PARTE TERZA

I

La mente umana non riesce a concepire l’assoluta continuità del moto. Le leggi di qualsiasi movimento si rendono comprensibili all’uomo solo quando egli osserva come a sé stanti alcune unità di questo movimento. Ma è proprio da questa arbitraria divisione della continuità del moto in unità discontinue che deriva gran parte degli errori umani.

È noto l’antico sofisma secondo cui Achille non raggiungerà mai la tartaruga che gli cammina davanti, sebbene Achille proceda dieci volte più veloce della tartaruga; quando Achille avrà percorso lo spazio che lo divide dalla tartaruga, la tartaruga avrà percorso un’altra decima parte dello stesso spazio; Achille percorrerà questa decima parte e nel frattempo la tartaruga ne percorrerà una centesima parte, e così via all’infinito. Questo problema appariva insolubile agli antichi. L’assurdità della conclusione (Achille non raggiungerà mai la tartaruga) derivava unicamente dal fatto che si consideravano, in modo arbitrario, unità discontinue di moto, mentre il moto di Achille e della tartaruga avveniva in modo continuo.

Prendendo unità di moto sempre più piccole, noi non facciamo che avvicinarci alla soluzione del problema, ma non la raggiungeremo mai. Solo ammettendo una grandezza infinitamente piccola, e una progressione ascendente da essa fino al decimo grado, e riferendoci alla somma dei termini di questa progressione geometrica, possiamo raggiungere la soluzione del problema. La nuova branca della matematica che ha trovato il modo di trattare le grandezze infinitamente piccole, suggerisce oggi risposte che prima sembravano impossibili, anche per problemi più complessi.

Questa nuova branca della matematica, sconosciuta agli antichi, nel momento in cui ammette, a proposito dei problemi del moto, grandezze infinitamente piccole come quelle in cui si ripristina la condizione principale del moto (cioè l’assoluta continuità), corregge l’errore che la mente umana commette inevitabilmente quando esamina singole unità del moto invece del moto continuo.

Nella ricerca delle leggi degli avvenimenti storici accade esattamente la stessa cosa.

Il movimento dell’umanità, essendo l’espressione di un numero infinito di volontà umane, si compie in modo continuo.

Impadronirsi delle leggi di questo movimento è lo scopo degli storici. Ma per afferrare le leggi del movimento continuo costituito dalla somma di tutte le volontà umane, la mente dell’uomo utilizza unità arbitrarie e discontinue. Il primo passo di ogni ricerca storica consiste nel prendere una serie arbitraria di avvenimenti continui e nell’esaminarli separatamente dagli altri; mentre nessun avvenimento ha, né può avere, un principio a sé, giacché ogni avvenimento scaturisce, senza soluzione di continuità, dall’altro. Il secondo passo consiste nell’esaminare l’azione di un uomo, re o condottiero, come una somma di volontà umane, mentre la somma delle volontà umane non si esprime mai nell’attività di un solo personaggio storico.

La scienza storica, nel suo evolversi costante, esamina unità sempre più piccole, e per questa via tende ad avvicinarsi alla verità. Ma, per quanto piccole siano le unità che essa prende in considerazione, noi sentiamo che valutare un’unità separatamente dall’altra, o ammettere che sia possibile il principio di un qualsiasi fenomeno, è falso così come è falso ammettere che la volontà di tutti gli uomini si esprima nelle azioni di un solo personaggio storico.

Ogni deduzione della storia si sfalda come polvere al minimo sforzo critico, senza lasciare nulla dietro di sé, per il solo fatto che la critica scelga come oggetto d’osservazione un’unità discontinua maggiore o minore: cosa che può sempre fare, dal momento che l’unità assunta dalla storia è comunque arbitraria.

Solo sottoponendo all’osservazione un’unità infinitamente piccola, un differenziale della storia, vale a dire le tendenze omogenee degli uomini, e riuscendo ad integrare, cioè ad esprimere la somma di questi valori infinitamente piccoli, noi possiamo sperare di comprendere le leggi della storia.

 

Nei primi quindici anni del XIX secolo l’Europa conosce un inconsueto movimento di milioni di uomini. Gli uomini lasciano le loro abituali occupazioni, corrono da un angolo all’altro dell’Europa, rapinano, assassinano, trionfano e si disperano, per molti anni l’intero corso della vita cambia rivelando un intenso movimento che inizialmente va crescendo e poi diminuisce. Perché e in base a quali leggi avveniva tutto questo? si chiede la mente umana.

Gli storici, tentando di rispondere, raccontano le imprese, citano i discorsi di alcune decine di persone riunite in un edificio di Parigi, e per definire queste imprese e questi discorsi usano il termine «rivoluzione»; poi ci danno dettagliate biografie di Napoleone e di altri personaggi, alcuni a lui favorevoli, alcuni ostili, spiegano come e quanto queste persone si influenzassero a vicenda, e affermano: ecco come è nato questo movimento ed ecco le sue leggi.

La mente umana, però, non solo si rifiuta di prestar fede a questa spiegazione, ma denuncia apertamente la fallacità del suo metodo che considera le cause più marginali come determinanti e decisive. È stata la somma delle volontà umane a creare la rivoluzione e Napoleone, e soltanto questa somma di volontà li ha prima tollerati e poi distrutti.

«Ma ogni volta che ci sono state conquiste, ci sono stati anche conquistatori; ogni volta che si sono fatti dei grandi mutamenti in uno stato, ci sono stati anche grandi uomini,» dicono gli storici. Effettivamente, ogni volta che sono apparsi dei conquistatori, ci sono state anche delle guerre, risponde l’intelligenza umana, ma questo non dimostra che i conquistatori fossero la causa delle guerre e che si possono trovare le cause della guerra nell’attività di un solo uomo. Se io, ogni volta che guardo l’orologio, vedo che le lancette indicano le dieci e sento che dalla chiesa vicina le campane invitano alla messa, non ho per questo il diritto di concludere che la posizione delle lancette sia la causa del movimento delle campane.

Ogni volta che vedo una locomotiva in movimento, sento un fischio, vedo che si apre una valvola e vedo che si muovono le ruote, ma questo non mi dà il diritto di concludere che il fischio e il movimento delle ruote siano le cause del movimento della locomotiva.

I contadini dicono che in primavera talvolta soffia un vento freddo perché le gemme della quercia cominciano a schiudersi, e in effetti ogni primavera soffia un vento freddo quando la quercia fiorisce. Ma, sebbene io ignori la causa del vento freddo che soffia quando la quercia fiorisce, io non posso credere, come i contadini, che la causa del vento sia il fiorire della quercia, per il semplice fatto che l’intensità del vento è un effetto che sta al di fuori delle influenze della gemma. Io ci vedo soltanto una coincidenza di circostanze, circostanze che si possono riscontrare in ogni fenomeno della vita, e so che, per quanto scrupolosamente abbia osservato le lancette dell’orologio, la valvola e le ruote della locomotiva, o le gemme della quercia, non conoscerò la causa dello scampanio, del movimento della locomotiva e del vento primaverile. Così dovrebbero fare gli storici. E dei tentativi in questo senso sono già stati fatti.

Per studiare le leggi della storia dobbiamo sostituire completamente l’oggetto della nostra indagine, lasciare in pace i re, i ministri e i generali, e studiare quegli elementi omogenei e infinitesimali che condizionano il comportamento delle masse. È impossibile prevedere quanto lontano si possa andare su questa strada di comprensione delle leggi della storia; ma è evidente che solo su di essa si trova la possibilità di cogliere tali leggi, e la mente umana non ha ancora impiegato in questa direzione una milionesima parte degli sforzi che gli storici hanno impiegato per descrivere le imprese dei vari re, condottieri e ministri e per esporre le loro considerazioni in merito alle imprese stesse.

II

Gli eserciti di dodici nazioni europee dilagarono in Russia. I russi, esercito e popolazione civile, si ritirarono, evitando lo scontro, fino a Smolensk, e poi da Smolensk fino a Borodino. Le truppe francesi con impeto sempre crescente si avvicinano a Mosca, meta del loro attacco. L’impeto dei francesi nell’avvicinarsi alla meta aumenta come aumenta la velocità di un grave a misura che cadendo si avvicina alla terra. Alle spalle migliaia di verste di un paese affamato, ostile; davanti, poche decine di verste che lo separano dalla meta. Questo sente ogni soldato dell’esercito napoleonico e l’avanzata procede da sé, per la pura forza del suo impeto iniziale.

Nell’esercito russo, man mano che indietreggia, cresce l’odio contro il nemico; con la ritirata, esso si concentra e aumenta. A Borodino si svolge la battaglia. Né l’uno né l’altro dei due eserciti si disgrega: immediatamente dopo lo scontro l’esercito russo si ritira con la stessa necessarietà con cui rimbalza una biglia urtandone un’altra che la investa con maggiore forza d’impulso: e altrettanto necessariamente (sebbene abbia perduto tutta la sua energia nello scontro) la biglia dell’invasione, dotata di quella maggiore forza d’impulso, continua a rotolare per un certo tratto.

I russi si ritirano di centoventi verste oltre Mosca; i francesi arrivano a Mosca e qui si fermano. Per la durata di cinque settimane non si verifica più nessuno scontro. I francesi non si muovono. Come una belva mortalmente ferita che, perdendo sangue, si lecca le ferite, restano per cinque settimane a Mosca senza fare una mossa e d’un tratto, benché non sia successo niente di nuovo, fuggono indietro: si buttano sulla strada di Kaluga (e ciò nonostante una vittoria, perché anche a Malojaroslavec il campo di battaglia è rimasto nelle loro mani), senza ingaggiare nessun altro serio combattimento, fuggono indietro ancora più velocemente fino a Smolensk, oltre Smolensk, oltre Vilno, oltre la Berezina e più avanti ancora.

La sera del 26 agosto, sia Kutuzov che tutto l’esercito russo erano convinti che la battaglia di Borodino fosse stata per loro una vittoria. Così Kutuzov aveva scritto all’imperatore. Kutuzov aveva anche ordinato di prepararsi a una nuova battaglia per sbaragliare definitivamente il nemico, non già perché volesse ingannare qualcuno, ma perché era convinto che il nemico era stato sconfitto, così come ne era convinto chiunque avesse partecipato alla battaglia.

Ma quella stessa sera e il giorno seguente cominciarono a giungere, una dopo l’altra, notizie di perdite inaudite, della perdita di un’intera metà dell’esercito, e una nuova battaglia si dimostrò fisicamente impossibile.

Non si poteva dare battaglia finché non si erano ancora raccolte tutte le informazioni, non erano stati portati via i feriti, rifornite le munizioni, contati i morti, nominati nuovi comandanti al posto di quelli uccisi; né gli uomini avevano ancora mangiato e dormito.

Eppure, subito dopo la battaglia, il mattino seguente, l’esercito francese (grazie a quella forza d’impulso che cresceva, si sarebbe detto, in rapporto inverso al quadrato delle distanze) già si muoveva, come automaticamente, contro l’esercito russo. Kutuzov avrebbe voluto attaccare il giorno dopo, e tutto l’esercito lo voleva. Ma per attaccare non bastava il desiderio di farlo; era necessario che ci fosse la possibilità di farlo, e questa possibilità non c’era. Era impossibile non indietreggiare di una tappa di marcia; poi, allo stesso modo, fu impossibile non ritirarsi di una seconda e di una terza tappa, e, infine, il I° settembre, quando l’esercito si trovò nei pressi di Mosca, per quanto grande fosse la forza dei sentimenti maturati nelle file dell’esercito, la forza delle cose impose che quelle truppe indietreggiassero oltre Mosca. E le truppe si ritirarono ancora di un’ultima tappa e cedettero Mosca al nemico.

A chi è abituato a pensare che i piani delle guerre e delle battaglie vengono compilati dai comandanti nello stesso modo in cui ciascuno di noi, standosene nel suo studio dinanzi a una carta geografica, immagina e riflette come si regolerebbe in un determinato combattimento, si presentano vari interrogativi: perché Kutuzov nella ritirata non abbia agito in questo e in quest’altro modo, perché non abbia assunto una posizione prima di Fili, perché non si sia ritirato subito sulla strada di Kaluga, perché abbia abbandonato Mosca e via di seguito. Chi è abituato a pensare in questo modo dimentica e non conosce la serie di circostanze inevitabili in cui sempre si svolge l’azione di ogni comandante supremo. L’azione di un comandante supremo non somiglia minimamente a ciò che noi possiamo immaginarci standocene comodamente seduti nel nostro studio ad analizzare sulla carta geografica una data campagna di guerra con un dato numero di truppe da una parte e dall’altra, in una data località, e cominciando le nostre riflessioni da un dato momento. Un comandante supremo non si trova mai in quelle condizioni di inizio di un certo avvenimento da cui noi invece partiamo sempre per esaminare l’avvenimento stesso. Un comandante supremo si trova sempre nel mezzo di una serie mobile di eventi, in modo tale che mai, in nessun momento, è in grado di valutare a fondo il significato di ciò che sta avvenendo. Il significato più profondo di un avvenimento in corso si va delineando impercettibilmente, istante dopo istante, e in ogni momento di questo continuo e concatenato delinearsi di avvenimenti, il comandante supremo si trova al centro di un assai complesso gioco di intrighi, di preoccupazioni, di relazioni di dipendenza e d’autorità, di progetti, di consigli, di minacce, di inganni; si trova costantemente nella necessità di rispondere a un’infinita quantità di questioni che gli vengono poste, tutte in contraddizione fra loro.

Gli esperti militari argomentano con la massima serietà che Kutuzov avrebbe dovuto spostare le truppe assai prima di Fili sulla strada di Kaluga, e che qualcuno aveva persino proposto questo piano. Ma di fronte a un comandante supremo, specie in un momento grave, ci sono sempre, non uno solo, ma decine di piani. E ciascuno di questi piani, basati sulla strategia e sulla tattica, è in contrasto con l’altro. Sembrerebbe che il compito di un comandante supremo consista soltanto nello scegliere uno dei tanti piani proposti. E invece non può fare nemmeno questo. Gli avvenimenti e il tempo non aspettano. Supponiamo che gli propongano di portarsi il 28 sulla strada di Kaluga, ma ecco che arriva un aiutante di campo da parte di Miloradovič e gli domanda se si debba ingaggiare subito battaglia con i francesi o ritirarsi. Deve dare l’ordine subito, in quello stesso momento. Ma l’ordine di ritirarsi lo distoglie dal progetto di conversione sulla strada di Kaluga. E, subito dopo l’aiutante, c’è un intendente che chiede dove dirigere le salmerie e il comandante degli ospedali che domanda dove trasportare i feriti, e poi un corriere, da Pietroburgo, recapita una lettera del sovrano in cui non è ammessa l’eventualità di abbandonare Mosca, intanto il rivale del comandante supremo, quello che gli sta scavando il terreno sotto i piedi (simili personaggi ci sono sempre, e non uno, ma parecchi), propone un nuovo progetto, diametralmente opposto a quello di trovare uno sfogo sulla strada di Kaluga; le energie del comandante supremo richiedono sonno e ristoro, uno stimatissimo generale a cui ci si è dimenticati di conferire una decorazione, viene a protestare, gli abitanti invocano protezione; l’ufficiale mandato a ispezionare la località fa ritorno e riferisce completamente il contrario di ciò che aveva detto l’ufficiale mandato prima di lui, mentre un informatore, un prigioniero e un generale che è stato in ricognizione descrivono tutti in modo diverso la posizione dell’esercito nemico. Le persone abituate a non capire o a dimenticare queste circostanze, che inevitabilmente condizionano le decisioni di ogni comandante supremo, vengono a illustrarci, per esempio, la posizione delle truppe a Fili e, così facendo, suppongono che il I° settembre il comandante supremo fosse completamente libero di decidere se abbandonare o difendere Mosca, quando invece, visto che l’esercito russo era a cinque verste da Mosca, la questione non poteva nemmeno essere posta. In che momento, in realtà, si decise tale questione? Già a Drissa, a Smolensk, e già, soprattutto, il 24 agosto a Ševardino, e il 26 a Borodino, e poi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della ritirata da Borodino a Fili.

III

Le armate russe che si erano ritirate da Borodino si trovavano a Fili. Ermolov, dopo essersi recato a esaminare la posizione, andò dal feldmaresciallo.

«Su queste posizioni è impossibile battersi,» disse.

Kutuzov lo guardò con stupore e gli fece ripetere quelle parole. Quando le ebbe pronunciate, Kutuzov gli tese la mano.

«Dammi qua la mano,» disse, e, voltandogliela come per tastare il polso, disse: «Tu non stai bene, caro mio. Pensa a quello che dici.»

Sul Monte Poklonnaja, a sei verste dalla Barriera Dorogomilovo, Kutuzov scese dalla carrozza e si sedette al margine della strada su una panca. Intorno a lui si radunò un’enorme folla di generali. A loro si unì anche il conte Rastopèin, arrivato da Mosca. La brillante compagnia, divisa in vari gruppi, discuteva dei vantaggi e degli svantaggi della posizione, della condizione delle truppe, dei piani che erano stati proposti, della situazione di Mosca e, in genere, di questioni di guerra. Tutti avevano la sensazione che, sebbene non fossero stati convocati a quello scopo, sebbene non fosse stato definito così, quello era in realtà un consiglio di guerra. Tutti i discorsi si mantenevano nella sfera delle questioni generali. Se qualcuno comunicava, o cercava di sapere, notizie personali, lo faceva sottovoce, sussurrando; e subito si passava di nuovo alle questioni generali: fra tutte quelle persone non si notavano né sorrisi, né scherzi, né risa. Tutti, evidentemente, cercavano con la medesima cura di tenersi all’altezza della situazione. E tutti i gruppi, conversando fra loro, si sforzavano di restare vicini al comandante supremo (la cui panca costituiva il centro dei gruppi) e parlavano in modo che egli potesse sentirli. Il comandante supremo ascoltava, a tratti si faceva ripetere ciò che dicevano intorno a lui, ma personalmente non entrava nel discorso e non esprimeva alcuna opinione. Per lo più, dopo aver ascoltato i discorsi dell’uno o dell’altro gruppo, con aria delusa - come se parlassero di tutt’altro da ciò che lui desiderava sapere, - si voltava dall’altra parte. Alcuni parlavano della posizione che era stata scelta, criticando non tanto la posizione in sé quanto le capacità intellettuali di quelli che l’avevano scelta; altri insistevano nel dimostrare che lo sbaglio era stato fatto prima, che bisognava accettare battaglia già due giorni prima; altri ancora parlavano della battaglia di Salamanca, di cui andava raccontando il francese Crossart, arrivato allora allora in uniforme spagnola. (Questo francese discuteva dell’assedio di Saragozza con uno dei principi tedeschi che prestavano servizio nell’esercito russo, e considerava la possibilità di difendere Mosca nello stesso modo). In un quarto gruppo il conte Rastopèin diceva di essere pronto a morire sotto le mura della capitale assieme alla milizia di Mosca, ma che comunque non poteva non rammaricarsi di essere stato lasciato completamente all’oscuro della situazione, e che, se l’avesse saputo prima, tutto sarebbe andato diversamente… Un quinto gruppo di persone, esibendo tutta la profondità delle loro considerazioni strategiche, parlava della direzione che le truppe avrebbero dovuto prendere. Un sesto gruppo diceva vere e proprie assurdità. La faccia di Kutuzov si faceva sempre più preoccupata e mesta. Da tutti quei discorsi Kutuzov vedeva chiara una cosa sola: non c’era nessuna possibilità materiale, nel vero senso di questa parola, di difendere Mosca; vale a dire che la cosa era impossibile a tal punto che, se un qualsiasi comandante in capo impazzito avesse dato l’ordine di ingaggiare battaglia, si sarebbe prodotta un’enorme confusione, ma la battaglia non ci sarebbe stata; e non ci sarebbe stata perché tutti i comandanti non solo la consideravano impossibile dalla posizione attuale, ma nei loro discorsi discutevano soltanto di ciò che sarebbe successo dopo l’indubbio abbandono di tale posizione. Come potevano dunque dei comandanti condurre le loro truppe su un campo di battaglia che ritenevano impossibile? I comandanti inferiori, persino i soldati (anch’essi infatti ragionano) consideravano ugualmente impossibile la posizione e dunque non potevano andare a battersi con la certezza di essere sconfitti. Se Bennigsen insisteva sulla difesa di quella posizione e anche altri ne discutevano, la questione in sé non aveva alcun senso, oppure l’aveva solamente come pretesto di discussioni e intrighi. Questo capiva Kutuzov.

Bennigsen, che aveva scelto la posizione, faceva grande sfoggio del suo patriottismo russo (cosa che Kutuzov non poteva sopportare) e insisteva sulla difesa di Mosca. Kutuzov vedeva chiaro come il giorno lo scopo di Bennigsen: nel caso fosse fallita la difesa avrebbe scaricato tutta la colpa su Kutuzov che aveva portato le truppe fino alle Vorob’ëvye Gory senza combattere; in caso di successo, se ne sarebbe attribuito il merito; e, in caso di rifiuto, si sarebbe lavato dall’onta d’aver abbandonato Mosca. Ma questo intrigo, adesso, non interessava al vecchio. Un solo terribile problema lo interessava. E da nessuno sentiva una risposta adeguata. La questione, per lui, adesso consisteva solamente in questo: «Possibile che sia stato io a lasciar arrivare Napoleone fino a Mosca? E quando l’avrei fatto? Quando si sarebbe decisa la cosa? Forse ieri, quando ho mandato a Platov l’ordine di ritirarsi, oppure due giorni fa, quando mi sono assopito e ho ordinato a Bennigsen di dare lui disposizioni? O ancora prima?… Ma quando, quando s’è decisa questa terribile cosa? Mosca deve essere abbandonata. Le truppe devono ritirarsi e devo essere io a dare quest’ordine.» Dare quest’ordine terribile gli sembrava come rinunciare al comando dell’esercito. E non solo il potere gli piaceva, ci era abituato (gli onori resi al principe Prozorovskij, con cui si era trovato in Turchia, lo esasperavano), ma era convinto di essere predestinato a salvare la Russia e che proprio per questo, contro la volontà dell’imperatore e per volontà del popolo, fosse stato eletto comandante supremo. Era convinto che lui solo, in quelle difficili condizioni, fosse in grado di restare alla testa dell’esercito, che lui solo, in tutto il mondo, fosse in grado di sapere, senza per questo sgomentarsi, che il suo avversario era l’invincibile Napoleone; e perciò inorridiva al pensiero dell’ordine che doveva dare. Ma bisognava decidere qualcosa, bisognava far cessare i discorsi che si andavano facendo intorno a lui, e che cominciavano ad assumere un carattere di eccessiva spregiudicatezza.

Chiamò a sé i generali più anziani.

«Ma tête, fut-elle bonne ou mauvaise, n’a qu’à s’aider d’elle même,» disse alzandosi dalla panca, e ripartì alla volta di Fili, dove sostavano le sue carrozze.

IV

Il consiglio si riunì alle due nell’ampia stanza principale dell’izba del contadino Andrej Savostjanov. Uomini, donne e bambini della grande famiglia contadina si riunirono nella stanza più piccola al di là dell’andito. Soltanto la nipotina di Andrej, Malaša, una bambina di sei anni, alla quale Sua Eccellenza Serenissima, dopo averla carezzata, aveva dato una zolletta di zucchero durante il tè, era rimasta sopra la stufa della stanza grande. Dalla stufa Malaša guardava con timidezza e con gioia le facce, le divise e le croci dei generali, che entravano uno dopo l’altro nell’izba e si sedevano nell’angolo delle icone, sulle larghe panche sotto le immagini sacre. Il nonno, come Malaša chiamava dentro di sé Kutuzov, stava seduto in disparte dagli altri, al buio, dietro la stufa. Se ne stava completamente abbandonato nella poltrona pieghevole e continuamente scatarrava e si metteva a posto il colletto della giacca che, anche sbottonato, pareva soffocarlo. Quelli che entravano, uno dopo l’altro, si avvicinavano al feldmaresciallo; ad alcuni egli stringeva la mano, ad altri faceva un cenno con la testa. L’aiutante Kajsarov avrebbe voluto sollevare la tenda della finestra di fronte a Kutuzov, ma Kutuzov gli fece un gesto di stizza e Kajsarov capì che Sua Eccellenza non voleva essere visto in faccia.

Intorno al rustico tavolo di legno, sul quale stavano carte geografiche, piani, matite, fogli di carta, si riunì tanta gente che gli attendenti portarono un’altra panca e la misero vicino al tavolo. Su questa panca si sedettero i nuovi venuti: Ermolov, Kajsarov e Toll. Proprio sotto le icone, al primo posto, sedeva Barclay de Tolly: portava l’ordine di san Giorgio al collo, aveva la faccia pallida e malaticcia, l’alta fronte che si confondeva con la testa calva. Già da due giorni soffriva di febbre e anche adesso aveva i brividi e si sentiva tutto indolenzito. Al suo fianco era seduto Uvarov e con voce sommessa (così come, del resto, parlavano tutti), con rapidi gesti delle mani, stava dicendo qualcosa a Barclay. Il piccolo tondo Dochturov ascoltava attentamente con le sopracciglia inarcate e con le mani incrociate sul ventre. Dall’altra parte sedeva il conte Esterman-Tolstoj, appoggiando su una mano la larga testa dai tratti marcati e dagli occhi splendenti, e sembrava profondamente immerso nelle sue riflessioni. Raevskij sbirciava ora Kutuzov, ora la porta d’entrata, con un’espressione d’impazienza, mentre con gesto abituale andava arricciando i neri capelli sulle tempie. La faccia di Konovnitsyn, buona, salda, piacevole, era illuminata da un affabile e furbo sorriso. Aveva incontrato lo sguardo di Malaša e le faceva con gli occhi dei segni che costringevano la bambina a sorridere.

Tutti aspettavano Bennigsen, che stava terminando il suo gustoso pranzo con il pretesto di una nuova ricognizione delle posizioni. Lo aspettarono dalle quattro alle sei e fino ad allora dovettero rinunciare a dare inizio al consiglio, e continuare a discutere con voce sommessa, di argomenti marginali.

Solamente quando nell’izba entrò Bennigsen, Kutuzov si spostò dal suo angolo e si avvicinò al tavolo; ma non tanto perché la sua faccia venisse illuminata dalle candele che erano state collocate sul tavolo.

Bennigsen aprì il consiglio con la domanda: «Abbandonare senza combattere l’antica e sacra capitale della Russia, oppure difenderla?» Seguì un lungo silenzio generale. Tutte le facce si accigliarono e nel silenzio si udivano lo scatarrare iroso e il tossire di Kutuzov. Tutti gli sguardi erano puntati su di lui. Anche Malaša guardava il nonno. Lei gli stava più vicina di tutti e vedeva la sua faccia raggrinzirsi in una smorfia: sembrava che il nonno stesse per piangere. Ma durò poco.

«L’antica e sacra capitale della Russia!» disse d’un tratto, ripetendo irosamente le parole di Bennigsen e mettendone in rilievo il tono falso. «Permettetemi di dirvi, eccellenza, che questa questione non ha senso per i russi (si lasciò cadere avanti con il suo corpo pesante). Una simile questione non si può porre e non ha senso. Il motivo per cui ho pregato questi signori di radunarsi è di natura militare. Il quesito è questo: “La salvezza della Russia sta nell’esercito. Conviene più rischiare la perdita dell’esercito e di Mosca, accettando battaglia, o cedere Mosca senza combattere?” Ecco la questione sulla quale desidero conoscere i vostri pareri.» (E si lasciò cadere indietro sullo schienale della poltrona).

Cominciò la discussione. Bennigsen non considerava ancora perduta la partita. Ammettendo l’opinione di Barclay e degli altri circa l’impossibilità di accettare una battaglia difensiva sotto Fili, e intanto fremendo tutto di patriottismo russo e di amore per Mosca, proponeva di spostare nella notte le truppe sul fianco sinistro e di piombare, il giorno dopo, sull’ala destra dei francesi. Le opinioni si fecero discordi, nacquero dispute a favore e contro tale proposta. Ermolov, Dochturov e Raevskij erano d’accordo con Bennigsen. Sia che fossero guidati dal sentimento della necessità di un sacrificio prima di abbandonare Mosca, sia che lo fossero da altre considerazioni personali, fatto sta che quei generali sembravano non capire che il consiglio di guerra non poteva cambiare l’inevitabile corso degli eventi, e che Mosca era stata ormai abbandonata. Gli altri generali lo capivano e, lasciando da parte la questione di Mosca, parlavano della direzione che l’esercito avrebbe dovuto prendere nella ritirata. Malaša, che non staccava un attimo lo sguardo da ciò che s’andava svolgendo davanti a lei, interpretava in modo ben diverso il significato di quel consiglio di guerra. A lei sembrava che tutto si riducesse a una lotta personale fra il «nonno» e «l’uomo con la giubba lunga», come lei chiamava Bennigsen. Vedeva che si arrabbiavano quando parlavano fra di loro e in cuor suo teneva dalla parte del «nonno». Nel bel mezzo della conversazione, notò uno sguardo rapido, malizioso, lanciato dal nonno a Bennigsen e, subito dopo, con grande gioia, che il nonno, dicendo qualcosa all’uomo dalla giubba lunga, lo aveva messo a posto: tutt’a un tratto Bennigsen si fece rosso in volto e si mise a passeggiare, rabbiosamente, su e giù per la stanza. Le parole che avevano avuto tanto effetto su Bennigsen erano quelle con cui, tranquillamente e sottovoce, Kutuzov aveva espresso la propria opinione in merito ai vantaggi e agli svantaggi della proposta di Bennigsen: trasferire nottetempo le truppe dal fianco destro a quello sinistro e attaccare l’ala destra dei francesi.

«Io, signori,» disse Kutuzov, «non posso approvare il piano del conte. Le conversioni di truppe nell’immediata vicinanza del nemico sono sempre pericolose e la storia militare lo conferma. Così, per esempio… (Kutuzov si fermò a riflettere, cercando l’esempio e nello stesso tempo, con uno sguardo luminoso e ingenuo, fissava Bennigsen). Ecco, anche la battaglia di Friedland, che penso il conte ricordi bene… non ha avuto pieno successo soltanto perché le nostre truppe hanno cambiato schieramento a troppa breve distanza dal nemico…»

Seguì un minuto di silenzio, che a tutti parve assai lungo.

Le discussioni ripresero, ma le pause si fecero sempre più frequenti, e si aveva l’impressione che ormai non ci fosse più nulla da dire.

Durante una di queste pause, Kutuzov sospirò profondamente come per prendere la parola. Tutti si voltarono verso di lui.

«Eh bien, messieurs! Je vois que c’est moi qui payerai les pots cassés,» disse. E, alzandosi lentamente, si avvicinò al tavolo. «Signori, ho ascoltato i vostri pareri. Alcuni non saranno d’accordo con me. Ma io (si fermò un istante), col potere conferitomi dal mio imperatore e dalla patria, io ordino la ritirata.»

Subito dopo i generali cominciarono ad allontanarsi con la stessa solenne e silenziosa discrezione con cui si allontanano gli intervenuti ad un funerale.

Alcuni generali riferirono qualcosa al comandante supremo a voce bassa, in tutt’altro tono da quando parlavano al consiglio.

Malaša, che già da un pezzo aspettavano per la cena, si lasciò scivolare giù cautamente dal soppalco, aggrappandosi con i piedini nudi alle sporgenze della stufa e sgattaiolò verso la porta intrufolandosi fra le gambe dei generali.

Congedati i generali, Kutuzov rimase a lungo seduto lì, i gomiti appoggiati al tavolo, continuando a cercare una risposta alla terribile domanda: «Quando, quando in realtà si è deciso che Mosca fosse abbandonata? Quando è avvenuto ciò che ha determinato la decisione, e di chi è la colpa?»

«Questa poi… questa non me l’aspettavo,» disse all’aiutante Schneider che entrò da lui a notte ormai inoltrata, «questa non me l’aspettavo! Questa non l’avrei mai creduta!…»

«Voi dovete riposare, Eccellenza,» disse Schneider.

«Ma no! Finiranno anche loro col mangiare la carne dei cavalli, come hanno fatto i turchi,» gridò Kutuzov senza rispondergli e battendo il pugno grassoccio sul tavolo, «sì, anche loro, non appena…»

V

In modo completamente diverso da Kutuzov, in quello stesso momento, e riguardo a un fatto ancora più importante della ritirata senza resistenza dell’esercito, e cioè riguardo all’abbandono di Mosca e al suo incendio, si comportava Rastopèin, che ci viene presentato come il responsabile di tale avvenimento.

Quest’avvenimento - l’abbandono di Mosca e il suo incendio - era altrettanto inevitabile della ritirata, senza resistenza, dell’esercito oltre Mosca in seguito alla battaglia di Borodino.

Ogni russo, non già in base a considerazioni logiche, bensì in base ai sentimenti che si annidano nel nostro animo come in quello dei nostri padri, avrebbe potuto predire ciò che accadde.

A cominciare da Smolensk, in tutte le città e i villaggi della terra russa, indipendentemente dal conte Rastopèin e dai suoi proclami, le cose si svolsero esattamente come a Mosca. Il popolo aspettava il nemico con indifferenza, non si ribellava, non si agitava, non faceva a pezzi nessuno; aspettava con calma che si compisse il suo destino sentendo di possedere la forza per fare, nel momento più difficile, ciò che si sarebbe dovuto fare. E, non appena il nemico fu vicino, gli elementi più ricchi della popolazione se ne andarono abbandonando i loro averi; i più poveri rimasero e incendiarono ciò che era rimasto.

Nell’animo di ogni russo era ed è tuttora profondamente radicata la consapevolezza che così sarebbero andate le cose e che così sarebbe stato sempre. Questa consapevolezza, e, ancor di più, il presentimento che Mosca sarebbe caduta, erano estremamente vivi nella società moscovita del 1812. Coloro che avevano cominciato a partire da Mosca già in luglio e agli inizi di agosto avevano dimostrato d’aspettarsi quanto accadde in seguito. Coloro che partirono, portandosi dietro ciò che potevano, abbandonando le case e una metà degli averi, agirono così sotto l’influsso di quel segreto (latent) patriottismo che non si esprime nelle belle frasi, nell’uccidere i figli per la salvezza della patria e in altre simili azioni innaturali, ma che si esprime impercettibilmente, semplicemente, organicamente e perciò produce sempre i più grandi risultati.

«È vergognoso fuggire di fronte al pericolo; soltanto i vigliacchi fuggono da Mosca,» dicevano a costoro. Rastopèin, con i suoi proclami, tentava di convincerli che fuggire da Mosca era un’ignominia. Si vergognavano di esser chiamati vigliacchi, si vergognavano di partire e tuttavia partivano, perché sapevano che così bisognava fare. Perché partivano? Non si può supporre che Rastopèin li avesse spaventati prospettando gli orrori perpetrati da Napoleone nei territori conquistati. Partivano e per primi partivano i ricchi, le persone colte, quelle che sapevano bene che Vienna e Berlino erano rimaste intatte e che laggiù, sotto l’occupazione napoleonica, i civili avevano passato allegramente il loro tempo assieme agli affascinanti francesi, che tanto piacevano, allora, agli uomini russi e soprattutto alle donne.

Partivano perché ogni russo nemmeno si chiedeva se, sotto il dominio francese, a Mosca si sarebbe stati bene o male. Sotto il dominio francese non si poteva stare: era quanto di peggio potesse esservi. Partirono ancora prima della battaglia di Borodino, e ancora più rapidamente dopo la battaglia di Borodino, nonostante gli appelli alla difesa, nonostante le dichiarazioni del comandante supremo di Mosca circa il suo proposito di portare in processione l’Iverskaja e di andare a battersi; e nonostante i palloni aerostatici che dovevano annientare i francesi, e nonostante tutte le stupidaggini che scriveva Rastopèin nei suoi proclami. Sapevano che il compito di battersi spettava all’esercito e, se quello non ci riusciva, non si poteva certo andare con le signorine e con i domestici alle Tri Gory a combattere contro Napoleone; sapevano che bisognava partire, per quanto fosse penoso abbandonare alla rovina i propri averi. Partivano senza pensare al sublime significato che assumeva quell’immensa, ricca capitale abbandona dai suoi abitanti e da essi stessi, evidentemente, incendiata (dal momento che non distruggere, non bruciare le case ormai vuote non è nello spirito del popolo russo); partivano ciascuno per proprio conto: ma nello stesso tempo, solo per il fatto che partirono si compì quel grandioso evento che resterà sempre la gloria più bella del popolo russo. Quella signora che già nel mese di giugno, coi suoi negretti e i suoi buffoni, si era trasferita da Mosca nella campagna di Saratov con la vaga coscienza di non essere una serva di Bonaparte, e con la paura che potessero fermarla per ordine del conte Rastopèin, compiva nel modo più semplice e vero la grande impresa che salvò la Russia. Il conte Rastopèin, invece, che ora insultava quelli che partivano, ora faceva evacuare le pubbliche amministrazioni, ora distribuiva inutili armi ad un’accozzaglia di ubriaconi, ora portava in processione le icone, ora sequestrava tutti i veicoli privati disponibili a Mosca, ora su centotrentasei carri trasportava il pallone aerostatico fabbricato da Leppich, ora alludeva al fatto che avrebbe incendiato Mosca, ora raccontava d’aver bruciato la propria casa e d’aver scritto un messaggio ai francesi in cui solennemente li biasimava per aver devastato il suo asilo d’infanzia; ora accettava la gloria d’aver incendiato Mosca, ora la respingeva, ora ordinava al popolo di catturare tutte le spie e di portarle a lui, ora lo rimproverava per questa stessa cosa, ora mandava via da Mosca tutti i francesi, ora lasciava in città la signora Aubert-Chalme che costituiva il centro di tutta la colonia francese di Mosca mentre, senza che quello avesse una particolare colpa, ordinava di arrestare e deportare il vecchio e rispettabile direttore delle poste Ključarëv; ora raccoglieva il popolo per battersi con i francesi sulle Tri Gory, ora per disfarsi di quello stesso popolo, gli dava un uomo da uccidere mentre lui se la svignava per l’uscita di servizio; ora diceva che non sarebbe sopravvissuto alla sciagura di Mosca, ora scriveva sugli album versi in francese sulla parte che aveva avuto nell’avvenimento; quest’uomo non comprendeva il significato di quanto stava accadendo, voleva semplicemente fare qualcosa, stupire qualcuno, compiere una impresa patriottica, eroica, e si divertiva come un bambino davanti al grandioso e inevitabile spettacolo dell’abbandono e dell’incendio di Mosca, e con la sua piccola mano tentava ora di favorire, ora di arrestare l’enorme fiumana di popolo, che lo trascinava via con sé.

VI

Hélène, tornata da Vilno a Pietroburgo insieme con la corte, si era trovata in una situazione difficile.

A Pietroburgo, Hélène godeva della particolare protezione di un dignitario che occupava una delle più alte cariche dello stato. A Vilno, poi, era entrata in intimità con un giovane principe straniero. Quando era tornata a Pietroburgo, il principe e il dignitario erano tutt’e due a Pietroburgo, tutt’e due avevano fatto valere i loro diritti e a Hélène si era così presentato un compito nuovo nella sua carriera: mantenersi in intimi rapporti con entrambi senza offendere nessuno dei due.

Ciò che sarebbe sembrato difficile e persino impossibile a un’altra donna, non diede da pensare neppure un momento alla contessa Bezùchova, che non per nulla, evidentemente, godeva della reputazione di donna intelligentissima. Se avesse tentato di nascondere le sue azioni, di sbrogliarsi da quell’imbarazzante situazione con l’astuzia, avrebbe, automaticamente, sciupato tutto riconoscendo la sua colpa; ma Hélène, agendo come un vero essere superiore che può permettersi tutto ciò che desidera, assunse subito, e in perfetta buona fede, l’atteggiamento di chi sta nel giusto, facendo così ricadere sugli altri tutte le colpe.

La prima volta che il giovane personaggio straniero si permise di farle dei rimproveri, sollevando orgogliosamente la sua bella testa e voltandosi verso di lui di mezzo profilo, disse:

«Voilà l’égoïsme et la cruauté des hommes! Je ne m’attendais pas à autre chose. La femme se sacrifie pour vous, elle souffre, et voilà sa récompense. Quel droit avez vous, Monseigneur, de me demander compte de mes amitiés, de mes affections? C’est un homme qui a été plus qu’un père pour moi

Il personaggio avrebbe voluto dire qualcosa. Hélène lo interruppe:

«Eh bien oui,» disse, «peut être qu’il a pour moi d’autres sentiments que ceux d’un père, mais ce n’est pas une raison pour que je lui ferme ma porte. Je ne suis pas un homme pour être ingrate. Sachez, Monseigneur, pour tout ce qui a rapport à mes sentiments intimes, je ne rend compte qu’à Dieu et à ma conscience,» concluse, sfiorando con la mano il bel seno che si sollevava alto e guardando verso il cielo.

«Mais écoutez-moi, au nom de Dieu

«Epousez moi, et je serai votre esclave

«Mais c’est impossible

«Vous ne daignez pas descendre jusqu’à moi, vous…» disse Hélène scoppiando a piangere.

Il personaggio si mise a consolarla; Hélène disse fra le lacrime (fingendo un momentaneo abbandono) che nulla poteva impedirle di sposarsi, che c’erano già degli esempi (gli esempi allora erano ancora pochi, ma lei nominò Napoleone e altri personaggi), che lei non era mai stata la moglie di suo marito, e che l’avevano costretta al sacrificio.

«Ma le leggi, la religione…» diceva il personaggio, cominciando ormai ad arrendersi.

«Le leggi, la religione… Ma per che cosa sono state inventate se non possono rendere possibile nemmeno questo!» disse Hélène.

L’importante personaggio si meravigliò che non gli fosse mai passato per la mente un così semplice ragionamento, e si rivolse per consiglio ai santi fratelli della Compagnia di Gesù con i quali si trovava in rapporti molto amichevoli.

Alcuni giorni dopo, durante una delle incantevoli feste che Hélène dava nella sua villa di Kamenij Ostrov, le fu presentato l’affascinante m.r de Jobert, un Jésuite à la robe courte, un uomo non più giovane, con i capelli bianchi come la neve e neri occhi brillanti; costui si trattenne a lungo in giardino con Hélène, alla luce dei lampioni e al suono della musica, a conversare dell’amore per Dio, per Cristo, per il cuore della Madre di Dio e delle consolazioni che procura in questa vita e in quella futura l’unica e vera religione cattolica. Hélène ne fu commossa e varie volte sia a lei che a m-r de Jobert spuntarono le lacrime agli occhi e la voce divenne tremante. L’inizio delle danze, cui un cavaliere invitò Hélène, disturbò questa conversazione tra lei e il suo futuro directeur de conscience, ma il giorno dopo m-r de Jobert andò da solo, di sera, a casa di Hélène, e da quel momento cominciò a farle visita di frequente.

Un giorno egli accompagnò la contessa in un tempio cattolico, dove lei si mise in ginocchio davanti all’altare a cui era stata fatta avvicinare. Il non più giovane ma affascinante francese le mise le mani sulla testa e lei, come raccontò in seguito, provò una sensazione indefinita, come il soffio di una brezza leggera che le scendeva nell’anima. Le spiegarono che quella era la grâce.

Poi la presentarono a un abate à robe longue, che la confessò e le rimise i suoi peccati. Il giorno dopo le portarono un cofanetto con l’ostia consacrata e glielo lasciarono a casa perché se ne servisse. Alcuni giorni dopo, con sua grande soddisfazione, Hélène seppe che ormai era entrata nella vera Chiesa cattolica e che a giorni il Papa stesso ne sarebbe stato messo al corrente e le avrebbe inviato una certa carta.

Tutto ciò che in quel periodo succedeva intorno a lei e a lei stessa, tutta l’attenzione che le rivolgevano tante persone d’elevato intelletto e che si manifestava in forme così piacevoli e raffinate, quella purezza di colomba in cui adesso viveva sempre (durante quel periodo indossò abiti bianchi con nastri bianchi), tutto questo le procurava piacere, ma fra tanto piacere neppure un solo momento perdeva di vista il proprio scopo. E poiché, come sempre avviene, in fatto d’astuzia lo stupido batte chi è più intelligente di lui, Hélène, avendo compreso che lo scopo di tutte quelle frasi e quelle premure consisteva soprattutto nell’ottenere da lei, convertita al cattolicesimo, delle sovvenzioni in danaro per gli istituti gesuiti, prima di dare i soldi insistette perché fossero iniziate le pratiche concernenti il suo divorzio. Secondo le sue concezioni, il significato di ogni religione stava solamente nel rispettare, soddisfacendo i desideri umani, certe convenienze. E a questo scopo, durante uno dei suoi colloqui con il confessore, chiese insistentemente che le venisse spiegato in che misura la vincolasse il matrimonio già contratto.

Erano seduti in salotto, vicino alla finestra. Il sole tramontava. Dalla finestra entrava profumo di fiori. Hélène indossava un abito bianco trasparente sulle spalle e sul seno. L’abate, ben pasciuto, con un mento grassoccio, ben rasato e liscio, con una bella bocca dal taglio incisivo e mani bianche mitemente incrociate sulle ginocchia, era seduto vicino a lei e di tanto in tanto la guardava tranquillamente in faccia con uno sguardo profondamente ammirato della sua bellezza, mentre esponeva il proprio punto di vista sulla questione che li interessava. Hélène sorrideva inquieta, guardava i capelli ondulati, le guance grassocce rasate con cura e ombreggiate di nero dell’abate e si aspettava che da un momento all’altro il colloquio prendesse un’altra piega. Ma, nonostante l’abate fosse evidentemente compiaciuto dell’avvenenza e della vicinanza della sua interlocutrice, era completamente impegnato nei virtuosismi del proprio mestiere.

I ragionamenti che il direttore di coscienza veniva svolgendo erano i seguenti. Ignorando il significato di ciò che facevate, voi avete promesso fedeltà coniugale a un uomo che, da parte sua, contraendo matrimonio e non credendo nel significato religioso del matrimonio, ha commesso un sacrilegio. Questo matrimonio non ha avuto il duplice significato che avrebbe dovuto avere. Ciononostante, però, la promessa era sempre vincolante. Voi le siete venuta meno. Che cosa avete commesso? Péché veniel oppure péché mortel? Se adesso, allo scopo di avere dei bambini, contraeste un nuovo matrimonio, il vostro peccato potrebbe essere perdonato. Ma la questione si scinde di nuovo in due: primo…

«Ma io penso,» disse a un tratto con il suo affascinante sorriso Hélène, che si stava annoiando, «che, essendo entrata nella vera religione, non posso restare vincolata da ciò che mi imponeva una religione falsa.»

Il directeur de conscience fu sbalordito dalla semplicità di questa soluzione che gli veniva messa davanti come l’uovo di Colombo. Pur restando ammirato nel suo intimo della straordinaria rapidità dei progressi della sua allieva, non poteva, però, rinunciare all’edificio di argomentazioni che aveva costruito con tante fatiche intellettuali.

«Entendons nous, comtesse,» disse con un sorriso e si mise a confutare i ragionamenti della sua figlia spirituale.

VII

Hélène aveva capito che la faccenda era molto semplice e facile dal punto di vista spirituale, ma che i suoi direttori facevano delle difficoltà soltanto perché temevano il risentimento dell’autorità secolare.

E per questo Hélène decise che la cosa andava prima preparata in società. Suscitò la gelosia del vecchio dignitario e gli disse le stesse cose che aveva detto al primo pretendente, cioè presentò la cosa in modo tale che l’unico mezzo per ottenere dei diritti su di lei stava nello sposarla. Il vecchio illustre personaggio, sul momento, restò altrettanto sbalordito da questa proposta di matrimonio mentre c’era un altro marito ancora in vita, di quanto non lo fosse stato il primo, giovane personaggio, ma l’incrollabile sicurezza di Hélène che la cosa fosse semplice e naturale come il matrimonio di una ragazza da marito, ebbe effetto anche su di lui. Se in Hélène si fossero potuti notare anche minimi indizi di esitazione, di vergogna o di finzione, la sua causa sarebbe andata irrimediabilmente persa, e invece non soltanto mancava in lei qualsiasi indizio di finzione e di vergogna, ma anzi lei stessa andava raccontando, con candore e bonaria ingenuità, ai suoi amici intimi (cioè a tutta Pietroburgo), che l’avevano chiesta in moglie sia il principe che il dignitario, e che lei amava entrambi e esitava a dare un dolore all’uno o all’altro.

Così per tutta Pietroburgo si diffuse fulmineamente la voce, non già che Hélène volesse divorziare da suo marito (se fosse accaduta una cosa simile, moltissimi sarebbero insorti contro una tale intenzione, assolutamente illegittima), e invece si sparse la voce che l’infelice, interessante Hélène era in dubbio su quale, tra i due, scegliere come marito. La questione, dunque, non stava più nell’accertare in che misura tale matrimonio fosse possibile, ma soltanto nel chiedersi quale fosse il partito più vantaggioso e come avrebbe reagito la Corte. C’erano, effettivamente, delle persone retrive, incapaci di mettersi all’altezza della situazione, che in questo progetto videro una profanazione del sacramento del matrimonio, ma persone del genere erano poche e quelle poche tacevano, mentre la maggioranza si interessava con fervore al caso di Hélène: la fortuna che le era capitata e quale fosse la scelta migliore. Se poi fosse giusto o no sposarsi avendo un marito ancora in vita, di questo non parlavano giacché tale questione, evidentemente, era già stata risolta da persone più intelligenti di noi (come dicevano) e dubitare della validità di questa soluzione significava rischiare di rivelare la propria stupidità e la propria inesperienza del galateo mondano.

Solamente Marija Dmitrievna Achrosimova, che quell’estate era venuta a Pietroburgo per incontrarsi con uno dei suoi figli, si permise di esprimere apertamente il suo parere, diametralmente opposto a quello della società. Incontrando Hélène a un ballo, Marija Dmitrievna la fermò in mezzo alla sala e nel silenzio generale le disse con la sua voce aspra:

«Qui da voi si è presa l’abitudine di sposarsi, pur avendo un marito ancora vivo. Credi forse di aver inventato qualcosa di nuovo? Ti hanno già preceduto, carissima. È roba inventata già da un pezzo. In tutti… fanno già così.» E con queste parole e con il solito gesto di minaccia, rimboccando le sue larghe maniche e guardandosi intorno con aria severa, Marija Dmitrievna proseguì attraverso il salone.

Benché molti la temessero, a Pietroburgo Marija Dmitrievna era considerata una persona stramba e perciò di tutte le sue parole venne notato soltanto il termine volgare, che la gente si ripeté a vicenda a mezza voce, convinta che in quella parola stesse tutto il senso della cosa.

Il principe Vasilij, che negli ultimi tempi dimenticava piuttosto spesso quello che aveva detto e ripeteva centinaia di volte la stessa cosa, ogni volta che gli capitava di vedere sua figlia ripeteva:

«Hélène, j’ai un mot à vous dire,» le diceva, traendola in disparte e tirandole un braccio in giù. «J’ai eu vent de certains projets relatifs à… Vous savez. Eh bien, ma chère enfant, vous savez que mon coeur de père se réjouit de vous savoir… Vous avez tant souffert… Mais, chère enfant… ne consultez que votre coeur. C’est tout ce que je vous dis.» E, cercando di nascondere ogni volta un’identica commozione, premeva la propria guancia sulla guancia della figlia e si allontanava.

Bilibin, che non aveva perduto la reputazione di uomo di spirito e che era amico disinteressato di Hélène, uno di quegli amici che le donne brillanti hanno sempre, uomini-amici che non potranno mai assumere il ruolo di innamorati, Bilibin una volta disse en petit comité alla sua amica Hélène la propria opinione al riguardo.

«Ecoutez, Bilibin,» (Hélène chiamava sempre per cognome gli amici intimi), e con la mano bianca, carica di anelli, sfiorò la manica del suo frac. «Dites moi comme vous diriez à una soeur, que dois-je faire? Lequel des deux

Bilibin corrugò la fronte e, con un sorriso a fior di labbra, si fece pensieroso.

«Vous ne me prenez pas alla sprovvista, vous savez,» disse. «Comme véritable ami j’ai pensé et repensé à votre affaire. Voyez vous. Si vous épousez le prince (era il giovane),» egli piegò un dito, «vous perdez pour toujours la chance d’épouser l’autre, et puis vous mécontentez la Cour. (Comme vous savez, il y a une espèce de parenté). Mais si vous épousez le vieux comte, vous faite la bonheur de ses derniers jours, et puis comme veuve du grand… le prince ne fait plus de mésaillance en vous époussant,» e Bilibin spianò la fronte.

«Voílà un véritable ami!» disse Hélène raggiante, sfiorando ancora una volta la manica di Bilibin. «Mais c’est que j’aime l’un et l’autre, je ne voudrais pas leur faire de chagrin. Je donnerais ma vie pour leur bonheur à tous deux,» disse.

Bilibin si strinse nelle spalle come a dire che nulla poteva di fronte a un simile cruccio.

«Une maîtresse-femme! Voilà ce qui s’appelle poser carrément la question. Elle voudrait épouser tous les trois à la fois, «pensò Bilibin.

«Ma ditemi, come vede questa faccenda vostro marito?» disse, non temendo, data la sua reputazione, di fare una brutta figura con una domanda così ingenua. «Acconsentirà?»

«Ah! Il m’aime tant!» disse Hélène che credeva, chissà perché, nell’amore di Pierre. «Il fera tout pour moi

Bilibin increspò la fronte per annunciare il mot che stava maturando.

«Même le divorce,» disse.

Hélène scoppiò a ridere.

Fra le persone che si permettevano di dubitare della legittimità del matrimonio progettato v’era la madre di Hélène, la principessa Kuragina. Era stata sempre invidiosa di sua figlia e ora che questa stava per realizzare i suoi desideri, non riusciva a rassegnarsi. Chiese consiglio ad un prete russo per sapere se fosse possibile divorziare, contrarre un nuovo matrimonio avendo un marito ancora vivo, e il prete l’assicurò che era impossibile e con sua gioia le mostrò quel passo del Vangelo dove si respinge, categoricamente, la possibilità di risposarsi, vivente il marito.

Armata di questo argomento che le pareva irrefutabile, la principessa si recò dalla figlia di buon’ora, al mattino per trovarla sola.

Dopo aver ascoltato le obiezioni della madre, Hélène sorrise dolcemente e con aria ironica.

«Ma è detto chiaro e tondo: chi sposa una donna divorziata…» disse la vecchia principessa.

«Ah, maman, ne dites pas de bêtises. Vous ne comprenez rien. Dans ma position j’ai des devoirs,» si mise a dire Hélène, passando dal russo al francese, poiché le sembrava che, in russo, la sua faccenda risultasse sempre più imbrogliata. «Ma amica mia…»

«Ah, maman, comment est-ce que vous ne comprenez pas que le Saint-Père, qui a le droit de donner des dispenses…»

In quel momento la dama di compagnia di Hélène entrò per avvertirla che Sua Altezza era nel salone e desiderava vederla.

«Non, dites lui que je ne veux pas le voir, que je suis furieuse contre lui, parce qu’il m’a manqué parole.»

«Comtesse, à tout péché misericorde,» disse entrando nella camera un giovane biondo, lungo di faccia e di naso.

La vecchia principessa si alzò rispettosamente e fece una riverenza. Il giovane non fece alcuna attenzione a lei. La principessa salutò la figlia con un cenno del capo e scivolò verso la porta.

«Sì, ha ragione lei,» pensò la vecchia principessa, tutte le convinzioni della quale andavano in fumo all’apparire di Sua Altezza. «Ha ragione lei, ma com’è che noi, ai tempi della nostra gioventù, ormai irrimediabilmente passata, non sapevamo tutte queste cose? Eppure è così semplice,» diceva tra sé accomodandosi in carrozza.

Al principio di agosto la faccenda di Hélène era del tutto chiarita. Poté scrivere a suo marito (che, così credeva, l’amava ancora tanto) una lettera in cui l’informava della sua intenzione di sposare N.N. e della sua conversione all’unica vera religione. Lo pregava di conseguenza di compiere tutte le formalità necessarie per il divorzio, formalità che gli avrebbe illustrato il latore di quella lettera.

«Sur ce je prie Dieu, mon ami, de vous avoir sous Sa sainte et puissante garde. Votre amie Hélène.»

Questa lettera fu recapitata in casa di Pierre mentre quest’ultimo si trovava sul campo di Borodino.

VIII

Quasi alla fine della battaglia di Borodino, abbandonando per la seconda volta il poggio di Raevskij, Pierre si diresse, con una folla di soldati, lungo il burrone che portava a Knjazkovo; giunse al posto di medicazione; alla vista di tutto quel sangue, quelle grida e quei lamenti, si affrettò a proseguire oltre, mescolandosi alle folle di soldati.

L’unica cosa che adesso desiderava con tutte le sue forze era di uscire al più presto dalle terribili impressioni fra cui aveva passato tutta quella giornata, di ritornare alle consuete condizioni di vita e di addormentarsi tranquillamente in camera sua, sul suo letto. Sentiva che solamente nelle condizioni di vita che gli erano consuete sarebbe stato in grado di capire se stesso e tutto ciò che aveva visto e provato. Ma tali condizioni di vita erano troppo lontane da lui.

Sulla strada su cui camminava non fischiavano più le palle di cannone e le granate, ma dappertutto era la stessa cosa di laggiù, sul campo di battaglia. Gli stessi visi sofferenti, tormentati e, a volte, stranamente indifferenti; lo stesso sangue, gli stessi cappotti militari, lo stesso frastuono degli spari, che, per quanto lontani, incutevano sempre terrore; per di più, l’afa e la polvere erano opprimenti.

Quando ebbe percorso circa tre verste sulla strada maestra di Možajsk, Pierre si sedette sul margine della strada.

All’orizzonte, sulla terra, scendeva il crepuscolo e il rombo dei cannoni era cessato. Pierre si sdraiò appoggiato a un braccio e restò così a lungo, guardando le ombre che gli passavano davanti nell’oscurità. Gli sembrava, ad ogni istante, che una granata gli dovesse piombare addosso con un sibilo spaventoso; trasaliva e si sollevava. In seguito non ricordò più quanto tempo fosse rimasto in quel luogo. Nel mezzo della notte tre soldati, che avevano racimolato un po’ di rami, si sistemarono vicino a lui e si misero a fare un falò.

Acceso che ebbero il falò, i soldati, sbirciando Pierre con la coda dell’occhio, misero sul fuoco una marmitta, ci sbriciolarono dentro qualche galletta e un po’ di lardo. Il piacevole odore di minestra saporita e ben condita si mischiò a quello del fumo. Pierre si sollevò e sospirò. I soldati mangiavano senza far caso a Pierre e discorrevano fra loro.

«Ma tu chi sei?» chiese improvvisamente a Pierre uno di loro, volendo senza dubbio esprimere, con quella domanda, quello che anche Pierre pensava, e cioè: se vuoi mangiare, noi te ne diamo, devi soltanto dire se sei un uomo per bene.

«Io? io?…» disse Pierre, sentendo il bisogno di diminuire il più possibile la sua posizione sociale per essere più vicino e accessibile a quei soldati, «io, a dire il vero, sono un ufficiale della milizia, solo che la mia formazione non è qui; sono giunto alla battaglia e ho perduto i miei laggiù.»

«Toh!» disse un soldato.

Un altro soldato scosse la testa.

«Be’, prendi anche tu un po’ di brodaglia, se ne vuoi!» disse il primo e porse a Pierre il cucchiaio di legno dopo averlo leccato per bene.

Pierre sedette accanto al fuoco e si mise a mangiare la brodaglia, cioè la zuppa che era nella pentola: gli sembrò di non aver mai mangiato niente di più gustoso. Intanto che, chinato sulla pentola, tirando su grosse cucchiaiate, ne ingoiava una dietro l’altra, il suo viso era rischiarato dal fuoco e i soldati lo osservavano in silenzio.

«Dove vai adesso? Dicci un po’…» domandò di nuovo uno di loro.

«A Možajsk.»

«Sei un signore tu, eh?»

«Sì.»

«E come ti chiami?»

«Pëtr Kirillovič.»

«Be’, Pëtr Kirillovič, andiamo, ti accompagniamo noi.»

Nel buio fitto i soldati s’incamminarono insieme a Pierre verso Možajsk.

Cantavano già i galli quando arrivarono a Možajsk e cominciarono a salire per il ripido pendio della città. Pierre camminava insieme ai soldati, completamente dimentico che la sua locanda era ai piedi della salita e che l’aveva già sorpassata. Non se ne sarebbe ricordato (tale era lo stato di smarrimento in cui si trovava) se non avesse incontrato per strada il suo staffiere che era andato a cercarlo in città e stava tornando indietro verso la locanda. Lo staffiere riconobbe Pierre dal cappello che biancheggiava nell’oscurità.

«Eccellenza,» disse, «eravamo già disperati. Come mai siete a piedi? Dove andate? Venite, vi prego!»

«Ah già, già…» disse Pierre.

I soldati si fermarono.

«Dunque, li hai trovati i tuoi?» disse uno di loro.

«Allora, addio! Pëtr Kirillovič, vero? Addio, Pëtr Kirillovič!» dissero le altre voci.

«Addio,» disse Pierre e si diresse con il suo staffiere verso la locanda.

«Bisogna dar loro qualcosa!» pensò Pierre portandosi la mano alla tasca. «No, non bisogna,» gli disse una certa voce dentro di lui.

Nelle camere della locanda non c’era più posto: erano tutte occupate. Pierre andò in cortile e si sdraiò nella sua carrozza, coprendosi fino alla testa.

IX

Appena Pierre ebbe messo la testa sul cuscino, sentì che si addormentava; ma, a un tratto, con la chiarezza della realtà, udì il bum-bum-bum delle cannonate, i lamenti, le grida, lo scoppio degli obici, sentì l’odor del sangue e della polvere e un senso di orrore, la paura della morte lo invase. Aprì gli occhi spaventato e sollevò la testa di sotto il cappotto. Tutto era quieto nel cortile. Soltanto nel vano del portone c’era un attendente che camminava chiacchierando con il portiere sguazzando con i piedi nel fango. Sul capo di Pierre, nel buio sospeso sotto le tavole della tettoia, si agitarono i piccioni, allarmati dal rumore che fece alzandosi. In tutto il cortile era diffuso l’odore, acre e pacifico, della locanda, così gradevole per Pierre in quel momento, un odore di fieno, di concime e di catrame. Fra le due tettoie nere s’intravedeva il limpido cielo stellato.

«Grazie a Dio, è finita…» pensò Pierre, coprendosi di nuovo la testa. «Oh, che cosa orrenda è la paura e in che maniera vergognosa mi ci sono abbandonato E loro… loro per tutto il tempo, sino alla fine, sono stati fermi, tranquilli…» pensò. Loro nella mente di Pierre erano i soldati, quelli che stavano alla batteria e quelli che gli avevano dato da mangiare, e quelli che pregavano davanti all’icona. Loro, quegli strani loro che fino ad allora erano per lui degli sconosciuti, nei suoi pensieri si distinguevano chiaramente e nettamente da tutta l’altra gente.

«Essere un soldato, un semplice soldato!» pensò Pierre addormentandosi. «Entrare con tutto il proprio essere nella loro vita in comune, compenetrarsi di ciò che li rende così come sono! Ma come gettar via tutto questo superfluo, diabolico fardello, tutto il peso delle apparenze esteriori? Una volta avrei potuto essere così. Avrei potuto fuggire via da mio padre, come appunto volevo. Ancora dopo il duello con Dolochov avrei potuto esser mandato a fare il soldato…» E nella sua immaginazione balenarono il pranzo al club, durante il quale aveva sfidato Dolochov, e poi il suo benefattore a Toržok. Ed ecco apparire dinanzi a Pierre intorno a un grande tavolo, una solenne adunanza della loggia massonica. L’adunanza si svolge al club inglese. E una persona conosciuta, intima, cara, sta seduta all’estremità della tavola. Ma sì è lui! È il benefattore. «Ma non è morto?» pensò Pierre. «Sì, è morto; ma io non sapevo che fosse vivo. E come mi dispiace che sia morto e come sono contento che sia di nuovo vivo!» Da una parte della tavola erano seduti Anatole, Dolochov, Nesvitskij, Denisov e altri come loro (nel sogno la categoria di queste persone era nettamente definita per Pierre, altrettanto definita della categoria di quegli altri che chiamava loro), e quelle persone: Anatole, Dolochov, gridavano forte, cantavano; ma, tra il chiasso che facevano, si udiva la voce del benefattore che parlava senza posa, e il suono delle sue parole che, altrettanto significativo e continuo del rombo sul campo di battaglia, era però piacevole e consolante. Pierre non capiva ciò che diceva il benefattore, ma sapeva (anche la categoria delle idee era chiara nel sogno), che il benefattore parlava del bene, della possibilità di essere ciò che erano loro. E loro da tutte le parti, coi loro visi semplici, buoni, risoluti, facevano cerchio intorno al benefattore. Ma sebbene fossero buoni, loro non guardavano Pierre, non lo conoscevano. Pierre voleva attirare la loro attenzione e parlare. Si alzò in piedi, ma in quello stesso istante le sue gambe si fecero fredde: erano rimaste nude.

Ebbe vergogna e si tirò di nuovo sulle gambe il cappotto che era scivolato via. Mettendo a posto il cappotto Pierre aprì gli occhi e vide le stesse tettoie, i pali, il cortile, ma adesso tutto era azzurrognolo, chiaro, imperlato di gocce di rugiada o di brina.

«Fa giorno,» pensò. «Ma questo mi fuorvia. Devo finire di ascoltare e di comprendere le parole del benefattore.» Si coprì di nuovo con il cappotto, ma né la loggia, né il benefattore si ripresentarono ai suoi occhi. C’erano soltanto delle idee, idee chiaramente espresse con parole, idee che qualcuno esponeva o che lui stesso, Pierre, concepiva.

Ricordando in seguito queste idee, benché fossero collegate alle impressioni della giornata, Pierre si convinse che gli erano state comunicate da qualcuno a lui estraneo. Mai (così gli sembrava) da sveglio sarebbe stato in grado di concepire e di esprimere tali pensieri.

«La cosa più difficile è la sottomissione della libertà dell’uomo alle leggi di Dio,» diceva la voce. «La semplicità è l’obbedienza a Dio: a Lui non puoi sfuggire. E loro sono semplici. Loro non parlano, ma fanno. La parola pronunciata è d’argento, ma quella non pronunciata è d’oro. L’uomo non può nulla finché ha paura della morte. Tutto appartiene a chi non ne ha paura. Se non ci fosse la sofferenza, l’uomo non conoscerebbe i propri limiti, non conoscerebbe se stesso. La cosa più difficile (continuava a pensare o a udire Pierre nel sogno) consiste nel saper raccogliere nella propria anima il significato di tutto. Raccogliere tutto?» si disse Pierre. «No, non raccogliere. Non si possono raccogliere i pensieri, ma attaccarli insieme, tutti questi pensieri, ecco che cosa si deve fare! Sì, bisogna attaccarli, bisogna attaccarli!» si ripeté Pierre con entusiasmo, sentendo che proprio con quelle parole e soltanto con esse si esprimeva ciò che lui voleva esprimere e si risolveva tutto il problema che lo tormentava.

«Sì, si tratta di attaccare, è tempo di attaccare.»

«Bisogna attaccare, è ora di attaccare, Eccellenza! Eccellenza!» ripeté una voce, «bisogna attaccare, è ora di attaccare…»

Era la voce dello staffiere, che svegliava Pierre. Il sole batteva in pieno sul viso di Pierre. Egli diede uno sguardo al fangoso cortile della locanda, in mezzo al quale, accanto al fosso, alcuni soldati abbeveravano i loro magri cavalli mentre dal portone uscivano i carri. Si voltò con disgusto e, chiusi gli occhi, ricadde rapidamente sul sedile della carrozza. «No, non è questo che voglio, non è questo che voglio vedere e capire; io voglio capire ciò che mi si è rivelato in sogno. Ancora un attimo e avrei capito tutto. Ma che cosa devo fare? Mettere tutti d’accordo. Ma come?» E Pierre sentì con orrore che tutto il significato di quanto aveva visto e pensato in sogno era andato perso, era svanito nel nulla.

Lo staffiere, il cocchiere e il portiere gli raccontarono che un ufficiale era giunto con la notizia che i francesi si erano avvicinati a Možajsk e i nostri si ritiravano.

Pierre si alzò e, dopo aver dato ordine di attaccare la carrozza e di raggiungerlo, si avviò a piedi attraverso la città.

Le truppe si ritiravano lasciando circa diecimila feriti. Si vedevano i feriti nei cortili e alle finestre delle case, altri si affollavano nelle strade. Di fuori, vicino ai carri che dovevano trasportare i feriti, si udivano grida, imprecazioni e colpi. Pierre offrì la sua carrozza, che intanto l’aveva raggiunto, a un generale ferito di sua conoscenza e partì insieme con lui alla volta di Mosca. Per via seppe della morte di suo cognato e del principe Andrej.

X

Il 30 Pierre rientrò a Mosca. Nei pressi della barriera del dazio incontrò un aiutante del conte Rastopèin.

«Vi stiamo cercando per mare e per terra,» disse l’aiutante. «Il conte ha assolutamente bisogno di vedervi. Vi prega di recarvi da lui al più presto per una questione molto urgente.»

Senza passare da casa, Pierre prese una vettura di piazza e andò dal comandante supremo della città.

Il conte Rastopèin era arrivato in città soltanto quella mattina dalla sua villa di Sokolniki. L’anticamera e la sala d’aspetto della casa del conte erano piene di funzionari che si erano presentati dietro sua richiesta o per chiedere ordini. Vasil’èikov e Platov avevano già visto il conte e gli avevano spiegato che era impossibile difendere Mosca e che la città sarebbe stata abbandonata. Sebbene queste notizie venissero tenute nascoste agli abitanti, i funzionari e i capi delle varie amministrazioni sapevano che Mosca sarebbe caduta nelle mani del nemico, così come lo sapeva anche il conte Rastopèin; e tutti, per liberarsi delle loro responsabilità, venivano dal comandante in capo a chiedere come dovessero comportarsi nei settori loro affidati.

Nel momento in cui Pierre entrò in anticamera, dal gabinetto del conte usciva un corriere proveniente dal fronte.

Il corriere rispondeva con gesti di sconforto alle domande che gli venivano rivolte mentre attraversava la sala.

Mentre aspettava il suo turno, Pierre guardava con occhi stanchi i funzionari - così diversi tra loro, vecchi e giovani, militari e civili; importanti e non importanti - che si trovavano nella stanza. Tutti parevano scontenti e inquieti. Pierre si avvicinò a un gruppo di funzionari fra i quali ce n’era uno che conosceva. Salutato Pierre, essi continuarono la loro conversazione.

«A farli uscire e poi a riprenderli non ci sarebbe nulla di male, ma in questa situazione non si può rispondere di nulla.»

«Ma ecco qui, lui scrive…» diceva un altro, indicando un foglio stampato che aveva in mano.

«Questo è un altro affare. Per il popolo è questo che ci vuole,» disse il primo.

«Che cos’è?» domandò Pierre.

«Un nuovo manifesto.»

Pierre lo prese in mano e si mise a leggere:

«Sua Eccellenza Serenissima, il principe Kutuzov per congiungersi al più presto con le truppe che marciano verso di lui, ha oltrepassato Možajsk e si è fermato su posizioni sicure, dove il nemico non potrà prenderlo alla sprovvista. Di qua gli sono stati inviati quarantotto cannoni con munizioni e Sua Eccellenza dice che difenderà Mosca fino all’ultima goccia di sangue ed è pronto a battersi anche nelle strade. Non badate, fratelli, al fatto che i tribunali sono stati chiusi: bisognava mettere al sicuro le pratiche, ma con il criminale ce la sbrigheremo noi da soli per direttissima! Quando si arriverà al punto, avrò bisogno di gente in gamba, della città e delle campagne. Darò la voce un paio di giorni prima, ma adesso non ce n’è bisogno e sto ancora zitto. La scure andrà bene, il bidente non è male, ma la migliore arma sarà il forcone: il francese non è più pesante d’un covone di segale. Domani, dopo pranzo, farò portare in processione l’Iverskaja fino all’Ospedale Ekaterinskaja, per i soldati feriti. Là consacreremo l’acqua: i feriti guariranno presto; anch’io adesso sono guarito: avevo un occhio malato, e ora ci vedo con tutt’e due.»

«E a me, invece, alcuni militari hanno detto,» disse Pierre, «che in città è impossibile battersi e che la posizione…»

«Ma sì, è proprio quello che dicevamo anche noi,» disse il primo funzionario.

«E che vuol dire: avevo un occhio malato e ora ci vedo con tutt’e due?» domandò Pierre.

«Il conte aveva un orzaiolo,» disse un aiutante di campo sorridendo, «e s’inquietava molto quando gli dicevo che la gente veniva a chiedere sue notizie. Ma dite, conte,» disse a un tratto l’aiutante, rivolgendosi con un sorriso a Pierre, «abbiamo sentito dire che avete delle noie in famiglia. Si dice che la contessa, vostra moglie…»

«Non so niente,» disse con indifferenza Pierre. «Perché, che cosa avete sentito dire?»

«No, sapete, molto spesso inventano tutto. Dico quello che ho sentito dire.»

«Ma che cosa?»

«Ma sì, dicono,» spiegò l’aiutante di campo sempre con lo stesso sorriso, «che la contessa, vostra moglie, si prepara a partire per l’estero. Pure invenzioni, probabilmente…»

«Può anche darsi,» disse Pierre, guardandosi attorno distrattamente. «Ma quello chi è?» domandò, indicando un vecchio di bassa statura, con un lindo caffetano turchino, con una grande barba bianca come la neve, bianche sopracciglia e una faccia colorita.

«Quello? È un mercante; cioè un oste. Vereščagin. Forse avete sentito anche voi quella storia del proclama…»

«Ah, sicché quello è Vereščagin!» disse Pierre, fissando la faccia ferma e tranquilla del vecchio mercante e cercandovi l’espressione del tradimento.

«Non è proprio lui. Lui è il padre di quello che ha scritto il proclama,» disse l’aiutante. «Quello, il giovane, è in prigione e pare che le cose vadano molto male per lui.»

Al gruppetto si avvicinò un vecchio con una stella al petto e poi un altro, un funzionario tedesco con la croce al collo.

«Vedete,» raccontava l’aiutante, «è una storia molto ingarbugliata. Quel proclama è comparso un paio di mesi fa. L’hanno riferito al conte. Lui ha dato ordine di indagare. E Gavrilo Ivanyč ha fatto ricerche: quel proclama era passato precisamente per sessantatré mani. Va da uno: “Voi da chi l’avete avuto?” “Dal taldeitali.” Va da quello: “Voi da chi?” e così via finché sono arrivati a Vereščagin… un mercantuccio senza istruzione, sapete, un povero bottegaio qualsiasi,» disse l’aiutante sorridendo. «Loro gli domandano: “Tu da chi l’hai avuto?” L’importante è che noi già sappiamo da chi l’ha avuto. Non poteva averlo avuto che dal direttore delle poste, Ma, evidentemente, erano d’accordo. Dice: “Da nessuno, l’ho scritto io.” L’hanno messo alle strette, minacciato; niente, s’è impuntato su quella risposta: l’ho scritto io. E così hanno riferito la cosa al conte. Il conte lo ha fato chiamare. “Da chi hai avuto il proclama?” “L’ho scritto io.” Be’, voi conoscete il conte!» disse l’aiutante con un sorriso fiero e gioioso. «S’è infuriato terribilmente, e del resto immaginatevi che razza di sfrontatezza, di falsità e ostinazione!…»

«Ah! Il conte aveva bisogno che lui denunciasse Ključarëv, capisco!» disse Pierre.

«Nessun bisogno,» disse spaventato l’aiutante. «Anche senza di questo, Ključarëv aveva già i suoi peccati, ragion per cui è stato deportato. Ma il fatto è che il conte era veramente indignato. “Ma come hai potuto scriverlo tu?” dice il conte. E prende dal tavolo la “Gazzetta d’Amburgo”. “Eccolo. Tu non l’hai composto, l’hai tradotto e per di più tradotto molto male, perché non sai neanche il francese, scemo.” Be’, che cosa credete? “No,” dice l’altro, “io non ho letto nessun giornale, l’ho scritto io.” “Se è così, allora sei un traditore e io ti mando in tribunale e ti impiccheranno. Confessa da chi l’hai avuto!” “Io non ho visto nessun giornale; l’ho scritto io.” E la cosa restò così. Il conte mandò a chiamare anche il padre: l’altro insistette ancora. E così l’hanno mandato sotto processo e, a quanto sembra, è stato condannato ai lavori forzati. Adesso è venuto il padre a chiedere la grazia per lui. Ma è un ragazzaccio! Sapete, un figlio di mercante, viziato, pretenzioso, sobillatore, ha assistito chissà dove a qualche lezione e crede di essere più furbo del diavolo. Proprio un bel tipo! Pensate che suo padre ha una trattoria qui al ponte Kamenij, nella trattoria, sapete, c’è una grande icona di Dio onnipotente raffigurato con uno scettro in una mano e il globo terrestre nell’altra; lui ti prende quest’immagine e se la porta a casa qualche giorno e che ti combina! Ha trovato una canaglia di pittore…»

XI

A metà di questo racconto, Pierre fu chiamato dal comandante supremo.

Entrò nel gabinetto del conte Rastopèin. Rastopèin, accigliato, si stropicciava la fronte e gli occhi con una mano. Un uomo di bassa statura gli stava dicendo qualcosa, ma, non appena entrò Pierre, tacque e uscì.

«Ah! Salve, gran guerriero,» disse Rastopèin non appena l’uomo fu uscito. «Abbiamo sentito le vostre prouesses! Ma non si tratta di questo. Mon cher, entre nous, voi siete un massone?» disse con un tono severo come se ci fosse qualcosa di male in ciò che aveva intenzione di chiedere. Pierre tacque. «Mon cher, je suis bien informé, ma so che ci sono massoni e massoni, e spero che voi non siate di quelli che vogliono rovinare la Russia con il pretesto di salvare il genere umano.»

«Sì, sono massone,» rispose Pierre.

«Ebbene, lo vedete voi stesso, mio caro. Voi non ignorate, credo, che i signori Speranskij e Magnitskij sono stati spediti dove bisognava; lo stesso provvedimento è stato preso anche per il signor Ključarëv, lo stesso anche per altri che, col pretesto di edificare il tempio di Salomone, cercavano di distruggere il tempio della loro patria. Voi potete capire che esistono dei buoni motivi per far questo e che io non avrei potuto far deportare il direttore delle poste locali se non si fosse trattato di una persona pericolosa. Adesso vengo a sapere che voi gli avete mandato la vostra carrozza per abbandonare la città e anche che avete accettato da lui delle carte da custodire. Io vi voglio bene e non desidero il vostro male, e poiché ho il doppio dei vostri anni vi consiglio, come un padre, di interrompere ogni rapporto con persone del genere e di partire voi stesso da qui il più presto possibile.»

«Ma che colpa ha commesso Ključarëv, conte?» domandò Pierre.

«Sta a me interrogare e non a voi,» gridò Rastopèin.

«Se lo accusano di aver diffuso il proclama di Napoleone, non ci sono prove,» disse Pierre (senza guardare Rastopèin), «e, quanto a Vereščagin…»

«Nous y voilà,» gridò Rastopèin con voce ancora più forte di prima interrompendo Pierre e aggrottando le sopracciglia. «Vereščagin è un traditore e riceverà il trattamento che si merita,» disse coll’ardore e la collera con cui parlano le persone ricordando un’offesa. «Ma io non vi ho chiamato per discutere del mio operato, vi ho chiamato per darvi un consiglio, o un ordine, se volete. Vi prego di rompere ogni relazione con gente come Ključarëv e di partire di qui. Ci penserò io a cavare le ubbie dalle teste di chiunque volesse insistere…» E, rendendosi probabilmente conto che non c’era motivo di urlare contro Bezuchov, prese amichevolmente per un braccio Pierre e aggiunse: «Nous sommes à la veille d’un désastre publique, et je n’ai pas le temps de dire des gentillesses à tous ceux qui ont affaire à moi. Certe volte mi gira la testa! Eh bien, mon cher, qu’est ce que vous faites, vous personellement?»

«Mais rien,» rispose Pierre, sempre senza alzare gli occhi e senza mutare l’espressione pensierosa del viso.

Il conte si accigliò.

«Un conseil d’ami, mon cher. Décampez et au plutôt, c’est tous ce que je vous dis. A bon entendeur salut! Addio, mio caro. Ah, sì,» gli gridò ancora dalla porta, «è vero che la contessa è cascata nelle grinfie des saints pères de la Société de Jésus?»

Pierre non rispose nulla e uscì dal gabinetto di Rastopèin cupo e accigliato come non s’era visto mai.

 

Quando arrivò a casa, era già buio. Lo aspettavano otto persone diverse. Il segretario del comitato, il colonnello del suo battaglione, l’amministratore, il maggiordomo e vari postulanti. Tutti venivano a trovare Pierre per faccende che dovevano essere decise da lui. Pierre non ne capiva niente, non se ne interessava, e a tutte le domande rispondeva soltanto per sbarazzarsi di quella gente. Finalmente, rimasto solo, aprì e lesse la lettera della moglie.

«Loro, i soldati della batteria, il principe Andrej ucciso… il vecchio… La semplicità è l’obbedienza di Dio. Bisogna soffrire… il significato di tutto… bisogna mettere d’accordo… mia moglie si sposa. Bisogna dimenticare e capire…» E, avvicinandosi al letto, vi si buttò sopra senza spogliarsi e si addormentò immediatamente.

Quando si svegliò la mattina dopo, il maggiordomo venne a riferirgli che un funzionario era venuto da parte del conte Rastopèin per sapere se il conte Bezuchov fosse già partito o stesse partendo.

Una decina di persone d’ogni genere, che avevano bisogno di vedere Pierre, lo aspettavano in salotto. Pierre si vestì in fretta e, invece di andare da coloro che lo aspettavano, infilò la scala di servizio e di là uscì dal portone.

Da quel momento, e sino alla fine del saccheggio di Mosca, nessuno dei familiari di casa Bezuchov, malgrado tutte le ricerche, vide più Pierre né seppe dove si trovasse.

XII

I Rostov rimasero in città fino al 1° settembre, ossia fino alla vigilia dell’entrata del nemico in Mosca.

Da che Petja, entrato nel reggimento dei cosacchi di Obolenskij, era partito per Belaja Cerkov’, dove si formava il suo reggimento, la contessa era in preda a terribili timori. Il pensiero che tutt’e due i suoi figli si trovassero in guerra, che tutt’e due non fossero più sotto la sua protezione, che oggi o domani uno di loro e forse anche tutt’e due insieme, come i tre figli di una sua conoscente, potessero venir uccisi, per la prima volta in quell’estate le si presentò alla mente con atroce chiarezza. Tentò di far tornare Nikolaj; avrebbe voluto andare di persona da Petja, sistemarlo in qualche posto a Pietroburgo, ma l’una e l’altra cosa si dimostrarono impossibili. Petja non poteva ritornare se non insieme al suo reggimento o in seguito al trasferimento in un altro reggimento operante. Nikolaj si trovava chissà dove nell’esercito e, dopo l’ultima lettera in cui aveva dettagliatamente descritto il suo incontro con la principessina Marija, non aveva più dato notizie di sé. La contessa passava notti intere senza dormire e, quando si assopiva, sognava morti i suoi figli. Dopo molti progetti e discorsi, il conte trovò finalmente un mezzo per tranquillizzare la contessa. Fece trasferire Petja dal reggimento di Obolenskij al reggimento di Bezuchov, che si stava formando presso Mosca. Petja restava in servizio, ma così la contessa aveva almeno la consolazione di avere uno dei suoi figli non lontano da lei e poteva sperare di sistemare il suo Petja in modo da non lasciarselo più scappare e di farlo assegnare sempre a posti tali che non dovesse mai prendere parte a una battaglia. Finché il solo Nicolas era in pericolo, alla contessa sembrava (e anzi ne provava persino rimorso) di voler bene al maggiore più che agli altri figli; ma quando il minore, Petja, il birichino che studiava poco, che in casa rompeva tutto e disturbava tutti, quel nasino schiacciato di Petja con i suoi allegri occhi neri, con il suo fresco colorito e le gote appena ricoperte di peluria, era andato a finire laggiù, fra quegli uomini grandi, terribili e crudeli, che laggiù chissà perché combattevano e ci trovavano perfino piacere - alla madre parve allora di amare lui di più, molto di più degli altri suoi figli. Quanto più si avvicinava il momento del ritorno a Mosca dell’atteso Petja, tanto più aumentava l’inquietudine della contessa. Già pensava che non le sarebbe mai toccato di godere di tanta felicità. La presenza non solo di Sonja, ma dell’amata Nataša, e persino quella del marito, la irritavano. «Che me ne importa di loro, non mi interessa nessuno all’infuori di Petja!» pensava.

Negli ultimi giorni di agosto i Rostov ricevettero una seconda lettera da Nikolaj. Scriveva dalla provincia di Voronež, dove era stato mandato a comprare dei cavalli. Questa lettera non tranquillizzò la contessa. Sapendo uno dei suoi figli fuori pericolo, cominciò a preoccuparsi ancora di più per Petja.

Sebbene già dal 20 agosto quasi tutti i conoscenti dei Rostov fossero partiti da Mosca, sebbene tutti esortassero la contessa a partire al più presto, lei non voleva sentir parlare di partenza finché non fosse tornato il suo tesoro, l’adorato Petja. Il 28 agosto Petja arrivò. La morbosa, appassionata tenerezza con la quale la madre lo accolse, non piacque all’ufficiale sedicenne. Benché la madre gli nascondesse la sua intenzione di non lasciarlo più sfuggire di sotto le sue ali, Petja capì il suo piano e, temendo istintivamente di intenerirsi, di diventare una femminuccia (così diceva tra sé) accanto alla madre, con lei si comportava freddamente, la evitava e, durante la sua permanenza a Mosca, accettò esclusivamente la compagnia di Nataša, per la quale aveva sempre avuto una particolare tenerezza fraterna, quasi da innamorato.

A causa dell’abituale leggerezza del conte, il 28 agosto nulla era ancora pronto per la partenza e i carri attesi dalle compagne di Rjazan e di Mosca per trasportare tutta la roba di casa, arrivarono solamente il 30.

Dal 28 al 31 agosto tutta Mosca fu in subbuglio e in movimento. Ogni giorno, attraverso la Barriera Dorogomilovskaja entravano in città migliaia di feriti della battaglia di Borodino, mentre migliaia di carri, con gli abitanti e i loro averi, uscivano dalle altre barriere. Nonostante i manifesti di Rastopèin, o indipendentemente da essi o in seguito a essi, per la città si diffondevano le notizie più strane e contraddittorie. Chi diceva che a nessuno era permesso partire; chi, al contrario, raccontava che si erano tolte le icone dalle chiese e che tutti venivano mandati via con la forza; chi diceva che dopo Borodino c’era stata un’altra battaglia in cui i francesi erano stati sbaragliati; chi diceva, al contrario, che tutto l’esercito russo era stato annientato; chi parlava della milizia moscovita, che sarebbe andata alle Tri Gory con il clero in testa; chi raccontava sottovoce che ad Avgustin era stato dato l’ordine di non partire, che erano stati arrestati dei traditori, che i contadini si ribellavano e depredavano quelli che partivano, e così via… Ma erano solamente voci, dicerie; in realtà sia quelli che partivano, sia quelli che restavano (sebbene non si fosse ancora tenuto il consiglio di guerra di Fili in cui era stato deciso di abbandonare Mosca), tutti sentivano, anche se non lo davano a vedere, che Mosca sarebbe stata inevitabilmente abbandonata e che bisognava andarsene via al più presto di propria iniziativa e cercare di salvare le proprie cose. Si sentiva nell’aria che tutto, da un momento all’altro, sarebbe andato in pezzi e sarebbe mutato radicalmente, ma fino al I° settembre nulla ancora era cambiato. Come un criminale che viene condotto all’esecuzione cosciente di dover morire da un momento all’altro e che pure continua a guardarsi attorno e si assesta sul capo il berretto calzato male, così Mosca continuava la sua vita di sempre, malgrado sapesse che era prossimo il momento della rovina, il momento in cui sarebbero crollate tutte quelle convenzionali condizioni di vita che ci si era abituati ad accettare.

Durante i tre giorni che precedettero l’occupazione di Mosca tutta la famiglia dei Rostov fu completamente assorbita da mille faccende domestiche. Il capo famiglia, il conte Il’ja Andreič, correva senza posa per città, raccogliendo tutte le voci che circolavano, e a casa dava disposizioni generiche, superficiali e frettolose per i preparativi della partenza.

La contessa seguiva l’imballaggio delle masserizie, era scontenta di tutto e sorvegliava Petja che continuamente le scappava via, assai gelosa di Nataša con cui quello trascorreva tutto il tempo. Solamente Sonja si occupava delle cose pratiche: l’imballaggio della roba. Ma Sonja era particolarmente triste e taciturna in quel periodo. La lettera di Nicolas, nella quale egli parlava della principessina Marija, aveva suscitato in sua presenza le allegre riflessioni della contessa che, nell’incontro della principessina Marija con Nicolas, vedeva la mano di Dio.

«Non mi sono mai rallegrata,» diceva la contessa, «quando Bolkonskij era il fidanzato di Nataša; mentre ho il presentimento che Nikolinka sposerà la principessina, come ho sempre desiderato. Che bella cosa sarebbe!»

Sonja sentiva che era la verità, che l’unica possibilità di rimettere in sesto la situazione economica dei Rostov era il matrimonio con una ragazza ricca e che la principessina era un buon partito. Ma soffriva moltissimo. Malgrado il suo dolore, o forse proprio in conseguenza del suo dolore, si assunse tutte le pesanti incombenze della direzione dell’imballaggio, ed era occupata da mattina a sera. Il conte e la contessa si rivolgevano a lei quando bisognava dare degli ordini. Petja e Nataša, al contrario, non soltanto non aiutavano i genitori, ma continuavano a disturbare e infastidire tutti. Riempivano la casa di grida, di chiasso, e di risate senza motivo. Ridevano ed erano allegri non perché ci fosse una precisa ragione, ma perché erano pieni, nell’intimo, di felicità e di gioia, e perciò, qualunque occasione si presentasse, era per loro motivo di gioia e di riso. Petja era allegro perché, partito di casa ragazzo, c’era tornato (come gli dicevano tutti) da giovane valoroso; era allegro, perché si trovava a casa, perché da Belaja Cerkov’, dove non c’era speranza di capitar presto in mezzo ai combattimenti, era venuto invece a Mosca dove non avrebbe tardato a battersi; ed era allegro soprattutto, perché Nataša, dal cui umore era sempre stato influenzato, era allegra. E Nataša era allegra perché per troppo tempo era stata triste e adesso nulla le ricordava il motivo della sua tristezza; e poi stava bene di salute. E ancora era allegra, perché c’era una persona che l’ammirava (l’ammirazione entusiastica degli altri era quel grasso alle ruote, indispensabile perché la macchina della sua vita si movesse del tutto liberamente), e Petja appunto l’ammirava. Ma soprattutto erano allegri perché la guerra era sotto Mosca, perché si andava a battersi sui bastioni, perché distribuivano le armi, perché tutti scappavano, partivano per chissà dove, perché, in genere, succedeva qualcosa di insolito, il che per gli uomini è sempre motivo di gioia, specialmente per i giovani.

XIII

Il 31 agosto, sabato, in casa Rostov tutto era sottosopra. Tutte le porte erano spalancate, tutti i mobili portati fuori o spostati, specchi e quadri tolti dalle pareti. Nelle camere c’erano ovunque bauli, mucchi di paglia, carta da imballaggio e corde. I contadini e i domestici che trasportavano la roba camminavano a passi pesanti sul parquet. In cortile si ammassavano i carri dei contadini, alcuni già stracarichi e legati, altri ancora vuoti.

Le voci e i passi dell’enorme quantità di domestici e di contadini arrivati coi carri, che si chiamavano a vicenda, echeggiavano nella casa e nel cortile. Il conte era uscito fin dal mattino. La contessa, che aveva una forte emicrania per il trambusto e il rumore, stava sdraiata nella nuova stanza dei divani con delle compresse imbevute d’aceto sulla fronte. Petja non era in casa (era andato a trovare un compagno con il quale aveva intenzione di passare dalla milizia all’esercito attivo). Sonja, in salone, presenziava all’imballaggio della cristalleria e delle porcellane. Nataša era seduta sul pavimento della sua camera vuota, fra abiti, sciarpe e nastri sparsi dappertutto e, guardando fisso davanti a sé, teneva fra le mani un vecchio abito da ballo, lo stesso abito (ormai vecchio a giudicare dalla foggia) che aveva indossato per il suo primo ballo a Pietroburgo.

Nataša si vergognava di non rendersi utile mentre tutti erano così occupati, e più d’una volta aveva tentato di far qualcosa, ma non se la sentiva di lavorare; e d’altronde non sapeva né poteva far nulla se non mettendoci tutta l’anima, tutte le forze. Era restata per un po’ vicino a Sonja quando imballavano le porcellane, avrebbe voluto dare una mano; ma ben presto aveva piantato tutto in asso e si era ritirata in camera a sistemare la sua roba. All’inizio si divertì a riporre abiti e nastri, ma poi quando dovette imballare anche il resto cominciò ad annoiarsi.

«Dunjaša, cara, ci pensi tu per piacere? Sì? Sì?»

E quando Dunjaša di buona voglia, le promise di far tutto lei, Nataša si sedette in terra, prese in mano il vecchio abito da ballo e si mise a pensare, ma non certo a ciò che avrebbe dovuto interessarla in quel momento. La riscossero dai suoi pensieri il chiacchierio delle domestiche, nelle camere vicine, e il rumore di passi frettolosi dalle camere alla scala di servizio. Nataša si alzò e guardò dalla finestra. Nella strada si era fermato un enorme convoglio di feriti.

Le cameriere, i camerieri, la guardarobiera, la njanja, il cuoco, i cocchieri, gli staffieri, gli sguatteri stavano sulla porta e guardavano i feriti.

Nataša, gettandosi sui capelli un fazzoletto bianco e tenendolo con tutt’e due le mani per le cocche, uscì in strada.

L’ex guardarobiera, la vecchia Mavra Kuzminièna, s’era staccata dalla folla che premeva davanti al portone e, avvicinatasi a un carro sul quale, a mo’ di cappotta, c’era un riparo di stuoie, stava discorrendo con un giovane ufficiale pallido che vi era coricato. Nataša si accostò di alcuni passi e poi si fermò timidamente, continuando a tenere il suo fazzoletto e ascoltando ciò che diceva la guardarobiera.

«Ma voi, dunque non avete nessuno a Mosca?» diceva Mavra Kuzminièna. «Stareste più tranquillo in una casa, presso un privato… Da noi, per esempio, i signori partono.»

«Non so se lo permetteranno,» disse l’ufficiale con voce fioca. «Ecco il mio comandante… domandateglielo» e indicò un grasso maggiore che stava tornando indietro per la strada, lungo la fila dei carri.

Con occhi spauriti Nataša guardò il volto dell’ufficiale ferito e poi subito si fece incontro al maggiore.

«Possono fermarsi in casa nostra i feriti?» domandò.

Il maggiore sorrise e portò la mano alla visiera.

«In cosa posso servirvi signorina?» disse, ammiccando cogli occhi e continuando a sorridere.

Nataša ripeté con calma la sua domanda, e il suo volto e tutto il suo contegno, sebbene continuasse a tenere il fazzoletto per le cocche, erano così seri che il maggiore smise di sorridere e, dopo aver riflettuto un attimo, come chiedendosi se la cosa fosse possibile, le rispose poi affermativamente.

«Oh sì, perché no, è possibile,» disse.

Nataša piegò leggermente la testa e tornò a passi rapidi verso Mavra Kuzminièna, che stava china sull’ufficiale e gli diceva qualcosa con pietosa sollecitudine.

«Si può, l’ha detto lui, si può!» disse Nataša in un bisbiglio.

L’ufficiale che giaceva sotto il riparo di stuoie svoltò dentro il cortile dei Rostov e decine di carri, su invito degli abitanti della città, cominciarono a entrare nei cortili avvicinandosi alle gradinate d’ingresso delle case di via Povarskaja. Nataša era evidentemente entusiasta dell’occasione di parlare con gente nuova, fuori del solito schema di vita. Insieme a Mavra Kuzminièna cercò di far imboccare il cortile di casa sua al maggior numero possibile di feriti.

«Bisogna, però, avvisare papà…» disse Mavra Kuzminièna.

«Fa niente, fa niente, non ha importanza! Per un giorno ci possiamo sistemare in salotto. Si può dar loro tutto il nostro appartamento.»

«Ma come, signorina…riflettete! Anche a metterli nei padiglioni, nelle stanze disabitate, in quelle della njanja, dovreste comunque chiedere il permesso.»

«E va bene, glielo chiederò.»

Nataša corse in casa e, in punta di piedi, varcò la porta socchiusa della stanza dei divani, dalla quale veniva odor d’aceto e di gocce di Hoffmann.

«Dormite, mammina?»

«Ah, come si fa a dormire!» disse, svegliandosi di colpo, la contessa che si era assopita proprio allora.

«Mammina, tesoro…» disse Nataša, mettendosi in ginocchio davanti alla madre e accostando il viso stretto stretto al viso di lei. «Ho sbagliato, scusatemi, non lo farò più, vi ho svegliata… È stata Mavra Kuzminièna a mandarmi qua: hanno portato dei feriti, degli ufficiali, voi permettete? Altrimenti non sanno dove andare; io lo so già che voi siete d’accordo…» disse rapidamente, senza riprender fiato.

«Ma quali ufficiali? Chi hanno portato? Non ci capisco niente,» esclamò la contessa.

Nataša scoppiò a ridere; anche la contessa ebbe un debole sorriso.

«Sapevo che avreste acconsentito… allora io glielo vado a dire.»

E Nataša, dato un bacio alla madre, si alzò e si avviò alla porta.

In salone incontrò suo padre che rientrava da fuori con brutte notizie.

«Abbiamo indugiato troppo!» esclamò il conte con involontario disappunto. «Anche il club è chiuso e la polizia se ne va.»

«Papà, ho invitato i feriti in casa, fa niente, vero?» gli disse Nataša.

«Certo, certo, non fa niente,» disse distrattamente il conte. «Non è di questo che si tratta, ma adesso vi prego di non occuparvi di sciocchezze e di aiutare a fare i bagagli, e domani partire, partire, partire!…» E il conte ripeté al maggiordomo e alla servitù lo stesso ordine. A pranzo, Petja raccontò anche lui le sue novità.

Disse che quel giorno il popolo aveva prelevato le armi al Cremlino, che anche se nel manifesto di Rastopèin si diceva che sarebbe stato dato l’allarme fra un paio di giorni, erano già state date disposizioni affinché l’indomani tutta la popolazione si recasse in armi alle Tri Gory, dove si sarebbe svolto un gran combattimento.

La contessa guardava con timida apprensione il volto allegro ed eccitato di suo figlio, mentre veniva raccontando quelle cose. Sapeva che se avesse detto una sola parola, se l’avesse pregato di non andare a quella battaglia (era sicura che lui era entusiasta dello scontro imminente), Petja avrebbe risposto chissà cosa a proposito degli uomini, dell’onore, della patria: cose così insensate, maschili, testarde, che non si sarebbe potuto replicare nulla e la faccenda sarebbe stata definitivamente compromessa. Perciò, sperando di combinare le cose in modo di poter partire prima e di portar via con sé Petja, in qualità di difensore e protettore, non gli diceva nulla. Dopo pranzo chiamò il conte e, con le lacrime agli occhi, lo supplicò di condurla via al più presto, quella notte stessa, se era possibile. Con femminile, istintiva scaltrezza, lei, che fino a quel momento non aveva mostrato la minima paura, adesso diceva che sarebbe morta di spavento se non fossero partiti quella notte stessa. E non fingeva; ora aveva davvero paura di tutto.

XIV

M.me Schoss, che era andata a trovare sua figlia, accrebbe più che mai lo spavento della contessa raccontandole ciò che aveva visto in un deposito di alcolici di via Mjasnitskaja. Ritornando per quella strada, non aveva potuto proseguire verso casa per la presenza di una folla ubriaca che tumultuava davanti al deposito. Aveva preso una carrozza di piazza ed era rientrata a casa facendo un lungo giro per i vicoli; il vetturino le aveva raccontato che il popolo spaccava le botti del deposito, giacché tale era l’ordine.

Dopo pranzo tutti i componenti della famiglia Rostov si accinsero con entusiastico impegno all’imballaggio degli oggetti e ai preparativi per la partenza. Il vecchio conte, che nel pomeriggio era improvvisamente divenuto attivo, non smetteva di andare dalla casa al cortile e viceversa, urlando ordini sconclusionati alla servitù e facendole ancor più fretta. Petja dava ordini in cortile. Sonja non sapeva che cosa fare sotto l’incalzare dei contradditori ordini del conte e finiva col perdere completamente la testa. I servitori, urlando, discutendo e facendo un gran chiasso, correvano su e giù per le stanze e il cortile. Nataša, con l’ardore che metteva sempre in tutte le cose, si era messa improvvisamente all’opera anche lei. Dapprima il suo intervento nel lavoro d’imballaggio fu accolto dagli altri con diffidenza. Da lei tutti si aspettavano soltanto scherzi e non volevano darle retta; ma, con ostinazione e accanimento, lei esigeva che le obbedissero, si arrabbiava, quasi piangeva a vedere che non le davano ascolto, e infine riuscì ad ottenere la loro fiducia. La sua prima impresa, che le costò immensi sforzi e le conferì definitiva autorità, fu l’imballaggio dei tappeti. Il conte aveva in casa dei preziosi gobelins e tappeti persiani. Quando Nataša si mise al lavoro, nel salone c’erano due casse aperte: una era già piena fin quasi all’orlo di porcellane, l’altra di tappeti. Molte altre porcellane erano ancora sui tavoli e se ne continuavano a portare dalla dispensa. Bisognava cominciare una nuova, terza cassa e gli uomini andarono a prenderla.

«Sonja, aspetta, possiamo sistemare tutto così,» disse Nataša.

«Impossibile, signorina, ci abbiamo già provato,» disse il dispensiere.

«No, aspetta, ti prego.» E Nataša cominciò a togliere dalla cassa i piatti e le scodelle avvolti nella carta.

«I piatti qui, fra i tappeti,» disse.

«Ma solo di tappeti ce n’è ancora da riempire più di tre casse,» disse il dispensiere.

«Ma aspetta, per piacere.» E Nataša si mise a vuotare la cassa e a scegliere gli oggetti con rapidità e destrezza. «Questi no,» disse dei piatti di Kiev, «questi sì, fra i tappeti,» disse dei piatti di Sassonia.

«Ma lascia stare, Nataša; basta, via, sistemiamo tutto noi,» disse in tono di rimprovero Sonja.

«Eh, signorina!» diceva il maggiordomo.

Ma Nataša non si arrese, tirò fuori tutto dalla cassa e cominciò di nuovo a riempirla rapidamente dopo aver deciso che non era assolutamente il caso di portar via i modesti tappeti di fattura domestica e le stoviglie superflue. Ed effettivamente, eliminata tutta la roba di poco valore, tutto quello che non valeva la pena di portarsi dietro, tutta la roba di valore si riuscì a sistemarla in sole due casse. Solo che il coperchio della cassa dei tappeti non voleva chiudersi. Si sarebbero potute togliere alcune cose, ma Nataša insisteva. Tentava di accomodare meglio, di sistemare diversamente, obbligava il dispensiere e Petja (che s’era trascinato dietro nel lavoro d’imballaggio) a premere sul coperchio e faceva lei stessa sforzi disperati.

«Ma basta, Nataša,» le disse Sonja. «Vedo che avevi ragione, ma togli quel che c’è sopra.»

«Non voglio!» gridò Nataša, scostandosi con la mano i capelli che le ricadevano sul volto sudato e con l’altra continuando a schiacciare i tappeti. «Su, forza spingi, Petja, spingi! Vasilič, spingi!» gridava.

I tappeti si appiattirono e il coperchio si chiuse. Battendo le mani, Nataša si mise a urlare di gioia e le spuntarono le lacrime agli occhi. Ma fu cosa di un attimo. Subito mise mano a un altro lavoro; tutti ormai avevano piena fiducia in lei e il conte non si arrabbiò quando gli dissero che Natalja Il’inièna aveva mutato un suo ordine e i domestici andavano da lei a chiedere se legare o no il carro e se era carico abbastanza. Le cose procedevano più spedite grazie all’intervento di Nataša: si lasciavano le cose inutili e si imballavano nel modo meno ingombrante quelle di valore.

Ma per quanto tutta la servitù si desse da fare al massimo, a tarda notte non s’era ancora riusciti a imballare tutto. La contessa si era addormentata e anche il conte andò a dormire rimandando la partenza al mattino.

Sonja e Nataša, senza svestirsi, dormirono nella stanza dei divani.

In nottata un altro ferito passò per via Povarskaja e Mavra Kuzminièna, che stava sul portone, lo fece entrare in casa Rostov. Quel ferito, così pensava Mavra Kuzminièna, doveva essere una persona molto importante. Lo trasportavano infatti in un calesse completamente chiuso dal mantice e con la cappotta calata. In cassetta, insieme al cocchiere, stava seduto un anziano, rispettabile cameriere. Seguiva una carrozza con un medico e due soldati.

«Accomodatevi da noi, prego. I padroni partono, la casa è vuota,» disse la vecchia rivolgendosi al vecchio cameriere.

«Eh,» rispose il cameriere con un sospiro, «non speriamo nemmeno di poterlo condurre a casa! Abbiamo una casa nostra, a Mosca, ma è lontana e ora è disabitata.»

«Venite da noi, vi prego, in casa dei miei padroni c’è tutto quello che occorre,» disse Mavra Kuzminièna. «Ma sta molto male?» soggiunse.

Il cameriere fece un gesto con una mano.

«Non speriamo nemmeno di poterlo condurre a casa. Bisognerebbe domandare al medico…»

E il cameriere scese di cassetta e si avvicinò alla carrozza.

«Va bene,» disse il dottore.

Il cameriere tornò al calesse, ci diede un’occhiata dentro, scosse la testa, ordinò al cocchiere di svoltare nel cortile e poi si fermò accanto a Mavra Kuzminièna.

«Signore Iddio!» mormorò lei

Mavra Kuzminiéna propose di portare il ferito su in casa.

«I padroni non diranno nulla…» diceva.

Ma bisognava evitare le scale e perciò il ferito venne trasportato nel padiglione annesso alla casa e adagiato nella vecchia camera di m.me Schoss. Il ferito era il principe Andrej Bolkonskij.

XV

Sorse l’ultimo giorno di Mosca. Era una limpida, lieta giornata autunnale. Era domenica. Come in tutte le altre domeniche, da tutte le chiese le campane invitavano a messa. Nessuno ancora, a quanto pareva, capiva quel che aspettava Mosca.

Soltanto due sintomi, della vita sociale, riflettevano l’esatta situazione di Mosca: la plebe, ossia i poveri, e i prezzi. Operai, domestici, contadini, in una folla immensa a cui si univano funzionari, seminaristi e nobili, all’alba di quel giorno, si incamminarono verso le Tri Gory. Dopo aver sostato a lungo lassù, stanchi di aspettare Rastopèin, e convinti che Mosca sarebbe stata abbandonata, tutti costoro si sparpagliarono per Mosca, per bettole e trattorie. Anche i prezzi quel giorno indicavano la reale situazione. I prezzi delle armi, dell’oro, dei carri e dei cavalli continuavano a salire, mentre i prezzi delle cotonate e degli articoli di lusso continuavano a scendere, tanto che verso la metà della giornata ci furono casi in cui merci costose, come le stoffe, furono portate via dai vetturali a metà prezzo, mentre per un cavallo di contadini venivano pagati cinquecento rubli; quanto ai mobili, agli specchi e ai bronzi, invece, venivano dati via per nulla.

Nella nobile e vecchia casa dei Rostov il disgregarsi delle consuete condizioni di vita aveva avuto riflessi assai deboli. Avvenne soltanto che di tutta la numerosa servitù nella notte scomparvero tre uomini, ma niente era stato rubato; e per quanto riguardava i prezzi, risultò che i trenta carri giunti dalle campagne costituivano un’immensa ricchezza che molti invidiavano e per la quale offrivano ai Rostov somme enormi. Non solo venivano offerte somme enormi per quei carri, ma fin dalla sera e dall’alba del I° settembre, nel cortile dei Rostov giunsero numerosi attendenti e domestici inviati dagli ufficiali feriti, che si unirono agli stessi feriti alloggiati in casa Rostov e nelle case vicine a supplicare i domestici di fare l’impossibile perché i padroni concedessero loro qualche carro per uscire da Mosca. Il maggiordomo al quale rivolgevano simili richieste, benché provasse compassione per i feriti, rifiutava categoricamente, dicendo che non aveva nemmeno il coraggio di parlarne al conte. Per quanta pena facessero i feriti costretti a rimanere lì, era evidente che se si fosse dato un carro, non ci sarebbe stato motivo per non darne un altro e poi un altro ancora, e poi tutti, fino alle vetture dei padroni. Trenta carri non potevano salvare tutti i feriti e, nella sventura comune, non si poteva non pensare a se stessi e alla propria famiglia.

Così pensava il maggiordomo per il suo padrone.

Il mattino del I° settembre, il conte Ilija Andreič, svegliatosi per primo, uscì pian piano dalla camera da letto per non svegliare la contessa che si era assopita soltanto verso il mattino e si affacciò alla scala d’ingresso nella sua vestaglia di seta lilla. I carri, coi carichi ben assicurati dalle corde, stavano nel cortile. Davanti alla scalinata d’ingresso stavano le carrozze. Il maggiordomo era presso la scalinata e discorreva con un vecchio attendente e con un giovane ufficiale pallido, che aveva un braccio legato al collo. Vedendo il conte, il maggiordomo fece all’ufficiale e all’attendente un gesto severo e significativo perché si allontanassero.

«Allora, è tutto pronto, Vasili?» disse il conte grattandosi la testa calva, guardando bonariamente l’ufficiale e l’attendente e facendo un cenno con il capo. (Al conte piacevano le facce nuove.)

«Si può attaccare anche subito, Eccellenza.»

«Benissimo, appena si sveglierà anche la contessa, ci metteremo in viaggio, con l’aiuto di Dio! Voi cosa desiderate, signori?» si rivolse all’ufficiale. «Siete sistemati in casa mia?»

L’ufficiale si fece avanti. Sul suo volto pallido avvampò improvviso un vivido rossore.

«Conte, fatemi la grazia, permettetemi… per amor di Dio… di sistemarmi in qualche modo sui vostri carri. Qui con me non ho nulla… Magari in cima a un carico… è lo stesso…»

L’ufficiale non aveva ancora finito di parlare che l’attendente si rivolse al conte con la stessa preghiera per il suo signore.

«Oh, sì, sì, sì,» s’affrettò a dire il conte. «Ne sarò lieto, molto lieto. Vasili, disponi tu, fa sgomberare uno o due carri, insomma quello che occorre…» disse il conte impartendo istruzioni in termini assai vaghi.

Ma nello stesso istante la calorosa espressione di riconoscenza dell’ufficiale consolidò le sue intenzioni. Il conte si guardò attorno: nel cortile, nell’andito del portone, alle finestre del padiglione, ovunque c’erano feriti e attendenti. Tutti guardavano il conte e avanzavano verso la scalinata.

«Vogliate salire in galleria, eccellenza; che cosa ordinate per quanto riguarda i quadri?» disse il maggiordomo.

E il conte entrò insieme a lui nella casa, ripetendo il suo ordine di non respingere i feriti che chiedessero di partire.

«D’altra parte credo che si possa scaricare qualcosa,» aggiunse con voce sommessa e furtiva, come se temesse di essere udito da qualcuno.

Alle nove si svegliò la contessa, e Matrëna Timofeevna, sua antica cameriera, che ora presso di lei svolgeva le funzioni di capo dei gendarmi, venne a riferire alla sua signora che Mar’ja Karlovna era molto offesa e che gli abiti estivi delle signorine non potevano restare lì. Quando la contessa chiese perché m.me Schoss fosse tanto offesa, si scoprì che il suo baule era stato tolto da un carro e che tutti i carri venivano slegati, e al posto delle casse venivano caricati i feriti che il conte, nella sua semplicità, aveva dato ordine di portar via con loro. La contessa fece chiamare in camera il marito.

«Cos’è, mio caro, questa cosa che m’hanno riferito? Scaricano la roba?»

«Sai, ma chère, ti volevo dire… ma chère contessuccia… è venuto un ufficiale a pregarmi di dare qualche carro per trasportare i feriti. Questa è tutta roba che si può ricomprare, mentre loro come possono restare, pensaci!… Il fatto è che sono qui da noi in cortile, siamo stati noi a chiamarli, ci sono pure degli ufficiali… Sai, io penso, davvero, ma chère, ecco, ma chère… lascia che li carichino… tanto, che fretta c’è?…»

Il conte diceva tutto questo timidamente, come sempre quando c’erano in ballo questioni d’interesse. La contessa, dal canto suo, era ormai abituata a questo tono, che precedeva sempre qualche iniziativa destinata a danneggiare i figli, come, per esempio, la costruzione di una galleria, di una serra, l’allestimento di un teatro o di un’orchestra privata; ed era anche abituata, e lo considerava suo dovere, ad opporsi a ciò che veniva esposto con quel tono timido.

Assunse la sua solita aria sottomessa e querula e disse al marito:

«Senti, conte, hai fatto in modo che per la casa ormai non ci danno più niente e adesso vuoi distruggere così tutto il patrimonio nostro, e dei nostri figli. Ma se dici tu stesso che in casa c’è roba per centomila rubli! Io, amico mio, non sono d’accordo, assolutamente! Fa come vuoi!… Ai feriti pensa il governo. Loro lo sanno. Guarda qui di fronte, dai Lopuchin, già l’altro ieri hanno portato via tutto, fino all’ultima briciola. Ecco come fa la gente. Soltanto noi siamo così stupidi. Se non di me, abbi almeno compassione dei tuoi figli.»

Il conte agitò le braccia e usci dalla stanza senza dir niente.

«Papà! Che cosa c’è?» disse Nataša che era entrata subito dopo di lui nella stanza della madre.

«Niente! Di che cosa t’impicci!» disse arrabbiato il conte.

«No, ho sentito…» disse Nataša. «E perché la mamma non vuole?»

«Ma di che t’impicci?» ripeté il conte urlando.

Nataša se ne andò alla finestra e rimase pensierosa.

«Papà, arriva Berg,» esclamò a un tratto, guardando fuori dalla finestra.

XVI

Berg, genero dei Rostov, era già colonnello con tanto di Vladimir e di Anna al collo e occupava sempre lo stesso tranquillo e piacevole posto di vicecapo di Stato Maggiore del vice-capo di Stato Maggiore del primo settore del secondo corpo d’armata.

Il I° settembre, proveniente dall’armata, era arrivato a Mosca.

A Mosca non aveva nulla da fare, ma aveva notato che tutti chiedevano di venire dall’esercito a Mosca e che qui facevano chissà che cosa. Perciò anche lui aveva ritenuto necessario chiedere una licenza per motivi domestici e familiari.

Era arrivato in casa del suocero col suo elegante calessino tirato da un paio di cavalli bai ben pasciuti, uguali a quelli che aveva un certo principe di sua conoscenza. Guardò attentamente i carri in cortile e, salendo per la scala d’ingresso, tirò fuori un fazzoletto tutto lindo e vi fece un nodo.

Dall’anticamera entrò con passo agile e impaziente nel salotto e abbracciò il conte, baciò la mano a Nataša e a Sonja e si affrettò a informarsi della salute della mammina.

«Che c’entra adesso la salute? Su, racconta invece,» disse il conte, «che fa l’esercito? Si ritira o ci sarà ancora battaglia?»

«Solo l’eterno Dio, papà,» disse Berg, «può decidere i destini della patria. L’esercito è infiammato di eroismo e adesso i capi si sono riuniti a consiglio. Che cosa succederà, non lo sa nessuno. Ma da un punto di vista generale, posso dirvi, papà, che tanto eroismo, tanto autentico e antico coraggio quanto l’esercito russo hanno… ha…» si corresse, «mostrato, o dimostrato, nella battaglia del 26 agosto, non esistono parole adatte per descriverlo… Io vi dico, papà (si batté il petto come se l’era battuto un generale che aveva raccontato la cosa in sua presenza, ma un po’ troppo tardi, perché bisognava battersi il petto alle parole «l’esercito russo»), «io vi dico apertamente che noi superiori non soltanto non dovevamo incitare i soldati, o roba del genere, ma riuscivamo a fatica a trattenere simili, simili… simili eroiche, antiche gesta di coraggio,» disse con fretta precipitosa. «Il generale Barclay de Tolly ha rischiato costantemente la vita in testa ai suoi soldati, ve lo dico io. Il nostro corpo d’armata era disposto sul pendio del monte. Potete immaginarvi…»

E qui Berg raccontò tutto quello che ricordava dei vari racconti che aveva ascoltato in quei giorni. Nataša, senza mai staccare da Berg il suo sguardo imbarazzante, lo fissava come se cercasse sul suo viso la soluzione di un problema.

«Insomma, l’eroismo dimostrato dai soldati russi non si può immaginare né descrivere degnamente!» disse Berg, girandosi a sua volta a guardare Nataša, e come cercando d’ingraziarsela con un sorriso in risposta al suo sguardo ostinato. «La Russia non è a Mosca, è nei cuori dei suoi figli! È così, papà, non è vero?» continuò Berg.

In quel momento dalla stanza dei divani uscì la contessa, con la stanchezza e lo scontento dipinti sul volto. Berg saltò su in fretta, baciò la mano della contessa, s’informò della sua salute ed esprimendo la propria partecipazione al suo stato d’animo, con un tentennamento del capo, si sedette vicino a lei.

«Sì, mammina, ve lo dico sinceramente: sono tempi duri e penosi per ogni russo. Ma perché preoccuparsi così? Siete ancora in tempo per partire…»

«Non capisco che cosa facciano i domestici,» disse la contessa rivolgendosi al marito, «mi hanno detto proprio adesso che non è pronto ancora nulla. Bisogna pure che qualcuno dia ordini. C’è persino da rimpiangere Mitenka. Così non si finirà mai!»

Il conte avrebbe voluto dire qualcosa, ma, evidentemente, si trattenne. Si alzò dalla sedia e si avviò verso la porta.

Intanto Berg, come per soffiarsi il naso, tirò fuori dalla tasca il fazzoletto e, vedendo il nodo che vi aveva fatto, rimase pensieroso e scosse la testa in modo triste e significativo.

«Ah già, papà, ho una grande preghiera da farvi,» disse.

«Hmm?…» disse il conte fermandosi.

«Passavo adesso davanti alla casa degli Jusgpov,» disse Berg ridendo. «L’amministratore, che è un mio conoscente, mi è corso incontro e mi ha chiesto se non volessi comprare qualcosa. Io sono entrato, sapete, tanto per curiosità, e ho visto una piccola chiffonière che fa anche da toilette. Sapete anche voi quanto Veruška desideri un mobiletto così e quanto abbiamo discusso in proposito. (Non appena aveva cominciato a parlare della chiffonière nonché toilette, Berg era passato senza avvedersene al solito tono di soddisfazione per la sua ben ordinata azienda familiare.) E che incanto! Si ribalta davanti e poi ha il segreto inglese, sapete? E Veročka lo desiderava da un pezzo. Così vorrei farle una sorpresa. Ho visto da voi tanti di quei contadini in cortile. Datamene uno per piacere, io gli darò una bella mancia e…»

Il conte si accigliò e tossicchiò.

«Chiedetelo alla contessa, non sono io che dà gli ordini.»

«Se vi crea difficoltà, vi prego, non fa niente,» disse Berg. «Volevo solo far piacere a Veruška.»

«Ah, andatevene tutti al diavolo, al diavolo, al diavolo e al diavolo!…» gridò il vecchio conte. «Mi fate girare la testa» e uscì dalla stanza.

La contessa si mise a piangere.

«Eh, sì, mammina, sono tempi molto duri!» disse Berg.

Nataša uscì insieme al padre e, come riflettendo faticosamente su qualcosa, dapprima gli andò dietro e poi, di corsa, scese al piano inferiore.

Sulla scalinata d’ingresso c’era Petja, occupato ad armare i domestici che sarebbero partiti con loro da Mosca. In cortile i carri, ancora carichi, erano sempre fermi. Solo due erano stati slegati e su uno stava salendo un ufficiale sorretto dall’attendente.

«Tu lo sai, il motivo?» domandò Petja a Nataša.

(Nataša capì che Petja voleva dire: perché avevano litigato il padre e la madre?) Non rispose.

«Perché il papà voleva dare tutti i carri ai feriti,» disse Petja. «Me l’ha detto Vasilič. Secondo me…»

«Secondo me,» esclamò improvvisamente, quasi urlando, Nataša, volgendo a Petja il viso rosso di rabbia, «secondo me, questa è una tale bassezza, una tale infamia, una tale… non so! Siamo forse dei tedeschi?…»

La voce le tremò per i singhiozzi convulsi e lei, temendo di lasciare indebolire e svanire a vuoto la carica di rabbia che aveva dentro, si voltò e corse a precipizio su per le scale. Berg era seduto accanto alla contessa e la consolava con rispettosa familiarità, il conte andava su e giù nella stanza con la pipa in mano, quand’ecco Nataša irrompere lì dentro col viso alterato dalla rabbia e avvicinarsi a passi rapidi alla madre.

«È un’infamia! È una bassezza!» si mise a gridare. «È impossibile che abbiate ordinato questo.»

Berg e la contessa la guardavano perplessi e sgomenti. Il conte si fermò vicino alla finestra e rimase in ascolto.

«Mammina, è impossibile; guardate che cosa succede in cortile!» gridò Nataša. «Quella gente resta qui!…»

«Che cos’hai? Chi, quella gente? Che vuoi?»

«I feriti, ecco chi! È impossibile, mammina; è una cosa inaudita…No, mammina, tesoro, così non va, è assurdo, scusate… Mammina, ma che c’importa della roba che portiamo via, guardate soltanto che cosa succede in cortile… Mammina!… È una cosa impossibile…»

Il conte stava accanto alla finestra e, senza girare il capo da quella parte, ascoltava le parole di Nataša. A un tratto soffiò con il naso e s’accostò di più col viso ai vetri.

La contessa diede un’occhiata alla figlia, le lesse in volto la vergogna che provava per sua madre, capì perché il marito adesso non si voltava a guardarla, e volse intorno lo sguardo smarrita.

«Ah, fate pure come volete! Io non impedisco niente!» disse senza ancora arrendersi del tutto.

«Mammina, cara, perdonatemi!»

Ma la contessa allontanò la figlia e si avvicinò al conte.

«Mon cher, dai tu gli ordini necessari…Io di queste cose non mi intendo…» disse abbassando gli occhi con aria colpevole.

«I pulcini… i pulcini insegnano alla chioccia…» esclamò il conte piangendo di gioia e abbracciò la moglie, che fu contenta di nascondere sul petto di lui il viso vergognoso.

«Papà, mammina! Si può dare l’ordine? Si può?…» domandava Nataša. «Potremo ugualmente prendere le cose indispensabili…» aggiunse.

Il conte le fece un cenno d’assenso con il capo e Nataša, con quel passo agile e lesto con cui giocava a rincorrersi, attraversò di corsa il salone fino in anticamera, e poi giù per le scale fino in cortile.

I domestici si raccolsero intorno a Nataša e non riuscirono a credere allo strano ordine che impartiva finché il conte in persona non confermò, a nome di sua moglie, l’ordine di utilizzare tutti i carri per i feriti e di trasportare i bauli nei magazzini. Quando ebbero capito l’ordine, i domestici si accinsero ad eseguirlo con gioia febbrile. L’ordine, adesso, non solo non sembrava più tanto strano ai domestici, ma, al contrario, pensavano che non potesse essere altrimenti, proprio come un quarto d’ora prima nessuno trovava niente di strano nell’abbandonare lì i feriti e nel portare via la roba, e sembrava che non si potesse fare diversamente.

Tutta la servitù, come per scontare di non averlo fatto prima, si dedicò con ardente premura al nuovo lavoro di sistemazione dei feriti. Nella case vicine si sparse la voce che c’erano dei carri disponibili e i feriti che vi si trovavano cominciarono ad affluire nel cortile dei Rostov. Molti feriti chiedevano che non si scaricasse la roba e che li lasciassero, soltanto, mettersi su in cima. Ma, una volta cominciato, lo scarico dei carri non poteva più essere interrotto. Lasciare tutta la roba o soltanto la metà era lo stesso. Nel cortile adesso stavano sparpagliate le casse abbandonate di stoviglie, bronzi, quadri, specchi, che la notte prima erano state imballate con tanta cura, e tutti continuavano a cercare e a trovare il modo di togliere questo o quest’altro e di cedere altri carri.

«Se ne possono prendere ancora quattro,» disse l’amministratore, «io darò il mio carro, altrimenti questi dove li mettiamo?»

«Ma date anche la mia vettura-guardaroba,» disse la contessa. «Dunjaša verrà nella mia carrozza.»

Cedettero anche la vettura-guardaroba che fu mandata a prendere i feriti due case più in là. Tutti i familiari e i domestici erano in preda ad una gaia eccitazione. Nataša era in uno stato d’animazione entusiastica e felice, come da tempo non provava.

«Dove lo leghiamo questo?» dicevano i domestici collocando un baule sullo stretto portabagagli di una carrozza, «bisognerebbe tenersi almeno un carro.»

«Ma che cosa c’è dentro?» domandò Nataša.

«I libri del conte.»

«Lasciatelo. Ci penserà Vasilič a riporlo. Non sono necessari.»

Il calesse era pieno di gente; ci si chiedeva dove far accomodare Pëtr Il’iĉ.

«Andrà a cassetta. Tu monti a cassetta, non è vero, Petja?» gridò Nataša.

Anche Sonja si affaccendava di qua e di là senza un momento di riposo, ma lo scopo del suo tramenìo era opposto a quello di Nataša: metteva via la roba che doveva restare, ne prendeva nota, per desiderio della contessa, e s’ingegnava di portarne dietro il più possibile.

XVII

Verso le due del pomeriggio le quattro carrozze dei Rostov, coi cavalli pronti e cariche di bagagli, attendevano davanti all’ingresso di casa. Dal cortile uscivano uno dietro l’altro i carri con i feriti.

La carrozza su cui trasportavano il principe Andrej, passando davanti all’ingresso, attirò l’attenzione di Sonja, che insieme ad una cameriera stava sistemando il sedile per la contessa nell’enorme, alta carrozza di quest’ultima, in sosta davanti alle scale.

«Di chi è quella carrozza?» domandò Sonja affacciandosi al finestrino.

«Ah, non lo sapevate signorina?» rispose la cameriera. «Un principe ferito; ha pernottato qui e parte anche lui con noi.»

«Ma chi è? Come si chiama?»

«È proprio lui, il fidanzato nostro d’una volta… il principe Bolkonskij!» rispose sospirando la cameriera. «Dicono che sia in fin di vita.»

Sonja saltò giù dalla carrozza e corse dalla contessa. Già vestita per il viaggio, con lo scialle e il cappello, la contessa camminava stancamente su e giù per il salotto, aspettando d’essere raggiunta dalle persone di famiglia con cui doveva restare un po’ seduta, a porte chiuse, e pregare prima della partenza. Nataša, in salotto, non c’era.

«Maman,» disse Sonja. «Il principe Andrej è qui, ferito a morte. Viaggia insieme a noi.»

La contessa spalancò gli occhi spaventata e, afferrando Sonja per un braccio, si guardò in giro.

«Nataša?» mormorò.

Tanto per Sonja che per la contessa questa notizia ebbe, in quel primo istante, soltanto un significato. Conoscevano bene la loro Nataša e il terrore di ciò che avrebbe potuto provocare in lei quella notizia soffocò qualsiasi loro sentimento di compassione nei confronti di quell’uomo che pure entrambe amavano.

«Nataša non lo sa ancora, ma lui viaggia con noi…» disse Sonja.

«Hai detto che è in punto di morte?»

Sonja annuì con la testa.

La contessa abbracciò Sonja e scoppiò a piangere.

«Le vie del Signore sono imperscrutabili!» pensò, sentendo che in tutto quello che stava accadendo cominciava ad affiorare la mano dell’Onnipotente, nascosta finora allo sguardo degli uomini.

«Ebbene, mamma, tutto è pronto… Di che parlavate?» domandò, animata in viso, Nataša, entrando di corsa nella stanza.

«Niente,» disse la contessa. «Se è pronto, partiamo.»

E si chinò sul suo ridicule per nascondere il viso sconvolto. Sonja abbracciò Nataša e la baciò.

Nataša le gettò un’occhiata interrogativa.

«Che hai? Che cosa è successo?»

«Niente… Non c’è niente…»

«Qualcosa di brutto per me?… Che cosa?» insisté la sensibile Nataša.

Sonja sospirò e non rispose nulla. In quel momento il conte, Petja, m.me Schoss, Mavra Kuzminièna e Vasilič entrarono nel salotto; dopo aver chiuso le porte, tutti si sedettero e rimasero per vari minuti in silenzio senza guardarsi l’un l’altro.

Il conte si alzò per primo e, con un profondo sospiro, si fece il segno della croce rivolto a un’immagine sacra. Tutti fecero lo stesso. Poi il conte abbracciò Maria Kuzminièna e Vasilič, che restavano a Mosca, e, mentre quelli gli prendevano la mano e lo baciavano sulla spalla, lui dava loro dei leggeri colpetti sulla schiena, borbottando parole confuse, con tono affettuoso e incoraggiante. La contessa era andata nella stanza delle icone e Sonja la trovò lì in ginocchio davanti alle immagini rimaste qua e là sulla parete. (Le immagini più care per tradizione familiare erano state tolte: le portavano via con loro.)

Sull’ingresso e in cortile i domestici che partivano, con i pugnali e le spade di cui li aveva armati Petja, con i pantaloni infilati negli stivali, con cinghie e fasce ben strette alla vita, salutavano quelli che rimanevano.

Come avviene in ogni partenza, molte cose erano state dimenticate o non erano state sistemate a dovere e i due aiduki restarono a lungo accanto allo sportello della carrozza, ai due lati del predellino già calato, in attesa d’aiutare a salire la contessa, mentre le cameriere correvano con cuscini e fagotti dalla casa alle carrozze, alla vettura aperta, al calessino, e viceversa.

«Mai che facciano una cosa giusta!» disse la contessa. «Lo sai bene che io non posso star seduta a questo modo.»

E Dunjaša, a denti stretti e senza rispondere, con un’espressione di rimprovero sul viso, si slanciava nella carrozza e riaccomodava in un altro modo i cuscini.

«Ah, questa gente!» diceva il conte scuotendo la testa.

Il vecchio cocchiere Efim, l’unico col quale la contessa si fidasse a viaggiare, se ne stava seduto in cassetta, e non si voltava nemmeno a guardare quello che succedeva dietro di lui. Grazie a un’esperienza di trent’anni sapeva che non gli avrebbero detto ancora tanto presto «Andiamo con Dio!» e che, quando gliel’avessero detto, l’avrebbero fermato ancora un paio di volte e poi la contessa in persona si sarebbe affacciata al finestrino e l’avrebbe mandato a prendere delle cose dimenticate e poi l’avrebbero fermato ancora una volta per pregarlo, in nome di Dio, di essere prudente nelle discese. Lo sapeva bene, e così aspettava con più pazienza dei suoi cavalli (specialmente del baio di sinistra Sokol, che batteva con lo zoccolo e mordeva il morso). Finalmente tutti si sedettero; il predellino fu sollevato e ritirato dalla carrozza, lo sportello sbatté, mandarono a cercare una cassetta, la contessa si affacciò e disse quello che doveva. Allora Efim si tolse lentamente il berretto, e si fece il segno della croce. Il postiglione e tutti i domestici fecero lo stesso.

«Andiamo con Dio!» disse Efim rimettendosi il cappello. «Parti!»

Il postiglione dette il segnale di partenza. Il timoniere di destra premette sul pettorale, le alte molle stridettero e la cassa della carrozza traballò. Il lacchè saltò a cassetta quando la vettura era già in moto. Nell’uscire dal cortile la carrozza sussultò sul selciato sconquassato; nello stesso modo sussultarono gli altri veicoli e il convoglio si avviò su per la strada in salita. Nelle carrozze, nel calesse e nel calessino tutti si fecero il segno della croce, rivolti alla chiesa che stava là di fronte. I domestici che rimanevano a Mosca camminavano ai due lati delle carrozze, accompagnandole per un breve tratto.

Di rado Nataša aveva provato una sensazione di gioia così intensa come quella che provava ora seduta in carrozza vicino alla contessa, mentre guardava i muri di quella Mosca abbandonata e in subbuglio che le passavano lentamente davanti agli occhi. Ogni tanto si affacciava al finestrino e spingeva lo sguardo indietro e avanti, al lungo convoglio di feriti che li precedeva. Quasi in testa a tutti gli altri veicoli scorgeva la cappotta chiusa della carrozza del principe Andrej. Lei non sapeva chi ci fosse dentro e ogni volta che guardava fuori, per raffigurarsi la lunghezza del convoglio, cercava con gli occhi quella carrozza. Sapeva che era in testa a tutte.

A Kudrino, provenienti da Nikitskaja, dalla Presnja, da Podnovinskoe, il convoglio dei Rostov ne incontrò altri simili, e sulla Sadovaja le carrozze e i carri procedevano ormai in doppia fila.

Mentre si lasciavano indietro la Torre di Sucharëv, Nataša, che osservava con sguardo rapido e curioso la gente che passava a piedi o in carrozza, gridò improvvisamente con gioia e stupore:

«Signore benedetto! Mamma, Sonja, guardate, è lui!»

«Chi? Chi?»

«Guardate, è proprio lui, Bezuchov!» disse Nataša, sporgendosi dal finestrino della carrozza e fissando un uomo alto e grasso in caffetano da cocchiere (ma dall’andatura e dal portamento era evidentemente un signore travestito) che si stava avvicinando all’arco della Torre di Sucharëv in compagnia di un giallo vecchietto sbarbato, in cappotto di lana crespa.

«Diamine, è Bezuchov quello col caffetano, insieme a quella specie di ragazzo vecchio! Diamine,» disse Nataša, «guardate, guardate!»

«Ma no, non è mica lui. Che stupidaggini vai raccontando?»

«Mamma,» gridò Nataša, «mi faccio tagliare la testa se non è lui! Ve l’assicuro. Ferma, ferma!» gridò al cocchiere, ma il cocchiere non poteva fermare, perché dalla Mescanskaja sbucavano altri carri e carrozze e già i cocchieri urlavano contro i Rostov che andassero avanti e non bloccassero gli altri.

Effettivamente, benché a distanza molto maggiore di poco prima, tutti i Rostov videro Pierre, o un uomo straordinariamente somigliante a Pierre, in caffetano da cocchiere, camminare con la testa china e la faccia seria, accanto a un piccolo vecchietto senza barba che aveva l’aspetto di un cameriere. Il vecchietto si accorse che qualcuno si sporgeva a guardarli dalla carrozza e, sfiorato rispettosamente il gomito di Pierre, gli disse qualcosa indicando le vetture. Per un pezzo Pierre non riuscì a capire cosa gli volesse dire l’altro, tanto era immerso, evidentemente, nei suoi pensieri. Infine, quando capì, girò lo sguardo dove l’altro gli indicava e, riconosciuta Nataša, cedendo al primo impulso, si diresse verso la carrozza. Ma, fatti una decina di passi, dovette venirgli in mente qualcosa, e si fermò di colpo.

Il viso di Nataša, sporto fuori della carrozza, era raggiante di affetto misto a tenera ironia.

«Pëtr Kirìllyč, venite! Vi abbiamo riconosciuto! È incredibile!» gridava tendendogli una mano. «Come mai? Perché siete vestito così?»

Pierre prese la mano che gli veniva tesa e, sempre camminando (perché la carrozza continuava a muoversi) la baciò in modo goffo.

«Che cosa vi succede, conte?» domandò con voce meravigliata e piena di commiserazione la contessa.

«Cosa mi succede? Perché? Non me lo chiedete,» disse Pierre e si voltò a guardare Nataša, il cui sguardo raggiante e felice (lui lo sentiva anche senza vederla in volto) attirava col suo enorme fascino.

«Ma che fate? Restate a Mosca, forse?»

Pierre tacque.

«A Mosca?» disse poi interrogativamente. «Sì, a Mosca. Addio.»

«Ah, come vorrei essere un uomo, resterei senz’altro con voi. Ah, com’è bello!» disse Nataša. «Mamma, mi lasciate?, io resto.»

Pierre guardò distrattamente Nataša e avrebbe voluto dire qualcosa, ma la contessa gli tolse la parola:

«Vi siete trovato alla battaglia, abbiamo sentito dire?»

«Sì, mi ci sono trovato,» rispose Pierre. «Domani ce ne sarà un’altra!…» fece per cominciare, ma Nataša lo interruppe:

«Ma cos’avete conte? Non sembrate più voi…»

«Ah, non me lo chiedete, non me lo chiedete, anch’io non ci capisco nulla. Domani… Ma no! Addio, addio,» disse, «tempi terribili!»

E, restando indietro alla carrozza, si ritirò verso il marciapiede.

Nataša restò affacciata ancora per un pezzo al finestrino, irraggiando verso di lui un sorriso affettuoso e felice anche se lievemente ironico.

XVIII

Erano già due giorni che Pierre, scomparso da casa, viveva nell’appartamento vuoto del defunto Bazdeev. Ecco com’era andata.

Il giorno successivo al suo ritorno a Mosca e al suo incontro con Rastopèin, Pierre s’era svegliato e per un bel pezzo non era riuscito a capire dove si trovasse e che cosa si volesse da lui. Quando, fra i nomi delle varie persone che l’aspettavano in anticamera, gli avevano riferito che c’era anche un francese con una lettera da parte della contessa Elena Vasilievna, era caduto improvvisamente in preda a quella sensazione di confusione e di sconforto a cui era incline ad abbandonarsi. Improvvisamente gli era parso che tutto fosse ormai finito, che tutto si fosse confuso, che nessuno avesse più torto né ragione, che il futuro non avrebbe portato più nulla, e che non ci fosse nessuna via d’uscita da quella situazione. Sorridendo in modo innaturale e brontolando chissà che cosa, o sprofondava in una poltrona in un’attitudine d’impotenza, o si alzava e si avvicinava alla porta per spiare in anticamera attraverso una fessura, o agitando le mani, ritornava indietro e afferrava un libro. Il maggiordomo era venuto ad annunciargli, per la seconda volta, che il francese con la lettera della contessa aveva estremo desiderio di parlargli, fosse anche per un solo momento, e che da parte della vedova di I.A. Bazdeev erano venuti a pregarlo di prendere in consegna i libri, dato che la signora Bazdeeva partiva per la campagna.

«Ah, sì, subito, aspetta… Oppure no… ma no, va a dire che vengo subito,» disse Pierre al maggiordomo.

Ma non appena il maggiordomo fu uscito, Pierre prese il cappello che stava sul tavolo e uscì dalla porta di servizio dallo studio. In corridoio non c’era nessuno. Pierre percorse il corridoio fino alle scale e, aggrottando la fronte e stropicciandola con tutt’e due le mani, scese fino al primo pianerottolo. Il portiere stava davanti all’ingresso padronale. Dal pianerottolo, dov’era disceso Pierre, un’altra scala portava all’ingresso di servizio. Pierre passò di là e uscì in cortile. Nessuno aveva visto. Ma in strada, non appena uscì dal portone, il portiere e i cocchieri che sostavano con le carrozze lì davanti, lo videro passare e si tolsero i berretti. Sentendosi i loro sguardi puntati addosso, Pierre si comportò come lo struzzo che nasconde la testa fra i cespugli per non essere veduto: abbassò la testa e, accelerando il passo, si allontanò lungo la strada.

Di tutte le faccende che l’aspettavano quella mattina, quella di scegliere i libri e le carte di Iosif Alekseevič gli sembrava la più urgente.

Prese la prima vettura di piazza che gli capitò e ordinò di andare ai Patriaršie Prudy, dove si trovava la casa della vedova di Bazdeev.

Senza cessare di guardare i convogli, che avanzavano da tutte le direzioni, di coloro che partivano da Mosca, Pierre sistemò alla meglio sui cuscini il suo grosso corpo, per non scivolare giù dal vecchio carrozzino sgangherato; in preda a un’intensa sensazione di gioia, simile a quella che prova un bambino fuggito da scuola, si mise a chiacchierare con il vetturino.

Questi gli raccontò che quel giorno al Cremlino distribuivano le armi, e che l’indomani tutta la popolazione sarebbe andata alla Barriera delle Tri Gory e là ci sarebbe stata una grande battaglia.

Giunto ai Patriaršie Prudy, Pierre ebbe qualche difficoltà a trovare la casa di Bazdeev, dove non si era più recato già da molto tempo. Si avvicinò al cancello. Al suo bussare s’affacciò Gerasim, quello stesso vecchietto giallo e sbarbato che Pierre aveva visto cinque anni prima a Toržok, in compagnia di Iosif Alekseevič.

«Chi c’è in casa?» domandò Pierre.

«Date le attuali circostanze, Sofija Danilovna è partita con i figli per la tenuta la Toržok, eccellenza.»

«Io entro lo stesso, devo fare una scelta dei libri,» disse Pierre.

«Vi prego, favorite dentro… il fratello del defunto (sia pace all’anima sua), Makar Alekseevič, è rimasto qui, ma, come voi sapete, è malato,» disse il vecchio domestico.

Come Pierre sapeva, Makar Alekseevič era il fratello, mezzo demente e alcolizzato, di Iosif Alekseevič.

«Sì, sì, lo so. Andiamo, andiamo…» disse Pierre, ed entrò in casa.

Un vecchio alto e calvo, in vestaglia da camera, col naso rosso e i piedi nudi in un paio di calosce, stava fermo, in piedi, nell’ingresso; vedendo Pierre brontolò rabbiosamente qualcosa e si ritirò nel corridoio.

«È stato un cervellone, ma adesso, come vedete, s’è ammalato,» disse Gerasim. «Volete andare nello studio?» Pierre annuì con un gesto del capo.

«Lo studio è rimasto sigillato. Sofija Danilovna ha lasciato ordine che, se fosse venuto qualcuno da parte vostra, gli fossero consegnati i libri.»

Pierre entrò nella tetra stanza, la stessa in cui con tanta trepidazione entrava quando il suo benefattore era ancora in vita. Lo studio, adesso impolverato e non più toccato da nessuno fin dalla morte di Iosif Alekseevič, era più tetro che mai.

Gerasim aprì un’imposta e uscì dalla stanza in punta di piedi. Pierre fece il giro dello studio, si avvicinò all’armadio in cui stavano i manoscritti e prese uno dei più importanti cimeli dell’ordine. Era l’originale di atti scozzesi, con annotazioni e glosse del benefattore. Si sedette alla scrivania polverosa e si mise davanti il manoscritto, lo sfogliò, lo richiuse, e, infine, dopo averlo allontanato da sé, si appoggiò con la testa fra le mani e s’immerse nei suoi pensieri.

Più d’una volta, con estrema discrezione, Gerasim venne a dare un’occhiata nello studio, e vide Pierre seduto sempre nello stesso atteggiamento. Passarono più di due ore. Gerasim si permise di fare un leggero rumore dietro la porta per attirare l’attenzione di Pierre. Pierre non lo sentì.

«Ordinate di rimandar indietro il vetturino?»

«Ah, sì,» disse Pierre, riscuotendosi dalle sue meditazioni e affrettandosi a levarsi in piedi. «Senti,» disse poi, prendendo Gerasim per un bottone della giacca e fissando dall’alto in basso il vecchio, con occhi splendenti di entusiasmo, umidi di lacrime. «Senti, lo sai che domani ci sarà una battaglia?»

«L’ho sentito dire,» rispose Gerasim.

«Ti prego di non dire a nessuno chi sono io. E fa quello che ti dirò…»

«Sissignore,» disse Gerasim. «Desiderate mangiare?»

«No, è d’altro che ho bisogno. Ho bisogno di un vestito da contadino e di una pistola,» disse Pierre, arrossendo improvvisamente.

«Sissignore,» disse Gerasim dopo aver riflettuto.

Il resto di quella giornata Pierre lo passò da solo nello studio del benefattore, camminando inquieto da un angolo all’altro, come Gerasim poteva udire, e parlando fra sé; vi trascorse anche la notte, su un giaciglio che gli fu preparato lì dentro.

Gerasim, da vecchio servitore che s’è abituato a vederne di tutti i colori, accettò senza stupirsi il trasloco di Pierre e sembrava addirittura contento di aver qualcuno da servire. Quella sera stessa, senza neanche domandarsi a cosa potesse servire, procurò a Pierre un caffetano e un berretto, e promise di comprare per l’indomani la pistola richiesta. Quella sera Makar Alekseevič si avvicinò due volte alla porta dello studio ciabattando con le sue calosce, e si fermò lì, fissando Pierre con uno sguardo che chiedeva amicizia. Ma, non appena Pierre si voltava verso di lui, quello, vergognoso e rabbioso, richiudeva i lembi della sua vestaglia e si allontanava in fretta. Pierre s’imbatté nei Rostov appunto mentre, indossando il caffetano da mercante che Gerasim gli aveva procurato e lavato, andava con lui a comprare la pistola presso la Torre di Sucharëv.

XIX

La notte del 1° settembre Kutuzov ordinò alle truppe russe di ritirarsi oltre Mosca, verso la via di Rjazan.

Le prime truppe si misero in movimento quella stessa notte. E, marciando di notte, le truppe avevano fretta e si spostarono lentamente e in modo ordinato, ma all’alba le truppe in moto, avvicinandosi al Ponte Dorogomilovskij, videro davanti a sé, sull’altra sponda, una folla immensa di altri soldati che s’ingegnavano in tutti i modi d’attraversare il ponte, e risalivano per la riva opposta, ingorgando strade e vicoli, mentre alle spalle li incalzavano altre masse di soldati. E una fretta e un’agitazione immotivate si impadronirono delle truppe. Tutti si lanciarono in avanti, verso il ponte, sul ponte verso i guadi e le barche. Kutuzov s’era fatto portare dall’altra parte della Moskva per vie remote.

Alle dieci del mattino del 2 settembre, nel sobborgo di Dorogomilovskoe, restavano soltanto le truppe della retroguardia. L’esercito era già dall’altra parte della Moskva e di là da Mosca.

A quella stessa ora, alle dieci del mattino del 2 settembre, Napoleone s’era fermato fra le sue truppe sul monte Poklonnaja e osservava lo spettacolo che si spalancava davanti ai suoi occhi. A partire dal 26 agosto e fino al 2 settembre, dalla battaglia di Borodino fino all’ingresso del nemico in Mosca, durante tutta quella tumultuosa, memorabile settimana, s’era sempre mantenuto quell’eccezionale, stupefacente tempo autunnale, quando il sole basso scalda più che in primavera, quando tutto brilla nell’aria pura e rarefatta fino a ferire gli occhi, quando il petto si rinfranca e si allarga aspirando il profumo dell’aria, e anche le notti sono tiepide, e in queste buie, tiepide notti, dal cielo cadono incessantemente stelle lucenti, riempiendo l’uomo di timore e di gioia.

Alla vista di quella strana città, dalle strane forme della sua insolita architettura, Napoleone provava quella curiosità un po’ invidiosa e inquieta che gli uomini provano alla vista delle forme di una vita estranea e che li ignora. Era evidente che quella città viveva, e viveva nel pieno di tutte le sue energie vitali. In base a quegli indizi indefiniti, grazie ai quali anche a grande distanza si riconosce senza tema d’errore un corpo vivo da uno morto, dal monte Poklonnaja Napoleone sentiva il palpitare della vita nella città e quasi avvertiva il respiro di quel grande e magnifico corpo.

Ogni russo, guardando Mosca, prova la sensazione di trovarsi al cospetto di una madre; ogni straniero, guardandola e ignorandone il carattere materno, deve però sentirne almeno la femminilità: questo accadde anche a Napoleone.

«Cette ville asiatique aux innombrables églises, Moscou la sainte! La voilà donc enfin, cette fameuse ville! Il était temps…» disse Napoleone e, smontato da cavallo, diede ordine che gli spiegassero davanti la pianta topografica di quella Moscou, e chiamò a sé l’interprete Lelorme d’Ideville. «Une ville occupée par l’ennemi ressemble à una fille qui a perdu son honneur,» pensava (come aveva già detto a Tučkov a Smolensk).

E in questo stato d’animo continuava a guardare la bella orientale che mai aveva visto e che giaceva distesa ai suoi piedi. Sembrava strano perfino a lui che si fosse finalmente esaudito l’antico suo desiderio, che un tempo gli era sembrato irrealizzabile. Nella limpida luce del mattino guardava ora la città, ora la carta, verificando in essa i particolari della città, e la sicurezza del possesso lo emozionava e lo spaventava.