PARTE TERZA

I

Il principe Vasilij non meditava i suoi disegni. Men che meno pensava di nuocere agli altri per trarne profitto personale. Era soltanto un uomo di mondo, che aveva successo nell’alta società e a questo successo aveva fatto l’abitudine. A seconda delle circostanze e dei suoi rapporti col prossimo, nascevano in lui progetti e piani, di cui egli stesso non si rendeva pienamente conto, ma che costituivano l’interesse esclusivo della sua vita. Nella sua mente, questi progetti e piani in corso non erano mai solo uno o due, ma decine nello stesso tempo, e mentre alcuni cominciavano soltanto a balenargli, altri venivano attuati, altri ancora accantonati. Egli non si diceva, per esempio: «Quest’uomo adesso è sulla cresta dell’onda, devo conquistarmi la sua fiducia e la sua amicizia e attraverso di lui procurarmi la concessione di una sovvenzione straordinaria,»!e nemmeno: «Ecco, Pierre è ricco, devo indurlo a sposare mia figlia e a prestarmi i quarantamila rubli che mi servono;» ma nel momento stesso in cui incontrava un uomo in auge, l’istinto gli suggeriva che costui poteva essere utile, e lui alla prima occasione se lo faceva amico, senza deliberazione, per istinto. Lo adulava, stabiliva un rapporto cordiale e alla fine gli parlava di ciò che gli stava a cuore.

A Mosca Pierre gli era sottomano, e il principe Vasilij trovò il modo di farlo nominare gentiluomo di camera, una qualifica che allora equivaleva al grado di consigliere di stato, e insistette affinché il giovane si recasse con lui a Pietroburgo, ospite a casa sua. Con modi in apparenza noncuranti, ma nello stesso tempo con l’assoluta certezza che così dovesse essere, il principe Vasilij fece tutto il possibile affinché Pierre sposasse sua figlia. Se il principe Vasilij avesse premeditato i suoi piani, non avrebbe potuto essere così naturale nel tratto, così semplice e familiare nei rapporti con tutti, fossero più in alto o più in basso di lui. Qualcosa lo attirava immancabilmente verso le persone più forti o più ricche, ed egli era dotato dell’arte rara di cogliere l’esatto momento in cui si deve e si può trar vantaggio dagli altri.

Pierre, divenuto inopinatamente il ricchissimo conte Bezuchov, dopo il recente periodo di solitudine e di spensieratezza si era trovato così occupato e a tal punto circondato di gente che soltanto quando si coricava riusciva a restare solo con se stesso. Doveva firmare carte, trattare con uffici pubblici di cui non capiva bene l’importanza, domandare sempre qualcosa al suo amministratore, recarsi nella sua tenuta presso Mosca e ricevere una quantità di persone che prima desideravano soltanto ignorare la sua esistenza e adesso si sarebbero sentite offese e amareggiate se egli avesse rifiutato di vederle. Tutti questi eterogenei personaggi - uomini d’affari, parenti, conoscenti - si mostravano in egual misura ben disposti e affettuosi con il giovane erede, e tutti erano convinti, nel modo più palese e indubitabile, delle alte qualità di Pierre. Egli si sentiva ripetere di continuo: «Con la vostra eccezionale bontà», oppure: «Con il vostro cuore così generoso», oppure: «Voi siete così perfetto, conte…» oppure: «Se quell’uomo avesse la vostra intelligenza», e così via; sicché Pierre cominciava davvero a credere nella propria eccezionale bontà e nella propria eccezionale intelligenza, tanto più che sempre, nel profondo dell’anima, gli era sembrato di essere realmente molto buono e molto intelligente. Perfino le persone che prima con lui si erano mostrate cattive e chiaramente ostili, adesso si erano fatte tenere e amorevoli. La principessina maggiore, così scontrosa, con la sua vita troppo lunga e i capelli tesi come quelli di una bambola, dopo i funerali era entrata nella camera di Pierre. Chinando gli occhi e arrossendo in continuazione, gli aveva dichiarato di essere molto dolente degli equivoci che erano sorti fra di loro, e che adesso non si sentiva in diritto di chieder nulla, tranne forse il permesso, dopo la sciagura che l’aveva abbattuta, di restare per qualche settimana ancora nella casa che amava tanto e dove aveva sopportato tanti sacrifici. A questo punto non aveva saputo trattenersi ed era scoppiata a piangere. Commosso dal fatto che quella donna simile a una statua avesse potuto trasformarsi a tal punto, Pierre la prese per mano e le chiese scusa, senza saperne nemmeno lui la ragione. Da quel giorno la principessina aveva cominciato a lavorare per Pierre a una sciarpa a righe e nei suoi confronti mutò completamente.

«Fallo per lei, mon cher. Nonostante tutto ha sopportato ogni sorta di cose da parte del defunto,» gli disse il principe Vasilij, dandogli da firmare una certa carta a vantaggio della principessina.

Il principe Vasilij aveva deciso che era necessario buttare quell’osso - un assegno di trentamila rubli - alla principessina, per dissuaderla dal diffondere la notizia della funzione che lui aveva avuto nella faccenda del portafoglio a mosaico. Pierre firmò l’assegno, e da quel giorno la principessina si mostrò con lui ancor più tenera. Anche le sorelle minori erano diventate affettuose; soprattutto la più giovane, quella graziosa, con il neo, spesso sconcertava Pierre con i suoi sorrisi e il turbamento che mostrava quando le accadeva di vederlo.

A Pierre sembrava naturale che tutti gli volessero bene; gli sarebbe parso così assurdo che qualcuno non gli volesse bene, che non poteva non credere nella sincerità delle persone dalle quali era circondato. E poi non aveva il tempo di porsi domande sulla sincerità o ipocrisia di quella gente. Non aveva mai tempo e si sentiva sempre in preda a uno stato di beatitudine e di ebbrezza. Si sentiva il perno di un movimento generale e importante; sentiva che da lui ci si attendeva sempre qualcosa; che, se non avesse fatto una certa cosa, avrebbe amareggiato molte persone e le avrebbe private di ciò che si aspettavano, mentre, se avesse fatto questa cosa o quest’altra, tutto sarebbe andato bene. Così faceva quello che gli veniva richiesto, ma quel certo «bene» quell’atteso soddisfacimento restava sempre di là da venire.

In questo primo periodo, degli affari di Pierre e della sua stessa persona s’impossessò più di ogni altro il principe Vasilij. Dal giorno della morte del vecchio conte Bezuchov egli non mollò più Pierre. Il principe Vasilij aveva l’atteggiamento di un uomo oberato dagli affari, stanco, sfinito, ma che per altruismo non poteva, insomma, abbandonare all’arbitrio della sorte e degli imbroglioni quel giovanotto inerme, figlio, après tout, d’un suo amico, e dotato di un così immenso patrimonio. Nei pochi giorni trascorsi a Mosca dopo la morte del conte Bezuchov, egli aveva spesso convocato Pierre o si era recato da lui di persona, e gli indicava quel che andava fatto in un tono di così annoiata sufficienza da parere che ogni volta dicesse: «Vous savez que je suis accablé d’affaires et que ce n’est que par pure charité, que je m’occupe de vous, et puis vous savez bien, que ce que je vous propose est la seule chose faisable

«Ebbene, mio caro, finalmente domani partiamo,» gli disse una volta, chiudendo gli occhi, e palpandogli con le dita il gomito, come se quello che diceva fosse stato deciso fra loro da un pezzo e non potesse essere altrimenti.

«Domani partiamo, ti do un posto nella mia carrozza. Sono molto contento. Qui, quel che c’era d’importante ormai è concluso, e io avrei già dovuto esser partito da un pezzo. Guarda, che cosa ho ricevuto dal cancelliere: gli avevo rivolto una preghiera per te, ed eccoti assunto nel corpo diplomatico e nominato gentiluomo di camera. Ora si è aperta la carriera diplomatica.»

Nonostante l’autorità del tono di stanchezza e di sussiego col quale erano state pronunciate queste parole, Pierre, che tanto a lungo aveva riflettuto alla sua carriera, avrebbe voluto replicare. Ma il principe Vasilij gli tolse la parola con quella sua tubante voce di basso che eliminava ogni possibilità d’interromperlo e alla quale faceva ricorso quando aveva bisogno di un mezzo estremo di persuasione.

«Mais, mon cher, l’ho fatto per me, per la mia coscienza; non c’è motivo di ringraziarmi. Nessuno a questo mondo s’è mai lagnato che gli volessero troppo bene. E poi tu sei libero, puoi piantar tutto, anche domani stesso. Ma vedrai da te, a Pietroburgo. È tempo, ormai, di allontanarti da questi orribili ricordi.» E il principe Vasilij sospirò. «Già, proprio così, mio caro. Il mio cameriere potrà viaggiare nella tua carrozza. Ah, stavo per dimenticarmene,» aggiunse ancora, «tu sai, mon cher, che c’erano dei conti in pendenza tra me e il defunto, così quello che ho riscosso dai possedimenti di Rjazan’ l’ho trattenuto. A te non serve. Faremo i conti dopo.»

Ciò che il principe Vasilij designava come «i possedimenti di Rjazan’», si traduceva in alcune migliaia di rubli di contributi annui che egli tratteneva per sé.

A Pietroburgo, esattamente come a Mosca, Pierre si trovò circondato da una turba di gente cordiale e premurosa. Egli non poté rifiutare il posto, o meglio il titolo (perché non aveva niente da fare) che gli aveva procurato il principe Vasilij; e le conoscenze, gli inviti, gli impegni sociali erano tanti che Pierre, ancor più che a Mosca, provava una sensazione d’annebbiamento, di frenesia, e di un bene sempre imminente ma che non giungeva mai.

Molti della sua vecchia compagnia di scapoli mancavano da Pietroburgo. La Guardia era partita per la guerra, Dolochov era stato degradato, Anatol’ era aggregato a un reggimento in provincia, il principe Andrej era all’estero; cosicché Pierre non poteva più trascorrere le sue notti come gli piaceva trascorrerle un tempo, né consolarsi di tanto in tanto conversando con un amico più anziano al quale portasse la sua stima. Tutto il suo tempo trascorreva in pranzi, in balli, e soprattutto in casa del principe Vasilij: in compagnia della grassa principessa sua moglie e della bellissima Hélène.

Anche Anna Pavlovna Šerer, come tutti gli altri, rivelava a Pierre il cambiamento avvenuto nei suoi confronti nell’opinione della società.

Prima, in presenza di Anna Pavlovna, Pierre sentiva sempre che quanto diceva riusciva sconveniente, goffo, inadatto alla circostanza; che quei discorsi, che gli parevano così intelligenti mentre li andava elaborando nella sua mente, diventavano stupidi non appena li proferiva ad alta voce, e che, al contrario, i più ottusi discorsi di Ippolit riuscivano graditi e accattivanti. Adesso, qualunque cosa dicesse, tutto riusciva charmant. Se anche Anna Pavlovna non lo diceva, egli tuttavia vedeva che avrebbe voluto dirlo e che si tratteneva soltanto per rispetto alla sua modestia.

Al principio dell’inverno 1805-1806 Pierre ricevette da Anna Pavlovna il solito biglietto rosa d’invito con l’aggiunta di queste parole: «Vous trouverez chez moi la belle Hélène, qu’on ne se lasse jamais de voir

Nel leggere queste righe, Pierre per la prima volta si rese conto che fra lui ed Hélène si era stabilito un certo legame, riconosciuto anche dagli altri, e questo pensiero da un lato lo spaventava, come se fosse un obbligo al quale non era in grado di assolvere, da un altro lo solleticava come un’ipotesi piacevole.

La serata da Anna Pavlovna fu identica alla prima; solo che, come primizia, questa volta Anna Pavlovna offrì ai suoi invitati, al posto di Mortemart, un diplomatico giunto da Berlino con gli ultimi particolari sul soggiorno dell’imperatore Alessandro a Potsdam e sul reciproco giuramento dei due sovrani amici di difendere, in forza di un’indissolubile alleanza, la giusta causa contro il nemico del genere umano. Pierre fu accolto da Anna Pavlovna con una sfumatura di tristezza, che evidentemente doveva riferirsi alla recente sventura che aveva colpito il giovane, ossia alla morte del conte Bezuchov (tutti consideravano sempre loro stretto dovere indurre Pierre a credersi molto afflitto per la morte di un padre che egli non aveva quasi conosciuto), - e di una tristezza del tutto simile a quella che ella esprimeva quando nominava l’augustissima imperatrice Mar’ja Fêdorovna. Pierre ne fu lusingato. Anna Pavlovna aveva disposto i piccoli gruppi del suo salotto con la consueta abilità. Il gruppo più numeroso, dove si trovavano il principe Vasilij e i generali, godeva della presenza del diplomatico. Un altro gruppo sedeva al tavolo del tè. Pierre avrebbe voluto unirsi al primo, ma Anna Pavlovna, che era nello stato di eccitazione di un condottiero sul campo di battaglia quando vengono mille nuove idee brillanti ma si stenta a metterle in pratica, vedendo Pierre lo toccò sulla manica con un dito.

«Attendez, j’ai des vues sur vous pour ce soir!» Gettò un’occhiata a Hélène e le sorrise.

«Ma bonne Hélène, il faut que vous soyez charitable pour ma pauvre tante, qui a une adoration pour vous. Allez lui tenir compagnie pour dix minutes. E perché non abbiate ad annoiarvi troppo, eccovi il caro conte che non si rifiuterà di seguirvi.»

La bella si diresse verso la zietta, ma Pierre venne trattenuto ancora da Anna Pavlovna, che aveva l’aria di chi deve dare un’ultima disposizione.

«Non è affascinante, forse?» disse a Pierre, indicando quella maestosa beltà che si allontanava con mosse flessuose. «Et quelle tenue! E per una ragazza così giovane, che garbo, che nobiltà di tratto! Sono cose che vengono dal cuore! Fortunato l’uomo che la farà sua! Con lei anche il meno mondano dei mariti, senza volerlo si troverà ad occupare la più brillante posizione nel gran mondo. Non siete d’accordo? Volevo soltanto conoscere la vostra opinione.» E Anna Pavlovna lo lasciò libero.

Pierre era sincero rispondendo ad Anna Pavlovna che conveniva con lei circa il portamento e il tratto di Hélène. Se qualche volta gli accadeva di pensare ad Hélène, pensava appunto alla sua bellezza e a quella sua eccezionale, pacata tranquillità con la quale sapeva stare in società con dignitoso silenzio.

La zietta accolse nel suo angolo i due giovani; pareva voler nascondere la propria adorazione per Hélène e manifestare piuttosto un certo timore nei confronti di Anna Pavlovna. Sbirciava la nipote come per domandarle come dovesse comportarsi con quei due. Prima di allontanarsi da loro, Anna Pavlovna toccò di nuovo con un dito la manica di Pierre e disse:

«J’espère que vous ne direz plus qu’on s’ennuie chez moi,» e gettò un’occhiata a Hélène.

Hélène ebbe un sorriso che significava come per lei fosse inammissibile che qualcuno potesse guardarla senza restare incantato. La zietta tossì, inghiottì saliva e disse in francese che era molto contenta di vedere Hélène; poi si rivolse a Pierre con lo stesso complimento e con l’identica espressione. Nel mezzo della conversazione, noiosa e stentata, Hélène si volse verso Pierre e gli sorrise con quello splendido, limpido sorriso col quale sorrideva a tutti. Pierre era così assuefatto a questo sorriso, diceva così poco ai suoi occhi, che non vi fece alcun caso. In quel momento, la zietta stava parlando della collezione di tabacchiere che possedeva il defunto padre di Pierre, il conte Bezuchov, e mostrò la propria tabacchiera. Allora la principessina Hélène chiese di vedere il ritratto del marito della zietta, dipinto sul coperchio.

«Deve averlo fatto Vinesse,» disse Pierre, nominando il celebre miniaturista, e si chinò ad esaminare la tabacchiera, mentre porgeva l’orecchio alla conversazione che si svolgeva all’altro tavolo.

Si alzò per girare intorno al tavolo, ma la zietta gli porse la tabacchiera direttamente, da dietro le spalle di Hélène. Hélène si piegò in avanti per far posto e si guardò attorno sorridendo. Come sempre ai ricevimenti, portava un abito molto scollato sul seno e sulle spalle, secondo la moda di quel tempo. Il suo busto, che a Pierre era sempre apparso marmoreo, si trovava a una distanza così ravvicinata rispetto ai suoi occhi, che senza volerlo anche i suoi occhi miopi distinguevano la grazia viva delle spalle e del collo; ed era così vicino alle sue labbra che gli sarebbe bastato chinarsi appena per sfiorarlo. Percepiva il calore del corpo di lei, l’effluvio dei profumi e lo scricchiolio del corsetto quando lei si muoveva. Vedeva non già la sua marmorea bellezza, che faceva tutt’uno con l’abito; vedeva e sentiva tutto il fascino del corpo di lei, nascosto solo dall’abito. E avendolo visto una volta, non poté più vederla altrimenti, così come non si può più credere a un inganno quando questo è ormai svelato.

«Dunque fino ad ora non vi eravate accorto come sono bella?» sembrava dire Hélène. «Non vi eravate accorto che sono una donna? Sì, io sono una donna che può appartenere a chiunque; e anche a voi,» diceva il suo sguardo. E, nello stesso istante, Pierre sentì che Hélène non soltanto poteva, ma doveva diventare sua moglie; che non poteva essere diversamente.

In quell’istante lo seppe con la stessa sicurezza con cui l’avrebbe saputo se si fosse trovato con lei sotto il venèc. Come sarebbe successo e quando, non lo sapeva; non sapeva neppure se sarebbe stato bene (aveva persino la sensazione che, chissà perché, sarebbe stato male), ma sapeva che così sarebbe stato.

Pierre abbassò gli occhi, li alzò nuovamente e di nuovo avrebbe voluto guardarla come una bella donna, lontana, a lui del tutto estranea, come l’aveva guardata ogni giorno prima di quella sera. Ma ora non poteva più. Non ci riusciva, allo stesso modo che una persona che vede nella nebbia uno stelo di bur’jan e lo scambia per un albero, non può più, dopo essersi resa conto che si tratta di uno stelo, tornare a ravvisarvi un albero. Lei gli era terribilmente vicina. Lei aveva già un potere su di lui. E fra lei e lui non si frapponeva alcun ostacolo, se non gli ostacoli della sua stessa volontà.

«Bon, je vous laisse dans votre peut coin. Je vois que vous y êtes très bien,» disse la voce di Anna Pavlovna.

E Pierre, cercando con terrore di ricordarsi se per caso non avesse fatto qualcosa di sconveniente, arrossì e si guardò in giro. Gli sembrava che tutti sapessero, come lui sapeva, ciò che gli era accaduto.

Dopo un po’ di tempo, quando si avvicinò al gruppo più numeroso, Anna Pavlovna gli disse:

«On dit que vous embellissez votre maison de Pétersbourg.» (Era la verità: l’architetto aveva detto ciò che era necessario fare, e Pierre, senza sapere nemmeno lui perché, aveva cominciato a restaurare la sua enorme casa di Pietroburgo.) «C’est bien, mais ne déménagez pas de chez le prince Basile. Il est bon d’avoir un ami comme le prince,» disse lei sorridendo al principe Vasilij. «J’en sais quelque chose. N’est-ce pas? E poi voi siete ancora così giovane! Avete bisogno di consigli. Non inquietatevi con me se approfitto dei miei diritti di vecchia.» Tacque come tutte le donne tacciono, aspettando un’obiezione, quando accennano alla loro età. «Se poi vi sposerete, sarà un’altra cosa.» E fuse Pierre ed Hélène in un unico sguardo.

Pierre non guardò Hélène, né Hélène guardò Pierre. Ma lei gli era sempre terribilmente vicina. Egli farfugliò qualcosa e si fece rosso.

Tornato a casa, Pierre per un pezzo non riuscì ad addormentarsi, pensando a quello che gli era accaduto. Ma che cosa gli era accaduto? Nulla. Aveva semplicemente capito che una donna che egli aveva conosciuto bambina e della quale diceva distrattamente «Sì, è bella», ogni volta che qualcuno alludeva alla bellezza di Hélène, poteva appartenergli.

«Ma è una sciocca, l’ho sempre detto anch’io che è una sciocca,» pensava. «C’è qualcosa di abietto nel sentimento che ha suscitato in me, qualcosa di proibito. Mi hanno detto che suo fratello Anatol’ era innamorato di lei, e lei era innamorata di lui, che c’è stata tutta una losca storia e per questo hanno allontanato Anatol’. L’altro fratello è Ippolit… Suo padre è il principe Vasilij… No, tutto questo non va bene,» pensava. Ma mentre ragionava così (e questi ragionamenti restavano incompiuti), si sorprendeva a sorridere e si rendeva conto che un’altra serie di ragionamenti affiorava da sotto i primi, che egli considerava la vuotaggine di lei e al tempo stesso vagheggiava la possibilità che diventasse sua moglie, che lei potesse amarlo, che avrebbe potuto mutare; e parimenti pensava che il giudizio suo e di tanti altri sul suo conto potesse anche essere ingiusto. E di nuovo cessava di vederla come figlia del principe Vasilij, ma rivedeva tutto il suo corpo, nascosto soltanto dal suo abito da sera grigio. «Ma no, come mai prima di oggi non mi era mai venuto un pensiero simile?» E di nuovo si ripeteva che era una cosa impossibile, che in quel matrimonio c’era qualcosa di abietto, d’innaturale, di disonesto. Ricordava le parole e gli sguardi di lei di poco prima, le parole e gli sguardi di chi li aveva osservati insieme. Ricordava le parole e gli sguardi di Anna Pavlovna mentre gli parlava della sua casa; ricordava le innumerevoli allusioni del principe Vasilij e di tutti gli altri, e lo assaliva il terrore d’essersi forse già impegnato a compiere un’azione in cui evidentemente c’era il male e alla quale lui avrebbe dovuto rifiutarsi. Ma mentre Pierre arrivava a questa conclusione, da un’altro punto dell’anima emergeva l’immagine di lei in tutta la sua bellezza di donna.

II

Nel novembre del 1805 il principe Vasilij dovette partire per un giro d’ispezione in quattro governatorati. Si era procurato questo incarico per poter visitare, nell’occasione, anche le sue proprietà che erano gravate di debiti, e intendeva prender con sé il figlio Anatol’ (nel luogo dove si trovava il suo reggimento), allo scopo di recarsi con lui dal principe Nikolaj Andreevič Bolkonskij, e avviare così le trattative per il matrimonio del figlio con la figlia di quel ricco vegliardo. Ma, prima della partenza e di queste nuove incombenze, il principe Vasilij doveva definire la faccenda con Pierre il quale, anche se negli ultimi tempi passava intere giornate a casa, ossia dal principe Vasilij presso il quale abitava, e in presenza di Hélène appariva ridicolo, agitato e stupido (come dev’essere un innamorato), non aveva ancora avanzato alcuna domanda di matrimonio.

«Tuot ça est bel et bon, mais il faut que ça finisse!» si disse una mattina il principe Vasilij con un sospiro di sconforto, rendendosi conto che Pierre, il quale - che Dio lo benedica - gli doveva tanto, non si comportava in quella questione nel modo dovuto. «La giovinezza… la leggerezza… ammettiamo pure,» pensava il principe Vasilij, compiacendosi di sentirsi così pieno di bontà, «mais il faut que ça finisse. Dopodomani è l’onomastico di Lëlja; inviterò qualcuno, e, se lui non capirà ancora quel che deve fare, ci penserò io. Sì, sarà compito mio; dopo tutto io sono il padre!»

Nel mese e mezzo trascorso dalla serata di Anna Pavlovna e dall’insonne, agitata notte che le era seguita - durante la quale aveva concluso che il matrimonio con Hélène sarebbe stato una sciagura e che era necessario evitarlo e andarsene - Pierre, non si era tuttavia deciso a lasciare la casa del principe Vasilij e con spavento aveva compreso che di giorno in giorno agli occhi della gente, egli andava sempre più legandosi a lei, che non era più assolutamente in grado di tornare all’opinione che di Hélène aveva avuto e che da Hélène non riusciva neppure a staccarsi. Per quanto orribile, avrebbe unito a lei il proprio destino. Forse sarebbe ancora riuscito ad astenersene, ma non passava giorno senza che in casa del principe Vasilij (che pure di rado dava ricevimenti) non ci fosse una serata alla quale Pierre doveva presenziare se non voleva turbare la gioia generale e deludere l’aspettativa di tutti. Nei rari momenti in cui era a casa, il principe Vasilij, passando accanto a Pierre, lo tirava per un braccio verso il basso, porgendo distrattamente al suo bacio la guancia rugosa e rasata, e gli diceva: «a domani», oppure: «andiamo a pranzo assieme, altrimenti non riesco a vederti», oppure: «resto apposta per te», e così via. E anche se il principe, quando restava apposta (come diceva), non scambiava con lui nemmeno due parole, Pierre non aveva la forza di deludere la sua attesa. Ogni giorno egli si ripeteva sempre la stessa cosa: «Devo decidermi a fare uno sforzo per capirla, e darmi una risposta: chi è lei, in fin dei conti? Mi sbagliavo prima o mi sbaglio adesso? No, lei non è una stupida; no, è una ragazza meravigliosa!» si diceva talvolta. «Non sbaglia mai in nulla, non ha mai detto niente di stupido. Parla poco, ma quello che dice è sempre semplice e chiaro; dunque, non è stupida. Non si è turbata e non si turba mai. Dunque, non è cattiva!» Spesso gli accadeva di mettersi a parlare con lei, di pensare ad alta voce, e ogni volta lei gli rispondeva con una osservazione breve ma pertinente, e che dimostrava come la cosa per lei fosse senza interesse; oppure con un sorriso silenzioso e con uno sguardo che più eloquentemente di ogni altra cosa mostravano a Pierre la di lei superiorità. Ella aveva ragione di considerare qualunque ragionamento un’assurdità, in confronto a quel suo sorriso.

Gli si rivolgeva sempre con un sorriso felice, fiducioso, rivolto a lui solo, che esprimeva qualcosa di più del sorriso generico che abbelliva di continuo il suo viso. Pierre sapeva che tutti aspettavano soltanto che lui dicesse finalmente una parola, varcasse una certa linea, e sapeva che presto o tardi l’avrebbe varcata; ma una sorta di indefinibile sgomento s’impadroniva di lui al solo pensiero di quel terribile passo. Mille volte nel corso di quel mese e mezzo, durante il quale si era sentito trascinato sempre più in quell’abisso che lo atterriva, Pierre si era detto: «Ma cosa succede? Devo decidermi! Non ne sono capace, forse?»

Voleva decidersi, ma sentiva con spavento che in questa circostanza gli veniva meno la risolutezza che sapeva di possedere e che in effetti possedeva. Pierre apparteneva a quel genere di persone che sono forti solo quando si sentono assolutamente pure. E, dal giorno in cui s’era impadronita di lui quella sensazione di desiderio che aveva provato nel salotto di Anna Pavlovna, mentre era chino a esaminare la tabacchiera, la sensazione di colpevolezza che gli dava quel suo impulso incontrollato paralizzava la sua risolutezza.

Il giorno dell’onomastico di Hélène cenava dal principe Vasilij un piccolo gruppo di persone scelte fra le più intime, come diceva la principessa: parenti e amici, ai quali si era lasciato comprendere che in quel giorno doveva decidersi la sorte della festeggiata. Gli ospiti sedettero a tavola. La principessa Kuragina, una donna imponente, formosa, che un tempo era stata anche bella, sedeva al suo posto di padrona di casa. Accanto a lei sedevano, sui due lati, gli invitati di maggior riguardo: un vecchio generale, sua moglie e Anna Pavlovna Šerer; all’estremità della tavola sedevano gli invitati meno anziani e di minor riguardo, e fra questi anche le persone di casa. Pierre ed Hélène sedevano l’uno accanto all’altra. Il principe Vasilij non cenava; passeggiava intorno alla tavola; era di ottimo umore e sedeva ora presso un invitato, ora presso l’altro. A ognuno diceva con noncuranza qualche parola garbata, salvo che a Pierre ed Hélène, della cui presenza pareva non accorgersi. Il principe Vasilij animava tutti. Le candele di cera ardevano di vivida luce, le argenterie, la cristalleria, le toilettes delle signore, l’oro e l’argento delle spalline scintillavano. Si udiva il tintinnio dei coltelli, dei bicchieri, dei piatti e le note dell’animato brusio delle varie conversazioni che si intrecciavano alla tavola. A un’estremità della tavola si sentiva un vecchio gentiluomo di corte assicurare una vecchia baronessa del suo ardente amore per lei e la risata della sua interlocutrice; all’altra estremità, il racconto degl’insuccessi amorosi di una certa Mar’ja Viktorovna. Al centro della tavola il principe Vasilij aveva riunito attorno a sé vari ascoltatori. Le labbra atteggiate a un sorriso scherzoso, egli raccontava alle signore l’ultima seduta - svoltasi quel mercoledì - del consiglio di stato, durante la quale era stato ricevuto e letto da Sergej Kuz’miè Vjazmitinov, il nuovo governatore militare di Pietroburgo, l’allora famoso proclama di Alessandro 1, nel quale l’imperatore, rivolgendosi a Sergej Kuz’miè, affermava che da ogni parte riceveva attestazioni di devozione del popolo e che la dichiarazione giuntagli da Pietroburgo gli era particolarmente gradita; che egli era orgoglioso dell’onore di essere il capo di una simile nazione e si sarebbe sforzato di esserne degno. Il proclama cominciava con le parole: «Sergej Kuz’miè! Da ogni parte mi giungono voci…» eccetera, eccetera.

«Sicché non si è andati oltre quel “Sergej Kuz’miè”?» domandò una, signora.

«Nemmeno di una parola,» rispose ridendo il principe Vasilij, «Sergej Kuz’miè… da ogni parte. Da ogni parte, Sergej Kuz’miè… il povero Vjazmitinov non è riuscito assolutamente a proseguire. Ha ricominciato parecchie volte a leggere da capo il messaggio ma, non appena diceva “Sergej”, un nodo di pianto lo fermava. “Ku-z’mi… è”, riprendeva, e giù lacrime… e i singhiozzi che lo soffocavano e gl’impedivano di andare avanti. E di nuovo dava di piglio al fazzoletto, tornava a dire “Sergej Kuz’miè, da ogni parte…”, e da capo si metteva a piangere. Alla fine hanno dovuto pregare un altro di leggere in sua vece.»

«Kuz’miè… da ogni parte… e lui si metteva a piangere!…» ripeté qualcuno ridendo.

«Non siate cattivo,» esclamò dall’altra estremità della tavola Anna Pavlovna minacciando il principe Vasilij con un dito, «c’est un si brave et excellent homme notre bon Vjasmitinoff…»

Tutti ridevano. Al capo dalla tavola dove sedevano gli ospiti di riguardo, tutti parevano allegri e sotto l’influsso dei più diversi e vivaci stati d’animo; al capo opposto, solo Pierre ed Hélène sedevano silenziosi l’uno accanto all’altro; sui loro visi era stampato un sorriso radioso, che però non era legato all’episodio di Sergej Kuz’miè; ma voleva essere un sorriso che esprimeva il pudore dei propri sentimenti. Qualsiasi cosa dicessero gli altri, per quanto ridessero e scherzassero, assaporando il vino del Reno, o il sauté, o il gelato, per quanto evitassero di guardare la coppia e affettassero indifferenza e disinteresse ai suoi riguardi, si sentiva chissà perché, dagli sguardi gettati ogni tanto verso di loro che tutto - la storiella di Kuz’miè, le risate, il cibo - tutto era un pretesto, che l’attenzione generale era concentrata su loro due: su Pierre ed Hélène. Il principe Vasilij imitava i singhiozzi di Sergej Kuz’mièe nello stesso tempo con lo sguardo correva alla figlia; e mentre rideva, l’espressione del suo volto diceva: «Tutto procede bene; oggi si deciderà ogni cosa.» Anna Pavlovna lo ammoniva a non dileggiare notre bon Vjasmitinoff, ma nei suoi occhi, che in quel momento si posavano fugacemente su Pierre, il principe Vasilij leggeva gli auguri per il futuro genero e per la felicità della figliola. La vecchia principessa, offrendo del vino con un sospiro malinconico alla sua vicina e gettando un’occhiata amara alla figlia, con quel sospiro sembrava dire: «Sì, ormai a noi due non è rimasto altro che berci questo vin dolce, mia cara; ora tocca a questa gioventù d’essere felice, in modo così insolente e provocante.»

«Che stupidaggini sono tutte quelle che sto raccontando, come se me ne importasse qualcosa,» pensava un diplomatico sbirciando le facce radiose dei due innamorati, «ecco qual è la felicità!»

In mezzo agli interessi meschini e artificiosi che legavano quella gente, era piombato come per caso il semplice sentimento d’attrazione reciproca di un uomo e di una donna, giovani, belli e sani. E questo sentimento umano schiacciava tutto e si librava su tutto quel chiacchiericcio artificioso. Gli scherzi non erano gai, le novità non erano interessanti, l’animazione era palesemente simulata. Non soltanto gli ospiti, ma perfino i domestici che servivano a tavola parevano accorgersene e dimenticavano le regole del servizio, lanciando occhiate alla bellissima Hélène, al suo volto raggiante e alla faccia accesa, grassa, felice e preoccupata di Pierre. Pareva che perfino le luci delle candele fossero concentrate soltanto su quei due volti felici.

Pierre avvertiva di essere al centro dell’attenzione, e ciò lo rallegrava e lo imbarazzava insieme. Si sentiva come una persona immersa in un’occupazione che l’assorbe tutta. Non vedeva nulla con chiarezza, non capiva, non sentiva. Solo a tratti, inopinatamente, balenavano al suo spirito pensieri e impressioni frammentari provenienti dalla realtà.

«Così tutto è finito!» pensava. «E com’è accaduto? Così presto! Adesso so che non soltanto per lei, non soltanto per me, ma anche per tutti gli altri questo deve inevitabilmente accadere. Tutti aspettano questo a tal punto, sono così convinti che accadrà, che io non posso, non posso assolutamente ingannarli. Ma come accadrà? Non lo so; ma accadrà, fatalmente accadrà!» pensava Pierre sbirciando quelle spalle che splendevano proprio sotto i suoi occhi.

Oppure, di colpo, si sentiva assalito da un senso di vergogna. Provava disagio per essere così al centro dell’attenzione, per essere un uomo felice agli occhi degli altri, per essere, con la sua fisionomia non certo bella, una specie di Paride padrone di Elena. «Ma si vede che accade sempre così, che così dev’essere,» si consolava. «E, del resto, che cos’ho fatto io per questo? Quando è incominciato? Sono partito da Mosca con il principe Vasilij. Allora non era ancora accaduto nulla. Poi, per qualche ragione che non so, mi sono fermato a casa sua. Ho giocato a carte con lei e ho raccolto il suo ridicule; insieme siamo andati a pattinare. Quando è cominciato tutto, dunque? Quando è successo tutto questo?» Ed eccolo seduto accanto a lei come fidanzato; ascolta, vede, sente la vicinanza di lei, il suo respiro, le sue mosse, la sua bellezza. D’improvviso, invece, gli sembrava che non lei ma lui fosse così incredibilmente bello, e che tutti lo guardassero per questo; allora, felice dell’ammirazione generale, raddrizzava il petto, sollevava la testa e gioiva della propria felicità. Poi una voce, la voce di qualcuno che conosceva, gli risuonava nell’orecchio e gli diceva qualcosa per la seconda volta. Ma Pierre era così assorto che non capiva cosa gli stessero dicendo.

«Ti sto domandando quando hai ricevuto la lettera di Bolkonskij,» ripeteva per la terza volta il principe Vasilij. «Come sei distratto, mio caro.»

Il principe Vasilij sorrise e Pierre vide che tutti, tutti sorridevano a lui e ad Hélène. «Be’, che cosa ci posso fare, se lo sapete tutti?» si disse Pierre. «Che cosa vi posso dire? è vero!» Sorrise anche lui, col suo mite, infantile sorriso; e anche Hélène sorrideva.

«Quando l’hai ricevuta? È scritta da Olmütz?» ripeté il principe Vasilij come se gli occorresse saperlo per risolvere una discussione in corso.

«Come si può pensare e parlare di simili stupidaggini?» pensava Pierre.

«Sì, da Olmütz,» rispose con un sospiro.

Dopo la cena Pierre seguì gli altri in salotto, accompagnando la sua dama. Gli invitati cominciarono ad andarsene; qualcuno se ne andò via senza accomiatarsi da Hélène; altri, come se non volessero distrarla da una occupazione importante, le si avvicinavano per un momento e se ne andavano subito, dispensandola dall’accompagnarli. Il diplomatico, uscendo dal salotto, era immerso in un mesto silenzio. La sua carriera gli appariva tutta la sua vanità, in confronto alla felicità di Pierre. Il vecchio generale brontolò inquieto con sua moglie quando lei gli domandò come stesse la sua gamba: «Che vecchia scema,» pensò. «Guarda Elena Vasil’evna, lei sì che sarà una bellezza anche quando avrà cinquant’anni!»

«Mi sembra di potervi fare gli auguri,» bisbigliò Anna Pavlovna alla principessa e la baciò forte. «Se non avessi l’emicrania, mi sarei trattenuta ancora.»

La principessa non rispose nulla; la torturava l’invidia che provava per la felicità della figlia.

Mentre quelli di casa accompagnavano gli invitati, Pierre rimase a lungo da solo con Hélène nel piccolo salotto dov’erano seduti. Non era la prima volta che gli accadeva di restar da solo con Hélène. Anzi, gli era capitato sovente, nell’ultimo mese e mezzo; ma non le aveva mai parlato d’amore. Adesso sentiva che era necessario, ma non riusciva a decidersi a quel passo. Si vergognava; gli sembrava che lì, accanto ad Hélène, lui stesse occupando il posto di qualcun altro. «Non è per te questa felicità,» gli diceva una voce interiore. «Questo genere di felicità spetta a chi non ha quello che tu possiedi.” Ma bisogna pur dire qualcosa, e così prese a parlare. Le domandò se fosse contenta di quella serata, e lei, con la consueta semplicità, rispose che quell’onomastico per lei era stato uno dei più belli.

Qualcuno dei parenti più stretti si tratteneva ancora. Sedevano nel salotto grande. Con pigro passo il principe Vasilij si avvicinò a Pierre. Questi si alzò e disse che ormai era tardi. Il principe Vasilij lo guardò con occhi severi e interrogativi, come se ciò che Pierre aveva appena detto fosse così strano da non potersi nemmeno ascoltare. Ma, subito dopo, quell’espressione di severità venne meno; il principe Vasilij tirò Pierre per il braccio, lo fece sedere e sorrise affettuosamente.

«E allora, Lëlja?» disse, rivolgendosi alla figlia in quel tono noncurante di tenerezza che diviene abituale nei genitori che sin dall’infanzia vezzeggiano i loro figli, ma che il principe Vasilij era riuscito ad apprendere solo imitando altri genitori.

Poi si rivolse di nuovo a Pierre.

«Sergej Kuz’miè, da ogni parte,» esclamò, sbottonando l’ultimo bottone del gilè.

Pierre sorrise. Ma da quel suo sorriso si vedeva che comprendeva benissimo che non era la storiella su Sergej Kuz’miè a interessare il principe Vasilij, in quel momento; e il principe Vasilij capì che Pierre l’aveva capito. A un tratto il principe Vasilij bofonchiò qualcosa, poi uscì. Pierre ebbe l’impressione che perfino il principe Vasilij fosse turbato, e il turbamento di quel vecchio uomo di mondo lo commosse. Si volse a guardare Hélène, e gli parve che anche lei fosse turbata. Con lo sguardo pareva dire: «Che farci? La colpa è vostra.»

«Bisogna assolutamente che faccia questo passo, ma non posso, io non posso,» pensava Pierre e riprese a parlare di cose secondarie, di Sergej Kuz’miè, domandando chiarimenti su quell’aneddoto, perché lui non aveva sentito bene. Hélène con un sorriso rispose che non lo sapeva neanche lei.

Quando il principe Vasilij entrò nel salotto, la principessa stava parlando a bassa voce di Pierre con una signora anziana.

«Certo, c’est un parti très brillant, mais le bonheur, ma chère…»

«Les mariages se font dans les cieux,» rispose l’anziana signora.

Con l’aria di non ascoltare le signore, il principe Vasilij si portò in un angolo lontano e sedette su un divano. Chiuse gli occhi e parve sonnecchiare. La testa gli cadde sul petto ed egli si riscosse.

«Aline,» disse alla moglie, «allez voir ce qu’ils font

La principessa si accostò alla porta, vi passò davanti con aria indifferente ma compresa, e sbirciò nel salotto. Pierre ed Hélène erano seduti come prima e chiacchieravano.

«È sempre lo stesso,» rispose al marito.

Il principe Vasilij si accigliò; piegò la bocca in una smorfia di dispetto, le sue guance presero a fremere conferendogli quell’espressione sgradevole e volgare che gli era propria. Poi, scuotendosi, buttò indietro la testa e si avviò con fare deciso, passando davanti alle signore, verso il salotto. A passi rapidi, il viso atteggiato a compiacenza, si avvicinò gioiosamente a Pierre. La faccia del principe appariva così solenne che nel vederlo Pierre si alzò tutto spaventato.

«Grazie a Dio!» disse il principe. «Mia moglie mi ha detto tutto!» Cinse Pierre con un braccio e la figlia con l’altro. «Mia cara Lëlja! Sono tanto, tanto contento.» La sua voce tremò. «Volevo molto bene a tuo padre… e lei sarà una brava moglie per te… che Dio vi benedica!…»

Abbracciò la figlia, poi di nuovo Pierre e lo baciò con la sua bocca di vecchio. Lacrime vere bagnavano le sue guance.

«Principessa, vieni qui, dunque,» si mise a gridare. La principessa si avvicinò e prese a piangere anche lei. Anche la vecchia signora si asciugava gli occhi col fazzoletto. Baciarono Pierre e lui baciò varie volte la mano della bellissima Hélène. Dopo un certo tempo li lasciarono nuovamente soli.

«Tutto questo doveva accadere, non poteva essere altrimenti,» pensò Pierre, «perciò è inutile domandarsi se sia bene o no. È bene, perché ormai è deciso e il dubbio tormentoso di prima è venuto meno.» Pierre teneva la mano della sua fidanzata in silenzio e guardava il bel seno che si sollevava e abbassava.

«Hélène!» disse a voce alta, e si fermò.

«In questi casi si deve dire qualcosa di speciale,» pensò, ma non riuscì assolutamente a ricordare che cosa bisognasse dire in casi del genere. Lanciò uno sguardo al viso di lei. Hélène gli si avvicinò. Il viso di lei si fece di porpora.

«Togliete questi… questi…» disse Hélène indicando gli occhiali.

Pierre si tolse gli occhiali; e nei suoi occhi, oltre all’espressione strana che hanno sempre gli occhi dei miopi quando si levano gli occhiali, c’era uno sguardo sgomento e interrogativo. Avrebbe voluto chinarsi sulla mano di Hélène e baciarla, ma lei, con un movimento affrettato e maldestro del capo, gli colse al volo le labbra e le congiunse con le sue. Il viso di Hélène colpì Pierre per la sua espressione mutata, di sgradevole smarrimento.

«Adesso ormai è tardi, tutto è deciso. E poi io l’amo,» pensò.

«Je vous aime!» disse, ricordandosi che cosa bisognava dire in questi casi; ma queste parole ebbero un suono così misero che si vergognò di se stesso.

Un mese e mezzo dopo era sposato e prendeva dimora - felice possessore, come dicevano, di una bellissima moglie e di vari milioni - nella grande casa rimessa a nuovo dei conti Bezuchov a Pietroburgo.

III

Nel dicembre del 1805 il vecchio principe Nikolaj Andreevič Bolkonskij ricevette una lettera dal principe Vasilij, il quale lo informava del suo arrivo in compagnia del figlio. («Sono in viaggio per un’ispezione, e, naturalmente, cento verste non mi sgomentano, quando si tratta di venire a farvi visita, mio amato benefattore,» scriveva. «Il mio Anatol’, che va a raggiungere il suo reggimento, mi accompagnerà, e io spero che voi gli consentirete di esprimervi di persona quel profondo rispetto che, a somiglianza del padre, anch’egli nutre per voi.»)

«Ecco, non c’è nemmeno bisogno di portar Mar’ja in società: sono i fidanzati a venire di loro iniziativa.» Disse imprudentemente la piccola principessa, quando ebbe udita la notizia.

Nikolaj Andreevič si accigliò e non disse nulla.

Due settimane dopo la lettera, una sera arrivarono i domestici del principe Vasilij, e il giorno dopo il principe in persona accompagnato dal figlio.

Il principe Bolkonskij aveva sempre avuto scarsa opinione del principe Vasilij, e questo giudizio s’era ancor più deteriorato negli ultimi tempi, dopo che il principe Vasilij, sotto il nuovo regno dell’imperatore Paolo e poi dell’imperatore Alessandro, era andato molto avanti nei gradi e negli onori. Adesso poi, dagli accenni contenuti nella lettera e dalle parole della piccola principessa, aveva capito dove stava il punto, e nell’anima del principe Nikolaj Andreevič l’opinione negativa del principe Vasilij s’era trasformata in un sentimento di malevolo disprezzo. Quando parlava di lui non faceva che sbuffare. Il giorno fissato per l’arrivo del principe Vasilij, Nikolaj Andreevič era particolarmente contrariato e di cattivo umore. Fosse di cattivo umore per l’arrivo del principe Vasilij o fosse particolarmente contrariato dell’arrivo del principe Vasilij perché era di cattivo umore, fatto sta che era di cattivo umore; e Tichon fin dal mattino aveva sconsigliato l’architetto di presentarsi a rapporto dal principe.

«Sentite come cammina,» disse Tichon, facendo notare all’architetto il rumore dei passi del principe. «Quando appoggia forte su tutto il tallone, sappiamo già…»

Tuttavia, come d’abitudine, alle dieci il principe uscì per la passeggiata col suo cappotto di velluto foderato di pelliccia, col bavero e il berretto di zibellino. Il giorno prima era nevicato. Il viottolo sul quale il principe Nikolaj Andreevič camminava in direzione della serra era stato spazzato; si scorgevano i segni della scopa sulla neve rimossa di fresco, e una pala era infissa sul soffice rialzo di neve che correva lungo il viottolo da entrambi i lati. Il principe fece il giro delle serre, del cortile e delle nuove costruzioni, sempre accigliato e silenzioso.

«Ma in slitta si può passare?» domandò all’amministratore che lo accompagnò fino a casa: un uomo dignitoso, che nel volto e nei modi assomigliava al padrone.

«La neve è alta, eccellenza. Ho già dato l’ordine di spazzare il viale.»

Il principe chinò il capo e si avvicinò all’ingresso. «Grazie a Dio,» pensò l’amministratore, «la nube s’è dileguata!»

«Era difficile passare, eccellenza,» aggiunse l’amministratore. «A quanto ho sentito, un ministro viene a trovare l’eccellenza vostra, vero?»

Il principe Bolkonskij si voltò verso l’amministratore e lo fissò con la fronte aggrottata.

«Che cosa? Un ministro? Che ministro? Chi ha dato l’ordine? prese a dire con la sua voce dura e penetrante. Non per la principessina, per mia figlia, hanno spalato, ma per il ministro! Per me non ci sono ministri!»

«Eccellenza, io credevo…»

«Tu credevi!» si mise a gridare il vecchio principe, pronunciando le parole a ritmo sempre più affrettato e sconnesso. «Tu credevi… Banditi! Canaglie!… Ti insegnerò io a credere.» E, brandendo il suo bastone, lo sollevò sopra Alpatyč, e lo avrebbe colpito se l’amministratore istintivamente non avesse scansato il colpo. «Tu credevi, eh?… Canaglia!…» gridava precipitosamente. Ma sebbene Alpatyč, spaventato egli stesso per il suo ardire nell’aver scansato il colpo, si fosse avvicinato al principe, chinando mansuetamente davanti a lui la sua testa calva, o forse proprio per questo, il principe continuò a gridare: «Canaglie!… Ricoprite la strada con la neve!» Ma rinunciò a sollevare un’altra volta il bastone e corse dentro casa.

Prima di pranzo, la principessina e M.lle Bourienne, avendo saputo che il principe era di cattivo umore, lo aspettarono stando in piedi. M.lle Bourienne aveva un viso raggiante che diceva: «Io non so niente, io sono quella di sempre», mentre la principessina Mar’ja era pallida, spaventata, e teneva gli occhi a terra. La cosa più penosa, per la principessina Mar’ja, era il sapere che in questi casi bisognava comportarsi come M.lle Bourienne, ma lei non ci riusciva. Pensava: «Se facessi finta di non accorgermene, lui potrebbe pensare che non partecipo ai suoi affanni; se invece mostrassi di essere anch’io triste e di cattivo umore, lui direbbe (come altre volte era successo), che ho una faccia da funerale, eccetera eccetera.»

Il principe guardò la faccia impaurita di sua figlia e sbuffò. «Canagl… oppure una stupida!» disse.

«E l’altra non c’è! Anche con lei si saranno già messi a spettegolare,» pensò, riferendosi alla piccola principessa che non era in sala da pranzo.

«E la principessa dov’è?» domandò. «Si nasconde?…»

«Non sta tanto bene,» disse M.lle Bourienne sorridendo gaiamente, «non scende. Bisogna compartirla: nelle sue condizioni…»

«Hmm! hmm! ch!… ch!» borbottò il principe, e sedette a tavola.

Disse che il piatto era sporco; mostrò una macchia e lo gettò via. Tichon lo afferrò al volo e lo passò al dispensiere. La piccola principessa non si sentiva male, ma aveva un’invincibile paura del suocero. Così avendo saputo che era di cattivo umore, aveva deciso di non scendere.

«Ho paura per il bambino,» aveva detto a M.lle Bourienne, «solo Dio sa cosa mi può succedere, a causa di uno spavento.»

La piccola principessa viveva a Lysye Gory continuamente ossessionata dalla paura e dall’antipatia per il vecchio principe: un’antipatia di cui non si rendeva nemmeno conto, perché la paura la dominava a tal punto che lei non l’avvertiva nemmeno. Il principe, a sua volta, provava antipatia per la nuora ma essa veniva soffocata dal disprezzo. La principessa, una volta abituatasi a Lysye Gory, s’era particolarmente affezionata a M.lle Bourienne; passava le giornate insieme a lei, la pregava di tenerle compagnia di notte e spesso le parlava del suocero, criticandolo.

«Il nous arrive du monde, mon prince,» disse M.lle Bourienne aprendo il bianco tovagliolo con le sue mani rosee. «Son excellence le prince Kouraguine avec son fils, à ce que j’ai entendu dire?» disse in tono interrogativo.

«Hmm… questa excellence è un furbacchione… l’ho fatto assumere io in un ministero,» rispose il principe con aria risentita. «Perché, poi, viene anche il figlio, non riesco a capirlo. Può darsi che la principessa Lizaveta Karlovna e la principessina Mar’ja lo sappiano; ma io ignoro perché si trascini appresso anche suo figlio. Non so proprio che farmene.» E il principe guardò sua figlia che era arrossita.

«Non stai bene, forse? Per paura del ministro, come ha detto oggi quel farabutto di Alpatyč?»

«No, mon père

Per quanto M.lle Bourienne avesse scelto a sproposito il tema della conversazione, ella non desistette, e prese a chiacchierare delle serre, della bellezza dei nuovi fiori che erano sbocciati, cosicché il principe dopo la minestra si ammansì un poco.

Dopo il pranzo si recò dalla nuora. La piccola principessa sedeva davanti a un tavolinetto e chiacchierava con Maša, la cameriera. Vedendo il suocero si fece pallida.

La piccola principessa era molto cambiata. Appariva piuttosto brutta che bella, adesso. Le guance erano flosce, il labbro superiore era più rialzato, le palpebre erano gonfie.

«Sì, un certo peso,» rispose al principe che le domandava che cosa si sentisse.

«Ti serve qualcosa?»

«No, merci, mon père

«Bene, bene.»

Uscì e raggiunse l’office, attiguo alla sala da pranzo. Alpatyč era in piedi in mezzo alla stanza, con la testa china.

«È stata ricoperta la strada?»

«Sì, eccellenza, sì. Perdonate, per amor di Dio, è stato solo per sbadataggine…»

Il principe lo interruppe e scoppiò nella sua risata innaturale.

«Bene, bene.»

Porse la mano, che Alpatyč baciò; e poi andò nel suo studio.

Il principe Vasilij arrivò quella sera. Fu ricevuto sul viale d’ingresso dai cocchieri e dai camerieri che con molte grida accompagnarono lungo la strada sulla quale di proposito era stata sparsa di nuovo la neve, la carrozza su pattini che recava i bagagli e la sua slitta sino a un’ala della casa.

Al principe Vasilij e ad Anatol’ furono assegnati due appartamenti separati.

Anatol’, levatosi il panciotto, se ne stava seduto con le mani sui fianchi davanti a una tavola, su un angolo della quale egli, sorridendo, posava distrattamente i suoi grandi e begli occhi. Egli guardava a tutta la sua vita come a un divertimento ininterrotto, che qualcuno per qualche ragione s’era impegnato a organizzare per lui; e tale, anche ora, egli considerava quella sua visita in casa di quel vecchio arcigno e della ricca e brutta ereditiera. Tutto questo, secondo le sue previsioni, poteva riuscire assai bello e perfino divertente. «E perché non sposarla dopotutto, se è davvero così ricca? I denari non guastano mai,» pensava Anatol’.

Si fece la barba, si profumò con quella cura e quell’eleganza che per lui era ormai un’abitudine, e con l’espressione, in lui innata, di un bonario trionfo, tenendo alta la bella testa entrò nella camera del padre. Attorno al principe Vasilij si davano da fare i suoi due camerieri intenti a vestirlo; anch’egli si guardava attorno con aria vivace, e lietamente fece un cenno del capo al figlio che entrava, quasi dicesse: «Sì, mi occorre che tu sia così!»

«Senza scherzi, babbo, è davvero così brutta?» domandò Anatol’ in francese come riprendendo un argomento già toccato più d’una volta durante il viaggio.

«Smettila di dir sciocchezze! E soprattutto cerca di essere rispettoso e deferente col vecchio principe.»

«Se quello si mette a sbraitare, io me ne vado,» disse Anatol’. «Io, questi vecchi non li posso sopportare. Siamo intesi?»

«Ricordati che per te tutto dipende da questo.»

In quel frattempo, nelle stanze delle cameriere non soltanto si sapeva dell’arrivo di un ministro con il figlio, ma il loro aspetto era già stato minutamente descritto. La principessina Mar’ja era sola nella sua stanza e si sforzava invano di vincere la propria interna agitazione.

«Perché hanno scritto, perché Lise me ne ha parlato? È una cosa impossibile!» ripeteva a se stessa guardandosi nello specchio. «Come farò a entrare in salotto? Se anche mi piacesse, non potrei essere con lui quella che sono adesso.» Il solo pensiero dello sguardo di suo padre la colmava di terrore.

La piccola principessa e M.lle Bourienne avevano già avuto da Maša, la cameriera, tutti i necessari ragguagli sul figlio del ministro, che era un bel giovane dalle guance accese e dalle nere sopracciglia, e sul padre, che aveva trascinato a stento le gambe su per le scale, e ancora sul figlio, che gli era corso dietro come un’aquila, facendo tre gradini alla volta. Avute queste informazioni, la piccola principessa e M.lle Bourienne, facendo udire già dal corridoio le loro voci che conversavano animatamente, entrarono nella camera della principessina.

«Ils sont arrivés, Marie, lo sapete?» disse la piccola principessa dondolando a causa del suo ventre appesantito e lasciandosi cadere in una poltrona.

Ella non indossava più la blusa che portava quel mattino, ma uno dei suoi abiti più belli; i capelli erano acconciati con cura e il suo viso esprimeva un’animazione, che tuttavia non bastava a nascondere i lineamenti smorti e alterati. Con quella toilette che era usa indossare quando frequentava il bel mondo di Pietroburgo, si notava ancor più quanto fosse imbruttita. Anche l’abbigliamento di M.lle Bourienne mostrava un lieve miglioramento, e questo conferiva un’attrattiva ancor maggiore al suo viso fresco e grazioso.

«Eh bien, et vous restez comme vous êtes, chère princesse?» disse. «On va venir annoncer que ces messieurs sont au salon; il faudra descendre, et vous ne faites pas un petit brin de toilette?»

La piccola principessa si alzò dalla poltrona, suonò per chiamare la cameriera, e piena di allegria si accinse a escogitare una toilette per la principessina Mar’ja e a metterla in esecuzione. La principessina Mar’ja si sentiva offesa nel suo sentimento di dignità personale per il fatto che l’arrivo di quel suo «promesso» la emozionasse tanto, e ancor più offesa che le sue amiche non concepissero neppure che potesse essere altrimenti. Confessare quanto si vergognava di sé e di loro avrebbe significato tradire la propria emozione; inoltre, rifiutando di indossare la toilette che le proponevano, avrebbe dato luogo a celie e a insistenze piuttosto prolungate. Si fece di fiamma, i suoi magnifici occhi si spensero, la faccia si coprì di macchie e, con quella brutta espressione da vittima che tanto spesso affiorava sul suo volto, ella si abbandonò nelle mani di M.lle Bourienne e di Lise. Le due donne si adoprarono con assoluta sincerità per farla bella. Era così brutta che nessuna delle due poteva certo vedere in lei una rivale; perciò del tutto sinceramente, con quella ingenua e ferma convinzione femminile che l’acconciatura possa rendere bella una persona, si accinsero a vestirla.

«No, davvero, ma bonne amie, questo vestito non è bello,» disse Lise, squadrando di lontano la principessina, «ordina che ti portino il tuo vestito color granata. Pensa che forse oggi si decide il destino della tua vita. Questo è troppo chiaro, non va bene; no, non va bene!»

Ciò che non andava bene non era l’abito, ma il volto e tutta la figura della principessina; ma di questo M.lle Bourienne e la piccola principessa non si rendevano conto. A loro sembrava che, aggiungendo un nastro celeste ai capelli pettinati all’insù, e cingendo di una fascia celeste l’abito marrone, tutto si sarebbe aggiustato. Dimenticavano che quel viso spaventato e quella figura non potevano mutare, e perciò, per quanto modificassero la cornice e l’ornamento, il viso restava misero e brutto. Dopo due o tre varianti alle quali la principessina si sottomise con docilità, quando fu pettinata all’insù (un’acconciatura che palesemente alterava e sciupava il suo viso), con la sciarpa celeste e l’abito da ricevimento color granata, la piccola principessa le girò intorno due volte, accomodò con la sua piccola mano una piega dell’abito, diede una tiratina alla sciarpa e, chinando la testa, esaminò la cognata ora da un lato, ora dall’altro.

«No, così non va,» disse con decisione e batté le mani. «Non Marie, décidément ça ne vous va pas. Je vous aime mieux dans votre petite robe grise de tous les jours. Non, de grâce, faites cela pour moi. Katja,» disse poi alla cameriera, «porta alla principessina l’abito grigio; vedrete, M.lle Bourienne, accomoderò tutto io,» aggiunse con un sorriso che pregustava una gioia d’artista.

Quando Katja portò l’abito richiesto, la principessina Mar’ja era ancora seduta immobile davanti allo specchio; guardava il proprio volto, e vedeva nello specchio i suoi occhi pieni di lacrime e la bocca che le tremava, prossima a prorompere in singhiozzi.

«Voyons, chère princesse,» disse M.lle Bourienne, «encore un petit effort

Lise prese l’abito dalle mani della cameriera e si avvicinò alla principessina Mar’ja.

La voce di lei, di M.lle Bourienne e di Katja, la quale s’era messa a ridere di qualcosa, si fondevano in un gaio chiacchiericcio simile al cinguettio degli uccellini.

«Non, laissez-moi,» disse la principessina.

Nella sua voce c’erano tanta serietà e tanta sofferenza, che il cinguettio degli uccelli subito tacque. Videro che i suoi grandi, bellissimi occhi erano pensierosi e pieni di lacrime, e che guardavano verso di loro con espressione limpida e supplichevole. Capirono che insistere era inutile e perfino crudele.

«Au moins changez de coiffure,» disse la piccola principessa. «Je vous disais,» disse poi, rivolgendosi in tono di rimprovero a M.lle Bourienne, «Marie a une de ces figures, auxquelles ce genre de coiffure ne va pas du tout. Mais du tout, du tout. Changez, de grâce.»

«Laissez-moi, laissez-moi, tout ça m’est parfaitement égal,» mormorò una voce che tratteneva a stento le lacrime.

M.lle Bourienne e la piccola principessa dovettero riconoscere in cuor loro che quell’abbigliamento imbruttiva la principessina Mar’ja, la rendeva più brutta del solito; ma ormai era tardi. Essa le guardava con quella espressione mesta e pensosa che ben conoscevano. Quell’espressione non suscitava in loro alcun timore (la principessina non suscitava questo sentimento in nessuno); ma sapevano che quando quell’espressione appariva sul suo viso, lei diventava taciturna e incrollabile nelle sue decisioni.

«Vous changerez, n’est-ce pas?» disse Lise; poi, siccome la principessina Mar’ja non le rispondeva, uscì.

La principessina Mar’ja rimase sola. Non soddisfece il desiderio di Lise, e non soltanto rinunciò a mutar pettinatura, ma non si guardò nemmeno allo specchio.

Sedeva in silenzio, con gli occhi assorti e le braccia abbandonate lungo il corpo, e pensava. Si immaginava un marito, un uomo forte, un dominatore e, per qualche incomprensibile ragione, attraente, che d’un tratto la trasportasse in un suo mondo felice, diverso. Si immaginava, attaccato al seno, un bambino suo, come quello che aveva visto il giorno prima alla figlia della balia.

Il marito le stava accanto, e guardava con tenerezza lei e il bambino. «Ma no, è impossibile, io sono troppo brutta,» pensò.

«Il tè è servito. Il principe verrà subito,» disse dietro la porta la voce della cameriera.

Lei si riscosse e rimase atterrita di ciò che pensava. Prima di scendere, si alzò, entrò nella stanza delle icone, e fissando lo sguardo sul volto annerito della grande immagine del Salvatore illuminata dalla lampada, vi sostò alcuni minuti con le mani giunte. Nell’anima della principessina Mar’ja c’era un dubbio tormentoso. Per lei era possibile la gioia dell’amore, dell’amore profano per un uomo? Pensando al matrimonio la principessina Mar’ja sognava la felicità familiare e i figli, ma il suo sogno dominante, il più forte e il più segreto, era l’amore terreno. Questo sentimento era tanto più forte quanto più essa si sforzava di celarlo agli altri e persino a se stessa. «Dio mio,» si diceva, «come posso soffocare dentro il mio cuore questi pensieri del demonio! Come posso reprimere per sempre questi pensieri malefici e adempiere solo alla tua volontà?» Questa domanda era appena formulata che Dio le rispondeva nel suo stesso cuore: «Non desiderare nulla per te; non cercare, non agitarti, non invidiare. L’avvenire delle persone e il tuo destino ti debbono essere ignoti; ma vivi in modo da essere pronta a tutto. Se a Dio piacerà provarti nei doveri del matrimonio, sii pronta ad adempiere la sua volontà.» Con questo tranquillante pensiero (ma pur sempre con la speranza che si adempisse il suo proibito sogno terreno) la principessina Mar’ja si fece sospirando il segno della croce e scese in salone, senza pensare né al proprio abito, né alla pettinatura, né a come sarebbe entrata e che cosa avrebbe detto. Che importanza poteva avere tutto ciò rispetto a quello che Dio ha disposto, senza il cui volere non cade neppure un capello dalla testa di un uomo?

IV

Quando la principessina Mar’ja entrò nella stanza, il principe Vasilij e suo figlio erano già nel salone, e conversavano con la piccola principessa e con M.lle Bourienne. Allorché ella entrò con il suo passo pesante, appoggiando sui talloni, gli uomini e M.lle Bourienne si alzarono, e la piccola principessa, indicandola ai due uomini, disse: «Voilà Marie!» La principessina Mar’ja vedeva tutti, e in tutti i particolari. Vide il volto del principe Vasilij, che, alla vista della principessina, per un istante s’era irrigidito in un’espressione immobile e grave, e subito dopo s’era fatto sorridente; e vide il volto della piccola principessa che leggeva con curiosità sui volti degli ospiti l’impressione che Mar’ja avrebbe prodotto. E vide anche M.lle Bourienne con il suo nastro, il suo bel viso e lo sguardo animato come non mai, puntato su di lui. Ma non riusci a vedere lui; vide soltanto qualcosa di alto, di luminoso e di bello che le veniva incontro quando era entrata nel salone. Dapprima le si avvicinò il principe Vasilij; lei baciò la testa calva che si chinava sulla sua mano, e rispose a qualche sua parola dicendo che, al contrario, si ricordava molto bene di lui. Poi si avvicinò a lei Anatol’. Lei continuava a non vederlo. Sentì soltanto una mano morbida stringere saldamente la sua, e sfiorò appena una fronte bianca circondata da capelli biondi e impomatati. Quando lo guardò, fu colpita dalla sua bellezza. Anatol’, tenendo il pollice della mano destra appoggiato al bottone allacciato della giacca della divisa, con il petto in fuori e il dorso eretto, oscillando un poco sulle gambe divaricate e tenendo il capo lievemente divaricato, la guardava in silenzio con un’espressione allegra nella quale s’indovinava che non stava affatto pensando a lei. Anatol’ non era di spirito pronto, né vivace, né di brillante conversazione, ma in compenso aveva il dono prezioso, in società, di mostrare una calma e una sicurezza di sé che non gli venivano mai meno. Se un uomo poco sicuro di sé quando viene presentato a qualcuno, non riesce a parlare e manifesta la sconvenienza di quel silenzio sforzandosi di dire qualcosa, fa una figura penosa. Ma Anatol’ taceva, si dondolava sulle gambe, e osservava con aria allegra la pettinatura della principessina. Si capiva che egli era in grado di conservare quel serafico silenzio anche molto a lungo. «Se per qualcuno questo silenzio è imbarazzante, chiacchierate pure; io, per conto mio, non ne ho voglia,» sembrava dire col suo atteggiamento. Oltre a ciò, Anatol’ trattava le donne in un modo che più di ogni altro suscita nelle donne curiosità, timore e perfino amore: e cioè con una sprezzante consapevolezza della propria superiorità. Come se col suo atteggiamento egli dicesse: «Vi conosco, vi conosco; ma perché prendersela tanto per voi? Lo so che ne sareste contente!» Può anche darsi che lui non lo pensasse affatto (ed è anzi probabile di no, perché in genere pensava poco), ma tali erano il suo aspetto e i suoi modi. La principessina se ne rese conto e, come se volesse dimostrargli che non la sfiorava nemmeno l’idea di interessarlo, si rivolse al vecchio principe. Grazie alla vocetta della piccola principessa e al piccolo labbro rialzato sui denti e soffuso di peluria, si era accesa una conversazione generale e perfino animata. La piccola principessa aveva accolto il principe Vasilij con quel fare scherzoso a cui spesso ricorrono le persone loquaci e allegre, e che consiste nel presupporre, fra sé e la persona a cui ci si rivolge, dei rapporti di vecchia data e molti divertenti ricordi, non sempre a tutti noti, mentre in realtà tra i due non sussiste alcun ricordo del genere, come infatti non ce n’erano tra la piccola principessa e il principe Vasilij. Il principe Vasilij si uniformò volentieri a questo tono; la piccola principessa coinvolse anche Anatol’, che lei quasi non conosceva, in questa rievocazione di buffi episodi mai accaduti. Anche M.lle Bourienne condivideva questi ricordi comuni e perfino la principessina Mar’ja si sentì piacevolmente attratta in quel cerchio di ricordi gioiosi.

«Ecco, almeno adesso disponiamo completamente di voi, caro principe,» diceva la piccola principessa, naturalmente in francese, al principe Vasilij; «non è come alle serate in casa di Annette, dove voi scappate sempre. Vi ricordate di cette chère Annette?!»

«Voi, però, non mettetevi a parlare di politica come Annette!»

«È il nostro tavolino del tè?»

«Oh sì!»

«Perché voi non venivate mai da Annette?» domandò la piccola principessa ad Anatol’. «Ah! Lo so, lo so,» disse ammiccando, «vostro fratello Ippolit mi raccontava le vostre gesta.» Ed ella lo minacciò con un dito. «Conosco le vostre scappatelle fin da quando eravate a Parigi!»

«Ma lui, Ippolit, non ti ha detto nulla?» intervenne il principe Vasilij rivolgendosi al figlio, e afferrando per la mano la principessa come se lei volesse scappare e lui facesse appena a tempo a trattenerla, «Ippolit non ti ha raccontato che languiva d’amore per la cara principessa e che lei le mettait à la porte?»

«Oh! C’est la perle de femmes, princesse!» aggiunse poi, rivolto alla principessina.

Da parte sua, alla sola menzione di Parigi, M.lle Bourienne non s’era lasciata sfuggire l’occasione di entrare in quella conversazione generale imbastita di ricordi.

Si permise di domandare se era molto che Anatol’ aveva lasciato Parigi e se quella città gli era piaciuta. Anatol’ rispose molto volentieri alla giovane francese e, guardandola sorridendo, si mise a discorrere con lei della sua patria. Appena aveva veduto la graziosa M.lle Bourienne, Anatol’ aveva deciso che anche lì, a Lysye Gory, ci sarebbe stato da non annoiarsi. «Veramente graziosa!» pensava, mentre l’esaminava con lo sguardo. «Niente male questa demoiselle de compagnie. Spero che la prenderà con sé quando mi sposerà,» pensò, «la petite est gentille

Il vecchio principe si stava vestendo senza fretta nel suo studio, e con la fronte aggrottata stava pensando a quel che doveva dire. L’arrivo di quegli ospiti l’aveva irritato. «Che m’importa del principe Vasilij e di suo figlio? Il principe Vasilij è un fanfarone, un essere vacuo, e anche il figlio dev’essere un bel soggetto,» brontolava fra sé. Lo irritava il fatto che l’arrivo di quegli ospiti ridestasse nel suo animo un problema irrisolto, costantemente soffocato; un problema a proposito del quale il vecchio principe ingannava sempre se stesso. Il problema era questo: avrebbe mai acconsentito a separarsi, prima o poi, dalla principessina Mar’ja e a cederla a un marito? Il principe rifiutava sempre di porsi in modo chiaro questa domanda, sapendo già in anticipo che avrebbe risposto secondo equità e che l’equità, in questo caso, era in contraddizione prima ancora che col suo sentimento, con le sue stesse possibilità di vivere. La vita era impensabile per il principe Nikolaj Andreevič senza la principessina Mar’ja, sebbene in apparenza potesse sembrare ch’egli la tenesse in poco conto. «E a quale scopo dovrebbe sposarsi?» pensava. «Di sicuro, per essere infelice. Guardate Lise: ha sposato Andrej (e oggi sarebbe difficile trovare un marito migliore), ma è forse contenta del suo destino? E chi sposerebbe Mar’ja per amore? È brutta, è sgraziata. La prenderebbero per il nome che porta, perché è ricca. D’altra parte, non ci sono donne che restano zitelle? E magari sono le più felici!» Così pensava, vestendosi, il principe Nikolaj Andreevič, ma d’altronde quel problema sempre rinviato esigeva un’immediata soluzione. Il principe Vasilij aveva portato con sé suo figlio con l’evidente proposito di fare una proposta di matrimonio, e probabilmente quel giorno stesso o l’indomani avrebbe preteso una risposta precisa. Un nome, una brillante posizione mondana. «Perché no? Io non ho nulla in contrario,» si diceva il principe, «ma che sia degno di lei, però. Ad ogni modo, staremo a vedere.»

«Staremo a vedere,» esclamò ad alta voce. «Staremo a vedere.»

E, come sempre, entrò a passi vivaci nel salone, abbracciò tutti con un rapido sguardo, e si accorse di tutto: del vestito della piccola principessa, del nastro della Bourienne, e della goffa acconciatura della principessina Mar’ja, dei sorrisi della Bourienne e di Anatol’, dell’isolamento della sua principessina nella conversazione generale. «S’è agghindata come una stupida!» pensò gettando un’occhiata furibonda alla figlia. «Non ha un briciolo di pudore! E lui non la guarda nemmeno!»

Nikolaj Andreevič si avvicinò al principe Vasilij.

«Benvenuto, sono lieto di vederti.»

«Per visitare un caro amico, val la pena fare sette verste,» esordì il principe Vasilij, parlando veloce nel suo consueto tono familiare. «Ecco il mio secondogenito, lo raccomando alla vostra benevolenza.»

Il principe Nikolaj Andreevič squadrò Anatol’.

«Bel giovanotto! Bravo!» disse. «Su, vieni, baciami,» disse, porgendogli la guancia.

Anatol’ baciò il vecchio e lo guardò con curiosità e perfetta calma, aspettando di vedere se avrebbe presto manifestato le bizzarrie promessegli da suo padre.

Il principe Nikolaj Andreevič sedette al suo solito posto in un angolo del divano, trasse a sé una sedia per il principe Vasilij, gliela indicò e si mise a fargli domande sugli affari politici e sulle novità. Sembrava ascoltare con attenzione ciò che il principe Vasilij raccontava, ma lanciava continue occhiate alla principessina Mar’ja.

«Sicché scrivono da Potsdam?» disse, ripetendo le ultime parole del principe Vasilij; poi all’improvviso si alzò, avvicinandosi alla figlia.

«È per gli ospiti che ti sei agghindata così?» disse. «Graziosa, molto graziosa. Tu hai adottato questa nuova pettinatura per gli ospiti e io, in presenza degli ospiti, ti dico di non osare di conciarti in questo modo senza il mio permesso.»

«È colpa mia, mon père,» s’interpose la piccola principessa facendosi rossa.

«Voi siete libera di fare quel che volete,» disse il principe Nikolaj Andreevič facendo una riverenza alla nuora, «ma lei non ha motivo di sfigurarsi; e già brutta così.»

E tornò a sedersi al suo posto senza più rivolgere l’attenzione a sua figlia, che ormai era sul punto di piangere.

«Al contrario, quest’acconciatura sta molto bene alla principessina,» disse il principe Vasilij.

«Ebbene, giovane amico, giovane principe… come si chiama?» disse il principe Nikolaj Andreevič, rivolgendosi ad Anatol’, «Vieni un po’ qui, parliamo, facciamo conoscenza.»

«Ecco adesso comincia il divertimento,» pensò Anatol’, e con un sorriso sedette vicino al vecchio principe.

«Dunque, mio caro: a quanto mi dicono siete stato educato all’estero. Non come tuo padre e me, che abbiamo imparato a leggere e a scrivere da un prete. Ditemi un po’: adesso prestate servizio nella Guardia a cavallo?» domandò il vecchio, fissando da vicino Anatol’.

«No, sono passato alle truppe di linea,» rispose Anatol’ trattenendosi a fatica dal ridere.

«Ah! bene, bene. Sicché, mio caro, volete servire l’imperatore e la patria? Siamo in tempo di guerra. Un bravo giovanotto come voi deve servire, deve servire. Siete al fronte?»

«No, principe. Il nostro reggimento è in marcia; ma io sono stato assegnato… Dove sono stato assegnato, papà?» chiese Anatol’ rivolgendosi ridendo a suo padre.

«A quanto pare fa magnificamente il suo dovere! Dove sono stato assegnato! Ah-ah-ah!» esclamò il principe Nikolaj Andreevič, scoppiando a ridere.

Anatol’ prese a ridere ancora più forte. All’improvviso il principe Nikolaj Andreevič si accigliò.

«Be’, va’ pure,» disse ad Anatol’.

Anatol’, con un sorriso, si accostò di nuovo alle signore.

«Sicché l’hai fatto educare all’estero, principe Vasilij, eh?» disse il vecchio principe.

«Ho fatto quel che potevo, e vi dirò che l’educazione che s’impartisce laggiù è molto migliore della nostra.»

«Sì, adesso tutto è diverso, tutto è nuovo. Ragazzo in gamba! Proprio in gamba! Suvvia, andiamo.»

Prese sotto braccio il principe Vasilij e lo condusse nel suo studio.

Rimasto a tu per tu con il vecchio principe, il principe Vasilij non tardò a esprimere i suoi desideri e le sue speranze.

«Che cosa credi,» rispose irritato il vecchio principe, «che io la voglia tenere, che non possa separarmene? Guarda che cosa vanno a immaginarsi!» esclamò, in preda alla collera. «Fosse per me, anche domani! Ti dico solo che io, mio genero, lo voglio conoscere meglio. Tu sai le mie regole: tutto alla luce del sole! Domani la interrogherò in tua presenza: se lei acconsente, lui potrà trattenersi per un po’ qui con noi. Lui si tratterrà qui e io avrò tempo di studiarlo un poco.» Il principe sbuffò. «Che si sposi pure, per me fa lo stesso,» prese a gridare con la stessa voce stridula che aveva quando si era congedato dal figlio.

«Preferisco parlarvi con tutta franchezza,» disse il principe Vasilij, nel tono dell’uomo furbo che s’è convinto dell’inutilità di ricorrere alla furberia di fronte alla perspicacia del suo interlocutore. «Voi, del resto vedete le persone in trasparenza. Anatol’ non è un genio, ma è un ragazzo buono e onesto, un ottimo giovane, tutto famiglia.»

«Bene, bene, staremo a vedere.»

Come sempre succede alle donne sole, a lungo prive di compagnia maschile, le signore che vivevano in casa del principe Bolkonskij, alla comparsa di Anatol’ avevano sentito in egual modo che la loro esistenza fino a quel momento non era stata una vera vita. La forza di pensare, di sentire, di osservare si era all’istante decuplicata in ciascuna di loro, e la loro vita che fino ad allora si era svolta nelle tenebre, all’improvviso fu rischiarata da una luce nuova e piena di significato.

La principessina Mar’ja non pensava al proprio viso e alla propria acconciatura, anzi, non se ne ricordava più. Il bel viso aperto dell’uomo che forse sarebbe diventato suo marito assorbiva tutta la sua attenzione. Egli le pareva buono, coraggioso, risoluto, virile e magnanimo; ed era convinta che possedesse tutte queste virtù. Migliaia di sogni sulla sua futura vita familiare nascevano senza posa nella sua immaginazione, ma lei li respingeva e si sforzava di nasconderli.

«Non sarò troppo fredda con lui?» pensava. «Cerco di contenermi, perché nel profondo dell’anima mi sento già troppo vicina a lui; ma egli non sa ciò che penso e può credere di essermi antipatico.»

E la principessina Mar’ja si sforzava, ma non riusciva a esser gentile col nuovo ospite.

«La pauvre fille! Elle est diablement laide,» pensava di lei Anatol’.

M.lle Bourienne, che la comparsa di Anatol’ aveva del pari portata a un alto grado di eccitazione, aveva altri pensieri. Quella ragazza così giovane e graziosa pur senza una posizione sociale ben definita, senza parenti e amici e perfino senza patria, non pensava di dedicare l’intera sua vita al servizio del principe Nikolaj Andreevič, alla lettura che essa gli faceva ad alta voce e al servizio della principessina Mar’ja. M.lle Bourienne da tempo aspettava un principe russo capace di apprezzare senza indugio la sua superiorità rispetto alle goffe, brutte e malvestite principesse russe; costui si sarebbe innamorato di lei e l’avrebbe portata via con sé. Ed ecco che questo principe russo finalmente era arrivato. M.lle Bourienne aveva per la mente una storia, udita da una zia e da lei perfezionata, che le piaceva ripetere nella sua immaginazione. Era la storia di una ragazza sedotta alla quale compariva in sogno la sua povera madre, sa pauvre mère, per rimproverarla d’essersi data a un uomo fuori del matrimonio. M.lle Bourienne si commuoveva spesso fino alle lacrime raccontando nella sua immaginazione questa storia a lui, il suo seduttore. Adesso questo lui, un vero principe russo, era comparso. Lui l’avrebbe rapita, poi le sarebbe apparsa sa pauvre mère, e lui l’avrebbe sposata. Così nella testa M.lle Bourienne andava configurando la sua futura storia mentre discorreva con Anatol’ di Parigi. Non c’era nessun calcolo in M.lle Bourienne (non si soffermava neanche un istante su quale sarebbe dovuto essere il suo modo di agire), ma tutto questo era già definito da molto tempo dentro di lei, e ora si raggruppava intorno ad Anatol’, al quale lei desiderava e si sforzava di piacere il più possibile.

Quanto alla piccola principessa, come una vecchia cavalla di reggimento che si scuote quando sente il suono della tromba, presa inconsciamente dal gioco e dimentica della propria situazione, s’era accinta all’abituale galoppo della civetteria, senza alcun recondito pensiero di lotta, ma con ingenua e spensierata allegrezza.

Sebbene Anatol’ in compagnia femminile assumesse d’abitudine l’atteggiamento dell’uomo stanco di esser rincorso dalle donne, ora provava un vanitoso piacere nel constatare quale influenza esercitasse su quelle tre signore. Oltre a ciò, egli cominciava a sentire, per la graziosa e provocante Bourienne, del desiderio appassionato e brutale che s’impadroniva di lui con straordinaria velocità e lo spingeva alle azioni più turpi e audaci.

Dopo il tè il gruppo passò nella stanza dei divani e la principessina fu pregata di suonare il clavicembalo. Anatol’ le si pose di fronte appoggiandosi ai gomiti, vicino a M.lle Bourienne, mentre i suoi occhi, ridenti e soddisfatti, fissavano la principessina Mar’ja. Ella sentiva quello sguardo posato su di sé con un’emozione al tempo stesso tormentosa e lieta. La sua sonata preferita la trasportò nel suo mondo più intimo e poetico e lo sguardo che sentiva posato su di lei conferiva a quel mondo una poesia ancor più intensa. Lo sguardo di Anatol’, invece, sebbene fosse rivolto verso di lei, in realtà era interessato alle mosse di un piedino di M.lle Bourienne che egli nel frattempo toccava col suo piede sotto il clavicembalo. Anche M.lle Bourienne guardava la principessina, e anche nei suoi magnifici occhi c’era un’espressione nuova, per la principessina Mar’ja, un’espressione di esultanza smarrita e di speranza.

«Come mi vuol bene, lei!» pensava la principessina Mar’ja. «Come sono felice adesso e come potrei essere felice con una simile amica e un simile marito! Ma diventerà davvero mio marito?» pensava, non osando guardare la faccia di lui, ma continuando a sentire quello sguardo posato su di lei.

La sera, quando dopo cena si accinsero a ritirarsi, Anatol’ baciò la mano della principessina. Nemmeno lei sapeva come ne avesse avuto l’ardire, ma guardò apertamente il bellissimo viso che si era avvicinato ai suoi occhi di miope. Dopo, egli si chinò sulla mano di M.lle Bourienne (era sconveniente, ma lui faceva tutto con assoluta sicurezza e semplicità); e M.lle Bourienne si fece di porpora e gettò un’occhiata sgomenta alla principessina.

«Quelle delicatesse,» pensò la principessina. «Possibile che Amélie (era il nome di M.lle Bourienne) pensi che io possa esser gelosa di lei e non apprezzi il suo affetto così puro e la sua devozione verso di me?» Si accostò a M.lle Bourienne e la baciò forte. Nel frattempo Anatol’ si accingeva a baciare la mano della piccola principessa.

«Non, non, non! Quand votre père m’écrira que vous vous conduisez bien, je vous donnerai ma main à baiser. Pas avant

Sollevò la piccola mano, e sorridendo ella uscì dalla stanza.

V

Tutti si ritirarono, e quella notte nessuno per un pezzo riuscì a dormire, tranne Anatol’, il quale si addormentò appena entrato nel letto.

«Possibile che lui diventi mio marito, proprio lui: quest’uomo sconosciuto, così bello, così buono. Soprattutto buono,» pensava la principessina Mar’ja, e la paura che essa non provava quasi mai, improvvisamente l’assalì. Aveva paura di guardarsi attorno; le sembrava che qualcuno si celasse lì, dietro il paravento, nell’angolo buio. E quel qualcuno era lui, il diavolo; ed insieme era lui, quell’uomo dalla fronte bianca, le nere sopracciglia e la bocca vermiglia.

Suonò per chiamare la cameriera e la pregò di coricarsi nella sua camera.

Quella sera M.lle Bourienne passeggiò a lungo nel giardino d’inverno aspettando invano qualcuno, ora sorridendo a quel qualcuno, ora commuovendosi fino alle lacrime alle immaginarle parole della pauvre mère che le rimproverava la sua caduta.

La piccola principessa brontolò con la cameriera, perché il letto non era stato rifatto a dovere. Non riusciva a star sdraiata né su un fianco né supina. Tutto le dava un senso di disagio e di oppressione. Il suo ventre le pesava. Le pesava più che mai prima di allora, perché la presenza di Anatol’ l’aveva trasportata in un’epoca diversa, quando il suo ventre non era gonfio e tutto per lei era facile e gaio. Stava seduta in poltrona in camicia e cuffia da notte. Frattanto Katja, assonnata, con la treccia sciolta, per la terza volta sprimacciava e rivoltava il pesante materasso di piume borbottando qualcosa fra sé.

«Ti ho detto che è tutto bernoccoli e buche,» diceva la piccola principessa, «io per prima sarei felice di addormentarmi: dunque non è colpa mia.» E la sua voce tremò come quella di un bambino che sta per piangere.

Nemmeno il vecchio principe dormiva. Nel sonno Tichon lo udiva sbuffare e camminare nervosamente. Al vecchio principe pareva di essere stato offeso nella persona di sua figlia. E l’offesa era tanto più dolorosa, in quanto non si riferiva a lui, ma a un’altra persona, alla figlia, che egli amava più di se stesso. Andava dicendosi che doveva riflettere su tutta la faccenda e decidere per il meglio; e tuttavia non faceva che irritarsi sempre di più.

«Si fa avanti il primo venuto e quella si dimentica di suo padre, di tutto e di tutti, si pettina all’insù, scodinzola; non sembra neanche più lei! È felice di piantare in asso suo padre! E lo sapeva che me ne sarei accorto. Frr… frr… frrr… E non lo vedo, forse, che quel cretino guarda soltanto la Bur’enka (bisogna cacciarla via)! E non ha neppure abbastanza orgoglio per capire tutto questo! Se non ha orgoglio per sé, almeno potrebbe averne per me. Bisogna farle capire che quello stupido non si cura affatto di lei, ma bada soltanto alla Bourienne. Se lei non ha orgoglio, glielo farò capire io…»

Dicendo alla figlia che prendeva un abbaglio, che Anatol’ aveva piuttosto l’intenzione di corteggiare la Bourienne, il vecchio principe sapeva che avrebbe ferito l’amor proprio della principessina Mar’ja e che avrebbe avuto partita vinta ottenendo quel che lui voleva: non separarsi, cioè, dalla figlia, sicché si tranquillizzò su questo punto. Chiamò Tichon e cominciò a spogliarsi.

«È il diavolo che li ha portati!» pensava, mentre Tichon l’aiutava a infilare la camicia da notte sul suo corpo adusto di vecchio, coperto sul petto di peli grigi. «Io non li ho chiamati. Sono venuti a sconvolgere la mia vita; e ne resta così poca, ormai.»

A Tichon era nota l’abitudine del principe di esprimere talvolta ad alta voce i propri pensieri: perciò accolse con aria impassibile lo sguardo interrogativo e adirato della faccia che riemergeva sopra la camicia da notte.

«Sono andati a letto?» domandò il principe.

Come tutti i bravi domestici, Tichon indovinava a volo i pensieri del suo padrone. Intuì subito che egli si riferiva al principe Vasilij e a suo figlio.

«Sono andati a letto e hanno spento il lume, eccellenza.»

«Non importa, non importa…» borbottò in fretta il principe; infilò i piedi nelle pantofole, le braccia nella veste da camera e si avvicinò al divano sul quale dormiva.

Sebbene Anatol’ e M.lle Bourienne non si fossero detti nulla, essi si erano capiti alla perfezione per quanto riguardava la prima parte del romanzo, ossia fino all’apparire della pauvre mère; avevano capito che bisognava dirsi molte cose in segreto e perciò fin dal mattino seguente cercarono l’occasione per vedersi da soli. Mentre la principessina, alla solita ora, si recava dal padre, M.lle Bourienne s’incontrava con Anatol’ nel giardino d’inverno.

Quel giorno la principessina Mar’ja si avvicinò con particolare trepidazione alla porta dello studio. Le sembrava che non soltanto tutti sapessero che quel giorno si decideva il suo destino, ma sapessero anche che lei ci pensava realmente. Leggeva quest’espressione sul volto di Tichon e del cameriere del principe Vasilij, che la incontrò nel corridoio mentre portava dell’acqua calda e le fece un profondo inchino.

Quella mattina il vecchio principe fu molto affettuoso e premuroso con la figlia. Ma la principessina Mar’ja conosceva benissimo quella sua espressione premurosa. Era l’espressione che appariva sul suo viso quando lei non capiva un problema aritmetico: allora le sue secche mani si stringevano a pugno per il disappunto, si alzava in piedi allontanandosi da lei e ripeteva più volte a voce bassa le stesse parole.

Egli affrontò subito la questione e le rivolse la parola dandole del voi.

«Mi hanno fatto una proposta a vostro riguardo,» disse, sorridendo in modo innaturale. «Voi, credo, avete intuito,» proseguì, «che il principe Vasilij è venuto qui e ha portato con sé il suo allievo (chissà perché il principe Nikolaj Andreevič chiamava Anatol’ “allievo”) non certo per i miei begli occhi. Ieri mi hanno fatto una proposta a vostro riguardo. E, siccome voi conoscete le mie regole, io mi rimetto a voi.»

«Come devo intendere le vostre parole, mon père?» esclamò la principessina, arrossendo e impallidendo.

«Come “intendere”?» gridò adirato Nikolaj Andreevič. «Il principe Vasilij ti trova di suo gusto come nuora e domanda la tua mano in nome del suo allievo. Ecco cosa c’è da “intendere”! Come sarebbe a dire, “intendere”? Sono io che domando a te.»

«Io non so come la intendiate voi, mon père,» mormorò in un bisbiglio la principessina.

«Io? io? Che cosa c’entro, io? Non vi preoccupate per me. Non sono io che devo sposarmi. Che ne pensate voi? Ecco quello che occorre sapere.»

La principessina capiva che il padre non vedeva la cosa di buon occhio, ma in quel momento la colse il pensiero che il destino della sua vita si sarebbe deciso ora o mai. Abbassò gli occhi per non vedere quello sguardo sotto il cui influsso sentiva di non poter pensare, ma, per antica abitudine, soltanto sottomettersi, e disse:

«Io desidero soltanto una cosa: eseguire la vostra volontà; ma se dovessi esprimere il mio desiderio…»

Non riuscì a terminare. Il principe la interruppe.

«Benissimo, allora!» si mise a gridare. «Lui prenderà te e la tua dote, e per soprannumero si prenderà anche M.lle Bourienne. Quella sarà la moglie, e tu…»

Il principe si fermò. S’era accorto dell’impressione prodotta da queste parole sulla figlia. Essa aveva chinato il capo ed era sul punto di piangere.

«Suvvia, io scherzavo,» disse il principe. «Ricordati una cosa, principessina: io mi attengo alla regola secondo la quale una ragazza ha pieno diritto di decidere. Ti lascio libera. Ricordati una cosa sola: dalla tua decisione dipende la felicità della tua vita. Di me è inutile parlare.»

«Ma io non so… mon père

«C’è ben poco da dire! Lui ha ricevuto un ordine: non sposerebbe soltanto te, ma chiunque altra, mentre tu sei libera di scegliere… Va’ in camera tua e rifletti; fra un’ora vieni da me e dimmi sì o no, in presenza sua. So che ti metterai a pregare. E va bene, prega pure. Ma rifletti, piuttosto, è meglio. Va’, dunque, e pensaci. Sì o no, sì o no, sì o no!» gridò ancora il principe, mentre la principessina già usciva dallo studio barcollando come in una nebbia.

Il suo destino s’era deciso, e s’era deciso felicemente. Ma quell’allusione di suo padre a M.lle Bourienne, era orribile. Si poteva supporre che fosse una menzogna, ma era orribile egualmente, e lei non poteva fare a meno di pensarci. Camminava dritta attraverso il giardino d’inverno senza vedere e senza udire nulla, quando, a un tratto un bisbiglio, la familiare voce di M.lle Bourienne, la fece tornare in sé. Sollevò gli occhi e, a due passi da sé, vide Anatol’ che abbracciava la francese e le sussurrava qualcosa. Con un’espressione terribile sul suo bel viso, Anatol’ si volse verso la principessina Mar’ja e al primo istante non abbandonò la vita di M.lle Bourienne che non si era accorta di lei.

«Chi è là? Perché? Aspettate!» sembrava dire la faccia di Anatol’. La principessina Mar’ja li guardava senza proferir parola. Essa non poteva capire quel che vedeva. Alla fine la Bourienne lanciò un grido e scappò via. Con un allegro sorriso Anatol’ s’inchinò alla principessina Mar’ja come per invitarla a ridere di quello strano incidente e alzando le spalle si diresse verso la porta che metteva nel suo appartamento.

Un’ora dopo Tichon venne a chiamare la principessina Mar’ja. La invitava a recarsi dal principe, e aggiunse che anche il principe Vasilij Andreevič era presente. Nel momento in cui Tichon era entrato, la principessina sedeva sul divano nella sua stanza; stringeva fra le sua braccia M.lle Bourienne in lacrime e le carezzava dolcemente il capo. I magnifici occhi della principessina, senza aver perduto la loro calma luminosità, guardavano con compassionevole amore il visetto grazioso di M.lle Bourienne.

«Non, princesse, je suis perdue pour toujours dans votre coeur» diceva M.lle Bourienne.

«Pourquoi? je vous aime plus que jamais,» diceva la principessina Mar’ja, «et je tâcherai de faire tout ce qui est en mon pouvoir pour votre bonheur

«Mais vous me méprisez, vous si pure, vous ne comprendrez jamais cet égarement de la passion. Ah, ce n’est que ma pauvre mère…»

«Je comprends tout,» rispondeva la principessina Mar’ja con un triste sorriso. «Calmatevi, mia cara. Vado da mio padre,» disse poi, e uscì dalla stanza.

Quando la principessina Mar’ja entrò nello studio il principe Vasilij sedeva con le gambe accavallate, la tabacchiera in una mano e il viso atteggiato a un sorriso commosso. Appariva oltremodo intenerito, un uomo che compatisce e ride per primo del proprio sentimentalismo. Si affrettò a portare al naso una presa di tabacco.

«Ah, ma bonne, ma bonne,» disse, alzandosi in piedi e prendendola per le due mani. Tirò un sospiro e continuò: «Le sort de mon fils est en vos mains. Décidez, ma bonne, ma chérie, ma douce Marie, que j’ai toujours aimée, comme ma fille

Il principe Vasilij si scostò. Negli occhi gli spuntò una lacrima vera.

«Frr… frr…» sbuffava il principe Nikolaj Andreevič. «Il principe a nome del suo allievo… di suo figlio, ti fa una proposta di matrimonio. Vuoi o non vuoi diventare la moglie del principe Anatol’ Kuragin? Rispondi: sì o no!» disse, quasi gridando, «poi io mi riservo il diritto di dire anche la mia opinione. Sì, la mia opinione e soltanto la mia opinione,» aggiunse il principe Nikolaj Andreevič rivolgendosi al principe Vasilij e rispondendo alla sua espressione implorante. «Sì oppure no?»

«Il mio desiderio, mon père, è di non abbandonarvi mai, di non dividere mai la mia vita dalla vostra. Io non voglio sposarmi,» disse la principessina Mar’ja con decisione, fissando con i suoi magnifici occhi suo padre e il principe Vasilij.

«Assurdità, sciocchezze! Assurdo, assurdo, assurdo?» si mise a gridare il principe Nikolaj Andreevič con la fronte aggrottata; prese per una mano la figlia, la trasse a sé, e senza baciarla ma semplicemente chinando la sua fronte verso quella di lei, gliela sfiorò, e strinse così forte la mano della principessina che questa fece una smorfia di dolore e gettò un grido.

Il principe Vasilij si alzò in piedi.

«Ma chère, je vous dirai que c’est un moment que je n’oublierai jamais, jamais; mais, ma bonne, est-ce que vous ne nous donnerez pas un peu d’espérance de toucher ce coeur si bon, si généreux. Dites que peut-être… L’avenir est si grand. Dites: peut-être…»

«Principe, quel che ho detto è tutto ciò che ho nel mio cuore. Vi ringrazio dell’onore, ma non sarò mai la moglie di vostro figlio.»

«Ebbene, la questione è chiusa, mio caro. Ad ogni modo sono molto lieto di averti visto, molto lieto davvero. Va’ in camera tua, principessina, va’,» disse il vecchio principe. «Sì, sono proprio lieto di averti veduto,» ripeté abbracciando il principe Vasilij.

«La mia vocazione è un’altra,» pensava frattanto la principessina Mar’ja meditando su se stessa. «La mia vocazione sta nell’essere felice di un’altra felicità, della felicità nell’amore e nell’abnegazione. E, qualunque cosa mi costi, farò la felicità della povera Amélie. Essa lo ama di un amore così appassionato! E anche il suo rimorso è appassionato. Farò di tutto per combinare il matrimonio con lui. Se non è ricco, io gli darò i mezzi necessari; li chiederò a mio padre, li chiederò ad Andreij. Sarò felice quando lei sarà sua moglie. Lei è così sfortunata; è sola, straniera, senza nessuno che la aiuti! Dio mio, con quale passione lo ama, se ha potuto abbandonarsi così. Ma forse anch’io avrei fatto lo stesso!…» pensava la principessina Mar’ja.

VI

Per molto tempo i Rostov non avevano avuto notizie di Nikolaj, solo verso la metà dell’inverno venne recapitata al conte una lettera, e dall’indirizzo egli riconobbe la scrittura del figlio. Appena ricevutala, il conte corse in punta di piedi nel suo studio, sbigottito e frettoloso, cercando di non farsi vedere; vi si chiuse dentro e cominciò a leggere. Anna Michajlovna, avendo saputo della lettera (come veniva a sapere tutto quello che succedeva nella casa) entrò nello studio a passi silenziosi e lo sorprese con la lettera in mano che singhiozzava e rideva a un tempo.

Quantunque i suoi affari si fossero assestati, Anna Michajlovna continuava a vivere dai Rostov.

«Mon bon ami?» disse Anna Michajlovna in un tono di voce tra il mesto e l’interrogativo, pronta ad ogni evenienza.

Il conte singhiozzò ancora più forte.

«Nikoluška… una lettera… è ferito, ma chère; è stato… è stato… ferito… Figliolo mio… la contessa… è promosso ufficiale… Dio sia lodato… Come posso dirlo alla contessa?»

Anna Michajlovna sedette accanto al conte, col proprio fazzoletto asciugò le lacrime dai suoi occhi e dalla lettera che ne era tutta macchiata, asciugò le proprie lacrime, lesse la lettera, tranquillizzò il conte e decise che durante il pranzo e il tè avrebbe preparato lei la contessa, e dopo il tè, con l’aiuto di Dio, le avrebbe detto tutto.

Durante tutto il pranzo Anna Michajlovna parlò delle voci che correvano sull’andamento della guerra, e parlò anche di Nikolaj. Domandò due volte quando fosse arrivata l’ultima sua lettera sebbene lo sapesse anche prima, e osservò che era molto probabile che arrivasse una lettera quel giorno stesso. Ogni volta che, a quelle allusioni, la contessa cominciava a inquietarsi e a sbirciare con ansia ora il conte ora Anna Michajlovna, quest’ultima portava prontamente il discorso su argomenti insignificanti. Nataša, che di tutta la famiglia era la più capace di avvertire le sfumature nei toni, negli sguardi e nelle espressioni dei volti, fin dal principio del pranzo aveva drizzato le orecchie e aveva capito che c’era qualcosa fra suo padre e Anna Michajlovna, qualcosa che riguardava suo fratello, e che Anna Michajlovna stava preparando il terreno. Nonostante tutto il suo ardire (Nataša sapeva come sua madre fosse sensibile a tutto ciò che riguardava qualunque notizia su Nikoluška), essa non osò fare domande. Per l’inquietudine non mangiò nulla, e non fece che rigirarsi sulla sedia senza dar retta alle osservazioni della sua governante. Dopo il pranzo corse a precipizio da Anna Michajlovna, e nella stanza dei divani le si buttò al collo di slancio.

«Zietta, dite, che cosa c’è di nuovo?»

«Niente, mia cara.»

«No, anima mia; no tesoro, delizia mia: io non mi arrendo, lo so che voi sapete qualcosa.»

Anna Michajlovna scosse il capo.

«Vous êtes une fine mouche, mon enfant,» disse.

«È arrivata una lettera di Nikolen’ka? Vero?» gridò Nataša leggendo una risposta affermativa sul viso di Anna Michajlovna.

«Ma, per amor di Dio, abbi prudenza: lo sai che maman può impressionarsi.»

«Sì, sì. Ma adesso raccontatemi. Non volete raccontarmi? Allora vado subito a dirglielo.»

In poche parole Anna Michajlovna riferì a Nataša il contenuto della lettera, ma alla condizione che non lo raccontasse a nessuno.

«Parola d’onore,» disse Nataša facendosi il segno della croce, «non lo dirò a nessuno,» e corse subito da Sonja.

«Nikolen’ka… è stato ferito… una lettera…» esclamò trionfante e felice.

«Nicolas!» riuscì appena a proferire Sonja impallidendo all’istante.

Per la prima volta Nataša, accorgendosi dell’impressione che aveva prodotto in Sonja la notizia del ferimento di suo fratello, s’accorse del lato triste di quella notizia.

Si precipitò verso Sonja, l’abbracciò e scoppiò a piangere.

«È un po’ ferito, ma è stato promosso ufficiale; adesso sta bene, è lui stesso che scrive,» diceva fra le lacrime.

«Ecco, si vede proprio che voi donne siete tutte piagnucolone,» disse Petja, che camminava per la stanza a grandi passi decisi. «Io sono molto contento anche così; sul serio, sono proprio contento che mio fratello si sia distinto. Voi siete delle piagnucolone, non capite niente.»

Nataša sorrise attraverso le lacrime.

«Tu non hai letto la lettera?» domandò Sonja.

«Non l’ho letta, ma Anna Michajlovna ha detto che ormai tutto è passato e che è già ufficiale…»

«Dio sia ringraziato,» disse Sonja facendosi il segno della croce. «Ma se ti avesse mentito? Andiamo da maman

Petja camminava per la stanza in silenzio.

«Se ci fossi stato io al posto di Nikoluška, ne avrei uccisi ancora di più di quei francesi,» disse; «sono così odiosi! Ne avrei ammazzati tanti da farne una montagna.»

«Sta’ zitto, Petja, come sei stupido!…»

«Non sono io che sono stupido, ma quelle, che piangono per delle stupidaggini,» disse Petja.

«Tu te lo ricordi?» domandò a un tratto Nataša dopo un minuto di silenzio. Sonja sorrise.

«Se mi ricordo di Nicolas?»

«No, Sonja; dico se lo ricordi proprio bene, in modo da ricordare tutto,» continuò Nataša con un gesto enfatico, per dare alle sue parole il più serio dei significati. «Anch’io ricordo Nikolen’ka,» disse. «Lo ricordo, mentre Boris non me lo ricordo più. Non mi ricordo più niente…»

«Come? Non ricordi Boris?» domandò Sonja meravigliata.

«Non è che non me ne ricordi. So com’è, ma non me ne ricordo come di Nikolen’ka. Lui se chiudo gli occhi lo vedo, mentre Boris no (e Nataša chiuse gli occhi), no, niente!»

«Ah, Nataša!» disse Sonja, guardando con uno sguardo rapito e solenne la sua amica, come se la ritenesse indegna di ascoltare quello che lei voleva dire, e come se parlasse a un’altra persona, con la quale non fosse lecito scherzare. «Mi sono legata a tuo fratello, e qualunque cosa succeda a lui o a me, lo amerò per tutta la vita.»

Nataša guardava Sonja con occhi meravigliati e taceva. Sentiva che quello che aveva detto Sonja era la verità, che un amore come quello di cui parlava Sonja doveva esistere, ma Nataša non aveva provato ancora nulla di simile. Era convinta che potesse accadere, ma non lo capiva.

«Gli scriverai?» domandò.

Sonja si fece pensierosa. Se e come dovesse scrivere a Nicolas era appunto l’interrogativo che la tormentava. Adesso che lui era ormai un ufficiale, un eroe ferito, da parte sua sarebbe stato bene richiamarlo al ricordo di lei e dell’impegno che egli si era assunto nei suoi confronti.

«Non lo so,» rispose arrossendo. «Penso che se lui mi scriverà, io gli risponderò.»

«E non avrai vergogna a scrivergli?»

Sonja sorrise.

«No.»

«Io, invece, mi vergognerei di scrivere a Boris. Io non gli potrei scrivere.»

«E perché dovresti vergognartene?»

«Così, non so. Mi sentirei imbarazzata, avrei vergogna, insomma.»

«E io invece lo so perché lei si vergogna,» disse Petja, offeso dall’osservazione che Nataša aveva fatto poco prima; «si vergogna perché lei era innamorata di quel grassone con gli occhiali (così Petja chiamava il suo omonimo, il nuovo conte Bezuchov); e adesso invece si è innamorata di quel cantante (Petja alludeva all’italiano che insegnava canto a Nataša): è per questo che si vergogna.»

«Petja, sei uno stupido,» disse Nataša.

«Non più stupido di te, ragazza mia,» rispose Petja dall’alto dei suoi nove anni, proprio come se fosse stato un vecchio brigadiere.

La contessa era stata preparata dalle allusioni di Anna Michajlovna durante il pranzo. Ora, ritiratasi in camera sua, seduta in poltrona, non distoglieva gli occhi dalla miniatura sul coperchio della tabacchiera che ritraeva suo figlio, e le venivano le lacrime agli occhi. Anna Michajlovna, con la lettera in mano, si avvicinò in punta di piedi alla camera della contessa e si fermò.

«Non entrate,» disse al vecchio conte che la seguiva, «più tardi.» E chiuse la porta dietro di sé.

Il conte mise l’orecchio alla serratura e rimase in ascolto.

Dapprima udì il suono di frasi indifferenti, poi il solo suono della voce di Anna Michajlovna che faceva un lungo discorso; poi un grido, poi un silenzio, poi di nuovo le voci che parlavano con tono allegro. Alla fine ci furono dei passi e Anna Michajlovna aprì la porta al conte. Sul volto di Anna Michajlovna c’era l’espressione soddisfatta del chirurgo che ha appena terminato una difficile amputazione e introduce il pubblico affinché possa apprezzare la sua maestria.

«C’est fait,» disse al conte, indicando con gesto solenne la contessa che in una mano teneva la tabacchiera col ritratto e nell’altra la lettera, e premeva sulle labbra ora l’una ora l’altra.

Vedendo il conte, essa gli tese le braccia, abbracciò la sua testa calva e, al di sopra della testa del marito, guardò di nuovo la lettera e il ritratto. Poi, per premerseli di nuovo sulle labbra, respinse leggermente la testa calva. Vera, Nataša, Sonja e Petja entrarono nella stanza e cominciò la lettura della lettera. Descriveva brevemente la marcia di trasferimento e le due battaglie alle quali Nikoluška aveva preso parte, annunciava la promozione a ufficiale, e diceva che baciava le mani a maman e a papa, chiedendo la loro benedizione; baciava Vera, Nataša e Petja. Inoltre mandava i suoi saluti a monsieur Schelling e a madame Schoss, alla njanja, e, infine, pregava di baciare per lui la cara Sonja, che amava sempre e di cui sempre si ricordava. Udendo ciò, Sonja diventò così rossa che le vennero le lacrime agli occhi. Incapace di resistere a tutti gli occhi che si erano posati su di lei, fuggì in sala e prese a correre da ogni parte, a girare su se stessa; poi col vestito gonfiato come un pallone, rossa e sorridente si buttò a sedere per terra. La contessa piangeva.

«Perché piangete, maman?» disse Vera. «Da tutto quello che scrive direi che c’è da rallegrarsi, non da piangere.»

Era verissimo, ma il conte, la contessa, Nataša e tutti gli altri la guardarono con aria di rimprovero. «Ma a chi assomiglia questa qui!» pensò la contessa.

La lettera di Nikoluška fu letta e riletta cento volte e quelli che erano ritenuti degni di ascoltarla dovevano andare dalla contessa che non se la lasciava sfuggire di mano. Ci andarono gli istitutori, le njanje, Miten’ka, alcuni conoscenti; la contessa ogni volta rileggeva la lettera con nuovo piacere e ogni volta in quella lettera scopriva nuove virtù nel suo Nikoluška. Come le sembrava strano, straordinario, gioioso, il fatto che suo figlio - quel figlio che vent’anni prima si muoveva appena dentro di lei con le sue minuscole membra, quel figlio per cui aveva litigato con il conte che lo viziava, quel figlio che aveva imparato a pronunciare prima «pera» e poi «papà», che quel figlio adesso fosse laggiù, in terra straniera, fra gente sconosciuta, e fosse un soldato valoroso, e fosse solo, senza l’aiuto e senza la guida di nessuno, e là adempisse a doveri propri di un uomo adulto. La secolare esperienza del mondo, la quale dimostra come i bambini, con un processo progressivo e insensibile, dalla culla si trasformino in uomini, per la contessa non esisteva. L’evolversi di suo figlio in ogni fase del suo sviluppo era per lei un fatto straordinario, come se non ci fossero stati milioni e milioni di persone che erano cresciute esattamente nello stesso modo. Come vent’anni prima era impensabile per lei che quel piccolo essere che viveva dentro di lei potesse poi vagire e piangere, succhiare dal suo seno e cominciare a parlare, così adesso lei non riusciva a pensare che quello stesso essere fosse diventato l’uomo forte e valoroso, modello di figlio e di uomo, che era adesso a giudicare da quella lettera.

«E che stile, come descrive bene le cose!» diceva rileggendo la parte della lettera in cui il figlio si diffondeva sugli avvenimenti. «E che animo! Di se stesso non dice niente… niente! Parla d’un certo Denisov, mentre lui è certo il più coraggioso di tutti. Non scrive nulla delle sue sofferenze. Che cuore! Come lo riconosco! E come s’è ricordato di tutti! Non ha dimenticato nessuno. Io l’ho detto sempre, sempre; anche quando era piccolo così, io lo dicevo sempre…»

Per più di una settimana furono preparate e scritte le minute, poi vennero copiate in bella le lettere che tutta la casa scriveva a Nikoluška. Sotto la sorveglianza della contessa e a speciale cura del conte furono raccolte le piccole cose necessarie e i denari per l’uniforme e la sistemazione del neo-ufficiale. Anna Michajlovna, che era una donna pratica, si era procurata raccomandazioni anche per la corrispondenza sua e del figlio, e aveva trovato modo di far inoltrare le sue lettere al granduca Konstantin Pavloviè che comandava la Guardia. I Rostov pensavano che Guardia russa all’estero costituisse già un indirizzo sufficientemente chiaro e che se una lettera giungeva al granduca, non c’era ragione perché non arrivasse al reggimento di Pavlograd che doveva trovarsi lì vicino; perciò fu deciso di spedire le lettere e i soldi a Boris; e per mezzo del corriere del granduca, Boris a sua volta doveva recapitare il tutto a Nikoluška. C’erano lettere del vecchio conte, della contessa, di Petja, di Vera, di Nataša, di Sonja; c’erano anche seimila rubli per l’equipaggiamento e svariate altre cose che il conte mandava a suo figlio.

VII

Il 12 novembre l’armata di Kutuzov, accampata presso Olmütz, si preparava a esser passata in rivista il giorno seguente da due imperatori, quello russo e quello austriaco. La Guardia, appena arrivata dalla Russia, pernottò a quindici miglia da Olmütz: il giorno dopo, alle dieci della mattina, doveva presentarsi subito alla rivista sul campo di Olmütz.

Quel giorno Nikolaj Rostov ricevette da Boris un biglietto in cui l’amico lo informava che il reggimento di lzmajl pernottava a quindici miglia da Olmütz e che lui lo aspettava per consegnargli una lettera e dei denari. I denari soprattutto occorrevano a Rostov, ora che, di ritorno dalla campagna di guerra, le truppe si erano fermate sotto Olmütz e il campo brulicava di vivandieri, ed ebrei austriaci ben riforniti riempivano il campo offrendo ogni sorta di merci allettanti. Nel reggimento di Pavlograd si susseguivano banchetti e festeggiamenti in onore delle ricompense ricevute dopo la battaglia, e si facevano spedizioni a Olmütz da una certa Carolina, un’ungherese che vi era giunta da poco e aveva aperto una trattoria con personale femminile. Rostov aveva festeggiato poco tempo prima la sua promozione a cornetta, aveva comperato Beduin, il cavallo di Denisov, ed era pieno di debiti con i compagni e i vivandieri. Quando ebbe ricevuto il biglietto di Boris, con un compagno andò a cavallo fino a Olmütz; qui pranzò, bevve una bottiglia di vino e poi, da solo, si recò al campo della Guardia per cercarvi il suo amico d’infanzia. Rostov non era ancora riuscito ad equipaggiarsi. Indossava una logora giubba da junker con le mostrine da soldato, consimili pantaloni con il fondo di pelle consumato e una sciabola da ufficiale con la dragona. Montava un cavallo del Don, comperato durante la marcia da un cosacco. In testa portava un gualcito berretto da ussaro spavaldamente calzato all’indietro e un po’ di sbieco. Avvicinandosi all’accampamento del reggimento di lzmajl, pensava come avrebbe stupefatto Boris e tutti i suoi colleghi con quell’aspetto da ussaro temprato dalle battaglie.

La Guardia aveva fatto tutta la marcia come fosse stata una passeggiata, sfoggiando la sua impeccabile tenuta e la sua disciplina. Le tappe erano brevi, gli zaini venivano trasportati dai carriaggi; per gli ufficiali le autorità austriache preparavano a ogni tappa magnifici pranzi. I reggimenti entravano e uscivano dalle città con la fanfara militare in testa, e quando erano in marcia (cosa di cui gli uomini della Guardia andavano fieri) per ordine del granduca gli uomini procedevano al passo e gli ufficiali a piedi ai loro posti. Durante tutto il tragitto Boris era stato sempre accanto a Berg, che era già stato promosso comandante di compagnia. Presa in consegna la sua compagnia, grazie alla sua efficienza e alla sua diligenza Berg si era subito guadagnato la fiducia dei superiori, e aveva anche potuto sistemare in maniera assai vantaggiosa i suoi affari economici. Boris durante la campagna aveva conosciuto molte persone che avrebbero potuto essergli di aiuto, e per mezzo della lettera di raccomandazione di Pierre che aveva portato con sé, aveva conosciuto il principe Andrej Bolkonskij, per i cui buoni uffici sperava di ottenere un posto presso lo stato maggiore del comandante supremo. Berg e Boris, eleganti e curati, si riposavano dopo l’ultima tappa diurna; erano seduti nel lindo alloggio che era stato loro assegnato, davanti a un tavolino rotondo, e giocavano a scacchi. Berg teneva fra le ginocchia la pipa accesa; Boris, con l’abituale diligenza, riordinava le pedine con le sue mani bianche e sottili aspettando la mossa di Berg, e guardava la faccia del suo partner, evidentemente concentrato nel gioco, perché egli pensava sempre e soltanto a ciò che stava facendo.

«Ecco. E adesso come ne uscirete?»

«Vediamo un po’,» rispose Berg, toccando un pezzo e ritirando di nuovo la mano.

In quel momento la porta si aprì.

«Eccolo finalmente!» gridò Rostov. «E c’è anche Berg! Petisanfan allé cuscé dormir!» gridò, ripetendo le parole della njanja che un tempo facevano ridere lui e Boris.

«Mio Dio, come sei cambiato!» Boris si alzò per andare incontro a Rostov, ma, nell’alzarsi, non dimenticò di rimettere a posto gli scacchi che cadevano; e voleva abbracciare l’amico, ma Nikolaj si tirò un po’ indietro. Con quella particolare inclinazione dei giovani, che hanno paura delle strade battute, e vogliono manifestare i propri sentimenti senza imitare gli altri, in modo nuovo e non come li manifestano, spesso ipocritamente, gli anziani, Nikolaj avrebbe voluto far qualcosa di speciale incontrandosi, con l’amico: avrebbe voluto dare a Boris un pizzicotto, uno spintone, ma non scambiare un bacio, come facevano tutti. Boris, al contrario, abbracciò tranquillamente e amichevolmente Rostov e lo baciò tre volte.

Non si vedevano quasi da sei mesi, e alla loro età, l’età in cui i giovani fanno i primi passi sulla strada della vita, entrambi scoprivano l’uno nell’altro enormi mutamenti, l’impronta nuova degli ambienti che avevano frequentati in quei primi passi. Erano cambiati molto dopo il loro ultimo incontro e tutt’e due desideravano mostrarsi a vicenda i cambiamenti avvenuti in loro.

«Guardateli come sono pulitini, freschi, proprio come se venissero adesso da una passeggiata! Altro che noialtri, povera soldatesca di prima linea!» esclamò Rostov con accenti baritonali nella voce che a Boris riuscivano nuovi, e certi gesti da soldataccio, indicando i suoi pantaloni inzaccherati di fango.

La padrona di casa, una tedesca, udendo la voce rumorosa di Rostov, si affacciò alla porta.

«Che c’è, bellezza?» disse Nikolaj ammiccando.

«Che hai da gridare così? Li spaventi,» disse Boris. «Io non mi aspettavo che venissi oggi,» aggiunse. «Ti ho mandato solo ieri il biglietto, per mezzo d’un mio conoscente che è aiutante di campo di Kutuzov, il principe Bolkonskij. Non pensavo che te lo recapitasse così presto… Ebbene, che fai, come stai? Hai già avuto il battesimo del fuoco?» domandò.

Senza rispondere Rostov scosse la croce di S. Giorgio che portava appesa con un cordoncino alla divisa, e indicando il suo braccio bendato, lanciò un’occhiata a Berg.

«Come vedi,» disse.

«Già, già, certo!» disse Boris sorridendo. Anche noi abbiamo fatto una magnifica campagna. Lo sai che sua altezza ha cavalcato continuamente col nostro reggimento, sicché abbiamo avuto tutte le comodità e tutti i vantaggi. E che ricevimenti, pranzi, balli in Polonia; non so come raccontarteli! E anche il principe ereditario è stato molto benevolo con tutti i nostri ufficiali.»

E i due amici presero a raccontarsi a vicenda, l’uno le sue baldorie di ussaro e la vita di battaglia, l’altro le piacevolezze e i vantaggi del servizio al comando di personaggi altolocati.

«Oh, la Guardia!» disse Rostov. «Ma senti: mandiamo a prendere del vino.»

Boris si accigliò.

«Se proprio ci tieni,» disse.

E, avvicinatosi al letto, prese il borsellino di sotto i cuscini puliti e ordinò che portassero da bere.

«Già, e poi devo darti i denari e la lettera,» aggiunse.

Rostov prese la lettera; buttò i denari sul divano, si appoggiò al tavolo con entrambi i gomiti e cominciò a leggere. Lesse alcune righe e diede uno sguardo rabbioso a Berg. Incontrando il suo sguardo, nascose la faccia dietro la lettera.

«A quanto pare vi hanno mandato un bel po’ di denari,» disse Berg, guardando il pesante borsellino che faceva un incavo nel divano. «E noi invece dobbiamo campare con la paga, conte. Vi dirò di me…»

«E io vi dirò, caro Berg,» lo interruppe Rostov, «che quando riceverete una lettera da casa e vi ritroverete con un amico col quale avete voglia di parlare di tutto, e io mi troverò presente, me ne andrò subito per non esservi d’impiccio. Andatevene in qualche posto, vi prego, dove vi pare… al diavolo!» gridò, e subito, afferratolo per le spalle e stavolta guardandolo con espressione amichevole per cercare di attutire l’asprezza delle proprie parole, soggiunse: «Non dovete prendervela, caro, ma preferisco parlarvi in tutta franchezza, come se foste un vecchio conoscente.»

«Ah, figuratevi, conte, capisco benissimo,» disse Berg alzandosi e parlando come dentro di sé con la sua voce gutturale.

«Andate dai padroni di casa: vi avevano invitato,» aggiunse Boris.

Berg indossò un soprabito pulitissimo, senza una macchiolina né un granello di polvere, si ravviò davanti allo specchio i capelli sopra le tempie, all’insù come li portava l’imperatore Aleksandr Pavloviè, e convintosi dallo sguardo di Rostov che il suo soprabito era stato notato, uscì dalla stanza con un gradevole sorriso sulle labbra.

«Ah, che animale sono, però!» brontolò Rostov leggendo una delle lettere.

«Perché, che cosa c’è?»

«Ah, che porco sono, a non aver mai scritto una volta sola e ad averli spaventati così. Ah, che porco sono!» ripeté, arrossendo. «Suvvia, manda Gavrila a prendere del vino! Su, beviamo!» disse.

Alle lettere dei parenti era acclusa anche una lettera di raccomandazione per il principe Bagration che la vecchia principessa si era procurata da certi conoscenti dietro consiglio di Anna Michajlovna; la mandava al figlio con la preghiera di farla recapitare al destinatario e di valersene.

«Che sciocchezza! Non ne ho proprio bisogno,» disse Rostov gettando la lettera sul tavolo.

«Perché la butti via?» domandò Boris.

«È una lettera di raccomandazione. Che diavolo me ne faccio, io, di questa lettera?»

«Come, che te ne fai della lettera?» disse Boris, raccogliendola e leggendo l’indirizzo. «Questa lettera ti può servire moltissimo.»

«A me non serve nulla, e non andrò a fare l’aiutante da nessuno, io.»

«E perché, poi?» domandò Boris.

«È una carica da lacchè!»

«Sei sempre lo stesso sognatore, come vedo,» disse Boris scuotendo la testa.

«E tu sei sempre lo stesso diplomatico. Ma cambiamo discorso… E tu come ti trovi, piuttosto?» domandò Rostov.

«Lo vedi. Finora tutto è andato bene; ma confesso che mi piacerebbe molto diventare aiutante, e non restare in linea.»

«Perché?»

«Perché, una volta deciso di seguire la carriera militare, bisogna cercare, per quanto possibile, di fare una carriera brillante.»

«Già, questo è vero!» disse Rostov, che evidentemente stava pensando ad altro.

Guardava in modo attento e interrogativo negli occhi del suo amico, come per trovarvi risposta a una certa domanda.

Il vecchio Gavrila portò il vino.

«Non sarebbe il caso di mandare a chiamare Alfons Karloviè, adesso?» disse Boris. «Berrà lui con te; io non posso.»

«Fallo venire, fallo venire! Be’, che fa il tedescone?» disse Rostov con un sorriso sprezzante.

«È un’ottima persona, è bravo e simpatico,» disse Boris.

Rostov fissò ancora una volta Boris negli occhi, e sospirò. Berg tornò, e davanti alla bottiglia di vino la conversazione dei tre ufficiali si rianimò. I due della Guardia raccontavano a Rostov della loro campagna, di come erano stati festosamente accolti in Russia, in Polonia e all’estero. Riferivano le gesta e le parole del loro comandante, il granduca, e aneddoti sulla sua bontà e sul suo carattere irascibile. Berg come al solito taceva, quando la cosa non lo riguardava personalmente, ma a proposito dell’irascibilità del granduca raccontò con piacere che in Galizia gli era capitato di parlare con il granduca che passava in rivista i reggimenti ed era furibondo per l’irregolarità dei movimenti. Con un gaio sorriso sulle labbra raccontò che il granduca, arrabbiatissimo, gli si era avvicinato a cavallo gridando: «Arnauti!» («Arnauti» era l’espressione preferita dal granduca quando s’infuriava) e aveva chiesto del comandante della compagnia.

«Credetemi, conte, io non mi sono spaventato affatto, perché sapevo di non essere in torto. Sapete, principe, senza vantarmi posso dire che gli ordini del giorno del reggimento li conosco a memoria e anche il regolamento lo conosco come il “Padre Nostro”. Perciò, conte, sulla mia compagnia non ci sono rilievi da fare. Dunque, la mia coscienza era tranquilla. Mi sono presentato (Berg si alzò e fece vedere come si era presentato, con la mano alla visiera; realmente sarebbe stato difficile manifestare maggiore ossequio e maggior compiacimento di sé). Lui mi fece un cicchetto, come si dice, uno di quei cicchetti da lasciarti più morto che vivo, come si dice, e giù “arnauti” e “diavoli” e “in Siberia”,» raccontava Berg sorridendo con aria furbesca. «Io lo sapevo di non essere in torto e perciò stavo zitto. Non è giusto, conte? “E che, sei muto?” gridava lui. E io sempre zitto. Ebbene, che cosa credete, conte? Il giorno dopo il fatto non era nemmeno menzionato sull’ordine del giorno; ecco che cosa significa non perdersi d’animo! Eh sì, conte,» concluse Berg, mettendosi a fumare la pipa ed emettendo volute di fumo.

«Magnifico,» disse Rostov sorridendo.

Ma Boris, notando che Rostov aveva voglia di prendere in giro Berg, deviò abilmente il discorso. Chiese a Rostov di raccontare come e dove fosse rimasto ferito. A Rostov questo faceva piacere e cominciò a raccontare, animandosi sempre più, via via che il racconto procedeva. Raccontò il fatto d’armi di Schöngraben proprio come son soliti raccontare una battaglia coloro che vi hanno preso parte, ossia come avrebbero voluto che fosse, come l’hanno sentita raccontare da altri, come è più bello a raccontarsi, ma come non corrisponde assolutamente alla realtà. Rostov era un giovane sincero: non avrebbe mai riferito di proposito una cosa non vera. Cominciò a raccontare tutto né più né meno come era stato, ma, senza accorgersene, senza volerlo, fatalmente sconfinò nella non verità. D’altronde, se avesse raccontato la verità a quei suoi interlocutori, che, come lui, avevano già udito descrivere mille volte una carica di cavalleria e si erano fatti un’idea precisa di che cosa fosse un attacco e quindi si aspettavano un racconto di quel genere, essi non gli avrebbero creduto, o - ciò che era peggio - avrebbero pensato che Rostov per il primo fosse responsabile del fatto che non gli fosse successo nulla di ciò che di solito accade a tutti coloro che descrivono una carica di cavalleria. Non poteva limitarsi a dire che tutti insieme s’erano lanciati al galoppo, che lui era caduto da cavallo, si era slogato un polso e si era messo a correre con tutte le sue forze verso il bosco per sfuggire ai francesi. Inoltre, per raccontare le cose proprio come s’erano svolte, bisognava fare uno sforzo su se stessi in modo da dire esclusivamente ciò che era accaduto. Raccontare la verità è molto difficile e i giovani di rado ne sono capaci. I due amici si aspettavano che egli raccontasse di come si fosse sentito ardere da un fuoco, immemore di sé, mentre si avventava come una tempesta sul quadrato nemico; di come vi avesse fatto irruzione menando fendenti a destra e a manca, di come la sua sciabola avesse assaporato la carne del nemico, e infine fosse caduto esausto. E lui raccontò esattamente tutto questo.

Verso la metà del suo racconto, mentre diceva: “Tu non puoi immaginarti che strana sensazione di furore si provi al momento della, carica”, entrò nella stanza il principe Andrej Bolkonskij, che Boris aspettava. Il principe Andrej, che amava assumere il ruolo del protettore verso i giovani, era lusingato dal fatto che ci si rivolgesse a lui per ottenere aiuto, ed era ben disposto verso Boris, che il giorno prima aveva saputo accattivarsi la sua simpatia, sicché desiderava appagare il desiderio di quel giovane. Inviato da Kutuzov a portare certe carte al granduca ereditario, aveva pensato di passare da lui con la speranza di trovarlo solo. Entrando nella stanza e vedendo un ussaro dell’esercito (il principe Andrej non poteva soffrire gli ussari), che raccontava le sue imprese guerresche, sorrise cordialmente a Boris, ma si accigliò e aggrottò la fronte nel guardare Rostov. Poi accennò a un inchino e sedette con aria stanca sul divano. Era contrariato dal fatto di essere capitato in un momento così ingrato. Rostov se ne rese conto e si fece di bragia. Ma non gliene importava nulla: tanto, quello era un estraneo. Gettò un’occhiata a Boris e vide che anche lui, in un certo senso, si vergognava di quell’ussaro della Guardia. Nonostante il tono sgradevole e sarcastico del principe Andrej, nonostante il generico disprezzo che, dal suo punto di vista di combattente dell’esercito, Rostov provava per tutti quegli aiutantini di stato maggiore ai quali evidentemente apparteneva anche il nuovo venuto, egli si sentì confuso, si fece rosso e tacque. Boris domandò quali novità ci fossero allo stato maggiore e che cosa, senza essere indiscreti, si dicesse dei nostri piani.

«Probabilmente andremo avanti,» rispose Bolkonskij, non desiderando evidentemente dire di più in presenza di estranei.

Berg approfittò dell’occasione per domandare in termini particolarmente ossequiosi se adesso non avrebbero distribuito, come si era sentito dire, doppia indennità di foraggiamento ai comandanti di compagnia dell’esercito. Il principe Andrej rispose sorridendo che lui non era in grado di pronunciarsi su disposizioni di stato così importanti, e Berg scoppiò in un’allegra risata.

«Della vostra questione,» disse il principe Andrej rivolgendosi di nuovo a Boris, «parleremo poi,» e si rivolse a guardare Rostov. «Venite da me dopo la rivista; faremo tutto quanto è possibile.»

Volse lo sguardo per la stanza, poi tornò a rivolgersi a Rostov, il cui stato di invincibile, infantile turbamento ora mutatosi in irritazione, il principe Andrej non s’era nemmeno degnato di notare, e disse:

«Mi sembra che voi steste raccontando della battaglia di Schöngraben. Voi c’eravate?»

«Sì, c’ero,» rispose Rostov adirato, quasi a voler offendere col suo tono l’aiutante di campo.

Bolkonskij si accorse dello stato d’animo dell’ussaro, e la cosa gli riuscì divertente. Sorrise con espressione lievemente sprezzante. «Sì! Adesso circolano molti racconti su quello scontro.»

«Sì, molti!» confermò a voce vibrata Rostov, che ora guardava Boris, ora Bolkonskij con occhi densi di collera. «Sì, i racconti sono molti, ma i nostri sono i racconti di coloro che si sono trovati proprio sotto il fuoco del nemico; i nostri racconti hanno un peso ben diverso da quelli di certi prodi dello stato maggiore che ricevono ricompense senza far nulla.»

«Ai quali voi presumete che io appartenga, soggiunse con un sorriso tranquillo e garbato il principe Andrej.

Uno strano sentimento di irritazione, e nello stesso tempo di deferenza per la calma di quell’individuo si mescolava in quel momento nell’anima di Rostov.

«Io non parlo di voi,» disse, «io non vi conosco e, lo confesso, non desidero nemmeno conoscervi. Io parlo in genere di quelli dello stato maggiore.»

«Statemi a sentire,» lo interruppe il principe Andrej con tranquilla autorevolezza nella voce. «Voi volete offendermi e io sono pronto a consentire con voi che è molto facile farlo se non si ha sufficiente rispetto per se stessi; ma consentite, che il momento e il luogo sono molto mal scelti. A giorni noi tutti ci troveremo coinvolti in un grande e più serio duello; ma indipendentemente da questo, Drubeckoj, il quale dice di essere un vostro vecchio amico, non ha alcuna colpa se la mia faccia ha avuto la sfortuna di non piacervi. Del resto,» aggiunse, alzandosi in piedi, «voi conoscete il mio nome e sapete dove trovarmi; ma non dimenticate che io non considero in alcun modo offeso né me né voi, e il mio consiglio, come persona di voi più anziana, è di non attribuire a tutto ciò alcuna conseguenza. Venerdì vi attendo dopo la rivista, Drubeckoj. Arrivederci.» E dopo aver fatto un cenno di saluto a entrambi, il principe Andrej uscì.

Rostov si ricordò di ciò che avrebbe dovuto dire soltanto quando l’altro se n’era già andato, e fu ancora più contrariato per essersi dimenticato di dirlo. Ordinò subito che gli portassero il cavallo e, congedatosi freddamente da Boris, ritornò al campo. Avrebbe dovuto andare l’indomani al quartier generale e sfidare quel tronfio aiutante di campo, o lasciare le cose come stavano? Questo era l’interrogativo che lo tormentò durante tutto il tragitto. Ora pensava irosamente con quale soddisfazione avrebbe visto lo spavento di quell’ometto debole e orgoglioso di fronte alla sua pistola, ora sentiva con stupore che di tutte le persone che conosceva nessuno avrebbe desiderato avere per amico come quel piccolo aiutante che gli riusciva detestabile.

VIII

Il giorno dopo l’incontro di Boris con Rostov ebbe luogo la rassegna delle truppe austriache e russe, sia di quelle appena giunte dalla Russia, sia di quelle reduci dalla campagna di guerra con Kutuzov. I due imperatori - il russo accompagnato dal principe ereditario e l’austriaco dall’arciduca - dovevano passare in rassegna l’esercito alleato di ottantamila uomini.

Le truppe tirate a lucido e con le alte uniformi cominciarono a muoversi di buon mattino, per andare a schierarsi sul campo davanti alla fortezza. Ora procedevano migliaia di gambe e di baionette con le bandiere al vento, e al comando degli ufficiali si fermavano, facevano la conversione sul fianco e si schieravano al posto assegnato, accanto ad altre ed eguali masse di fanteria con diverse uniformi; ora con ritmo scandito e misurato, rintronava un reparto di cavalleria in gran gala, con le uniformi ricamate, azzurre, rosse, verdi, preceduti dalla banda gallonata, su cavalli neri, sauri e grigi; sfilando con il rumore di bronzo dei cannoni lustri e scintillanti che vibravano sugli affusti, e con il suo odore di miccia, l’artiglieria s’insinuava fra la fanteria e la cavalleria e si disponeva nei punti assegnati. Non soltanto i generali in uniforme da parata, con le loro vite grosse o snelle eccessivamente strette alla cintola e con i colli rossi chiusi nei colletti, con le fusciacche e le decorazioni, non soltanto gli impomatati e agghindati ufficiali, ma anche ogni soldato, con la faccia lavata e rasata di fresco, le armi e tutto l’equipaggiamento lustro fino all’impossibile, ogni cavallo, strigliato al punto che il manto brillava come raso e le criniere pettinate pelo per pelo, tutti sentivano che stava accadendo qualcosa di oltremodo importante e di solenne. Ogni generale, ogni soldato sentiva la propria nullità, conscio di essere un granello di sabbia in quel mare di uomini, e al tempo stesso sentiva la propria potenza, conscio di esser parte di quell’enorme tutto.

Sin dal primo mattino erano cominciati un gran movimento e lo sforzo dei preparativi, e alle dieci tutto era nell’ordine dovuto. Sull’enorme spianata le file erano schierate. L’intero esercito era disposto in tre masse: prima veniva la cavalleria, poi l’artiglieria, e infine la fanteria.

Fra una massa e l’altra c’era una sorta di corridoio.

Le tre parti che costituivano l’esercito si distinguevano nettamente l’una dall’altra: le truppe che avevano combattuto con Kutuzov (al fianco destro del quale erano schierati in prima fila gli uomini del reggimento di Pavlograd), i reggimenti di linea e della Guardia arrivati dalla Russia e le truppe austriache. Ma tutti erano parte dello stesso schieramento, sotto lo stesso comando e disposti nell’identico ordine.

Come il vento sulle foglie trascorse un mormorio agitato: «Vengono! Vengono!» si udirono delle voci sgomente e poi, per tutte le truppe, corse l’onda degli ultimi febbrili preparativi.

Davanti, proveniente da Olmütz, apparve un gruppo di cavalieri che si stava avvicinando. E nello stesso tempo, sebbene fosse una giornata senza vento, una lieve folata di brezza corse sopra l’esercito e mosse le banderuole delle lance e le bandiere spiegate che batterono contro le aste. Sembrava che fossero gli stessi soldati schierati a esprimere con questo lieve movimento la loro esultanza all’avvicinarsi dei sovrani. Si udì un grido: «Attenti!» Poi, come i galli all’alba, lo stesso grido si ripeté da un capo all’altro dello schieramento. E tutto fu silenzio.

In quel mortale silenzio si udiva soltanto lo scalpitio dei cavalli. Era il seguito degli imperatori. Cavalcando, i sovrani si avvicinarono al fianco dello schieramento: risuonarono le note dei trombettieri del primo reggimento di cavalleria, che suonavano la marcia del reggimento. Sembrava che non fossero i trombettieri a suonare, ma che l’esercito stesso, esultando per l’avvicinarsi del sovrano, intonasse quella musica. Attraverso quei suoni si udì distintamente, isolata, la giovane e affabile voce dell’imperatore Alessandro. Egli pronunciò parole di saluto, e il primo reggimento tuonò: «urrà» con voce così potente, prolungata e gioiosa, che i soldati stessi furono impauriti dal numero e dalla forza della massa che essi formavano.

Rostov, che era nelle prime file del gruppo di Kutuzov, al quale l’imperatore si accostò prima che ad ogni altro, provò lo stesso sentimento di tutti gli altri soldati: un sentimento di oblio di sé, di orgogliosa consapevolezza di forza e di appassionato trasporto verso colui che era la causa di quest’occasione trionfale. Egli sentiva che da una sola parola di quell’uomo dipendeva il fatto che tutta quella massa (e anche lui, ad essa legato, insignificante granello di sabbia) si gettasse nel fuoco o nell’acqua, verso un delitto, la morte o il più sublime eroismo; e per questo appunto non poteva non trepidare e non sentirsi mancare il cuore nel presentimento di quella parola imminente.

«Urrà! Urrà! Urrà!» tuonavano le voci da ogni parte: un reggimento dopo l’altro accoglieva il sovrano con le note della sua fanfara, e poi di nuovo: «Urrà! Urrà! Urrà!» E gli urrà, crescendo e traboccando, si fondevano in un rombo assordante.

Finché l’imperatore non si avvicinava, ogni reggimento nel suo silenzio e nella sua immobilità sembrava un corpo senza vita; ma bastava che il sovrano si portasse alla sua altezza perché gli uomini si rianimassero e rimbombassero, unendosi all’urlo di tutta la linea che il sovrano aveva già percorso. In mezzo al potente, assordante rimbombo di quelle voci, fra le masse delle truppe, immobili e come impietrite nei loro quadrati, si muovevano in modo simmetrico ma libero e sciolto, centinaia di cavalieri del seguito, e davanti a loro i due imperatori. E sui due imperatori era palesemente puntata l’attenzione contenuta e appassionata di quella massa di uomini.

L’imperatore Alessandro, giovane e bello con l’uniforme della Guardia a cavallo e il tricorno leggermente inclinato, col suo volto accattivante e la voce sonora ma non forte, attirava su di sé l’attenzione generale.

Rostov era poco distante dai trombettieri; coi suoi occhi acuti aveva riconosciuto da lontano l’imperatore e lo aveva seguito mentre si avvicinava. Quando il sovrano fu a una ventina di passi di distanza e Nikolaj poté distinguere distintamente in ogni particolare, il suo volto così bello, così giovane e felice, egli provò un sentimento di tenerezza e di entusiasmo che non aveva mai provato prima di allora. Tutto: ogni lineamento, ogni mossa gli sembrava incantevole del sovrano.

Fermatosi davanti al reggimento di Pavlograd, disse qualcosa in francese all’imperatore d’Austria, e sorrise. Vedendo quel sorriso, anche Rostov inconsapevolmente cominciò a sorridere e provò un impeto d’amore ancora più forte verso il suo sovrano. Avrebbe voluto manifestare in qualche modo questo suo amore per il sovrano; ma sapeva che non era possibile e gli veniva voglia di piangere. Il sovrano chiamò il comandante del reggimento e gli disse qualche parola.

«Dio mio! Che cosa proverei se il sovrano si rivolgesse a me!» pensò Rostov. «Morirei dalla felicità.»

Il sovrano si rivolse anche agli ufficiali:

«Io vi ringrazio tutti, signori, (ogni parola era udita da Rostov come un suono proveniente dal cielo), vi ringrazio di tutto cuore.»

Come sarebbe stato felice, Rostov, se in quel momento avesse potuto morire per il suo zar!

«Voi avete ben servito la bandiera di S. Giorgio e ne siete degni.»

«Morire, morire per lui!» pensava Rostov.

Il sovrano disse ancora qualcosa che Rostov non intese bene, e i soldati, a voce spiegata, gridarono: «Urrà!»

Anche Rostov gridò con quanta forza aveva, piegandosi sulla sella, volendo farsi del male con quel grido, pur di esprimere appieno il suo entusiasmo per il sovrano.

L’imperatore sostò alcuni secondi davanti agli ussari come se fosse stato indeciso.

«Come può essere indeciso il sovrano?» pensò Rostov; ma poi anche quell’irresolutezza gli parve solenne e affascinante, come tutto ciò che faceva l’imperatore.

L’indecisione dello zar durò solo un istante. Il suo piede, con lo stivale dalla stretta e affusolata punta, come allora si portava, sfiorò il ventre della cavalla baia che cavalcava; la sua mano guantata di bianco alzò le redini, ed egli si mosse, accompagnato dal mare confuso e ondeggiante degli aiutanti. Egli apparve sempre più lontano, mentre sostava presso gli altri reggimenti, e alla fine, fra il seguito che circondava i due imperatori, Rostov poté scorgere soltanto il suo pennacchio bianco.

Fra i signori del seguito Rostov aveva notato anche il principe Bolkonskij, che cavalcava con aria pigra e trascurata. Si ricordò della lite del giorno prima e tornò a chiedersi se dovesse o non dovesse sfidarlo. «Non devo, s’intende,» pensò adesso Rostov. «E vale la pena di pensare e di parlare di una cosa simile in un momento come questo? Nel momento di un simile trasporto d’amore, d’estasi, d’abnegazione, che senso possono avere le nostre liti, le nostre offese? Io voglio bene a tutti, ora, perdono a tutti,» pensò Rostov.

Quando il sovrano ebbe percorso tutti i reggimenti, le truppe cominciarono a sfilargli davanti a passo di parata, e Rostov, in sella al suo Beduin che egli aveva comperato di recente da Denisov, passò come serrafila del suo squadrone, ossia da solo e pienamente visibile all’imperatore.

Prima di arrivare all’altezza dello zar, Rostov, ottimo cavaliere, piantò due volte gli sproni nei fianchi di Beduin per metterlo a quel trotto eccitato che Beduin assumeva quando era infuriato. Il cavallo, piegato il muso schiumante contro il petto, sollevò la coda, e come volando nell’aria e non toccando terra, proiettò ben alte le zampe e sfilò orgogliosamente, quasi sentisse anch’esso su di sé lo sguardo dell’imperatore.

«Bravi ussari del Pavlograd!» esclamò l’imperatore.

«Dio mio! Come sarei felice se adesso lui mi ordinasse di buttarmi nel fuoco!» pensò Rostov.

Quando la rivista fu terminata, gli ufficiali arrivati da poco e quelli di Kutuzov presero a riunirsi a gruppi e si cominciò a parlare delle ricompense, degli austriaci e delle loro divise, del fronte di guerra, di Bonaparte e di come adesso gli sarebbe andata male, specie quando fosse sopraggiunto anche il corpo d’armata di esseri e la Prussia avesse preso le nostre parti.

Ma in tutti i gruppi, più di ogni altra cosa si parlava dell’imperatore Alessandro; si riferivano ogni sua parola, ogni suo gesto, si era entusiasti di lui.

Tutti desideravano una cosa sola: marciare al più presto contro il nemico sotto la guida dell’imperatore. Al comando dell’imperatore non si poteva non vincere, chiunque fosse l’avversario. Questo pensavano, dopo la rivista, Rostov e la maggior parte degli ufficiali.

Tutti, dopo quella rivista, erano convinti della vittoria più di quanto lo sarebbero stati dopo due battaglie vinte.

IX

Il giorno dopo la rivista, rivestito della sua migliore uniforme e accompagnato dagli auguri di buona fortuna del collega Berg, Boris partì diretto a Olmütz per incontrarvi Bolkonskij; intendeva approfittare della sua benevolenza e ottenere il miglior posto che fosse possibile, meglio di tutto un posto d’aiutante presso un personaggio importante, il che costituiva, nell’esercito, la posizione più ambita. «Rostov, al quale suo padre manda anche diecimila rubli, può anche ragionare in quel modo, sostenere che lui non vuole inchinarsi a nessuno e non si presterà a fare il lacchè di nessuno; ma io non ho altro che la mia testa, e devo fare carriera in qualche modo, non rinunciare alle occasioni, ma approfittarne.»

Quel giorno a Olmütz non trovò il principe Andrej. Ma la vista di Olmütz, dove si trovavano il quartier generale e il corpo diplomatico, e soggiornavano i due imperatori con il loro seguito di cortigiani e di dignitari, non fece che rafforzare il desiderio di Boris di entrare a far parte di quel mondo superiore.

Non conosceva nessuno e, nonostante la sua elegante uniforme della Guardia, tutte quelle persone altolocate che circolavano per le strade in eleganti carrozze cortigiani e militari adorni di pennacchi, nastri e decorazioni, sembravano essere così al di sopra di lui, piccolo ufficiale della Guardia, da non potere e tanto meno ammettere la sua esistenza. Nella residenza del comandante in capo Kutuzov, dove chiese di Bolkonskij, tutti quegli aiutanti di campo e perfino gli attendenti lo guardarono con l’aria di volergli far capire che ufficiali come lui se ne intrufolavano fin troppi ed erano già venuti a noia. Nonostante questo, o piuttosto a causa di questo, il giorno successivo, il quindici, egli tornò a Olmütz ed entrando nell’edificio occupato da Kutuzov, chiese di Bolkonskij. Il principe Andrej c’era, e Boris fu accompagnato in una grande sala che probabilmente una volta tra destinata a feste da ballo ed ora invece era occupata da cinque letti e vari mobili eterogenei: un tavolo, delle seggiole, un clavicembalo. Un aiutante in veste da camera persiana sedeva a un tavolo vicino alla porta e scriveva. Un altro, il rosso e grasso Nesvickij, era sdraiato su un letto con le mani sotto la nuca e rideva in compagnia di un ufficiale che gli stava seduto accanto. Un terzo suonava al clavicembalo un valzer viennese, mentre un quarto, sdraiato, lo accompagnava cantando. Bolkonskij non c’era. Nessuno di quei signori, vedendo Boris, cambiò posizione. Quello che scriveva al quale Boris si era rivolto, si volse infastidito e gli disse che Bolkonskij era di servizio, e che se aveva bisogno di vederlo, doveva entrare dalla porta a sinistra nella stanza d’aspetto. Boris ringraziò e andò nella sala d’aspetto, dove c’erano una decina di ufficiali e di generali.

Nel momento in cui entrò Boris, il principe Andrej, con una contrazione sprezzante della faccia (e quella particolare aria di deferente stanchezza che dice chiaramente: se non fosse mio dovere, non starei a parlare con voi nemmeno per un minuto), ascoltava un vecchio generale russo pieno di decorazioni che gli riferiva qualcosa stando quasi in punta di piedi, tutto rigido, con un’espressione di servile ossequio militaresco sul volto paonazzo.

«Molto bene, vogliate aspettare,» disse al generale in russo, ma con quell’accento francese con cui il principe Andrej parlava quando voleva essere sprezzante; poi, accortosi di Boris, senza più badare al generale (che gli correva appresso con aria supplice, pregando di ascoltarlo), si rivolse a lui sorridendogli lietamente e facendogli un cenno del capo.

In quel momento Boris comprese in modo ancora più chiaro una cosa che pensava anche prima, e cioè che nell’esercito, oltre alla gerarchia e alla disciplina previste dal regolamento e note al reggimento e a lui, c’era un’altra e più essenziale gerarchia; e questa gerarchia obbligava quel generale impettito dal volto paonazzo ad aspettare rispettosamente, mentre il capitano principe Andrej trovava di maggior gradimento chiacchierare con l’alfiere Boris Drubeckoj. Più che mai Boris da quel momento aspirò a poter prestare servizio non secondo la gerarchia scritta nel regolamento, ma secondo quest’altra non scritta. Adesso sentiva che solo per il fatto d’esser stato raccomandato al principe Andrej, all’improvviso s’era trovato più in alto d’un generale, che pure in altre occasioni, al fronte, avrebbe potuto annientare lui, povero alfiere della Guardia.

«Mi dispiace molto che ieri non mi abbiate trovato. Sono stato occupato tutto il giorno con i tedeschi. Siamo andati a verificare le disposizioni insieme con Weirother. Quando i tedeschi si mettono a fare i pedanti, non si finisce più!»

Boris sorrise fingendo di capire le cose di cui il principe Andrej parlava come se fossero state ovvie. Ma era la prima volta che udiva il nome di Weirother, e perfino la parola «disposizioni».

«Dunque, mio caro, volete sempre diventare aiutante di campo? Ho pensato a voi, in questo frattempo.»

«Sì, avevo pensato,» disse Boris arrossendo involontariamente, «di pregare il comandante in capo; egli ha avuto dal principe Kuragin una lettera in cui si parla di me; volevo pregarlo soltanto perché,» soggiunse, come scusandosi, «temo che la Guardia non prenda parte alle operazioni militari.»

«Bene, bene! Parleremo di tutto,» disse il principe Andrej, «permettete soltanto che annunci questo signore, e poi sono tutto vostro.»

Mentre il principe Andrej andava ad annunciare il paonazzo generale, questi, che evidentemente non condivideva le opinioni di Boris sui vantaggi della gerarchia non scritti, teneva costantemente gli occhi fissi sull’insolente alfiere che gli aveva impedito di finire il discorso con l’aiutante; tanto che Boris finì per sentirsi a disagio. Si volse dall’altra parte e attese con impazienza che il principe Andrej tornasse dallo studio del comandante supremo.

«Ecco che cosa ho pensato per voi,» disse il principe Andrej, quando furono entrati nel salone del clavicembalo. «Dal comandante in capo è inutile che andiate,» spiegò, «lui avrebbe per voi molte espressioni gentili, vi inviterebbe a pranzo («be’, questo non sarebbe male per la mia carriera secondo quell’altra gerarchia,» pensò Boris), ma per voi non verrebbe fuori altro; noi, aiutanti e ufficiali d’ordinanza, saremo presto un battaglione. Ecco invece che cosa faremo: io ho un buon amico, un’ottima persona, l’aiutante di campo principe Dolgorukov; e, sebbene voi possiate ignorarlo, è indubbio che oggi Kutuzov, il suo stato maggiore e noi tutti non contiamo nulla: tutto adesso si concentra nelle mani dello zar. Dunque, andiamo insieme da Dolgorukov, dato che anch’io devo fare una scappata da lui. Gli ho già parlato di voi; vedremo così se lui riuscirà a sistemarvi presso di sé o in qualche altro posto, là, più vicino al sole.»

Il principe Andrej si animava sempre in modo particolare quando dava consigli a un giovane e cercava di aiutarlo a riuscire in società. Con il pretesto di prestare ad altri un aiuto che per orgoglio egli non avrebbe mai accettato per sé, egli infatti si accostava a quella sfera che dava il successo e che lo attirava. Per questo si occupava di buon grado di Boris, e insieme con lui andò dal principe Dolgorukov.

Era già sera inoltrata quando entrarono nel castello di Olmütz, ove erano alloggiati i due imperatori e il loro seguito.