzo di carte, poi afferrarono il bicchiere che gli veniva offerto e la pipa.
«Non hai paura, dunque, a giocare con me?» ripeté Dolochov; e come se volesse raccontare una storia divertente, posò le carte, si rovesciò sulla spalliera della sedia e prese a raccontare lentamente con un sorriso:
» Sì, signori, mi hanno detto che a Mosca corre voce che io sia un baro; perciò vi consiglio di essere più prudenti con me.»
«Suvvia, da’ le carte!» disse Rostov.
«Ah, queste comari moscovite!» esclamò Dolochov, e riprese le carte con un sorriso.
«Aaah!» A Rostov per poco non sfuggì un grido, mentre si portava le mani ai capelli. Il sette che gli era necessario era sopra, la prima carta del mazzo. Aveva perduto più di quanto, potesse pagare.
«Ma non disperarti,» disse Dolochov gettando uno sguardo di sfuggita a Rostov, e continuò a mischiare le carte.
XIV
Un’ora e mezzo più tardi la maggior parte dei giocatori prendeva alla leggera il proprio gioco.
Tutto il gioco si era concentrato sul solo Rostov. Ora, a suo carico, non erano più segnati milleseicento rubli, ma una lunga colonna di cifre, di cui lui aveva tenuto il conto preciso fino a diecimila, e che ora, egli pensava confusamente, doveva aggirarsi almeno sulle quindicimila. In realtà la nota superava già i ventimila rubli. Dolochov ormai non ascoltava più nessuno e non raccontava storie; seguiva ogni movimento delle mani di Rostov e di tanto in tanto dava un’occhiata di sfuggita al suo conto con lui. Aveva deciso di protrarre il gioco finché quella nota fosse salita fino a quarantatremila. Aveva scelto questo numero, perché a quarantatré si arrivava sommando gli anni di Sonja ai suoi. Rostov, con la testa appoggiata sulle due mani, sedeva davanti alla tavola scarabocchiata, chiazzata di vino, ingombra di carte. Un’unica, tormentosa impressione non lo abbandonava: quelle mani rossicce dalle ossa forti, con i peli che spuntavano di sotto la camicia; quelle mani che lui amava e odiava, lo tenevano in loro potere.
«Seicento rubli, asso, raddoppio, nove… impossibile rifarsi!… Ah, come starei bene a casa mia… Fante, pareggio… No, non può essere!… Che ragione ha, lui, per farmi questo?…» pensava e ricordava Rostov. Talvolta avrebbe voluto fare una puntata forte, ma Dolochov rifiutava di giocarla ed era lui stesso a stabilire la posta. Nikolaj gli si sottometteva, e ora pregava Dio come l’aveva pregato sul campo di battaglia al ponte di Amstetten; ora immaginava che la prima carta gli fosse capitata fra le mani, nel mucchio di carte piegate buttate sotto la tavola, sarebbe stata quella che l’avrebbe salvato; ora contava quanti cordoncini c’erano sulla sua giubba e cercava di puntare una cifra pari a tutta la perdita su una carta che avesse lo stesso numero di punti; ora si voltava a guardare gli altri giocatori in cerca d’aiuto; ora scrutava il viso di Dolochov, che ora appariva gelido, e si sforzava di capire ciò che avveniva dentro di lui.
«Eppure lo sa che cosa significa per me, questa perdita. Perché dovrebbe desiderare la mia rovina? Lui mi era amico. E io gli volevo bene… Ma lui non ne ha colpa; che cosa può farci se la fortuna è dalla sua parte? E nemmeno io ne ho colpa,» ripeteva a se stesso. «Io non ho fatto nulla di male. Ho forse ammazzato, usato un torto a qualcuno, desiderato il male? E perché, allora questa tremenda sfortuna? E quando è cominciata? Poco fa mi sono avvicinato a questo tavolo sperando di vincere cento rubli, di comperare quella scatoletta a maman per il suo onomastico e poi andare a casa. Ero così felice, così libero, così allegro! Allora non capivo quanto fossi felice! Ma quando è finito tutto ed è cominciata questa nuova, quest’orribile situazione? Da che cosa è stato segnato questo cambiamento? Ho continuato a starmene seduto così, a questo posto, davanti a questo tavolo, e a scegliere e posare carte e a guardare queste mani veloci, dalle ossa forti. Quando è successo questo, dunque, e che cosa è successo? Io sono sano, sono forte, sono sempre lo stesso e sempre allo stesso posto. No, non può essere; senza dubbio tutto questo finirà in nulla.»
Era rosso, tutto in sudore, sebbene nella stanza non facesse caldo. E la sua faccia appariva stravolta e suscitava pietà, specie per la vana pretesa di apparire tranquillo.
La somma arrivò alla cifra fatale di quarantatremila rubli. Rostov aveva già preparato una carta che doveva raddoppiare la posta sui tremila rubli appena posti in gioco, quando Dolochov batté il mazzo sul tavolo e lo mise da parte; poi prese il gesso e con la sua scrittura nitida e forte (spezzò perfino il gessetto) cominciò a fare il totale del debito di Rostov.
«A cena, è ora di cenare! Ecco gli zigani!»
In effetti, certe nere figure stavano entrando dal freddo della strada e parlavano col loro accento di zingari. Nikolaj comprese che tutto era finito.
«Allora, non giochi più? E io che avevo preparato una carta magnifica!» disse con simulata indifferenza, come se più di ogni altra cosa lo interessasse il gioco come semplice divertimento.
«Tutto è finito, sono rovinato!» pensava. «Adesso una pallottola in fronte: è tutto quello che mi resta da fare.» Ma nello stesso tempo disse con voce allegra:
«Suvvia, ancora una carta.»
«Bene,» rispose Dolochov che aveva terminato di fare il totale, «bene! Sono in gioco ventun rubli,» disse, mostrando la cifra ventuno che eccedeva il conto tondo di quarantatremila rubli; poi, preso il mazzo, si accinse a dare le carte. Rostov raddrizzò docilmente l’angolo piegato della carta e, invece dei seimila rubli che aveva preparato, scrisse ventuno.
«Per me fa lo stesso,» disse; «a me interessa soltanto sapere se tu vincerai o mi darai questo dieci.»
Dolochov si mise a distribuir le carte con aria compunta. Ah, in quel momento Rostov odiava quelle mani rossicce dalle dita corte, dai peli che si scorgevano di sotto la camicia, e che lo tenevano in loro potere… Il dieci toccò a lui.
«Mi dovete quarantatremila rubli, conte,» disse Dolochov e, stiracchiandosi, si alzò dal tavolo. «Ci si stanca a star seduti per tanto tempo,» disse.
«Sì, anch’io sono stanco,» disse Rostov.
Dolochov, quasi per ricordargli che per lui non era il caso di scherzare, lo interruppe:
«Quando siete disposto a versare il denaro, conte?»
Rostov arrossì, poi chiamò Dolochov in un’altra stanza.
«Io non posso pagare tutto così, in una volta; ti darò una cambiale,» disse.
«Senti, Rostov,» disse Dolochov con il suo sorriso luminoso, guardando negli occhi Nikolaj; «tu lo conosci, vero, il proverbio? “Fortunato in amore, sfortunato al gioco.” Tua cugina è innamorata di te, lo so.»
«È spaventoso sentirsi così, in balia di quest’uomo,» pensava Rostov. Egli sapeva bene quale colpo sarebbe stato per suo padre, per sua madre l’annuncio di quella perdita al gioco; e parimenti capiva quale felicità sarebbe stata potersi liberare di tutto questo; Dolochov avrebbe potuto liberarlo da quella vergogna e da quell’angoscia, egli se ne rendeva conto; e invece eccolo giocare con lui come il gatto gioca col topo.
«Tua cugina…» cominciò Dolochov; ma Nikolaj lo interruppe.
«Mia cugina non c’entra affatto, ed è inutile che parliamo di lei!» gridò furibondo.
«Allora quando pagherai?» domandò Dolochov.
«Domani,» rispose Rostov. E uscì dalla stanza.
XV
Dire «domani» e mantenere un tono decoroso non era stato difficile; ma tornare a casa, solo, vedere le sorelle, il fratello, la madre, il padre; confessare tutto e chiedere quel denaro al quale non aveva diritto dopo la parola d’onore che aveva dato, questo era terribile.
A casa nessuno dormiva ancora. La gioventù di casa Rostov, di ritorno dal teatro, aveva cenato ed ora era raccolta intorno al clavicembalo. Non appena Nikolaj entrò nella sala, fu avvolto dalla ben nota atmosfera di poesia e d’amore che quell’inverno regnava in casa loro, e che adesso, dopo la domanda di matrimonio di Dolochov e il ballo da Jogel, sembrava essersi fatta più intensa, come l’aria prima d’un temporale, e incombere su Sonja e su Nataša. Sonja e Nataša, vestite degli abiti azzurri coi quali erano state a teatro, felici, graziose e consapevoli di esserlo, erano in piedi, e sorridevano davanti al clavicembalo. Vera era in salotto e giocava a scacchi con Šinšin. La vecchia contessa, in attesa del figlio e del marito, stava facendo un solitario insieme con una vecchia nobildonna che abitava in casa loro. Denisov, con gli occhi scintillanti e i capelli in disordine, sedeva al clavicembalo con una gamba piegata indietro e strimpellava con le sue dita corte; provava degli accordi, e spalancando gli occhi cantava con la sua piccola voce rauca ma intonata una poesia, La Maga, che lui stesso aveva composto e per la quale adesso era in cerca d’un motivo.
Dimmi, maliavda, quale fovza
ascosa mi attvae alle covde abbandonate;
qual fuoco m’hai gettato dentvo il cuove,
qual esultanza infusa nelle dita?
cantava con voce appassionata, facendo brillare i suoi neri occhi d’agata su una Nataša felice e sbigottita.
«Bellissimo! Stupendo!» gridava Nataša. «Ancora una strofa!» disse senza accorgersi di Nikolaj.
«Per loro tutto è come sempre,» pensava Nikolaj, gettando un’occhiata in salotto dove scorse Vera e la madre in compagnia della vecchia dama.
«Ah! Ecco Nikolen’ka.» E Nataša corse verso di lui.
«Il papà è in casa?» domandò Nikolaj.
«Come sono contenta che tu sia arrivato!» esclamò Nataša senza rispondergli. «Ci stiamo divertendo tanto! Sai che Vasilij DMitrič è rimasto ancora un giorno per me?»
«No, il papà non è ancora arrivato,» disse Sonja.
«Cocò, sei tornato? Vieni qui da me, caro,» disse la voce della contessa dal salotto.
Nikolaj si avvicinò alla madre, le baciò la mano e, sedendosi in silenzio al suo tavolo, prese a fissare le sue mani che distribuivano le carte. Dalla sala continuavano a giungere l’eco di voci e risate allegre che esortavano Nataša.
«E va bene, va bene,» si mise a gridare Denisov, «adesso non potete più vifiutave, tocca a voi di cantave la barcarolle; ve ne pvego.»
La contessa si volse a guardare il suo figliolo così taciturno.
«Che cos’hai?» domandò.
«Niente, niente,» rispose Nikolaj come se già fosse stanco di quella domanda sempre eguale. «Papà tornerà presto?»
«Credo di sì…»
«Per loro è tutto come sempre. Loro non sanno nulla! E io, invece, dove andrò a ficcarmi?» pensava Nikolaj; tornò nella sala del clavicembalo.
Ora al clavicembalo sedeva Sonja, e suonava il preludio della barcarola, che a Denisov piaceva in modo particolare. Nataša si preparava a cantare, mentre Denisov la guardava con occhi estatici.
Nikolaj si mise a camminare avanti e indietro per la stanza.
«Che gusto c’è a farla cantare?» pensava Nikolaj. «Che cosa può cantare, lei? Non c’è proprio nulla di divertente, in questo!» pensava Nikolaj.
Sonja suonò il primo accordo del preludio.
«Dio mio, sono un uomo rovinato, un uomo disonorato. Spararmi una pallottola in fronte è l’unica cosa che mi resta da fare; altro che cantare,» pensava Nikolaj. «Andarmene? Ma dove? Tant’è, che cantino pure!»
Nikolaj continuava a camminare avanti e indietro per la stanza, con aria cupa. Sbirciava Denisov e le ragazze, ma evitava il loro sguardo.
«Nikolen’ka, che avete?» domandava lo sguardo di Sonja rivolto verso di lui. Lei aveva compreso subito che gli era accaduto qualcosa.
Nikolaj si volse dall’altra parte. Anche Nataša, con la sua sensibilità, aveva percepito all’istante lo stato d’animo del fratello. Se n’era accorta; ma in quel momento si sentiva così allegra, era così lontana dal dolore, dalla tristezza, dai rimproveri, che, come sovente accade ai giovani, ingannava di proposito se stessa. Una voce dentro di sé le diceva: «No, adesso sono troppo contenta per sciupare la mia allegria con la compassione per il dolore altrui. No, certamente mi sbaglio: anche lui dev’essere contento come lo sono io.»
«Avanti, Sonja,» disse, e si portò al centro della stanza dove, secondo lei, la résonnance era migliore. Sollevò il capo, lasciò pendere le braccia senza vita, come fanno le ballerine, con un movimento deciso Nataša si sollevò in punta di piedi, fece alcuni passi in mezzo alla sala e si fermò.
«Eccomi qua, ecco come sono fatta, io!» sembrava voler dire, rispondendo allo sguardo estatico di Denisov che non l’abbandonava con gli occhi.
«Ma cos’ha per essere così contenta?» pensava Nikolaj, guardando la sorella. «E come fa a non stancarsi e a non vergognarsi?»
Nataša prese la prima nota, la sua gola si dilatò, il petto le si sollevò, gli occhi assunsero un’espressione seria. Ella in quel momento non pensava a nulla e a nessuno e dalla sua bocca atteggiata a un sorriso fluivano le note: quelle note che chiunque può produrre con le stesse pause e gli stessi intervalli, ma che mille volte vi lasciano freddi e la millesima prima inaspettatamente vi fanno piangere e fremere d’emozione.
Per la prima volta Nataša aveva preso a cantare seriamente durante quell’inverno, e questo soprattutto perché Denisov era entusiasta del suo canto. Adesso non cantava più come una bambina; nel suo canto non si notava più quel comico sforzo puerile di essere diligente; tuttavia non cantava ancora bene, a quanto dicevano tutti gli intenditori che l’avevano ascoltata. «Non è una voce educata, ma è bellissima: bisogna coltivarla,» dicevano tutti. Ma di solito lo dicevano dopo qualche tempo che lei aveva smesso di cantare. Quando questa voce non educata risuonava ancora, con le sue aspirazioni difettose e i suoi passaggi forzati, perfino gli intenditori tacevano e si limitavano a godere quella voce non educata col solo desiderio di continuare ad ascoltarla. Nella sua voce c’era una freschezza intatta e verginale, una inconsapevolezza delle proprie forze, una morbidezza vellutata e ancora incolta, così fusi con le manchevolezze della sua tecnica canora, che pareva non si potesse mutare alcunché in quella voce senza sciuparla.
«E questo che cos’è?» pensò Nikolaj, ascoltando la voce di Nataša e sgranando gli occhi. «Che cosa le è accaduto? Come canta oggi?» pensava. E, a un tratto, tutto l’universo si concentrò per lui nell’attesa della nota, della frase successiva, e tutto al mondo gli apparve diviso in tre tempi: Oh, mio crudele affetto… Uno, due, tre… uno, due… tre… Oh, mio crudele affetto… Uno, due, tre… uno. «Ah, com’è sciocca la nostra vita!» pensava Nikolaj. «Tutto: l’infelicità, i denari, Dolochov, l’ira, l’onore: sono tutte sciocchezze… ecco, invece, ciò che è vero… Brava Nataša, coraggio, cara, colombella mia!… E adesso come prenderà questo si? Ce l’ha fatta, grazie a Dio!» e, senza rendersi conto che anch’egli si metteva a cantare per rinforzare quel si, prese l’accordo in terza di quella nota alta. «Dio mio! Com’è bello! Possibile che sia riuscito anch’io a prenderla! Che gioia!» pensava.
Ah, come aveva vibrato quella terza, e come s’era mosso ciò che vi era di migliore nell’anima di Rostov. E questo qualcosa era indipendente da tutto al mondo, più alto di tutto al mondo. Che importanza potevano avere le perdite al gioco, i Dolochov e le parole d’onore!… Tutte stupidaggini! Si può uccidere, rubare ed essere felici lo stesso…
XVI
Da molto tempo Nikolaj non aveva tratto tanto piacere dalla musica come quel giorno. Ma non appena Nataša ebbe finito di cantare la sua barcarola, la realtà gli si riaffacciò alla mente. Senza dire una parola uscì e scese nella sua camera. Un quarto d’ora dopo, allegro e soddisfatto, il vecchio conte tornò dal Club. Nikolaj, che lo aveva udito rientrare, andò da lui.
«Ebbene, ti sei divertito?» domandò Il’ja Andrejè sorridendo al figlio con un’espressione di gioiosa fierezza.
Nikolaj avrebbe voluto rispondere di sì, ma non poté: per poco non scoppiò in singhiozzi. Il conte stava accendendo la pipa e non si accorse dello stato d’animo di suo figlio.
«È inevitabile!» pensò Nikolaj per la prima e l’ultima volta. E, a un tratto, in un tono noncurante che a lui stesso parve ignobile, nel tono col quale avrebbe potuto chiedere la carrozza per andarsene in città, disse a suo padre:
«Papà, sono venuto da voi per un affare. Stavo quasi per dimenticarmene. Mi servono denari.»
«Ma guarda un po’!» disse il padre, che era in un momento di particolare buon umore. «Te l’ho detto che non ne abbiamo. Te ne occorre molto?»
«Moltissimo,» rispose Nikolaj arrossendo, ma con un sorriso sciocco e indifferente che per molto tempo dopo non riuscì a perdonarsi. «Ho perduto un poco al gioco… cioè molto, anzi moltissimo: quarantatremila rubli.»
«Cosa? Con chi?… Tu scherzi!» gridò il conte, mentre a un tratto il collo e la nuca gli si coprivano di rossore, quel rossore apoplettico delle persone anziane.
«Ho promesso di pagare domani» disse Nikolaj.
«No, no!» esclamò il vecchio conte spalancando le braccia e lasciandosi cadere impotente sul divano.
«Che vuoi fare? Sono cose che capitano!» esclamò Nikolaj in tono disinvolto e ardito, mentre in cuor suo si giudicava uno sciagurato, un miserabile che non avrebbe potuto espiare il proprio delitto nemmeno a prezzo della vita. Avrebbe voluto baciare le mani di suo padre, chiedergli perdono in ginocchio; e invece, in un tono trascurato e perfino volgare, gli diceva che sono cose che capitano a tutti.
Il conte Il’ja Andrejè, udendo le parole del figlio, chinò gli occhi e prese ad affaccendarsi come se avesse cercato qualcosa.
«Già già,» mormorò, «sarà difficile, temo, sarà difficile procurarseli… Già, a chi non è capitato…» E il conte, dopo aver lanciato un’occhiata fugace a suo figlio, uscì dalla stanza.
Nikolaj era preparato a incontrare una resistenza, ma non si sarebbe mai aspettato una reazione simile.
«Papà! Pa… papà!» gli gridò Nikolaj alle spalle, singhiozzando, «perdonatemi!» Afferrò una mano del padre, vi premette sopra le labbra e scoppiò a piangere.
Mentre fra padre e figlio aveva luogo questa spiegazione, fra madre e figlia ne avveniva una non meno importante. Nataša era corsa da sua madre tutta agitata.
«Mamma!… Mamma!… Lui ha chiesto…»
«Che cos’ha chiesto?»
«Ha chiesto… ha chiesto la mia mano. Mamma! Mamma!» gridava.
La vecchia contessa non credeva alle sue orecchie. Denisov aveva fatto una richiesta di matrimonio. A chi? A quella minuscola ragazzina, a quella Nataša che da poco aveva smesso di giocare con le bambole e ancora prendeva tanto di lezioni.
«Nataša, smettila di dire sciocchezze!» disse la contessa, sperando ancora che si trattasse di uno scherzo.
«No, non sono sciocchezze! Sto parlando sul serio,» rispose Nataša indispettita. «Sono venuta a chiedervi che cosa devo fare e voi mi dite che sono sciocchezze…»
La contessa si strinse nelle spalle.
«Se è vero che monsieur Denisov ti ha fatto una proposta di matrimonio, tu rispondigli che è uno sciocco, ecco tutto.»
«No, lui non è uno sciocco,» disse Nataša con aria offesa.
«Allora si può sapere che cosa vuoi? Adesso siete tutte quante innamorate, voialtre. Se sei innamorata, sposatelo e va con Dio!» disse la contessa, ridendo di un riso irritato.
«No, mamma, io non sono innamorata di lui… no, non credo di esserne innamorata.»
«Bene, e allora diglielo.»
«Mamma, perché vi siete arrabbiata? Non dovete arrabbiarvi, mamma, cara. Che colpa ne ho io?»
«No, tesoro, non sono in collera. Ma che vuol dire tutto ciò? Se vuoi, vado a parlargli io,» disse la contessa, sorridendo.
«No, vado io; però insegnatemi come si fa. Per voi è tutto facile,» aggiunse rispondendo al sorriso della madre. «Ma se aveste visto come me l’ha detto! Io lo so che non aveva intenzione di dirlo, che l’ha detto così, quasi senza accorgersene.»
«Ad ogni modo bisogna rispondere di no.»
«No, non bisogna. Mi fa tanta pena! È talmente caro…»
«E va bene, allora accetta la sua proposta. È proprio tempo, per te, di prender marito!» esclamò la madre, con stizza e ironia.
«No, mamma, mi fa tanta pena, davvero. Non so come fare a dirglielo.»
«Tu però non devi dir nulla, sarò io a parlargliene,» disse la contessa, indignata per il fatto che Denisov avesse osato considerare la piccola Nataša alla stregua di una persona adulta.
«No, no, a nessun costo: faccio da me; voi starete ad ascoltare accanto alla porta.» E Nataša attraversò di corsa il salotto e raggiunse la sala dove Denisov sedeva sempre sulla stessa seggiola davanti al clavicembalo e si copriva il volto con le mani. Al rumore dei passi leggeri di lei egli balzò in piedi.
«Nathalie,» disse accostandolesi a rapidi passi, «decidete della mia sorte. Essa è nelle vostre mani!»
«Vasilij DMitrič, ho tanta compassione di voi!… Voi siete così caro… ma non si deve… questo… anche così io vi vorrò sempre bene.»
Denisov si chinò sulla mano di lei ed ella udì dei suoni strani, che le erano incomprensibili. Lo baciò sulla testa arruffata di capelli neri e ricciuti. In quel momento si udì il fruscio frettoloso della veste della contessa. Questa si avvicinò.
«Vasilij DMitrič, io vi ringrazio per l’onore che ci fate,» disse la contessa con voce turbata, che a Denisov tuttavia parve severa, «ma mia figlia è così giovane! Ed io credevo che voi, come amico di mio figlio, vi sareste rivolto prima a me. In tal caso non mi avreste messa nella necessità di rispondervi con un rifiuto.»
«Contessa…» disse Denisov con gli occhi bassi e l’aria colpevole. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma si confuse.
Nataša non poteva sopportare di vederlo in uno stato così pietoso e cominciò a singhiozzare forte.
«Contessa, io sono in tovto vevso di voi,» proseguì Denisov con voce rotta, «ma sappiate che io adovo a tal punto vostva figlia e tutta la vostva famiglia che davei due vite…» Guardò la contessa, vide la sua espressione severa. «Ebbene, addio, contessa,» disse. Le baciò la mano, e senza guardare Nataša uscì dalla stanza a passi rapidi e decisi.
Il giorno dopo Rostov si congedò da Denisov che non voleva trattenersi un giorno di più a Mosca. Per la sua partenza gli amici moscoviti organizzarono una serata in un ritrovo di zigani, ed egli non ricordò poi come l’avessero adagiato su una slitta e come avesse viaggiato nel corso delle prime tre tappe.
Dopo la partenza di Denisov, in attesa del denaro che il vecchio conte non era in grado di procurarsi in una volta sola, Nikolaj trascorse ancora due settimane a Mosca senza uscire di casa e stando quasi sempre nelle stanze delle ragazze.
Sonja era con lui più tenera e più devota di prima. Pareva volergli mostrare che quella perdita al gioco era stata un atto eroico per il quale ella adesso lo amava ancor più di prima; ma ora Nikolaj si considerava indegno di lei.