In piena campagna di guerra Rostov si permetteva di cavalcare non un cavallo d’ordinanza, ma un cavallo cosacco. Esperto e appassionato di cavalli, si era procurato un robusto e buon baio del Don, col quale nessuno poteva gareggiare. Cavalcarlo era per lui un piacere. In questi momenti veniva pensando al cavallo, alla mattinata, alla moglie del medico: non una volta il pensiero corse all’imminente pericolo.

Un tempo, al momento di affrontare la battaglia, Rostov aveva paura; adesso non provava nulla del genere. Non sentiva paura non già perché si fosse abituato al fuoco (al pericolo non ci si abitua mai), ma perché aveva imparato ad assuefare la sua mente all’imminenza del pericolo. In attesa d’affrontare la battaglia si era abituato a pensare a tutto, escludendo peraltro ciò che avrebbe dovuto interessargli più di ogni altra cosa: il pericolo imminente. Per quanto nei primi tempi del suo servizio si sforzasse e si rimproverasse d’essere un vile, non era mai riuscito a pervenire a un simile risultato. La cosa era venuta da sé, con gli anni. Adesso cavalcava a fianco di Il’in fra le betulle, strappando di tanto in tanto delle foglie dai rami che gli capitavano sotto mano, a volte sfiorando col piede la pancia del cavallo, a volte passando senza voltarsi la pipa spenta all’ussaro che lo seguiva; e davvero aveva un’aria tranquilla e spensierata, come che stesse facendo una passeggiata. Lo costernava, a guardarla, la faccia emozionata di Il’in che parlava molto, con palese inquietudine; conosceva per esperienza quel tormentoso stato d’animo legato all’attesa della paura e della morte, in cui doveva trovarsi il cornetta, e sapeva che nulla, all’infuori del tempo, avrebbe potuto aiutarlo.

Non appena il sole affiorò in una striscia di cielo sereno al di sotto di una nuvola, il vento si calmò come se non osasse sciupare quell’incantevole mattino d’estate che seguiva a un temporale; le gocce cadevano ancora, ma verticalmente, regnava una calma profonda. Il sole emerse per intero dall’orizzonte; quindi scomparve dentro una sovrastante nube, lunga e stretta. Qualche minuto dopo, però, esso apparve ancor più luminoso sull’orlo superiore della nuvola, lacerandone i bordi. Tutto s’illuminò e brillò. E, insieme a quella luce, come rispondendo al suo richiamo, echeggiarono, davanti, colpi di cannone.

Rostov non aveva ancora fatto in tempo a riflettere e a stabilire la distanza che li separava da quelle cannonate, che da Vitebsk arrivò al galoppo l’aiutante di campo del conte Osterman-Tolstoj, con l’ordine di proseguire al trotto lungo la strada.

Lo squadrone superò la fanteria e la batteria, che a loro volta si affrettarono a procedere più veloci; scese giù da un’altura, e attraversato un villaggio deserto, evacuato dalla popolazione, risalì sul crinale di un’altra altura. I cavalli cominciarono a schiumare, gli uomini erano rossi e accaldati.

«Alt! Allinearsi!» risuonò in testa l’ordine del comandante dei due squadroni.

«Avanti l’ala sinistra, al passo, marsc!» si susseguivano gli ordini, in testa.

Passando davanti alle truppe schierate, gli ussari si portarono al fianco sinistro della posizione e si disposero dietro gli ulani, che occupavano le prime file. A destra c’era una fitta colonna della nostra fanteria (erano le forze di riserva); più su, in cima a un colle, nell’aria limpidissima, nella netta e obliqua luce del mattino, proprio sull’orizzonte, si scorgevano i nostri cannoni. Più avanti, oltre un piccolo avvallamento, si vedevano le colonne e i cannoni del nemico. Nell’avvallamento si udiva la nostra prima linea che era già entrata in azione e sgranava briosamente spari d’artiglieria con quella del nemico.

Questi rumori che da tempo non udiva resero euforico Rostov come le note della musica più gaia. «Trapta-ta-tap!» schioccavano gli spari, ora isolati e improvvisi, ora succedendosi rapidi l’uno all’altro. Poi di nuovo tutto tacque, poi di nuovo si udì quel crepitio di mortaretti, come se qualcuno ci camminasse sopra. Gli ussari rimasero fermi per circa un’ora nello stesso posto. Era incominciato anche il cannoneggiamento. Il conte Osterman-Tolstoj passò col suo seguito dietro lo squadrone; si fermò a parlare col comandante del reggimento, poi si allontanò verso le postazioni dei cannoni in cima alla collina.

Subito dopo che Osterman si era allontanato, fra gli ulani echeggiò l’ordine: «In colonna, schierarsi per l’attacco!» La fanteria davanti a loro divise in due i plotoni per lasciar passare la cavalleria. Gli ulani si misero in moto, facendo oscillare le banderuole delle lance, e discesero al trotto verso la cavalleria francese, che era comparsa a sinistra sotto la collina.

Non appena furono scesi dalla collina gli ulani, venne ordinato agli ussari di salirvi sotto la copertura della batteria. Mentre gli ussari si disponevano al posto degli ulani, dalla prima linea passarono in volo sopra le loro teste, gemendo e sibilando, lontane pallottole che andarono a vuoto.

Questo suono che non udiva da tanto tempo produsse in Rostov un effetto ancor più gaio ed elettrizzante del crepitare della fucileria risuonato poc’anzi. Ergendosi sul cavallo, scrutava il campo di battaglia che si apriva davanti alla collina e con tutta l’anima partecipava al movimento degli ulani. Questi volarono veloci a ridosso dei dragoni francesi; qualcosa, laggiù, si confuse nel fumo e cinque minuti più tardi gli ulani si buttarono indietro: non nel punto ove stavano prima, ma più a sinistra. Frammisti all’arancione degli ulani e al fulvo dei loro cavalli - e dietro di essi, in massa compatta - si scorgeva il turchino dei dragoni francesi sui loro cavalli bigi.

XV

Rostov, col suo occhio acuto, da cacciatore, fu uno dei primi a intercettare gli azzurri dragoni francesi che inseguivano i nostri ulani. Questi si avvicinavano sempre più, a gruppi sparpagliati, incalzati dai dragoni francesi che li inseguivano ormai da presso. Già si poteva vedere come quegli uomini, che laggiù in basso sembravano tanto piccoli, ora si urtassero, ora s’incalzassero a vicenda agitando le braccia e le sciabole.

Rostov guardava ciò che accadeva dinnanzi a lui come chi assista all’inseguimento della selvaggina nel corso di caccia. Una sorta di fiuto gli diceva che se gli ussari avessero sferrato in questo momento l’attacco contro i dragoni francesi, questi non avrebbero tenuto; ma, se si doveva colpire, bisognava agire subito, all’istante, altrimenti sarebbe stato troppo tardi. Si guardò attorno: il capitano, in piedi accanto a lui, al pari di lui non distoglieva gli occhi dalla cavalleria, laggiù in basso.

«Andrej Sevast’Janyè,» disse Rostov, «li potremmo schiacciare, vero?»

«Sarebbe un colpo mancino,» disse il capitano, «ma, in effetti…»

Rostov non indugiò ad ascoltarlo; spinse il cavallo e galoppò in testa allo squadrone; ma non aveva ancora avuto il tempo di comandare il movimento, che già l’intero squadrone, avendo provato il medesimo impulso, mosse dietro di lui. Rostov per primo non sapeva come e perché avesse agito in questo modo. Fece tutto come era solito fare a caccia, senza pensare, senza ragionare. Vedeva che i dragoni erano vicini, che galoppavano, che avevano le file scompigliate; sapeva che non avrebbero tenuto, sapeva che c’era un solo istante che non si sarebbe ripetuto se egli se lo fosse lasciato sfuggire. Le pallottole che gemevano e sibilavano intorno a lui erano così esaltanti. Il cavallo si lanciava avanti con tanto ardore, che non poté resistere. Spinse avanti il cavallo, gridò alto il comando, e nello stesso istante, sentendo dietro di sé il rumore degli zoccoli del suo squadrone spiegato e lanciato al gran trotto, cominciò a scendere giù dalla collina verso i dragoni. Non appena furono in basso, involontariamente il loro trotto si trasformò in galoppo, che si faceva sempre più veloce nella misura in cui essi si andavano avvicinando ai nostri ulani e agli incalzanti dragoni francesi.

Ormai i dragoni erano vicinissimi. Quelli in testa, vedendo gli ussari, cominciarono a invertire il movimento, quelli di dietro si fermarono. Con lo stesso sentimento con cui s’era buttato tante volte a tagliar la strada al lupo, lanciato a tutta velocità il suo cavallo del Donec, Rostov galoppava di traverso per tagliar la strada alle file scompigliate dei dragoni francesi. Un ulano si fermò, un soldato appiedato si buttò a terra per non essere schiacciato, un cavallo senza cavaliere si imbrancò con gli ussari. Quasi tutti i dragoni francesi galoppavano indietro a precipizio. Adocchiatone uno in sella a un cavallo grigio, Rostov si gettò al suo inseguimento. Lungo la strada gli si parò dinanzi un cespuglio; il suo ottimo cavallo lo scavalcò con un balzo; poi riassestatosi con qualche sforzo sulla sella, Nikolaj vide come nel giro di pochi istanti avrebbe raggiunto il nemico che si era scelto come bersaglio. Quel francese che, dall’uniforme, doveva essere un ufficiale, galoppava curvo sopra il suo cavallo grigio, spronandolo con la sciabola. Un attimo dopo il cavallo di Rostov urtò col petto contro le terga del cavallo dell’ufficiale francese: per poco non lo fece stramazzare, e nello stesso istante, senza nemmeno sapere perché, Nikolaj sollevò la sciabola e colpì il francese.

Nell’istante stesso in cui compiva quel gesto, tutta l’eccitazione di Rostov scomparve a un tratto. L’ufficiale cadde: non tanto per l’urto della sciabola, che gli aveva causato solo una lieve ferita al braccio, poco sopra il gomito, quanto per l’urto violento del cavallo e per lo spavento. Rostov, trattenendo il cavallo, cercava con gli occhi il suo nemico, per vedere chi avesse vinto. Quell’ufficiale francese dei dragoni con una gamba brancicava a terra, con l’altra si era impigliato nella staffa. Batteva le palpebre, terrorizzato, come se da un momento all’altro si aspettasse un nuovo colpo: contraendo il viso in una smorfia di spavento sogguardava Rostov dal basso all’alto. La sua faccia giovane e bionda, pallida e inzaccherata di fango, con una fossetta sul mento e limpidi occhi azzurri, era la faccia meno adatta a un campo di battaglia: non un volto da nemico, ma un volto normale, comune, casalingo. Ancor prima che Rostov avesse deciso che fare di lui, l’ufficiale gridò: «Je me rends!» Si accaniva a voler liberare il piede dalla staffa, ma non poteva, e guardava Rostov senza distogliere da lui quegli occhi, azzurri e spaventati.

Sopravvenuti altri ussari, gli liberarono il piede e lo rimisero in sella. Altri ussari si davano da fare in vari punti con i dragoni: uno era ferito, ma pur avendo il viso insanguinato, non cedeva il cavallo; un altro, abbrancato a un commilitone stava seduto sulla groppa del suo cavallo; un terzo, sorretto da un ussaro, stava montando sul cavallo di quest’ultimo. Davanti a loro correva, sparando, la fanteria francese. Gli ussari indietreggiarono veloci coi loro prigionieri, e anche Rostov galoppò indietro insieme con gli altri, provando non sapeva quale sorta di sgradevole sentimento che gli stringeva il cuore. Qualcosa di poco chiaro, d’intricato, che egli non riusciva assolutamente a spiegarsi, gli si era rivelato con la cattura di quel prigioniero e con il colpo che gli aveva inferto.

Il conte Osterman-Tolstoj accolse gli ussari di ritorno, fece chiamare Rostov e lo ringraziò, dicendogli che avrebbe fatto presente all’imperatore la sua azione coraggiosa, sollecitando per lui la croce di San Giorgio. Quando Rostov venne chiamato per recarsi dal conte Osterman, egli ricordandosi che l’attacco era stato sferrato senza che ce ne fosse l’ordine, si convinse che il superiore lo volesse punire per la sua azione arbitraria; cosicché le parole lusinghiere di Osterman e la promessa della decorazione avrebbero dovuto tanto più lietamente stupirlo. Invece sempre quel sentimento sgradevole e confuso continuava a dargli una sorta di nausea morale.

«Cos’è che mi tormenta?» si domandò, congedandosi dal generale. «Il’in, forse? No, Il’in è sano e salvo. Mi sono forse macchiato di qualcosa? No, non si tratta di questo!» Qualcos’altro lo tormentava, come fosse stato un rimorso. «Sì, sì, è quell’ufficiale francese con la fossetta. Come mi ricordo il gesto col quale ha arrestato il mio braccio mentre lo alzavo!»

Vide i prigionieri che venivano portati via e galoppò dietro di loro per dare un’occhiata al suo francese con la fossetta sul mento. Quello, con la sua strana uniforme, sedeva in groppa a un cavallo di riserva degli ussari e si guardava intorno preoccupato. La sua ferita al braccio non era nemmeno una vera e propria ferita. Sorrise con aria ipocrita a Rostov e gli fece un segno della mano, come per salutarlo. Rostov continuava a provare un senso vago di disagio e di vergogna.

Per l’intera giornata e per quella successiva gli amici e i compagni di Rostov notarono che quest’ultimo, senza essere triste o contrariato, appariva nondimeno scontroso e taciturno. Beveva di malavoglia, cercava la solitudine e sembrava assorbito da un costante pensiero.

Rostov, in effetti, pensava di continuo a quella sua brillante impresa che, con sua meraviglia, gli aveva meritato la croce di San Giorgio e persino la reputazione di eroe, ma non riusciva assolutamente a capire una cosa. «Dunque, loro hanno ancora più paura di noi!» si diceva. «Allora è questo, il cosiddetto eroismo? Ed io ho forse agito per la patria? E che colpa ne ha, lui, con quella sua fossetta nel mento e quei suoi occhi azzurri? Come si è spaventato! Credeva che lo uccidessi. Ma perché avrei dovuto ucciderlo? Mi tremava la mano. E mi hanno dato la croce di San Giorgio! Mah! Non ci capisco proprio niente!»

Mentre Nikolaj rimuginava fra sé questi interrogativi senza trovare una risposta soddisfacente ai quesiti che tanto lo turbavano, la ruota della fortuna nella sua carriera, come sovente accade, si era messa a girare a suo vantaggio. Dopo l’episodio di Ostrovnja fu promosso di grado, gli diedero un battaglione di ussari e, quando avevano bisogno di un ufficiale coraggioso, affidavano a lui le missioni.

XVI

Avuta notizia della malattia di Nataša, la contessa, ancora debole e non del tutto ristabilita, era giunta a Mosca insieme a Petja e a tutta la servitù. La famiglia Rostov al completo si era trasferita dalla casa di Mar’ja Dmitrievna nella propria, fissandosi definitivamente a Mosca.

La malattia di Nataša era così seria che, per fortuna sua e dei genitori, il pensiero di quella che era stata la causa della sua malattia, il suo modo di agire e la rottura con il fidanzato passarono in secondo piano. Era così malata, che non si poteva indugiare sul pensiero della sua colpevolezza per quanto ora non mangiava, non dormiva, dimagriva a vista d’occhio, tossiva e, a quanto lasciavano capire i dottori, correva grave pericolo. Bisognava pensare soltanto ad aiutarla. I dottori si recarono a trovare Nataša singolarmente o radunati a consulto, parlavano molto in tedesco, in francese e in latino, si criticavano l’un l’altro, prescrivevano le più svariate medicine contro ogni malattia di cui avessero nozione; ma a nessuno di loro passava per la mente la semplice idea che essi non potevano conoscere la malattia di cui soffriva Nataša, così come non si può conoscere nessuna malattia da cui sia colto un uomo vivente, giacché ogni uomo ha le sue peculiarità e ha sempre una propria malattia nuova e particolare, complicata e ignota alla scienza medica: non una malattia dei polmoni, del fegato, della pelle, del cuore, dei nervi eccetera, così come sono descritti in medicina, ma una malattia dovuta a una delle innumerevoli combinazioni che scaturiscono dalle affezioni di tali organi. Questa semplice idea non poteva passare per la mente dei medici (così come non può passare per la mente di uno stregone l’idea che egli non possa operare sortilegi), perché il loro scopo basilare consiste nel curare, perché per questo essi ricevono soldi, e a tale scopo hanno speso gli anni migliori della loro vita. Ma soprattutto quest’idea non poteva venire loro in mente perché vedevano quanto utile fosse la loro presenza, in effetti, a tutte le persone di casa Rostov. Essi non erano utili perché facevano inghiottire alla malata dei medicamenti in gran parte nocivi (questo danno era poco sensibile, perché le sostanze nocive venivano somministrate in piccole dosi), ma erano utili, necessari, inevitabili (la stessa ragione per cui ci sono e sempre ci saranno pseudoguaritori, maghi, omeopati e allopati), perché soddisfacevano l’esigenza morale della malata e delle persone che alla malata volevano bene. Essi appagavano quell’eterno bisogno dell’uomo di sperare in un sollievo, il bisogno di partecipazione altrui, affettiva e attiva che l’uomo prova quando soffre. Soddisfacevano a quell’eterno bisogno umano - rilevabile, nella sua forma primitiva già nel bambino - che è il bisogno di nuocere e accarezzare la parte che ci duole. Il bambino si fa male e subito corre nelle braccia di sua madre, o della bambinaia, perché lo bacino e gli massaggino il punto che duole: e in effetti si sente meglio, quando lo massaggiano o gli baciano quel punto. Il bambino non può non credere che chi è tanto più forte e sapiente di lui non abbia i mezzi per alleviare il suo dolore. E la speranza di un sollievo, l’affetto e la tenera solidarietà di sua madre mentre massaggia il suo bernoccolo valgono a consolarlo. A Nataša i medici erano dunque utili perché baciavano e massaggiavano la «bua», assicurandole che sarebbe passata subito: bastava che il cocchiere fosse andato alla farmacia sull’Arbat e avesse comperato un rublo e sessanta copechi di polvere e pillole confezionate in vezzose scatolette, e che la malata avesse trangugiato quelle polveri sciolte in acqua bollita rispettando rigorosamente un intervallo di due ore tra una dose e l’altra.

Che cos’avrebbero fatto Sonja, il conte e la contessa? Come avrebbero potuto starsene a guardare la debole Nataša che dimagriva a vista d’occhio, senza far nulla, se non ci fossero state quelle pillole all’ora stabilita, le bevande tiepide, la costolettina di pollo e tutte quelle regole di vita spicciole che il dottore prescriveva e la cui osservanza rappresentava l’occupazione e la consolazione di chi circondava la malata? Quanto più severe e complicate erano queste regole, tanto più consolante era la cosa per chi la circondava. Come avrebbe sopportato, il conte, la malattia della figlia prediletta se non avesse saputo che questa malattia gli costava migliaia di rubli e che egli non avrebbe esitato a spenderne altre migliaia pur di recarle giovamento; se non avesse avuto la consapevolezza che, se nemmeno così si fosse ripresa, egli non avrebbe esitato a sacrificarne altri mille ancora, e che l’avrebbe portata all’estero, e ivi avrebbe chiesto altri consulti medici; se non avesse avuto la possibilità di raccontare nei minuti particolari come Métivier e Feller non avessero capito nulla, mentre Frise aveva capito e Mudrov aveva diagnosticato la malattia con precisione e acume anche maggiori? Che cosa avrebbe fatto, la contessa, se talvolta non avesse potuto inquietarsi con Nataša perché non osservava alla lettera le prescrizioni mediche?

«Così non guarirai mai,» diceva, dimenticando per la stizza il proprio dolore, «se non dai retta al dottore e non prendi in tempo le medicine! C’è poco da scherzare quando ti potrebbe venire una pneumonia!» diceva la contessa; e già nel pronunciare questa parola non per lei sola incomprensibile, provava un gran conforto.

Che cos’avrebbe fatto, Sonja, se non avesse avuto la gioiosa consapevolezza che, nel primo periodo della malattia di Nataša, per tre notti non si era svestita, per esser pronta ad eseguire a puntino tutte le prescrizioni del medico, e che anche adesso la notte non dormiva per non lasciarsi sfuggire le ore in cui bisognava somministrare quelle certe pillole (non troppo dannose…) contenute nella scatoletta dorata? E persino per Nataša - anche se, a sentir lei, nessuna medicina avrebbe saputo guarirla, e che erano tutte stupidaggini - perfino per lei era consolante vedere che per la sua salute si facevano tanti sacrifici, che ad ore fisse doveva prendere le medicine; e perfino le riusciva di conforto poter dimostrare che, trascurando di fare quanto le era stato prescritto, non credeva nella guarigione e non dava importanza alla propria vita.

Il medico veniva ogni giorno, le tastava il polso, le guardava la lingua, e senza far caso al suo viso abbattuto, scherzava con lei. Ma in compenso, quando egli passava nell’altra stanza, la contessa si affrettava a seguirlo ed egli, assumendo un’aria contegnosa e scuotendo il capo impensierito, diceva che il pericolo sussisteva, ma nondimeno nutriva fiducia nell’efficacia di quell’ultima medicina, che bisognava aspettare e stare a vedere… che la malattia era soprattutto d’ordine psicologico, ma…

Cercando di nascondere l’atto a se stessa e al dottore, la contessa gli faceva scivolare in mano una moneta d’oro e ogni volta ritornava dalla malata col cuore più tranquillo.

I sintomi della malattia di Nataša consistevano nel mangiar poco, dormir poco, tossire, e nel non riprendere le forze perdute. I dottori dicevano che non si poteva lasciare la malata senza assistenza medica, cosicché, nonostante l’afa estiva, la trattenevano in città. Fu così che nell’estate 1812 i Rostov non andarono in campagna.

Ma nonostante la gran quantità di pillole ingoiate, nonostante le gocce e polverine in fialette e scatolette - di cui M.me Schoss, appassionata di queste cianfrusaglie, aveva raccolto una cospicua collezione - nonostante la mancanza dell’abituale soggiorno in campagna, la giovinezza ebbe il sopravvento: il dolore di Nataša cominciò a venir ricoperto dall’accumularsi delle impressioni quotidiane; smise di pesarle sul cuore con una fitta così lancinante e cominciò a trasformarsi in passato. E pian piano le condizioni fisiche di Nataša cominciarono a migliorare.

XVII

Ora Nataša era più tranquilla, ma non più allegra. Non soltanto evitava tutte le occasioni esteriori di allegrezza - balli, passeggiate, concerti e teatro - ma non rideva mai senza che sotto il riso non si sentissero le lacrime. Non cantava più. Appena cominciava a ridere, o provava a cantare fra sé, un impeto di furia la soffocava: lacrime di pentimento, lacrime di ricordo di quell’epoca irreversibile e pura; lacrime di dispetto per aver rovinato per nulla la propria giovane vita che avrebbe potuto essere così felice. Ridere e cantare, più di ogni altra cosa, le parevano un sacrilegio. Alla civetteria non ci pensava neppure; non aveva nemmeno bisogno di fare uno sforzo per astenersene. Diceva (ed era quel che provava) che adesso tutti gli uomini erano per lei né più né meno come Nastas’ja Ivanovna, il buffone di casa. Un guardiano interiore le vietava ogni gioia. In lei si erano sopiti tutti gli interessi della sua vita di ragazza, spensierata e traboccante di liete speranze. Più spesso e con maggior pena d’ogni altra cosa, ricordava i mesi dell’autunno, la caccia, lo zio e le feste di Natale passate con Nicolaj a Otradnoe. Che cosa non avrebbe dato per far ritornare anche un giorno solo di quel tempo felice! Ma quelle erano, ormai, cose finite per sempre. Non l’aveva ingannata, allora, il presentimento che una siffatta condizione di libertà e disposizione di ogni gioia non sarebbe durata in eterno. Eppure bisognava continuare a vivere.

La consolava pensare di non essere migliore, come prima credeva: ma peggiore, molto peggiore di tutte le creature umane di questo mondo. Ma ciò era poco. Lei lo sapeva e si domandava: «E poi?»

«Poi» non c’era nulla. Non c’era nessuna gioia, nella vita; e intanto la vita passava. L’unico sforzo di Nataša stava nel non essere di peso a nessuno e nel non dar fastidio a nessuno; ma per sé non aveva bisogno di nulla. Si era staccata da tutti i familiari e si sentiva a suo agio solo con suo fratello Petja. La sua compagnia le era gradita più di quella d’ogni altro, a volte, quand’era sola con lui, le accadeva di ridere. Non usciva quasi mai di casa, e fra quanti la visitavano era contenta di vedere una sola persona: Pierre. Nessuno sapeva rivolgerle la parola in modo più affettuoso, e al tempo stesso garbato e riguardoso, del conte Bezuchov. Nataša inconsciamente sentiva questa carica di tenerezza, nel suo modo di trattarla, e perciò traeva vivo piacere dalla sua compagnia. Ma non gli era neppure grata di codesta tenerezza: nulla di quanto riceveva di buono da parte di Pierre le sembrava frutto di uno sforzo. Si sarebbe detto che a Pierre riuscisse del tutto naturale mostrarsi buono con chiunque, e che pertanto nella sua bontà non ci fosse alcun merito. A volte Nataša coglieva in Pierre, quando era in sua presenza, un certo imbarazzo e turbamento, specie quando voleva fare per lei qualcosa che le riuscisse accetto, allorché temeva che qualcosa in un discorso la riportasse col pensiero a ricordi penosi. Nataša se ne accorgeva e attribuiva, appunto, la cosa a quella diffusa e generica bontà di Pierre la quale, secondo il suo modo di vivere, doveva esprimersi con tutti nello stesso modo. Da quando aveva fugacemente confessato che, se fosse stato libero, l’avrebbe pregata in ginocchio di concedergli la sua mano e il suo amore - parole pronunciate in un momento di intenso turbamento per Nataša - Pierre non le aveva più confidato nulla dei suoi sentimenti; sicché lei s’era convinta che quelle parole, che allora l’avevano tanto confortata, fossero state dette al solo scopo di consolarla, ma fossero in realtà prive di senso, come si fa con un bambino che piange. Non perché Pierre fosse già sposato, ma perché Nataša sentiva fra sé e sé in altissimo grado la forza delle barriere morali di cui, invece, aveva sentito l’assenza tra lei e Kuragin, mai le passò per il capo che dai suoi rapporti con Pierre potesse scaturire - da parte sua o tanto meno da parte di lui - non solo l’amore, ma persino quella sorta di tenera poetica amicizia fra uomo e donna, di cui lei conosceva vari esempi.

Alla fine del periodo di digiuno per la festa di San Pietro, Agrafena Ivanovna Belova, proprietaria di una tenuta vicino a quella di Otravnoe, appartenente ai Rostov, venne a Mosca per rendere omaggio ai santi moscoviti e propose a Nataša di compiere insieme le devozioni di rito. Nataša acconsentì con gioia a questa proposta. Nonostante il divieto del dottore di uscire di buonora, Nataša insistette per far la comunione: non come si faceva di solito in casa Rostov - ossia ascoltando tre funzioni in casa - ma come vi si accostava Agrafena Ivanovna, ossia senza mancare per l’intera settimana a un vespro, a una messa o a un mattutino.

La contessa si compiacque di questo zelo di Nataša; in cuor suo, dopo l’insuccesso delle cure mediche, ella nutriva la speranza che la preghiera potesse giovarle più delle medicine. Così, non senza timore e di nascosto dai medici, acconsentì al desiderio di Nataša e l’affidò alla Belova. Alle tre di notte Agrafena Ivanovna veniva a svegliare Nataša, e per lo più la trovava sveglia. Nataša aveva paura di far tardi per l’ora del mattutino. Si lavava in fretta, indossava con umiltà l’abito più brutto che aveva e una vecchia mantiglia e rabbrividendo per il freddo usciva nelle strade deserte illuminate dal diafano chiarore dell’alba. Per consiglio di Agrafena Ivanovna, Nataša aveva scelto per le sue devozioni non la sua parrocchia, ma una chiesa in cui, a detta della pia Belova, c’era sempre poca gente; Nataša e la Belova sedevano al solito posto davanti a un’icona della Madonna sistemata dietro il coro di sinistra, e Nataša si sentiva sopraffatta da un sentimento per lei nuovo, di umiltà di fronte al sublime e all’imponderabile mentre in quell’ora inconsueta del mattino, guardando il nero volto della Vergine illuminato dalle candele che gli ardevano dinanzi e dalla luce mattutina che pioveva dalla finestra, ella ascoltava le parole della funzione che cercava di seguire sforzandosi di comprenderle. Quando la comprendeva, il suo sentimento personale con tutte le sue sfumature si assommava alla sua preghiera; quando non la comprendeva, le riusciva ancor più dolce pensare che il desiderio di comprendere tutto è orgoglio; che tutto non si può comprendere, che bisogna soltanto credere e abbandonarsi a Dio, il quale in quei momenti - lei lo sentiva - guidava la sua anima. Si faceva il segno della croce, si prosternava, e quando non capiva, spaventata della propria indegnità, si limitava a scongiurare Iddio di perdonarle tutto, tutto, e di aver misericordia per lei. Le preghiere nelle quali s’immergeva erano soprattutto preghiere di pentimento. Tornando a casa, in quelle prime ore del mattino (nelle quali s’incontravano soltanto muratori che andavano al lavoro, portinai che spazzavano la strada) e in casa tutti dormivano ancora, Nataša provava un sentimento affatto nuovo per lei, l’impressione che le fosse possibile correggersi dei vecchi vizi, della possibilità di una vita nuova e pura e di una nuova felicità.

Durante tutta la settimana in cui visse in tal modo, questo sentimento s’accentrò in lei ogni giorno. E la felicità di comunicarsi o di comunicare con Dio (come, in un gaudioso gioco di parole, le diceva Agrafena Ivanovna) le sembrava così grande da darle l’impressione che non sarebbe vissuta fino a quella beata domenica.

Ma il lieto giorno arrivò, e quando Nataša in quella domenica per lei memorabile ritornò dalla comunione col suo abito di mussola bianca, per la prima volta dopo molti mesi si sentì tranquilla, libera da ogni senso di oppressione al pensiero della vita che le si presentava dinanzi.

Il dottore, venuto come di consueto anche quel giorno, visitò Nataša con molta cura e le disse di continuare a prendere le polverine che le aveva prescritto due settimane prima.

«Continuare assolutamente a prenderle mattina e sera,» disse, con evidente, intima soddisfazione in coscienza del suo successo. «Solo, per piacere, ci vuole maggior diligenza. State tranquilla, contessa,» aggiunse poi, scherzoso, mentre con mossa destra accoglieva nel palmo della mano la moneta d’oro, «presto tornerà a cantare, tornerà a far la birichina. L’ultima medicina le ha fatto molto bene. Ha avuto un’ottima ripresa.»

La contessa si guardò le unghie, e per precauzione sputò due o tre volte, mentre tornava verso il salotto, il volto atteggiato a una espressione di lieta compiacenza.

XVIII

Ai primi di luglio, si diffusero a Mosca voci sempre più allarmanti sull’andamento della guerra: si parlava del proclama dell’imperatore al popolo, dell’arrivo a Mosca dal fronte del sovrano in persona. Ma siccome fino all’11 luglio non erano giunti né il manifesto né il proclama, su di essi e sulla situazione della Russia correvano voci esagerate. Si diceva che l’imperatore partiva perché l’esercito era in pericolo; che Smolensk era stata abbandonata, che Napoleone aveva un milione di soldati e che soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare la Russia.

L’11 luglio, un sabato, giunse il manifesto, ma non ancora stampato. Pierre, che era stato dai Rostov, promise di venire a pranzo l’indomani, domenica, e di portare il manifesto e il proclama che avrebbe ottenuto dal conte Rastòp?in.

Come di consueto, quella domenica i Rostov si recarono alla messa nella cappella privata dei Razumovskij. Era una calda giornata di luglio. Già alle dieci, quando scesero di carrozza davanti alla chiesa, nell’aria ardente, nei gridi di venditori ambulanti, nelle foglie impolverate degli alberi del boulevard, nelle note della musica e nei pantaloni bianchi del battaglione che si apprestava al cambio della guardia, nel frastuono della strada e nel lucente fulgore del sole infuocato si percepivano quello struggimento estivo, quella soddisfazione e quell’insoddisfazione del presente che si avvertono in modo vieppiù accentuato in città, nelle limpide e calde giornate estive. Nella chiesa dei Razumovskij c’erano tutta l’aristocrazia moscovita, tutte le conoscenze dei Rostov (quell’anno, come in attesa di qualcosa, molte famiglie abbienti, che di solito si trasferivano in campagna, erano invece rimaste in città). Camminando dietro un domestico in livrea che scansava la folla, Nataša udì la voce di un giovano che, con un bisbiglio troppo forte, diceva, riferendosi a lei:

«È la Rostova, quella che…»

«Com’è dimagrita! Però è sempre bella!»

Udì, o le parve di udire, che qualcuno pronunciasse i nomi di Kuragin è di Bolkonskij. Del resto, aveva sempre avuto quest’impressione: l’impressione che tutti, guardandola, pensassero solo a quanto le era accaduto. Soffrendo e sentendosi venir meno, come sempre quando le accadeva di trovarsi in mezzo alla folla, Nataša camminava nel suo abito di seta lilla a ricami neri così come sanno camminare le donne, in modo tanto più calmo e altero quanto maggiori erano il dolore e la vergogna che le struggevano l’anima. Sapeva di esser bella, e in questo non si sbagliava; ma ora tale consapevolezza non la rallegrava più come un tempo. Al contrario, negli ultimi tempi questo era ciò che più d’ogni altra cosa la tormentava; e tanto più ora in questa serena giornata estiva, a Mosca. «Ancora una domenica, ancora una settimana,» si diceva, ricordando la sua venuta qui la domenica scorsa; sempre la stessa vita senza vita, sempre lo stesso ambiente nel quale era così facile vivere, prima. «Sono bella, sono giovane, e so che adesso sono buona. Prima ero cattiva, ma adesso sono buona, lo so,» pensava, «e intanto gli anni migliori passano così, senza scopo, senza qualcuno per cui vivere.» Si mise accanto alla madre e scambiò un cenno del capo, a mo’ di saluto, con alcuni conoscenti accanto a loro. Per abitudine Nataša guardava le toilettes delle signore, criticò la tenue di una signora che le stava vicino e quel suo sconveniente, affrettato farsi il segno della croce con brevi gesti della mano; poi ripensò con dispetto che gli altri criticavano lei, come lei criticava gli altri. Poi, all’improvviso, udendo la voce dei celebranti inorridì della propria bassezza, inorridì al pensiero di aver perduto di nuovo la purezza dei giorni precedenti.

Un vecchio tranquillo e di bell’aspetto officiava con quella mite solennità che agisce in modo tanto solenne e tranquillante sulle anime dei devoti. La porta reale si chiuse, lentamente si spiegò la cortina e di là una voce sommessa e misteriosa proferì qualcosa. Nataša sentì che le lacrime le opprimevano il petto, senza che lei riuscisse a capirne la ragione e un sentimento di gioia e di languore indicibile le sommuoveva il cuore.

«Insegnami quel che devo fare, come correggermi per sempre, per sempre… che cosa devo fare della mia vita…» pensava.

Il diacono avanzò sull’ambone; allargando il pollice si ravviò i lunghi capelli che gli uscivano dalla dalmatica; poi posatasi la croce sul petto, prese a recitare in tono alto e solenne le parole della preghiera:

«Concordi preghiamo il Signore…»

«Concordi, tutti insieme, senza diversità di condizione, senza astio, ma uniti da un amore fraterno, preghiamo» pensava Nataša.

«Per il mondo di lassù e per la salvezza delle anime nostre!»

«Per il mondo degli angeli e delle anime di tutte le creature incorporee che vivono sopra di noi,» pregò Nataša

Quando pregarono per l’esercito, ella si ricordò del fratello e di Denisov. Quando pregarono per i naviganti e i viaggiatori, si ricordò del principe Andrej e pregò per lui, e pregò affinché Dio le perdonasse il male che gli aveva fatto. Quando pregarono per coloro che ci amano, pregò per i suoi familiari, per il padre, la madre, per Sonja: ora per la prima volta comprendeva tutta la gravità della propria colpa di fronte a loro, sentendo tutta la forza dell’amore che provava per loro. Quando pregarono per coloro che ci odiano, si inventò dei nemici e degli odiatori al solo scopo di poter pregare per loro. Poneva fra i nemici i creditori e tutti coloro che avevano a che fare con suo padre. E ogni volta, al pensiero dei nemici e di coloro che ci odiano, si ricordava di Anatol’ che le aveva fatto tanto male; e sebbene questo ultimo non fosse un odiatore, pregò gioiosamente per lui come per un nemico. Solo nella preghiera trovava la forza di ricordare con calma e con chiarezza sia il principe Andrej, sia Anatol’, come persone verso le quali i suoi sentimenti erano nulla in confronto al suo sentimento di paura e di reverenza per Dio. Quando pregarono per la famiglia imperiale e per il Sinodo, si prosternò facendosi il segno della croce con particolare devozione; e si ripeteva che, se anche non riusciva a capire, non poteva tuttavia dubitare, e comunque doveva amare il Sinodo in carica e pregare per esso.

Terminato il responsorio, il diacono incrociò la stola sul petto e proferì:

«Noi stessi e la nostra vita rimettiamo a Cristo Signore.»

«Noi stessi rimettiamo al Signore,» ripeté nella sua anima Nataša. «Signore Iddio, mi affido alla Tua volontà,» pensò Nataša. «Non voglio, non desidero nulla; insegnami Tu quel che devo fare, come usare la mia volontà! Prendimi con te, prendimi con te!» ripeteva con una sorta di commossa trepidazione nell’anima, senza farsi il segno della croce e lasciando cadere le sue braccia esili, come aspettandosi che da un momento all’altro una forza invisibile l’afferrasse liberandola da lei stessa, dai suoi rimpianti, desideri, recriminazioni, speranze, peccati.

Più volte durante il rito la contessa si volse a guardare il viso commosso e gli occhi lucidi di sua figlia, e pregava Dio affinché la soccorresse.

A metà funzione - in modo affatto inatteso e non secondo l’ordine consueto, a Nataša ben noto - il diacono portò uno sgabello (lo stesso usato per la preghiera genuflessa del giorno della Trinità) e lo posò davanti alla porta maggiore. Il sacerdote uscì con la sua calotta di velluto viola, si accomodò i capelli e si inginocchiò con uno sforzo. Tutti lo imitarono e intanto si guardavano l’un l’altro perplessi. Era una preghiera appena ricevuta dal Sinodo: una preghiera per la salvezza della Russia dall’invasione nemica.

«Signore Iddio degli eserciti, Dio della nostra salvezza,» cominciò a dire il prete con quella voce chiara, senza enfasi e mite con cui recitano solamente i lettori ecclesiastici di lingua slava e che produce un effetto ineffabile sul cuore russo. «Signore Iddio degli eserciti, Dio della nostra salvezza! Guarda con clemenza e generosità l’umile popolo Tuo, e benigno ascoltaci, abbi pietà e misericordia di noi. Il nemico sconvolge la Tua terra, vuole farne un immenso deserto, e si leva pertanto contro di noi; uomini senza legge si sono radunati per distruggere il Tuo dominio, rovinare la Tua pura Gerusalemme, la Tua amata Russia; vuole insozzare i Tuoi templi, abbattere gli altari e profanare il nostro santuario: Fino a quando, o Signore, fino a quando i peccatori saranno esaltati? Fino a quando potranno esercitare il loro delittuoso potere?

Signore Iddio! Ascolta la nostra supplica: rafforza con la Tua possenza il nostro autocrate, il grande sovrano nostro, l’imperatore Aleksandr Pavloviè; ricorda la sua giustizia e la sua mitezza, ricompensalo per la sua bontà, e conservala anche a noi, che siamo il Tuo amato Israele. Benedici i suoi consigli, le sue imprese, i suoi propositi; rafforza con la Tua mano onnipotente il suo regno e concedigli la vittoria sul nemico, come la concedesti a Mosé su Amalech, a Gedeone su Madiam, a David su Golia. Proteggi il suo esercito, poni un arco di bronzo sotto il braccio di coloro che combattono nel Tuo nome e cingili di forza per la battaglia. Prendi le armi e lo scudo e lèvati in nostro aiuto, onde siano coperti d’onta e di vituperio coloro che ci vogliono male; che di fronte all’esercito, a Te fedele, essi siano come polvere dinanzi al vento; che l’Angelo Tuo possente li colpisca e li persegua. Ricada su loro la rete quando non se l’aspettano e la loro stessa trappola li catturi come un trabocchetto. Che essi cadano ai piedi dei Tuoi schiavi e diventino oggetto dei nostri scherni. Signore! Non Ti sarà arduo salvare contro i molti o contro i pochi; Tu sei Dio: nulla può l’uomo contro di Te.

Dio, padre Nostro! Ricorda la Tua generosità e la Tua benevolenza, che sono sempiterne; non scacciarci dal Tuo cospetto e non sdegnarTi per la nostra indegnità, ma abbi misericordia di noi secondo la Tua grande benevolenza e per la moltitudine delle Tue generosità trascura le nostre colpe e i nostri peccati. Edifica in noi un puro cuore e uno spirito giusto rinnova nelle nostre viscere. Fortifica tutti noi con la fede in Te; rinsalda nella speranza, rianima un sincero, vicendevole amore, arma di concordia per la giusta difesa del patrimonio che Tu hai dato a noi e ai nostri padri, e che lo scettro degli empi non si levi sull’eredità dei santi.

Signore Dio Nostro, nel quale crediamo ed è riposta ogni nostra speranza, non deluderci frustrando l’attesa della Tua grazia e dà un segno che serva al bene, affinché quelli che odiano noi e la nostra fede ortodossa vedano e si coprano d’onta e periscano, e vedano tutti i paesi che il Tuo nome è Signore e noi siamo la Tua gente. Dacci un segno, Signore, della Tua benevolenza e concedici la salvazione; allieta il cuore dei Tuoi schiavi col dono della Tua grazia; folgora i nostri nemici e spezzali senza indugio sotto i piedi dei Tuoi fedeli. Poiché Tu sei l’intercessore, il protettore, l’usbergo di coloro che si affidano a Te. E a Te noi rendiamo gloria, o Padre, Figliuolo e Spirito Santo, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.»

Nello stato d’animo in cui si trovava Nataša, questa preghiera produsse in lei una forte impressione. Ascoltava ognuna di quelle parole sulla vittoria di Mosé su Amalech, di Gedeone su Madiam, di David su Golia, sulla distruzione di Gerusalemme, e pregava Dio con quella dolcezza, quel tenero struggimento di cui era ricolmo il suo cuore; ma non si ricordava bene che cos’avesse chiesto a Dio in quella sua preghiera. Partecipava con tutta l’anima all’invocazione di uno spirito giusto, d’un rafforzamento del cuore in virtù della fede e della speranza, invocava per tutti un affetto d’amore. Ma non poteva pregare affinché i nemici venissero spezzati sotto i piedi, quando poc’anzi aveva desiderato averne di più per poterli amare e pregare per loro. Né per altro verso poteva dubitare della giustezza della preghiera genuflessa che era stata appena recitata. Sentiva la propria anima pervasa da un devoto e tremante timore del castigo che colpisce gli uomini a causa dei loro peccati, e in particolare per i propri peccati, e pregava Dio affinché perdonasse tutti, e lei con loro; e desse a loro tutti, e anche a lei, quiete e serenità in questa vita terrena. E le parve che Dio ascoltasse la sua preghiera.

XIX

Dal giorno in cui, uscendo di casa Rostov e rammentando lo sguardo riconoscente di Nataša, Pierre era rimasto sospeso a quella cometa alta nel cielo e aveva sentito che per lui iniziava qualcosa di nuovo, il problema che da sempre lo assillava - la vanità e la follia di ogni cosa terrena - aveva cessato di presentarglisi. Quel terribile quesito: perché? per che cosa?, che prima gli si prospettava alla mente nel mezzo di qualunque occupazione, ora non era stato sostituito da un diverso dilemma, né dalla risposta all’antico interrogativo, ma dall’immagine di lei. Ascoltasse o facesse egli stesso delle chiacchiere banali, leggesse o s’imbattesse nella bassezza e nell’insensatezza degli uomini, non inorridiva come prima, non si domandava perché gli uomini si affannassero tanto quando la vita terrena è così breve ed oscura; ma si ricordava di lei come l’aveva vista l’ultima volta, e tutti i suoi dubbi svanivano non perché lei rispondesse agli interrogativi che gli si presentavano, ma perché l’immagine di lei lo trasportava tosto in un’altra, luminosa regione di fervore spirituale, dove non poteva esistere chi avesse ragione o colpa: nella regione della bellezza e dell’amore, per la quale la vita acquistava senso. Qualunque bassezza umana gli si presentasse, egli si diceva: «Lascia pure che il tale abbia derubato lo Stato e lo zar, e che lo Stato e lo zar lo colmino di onori,» pensava. «In compenso lei ieri mi ha sorriso e mi ha pregato di tornare; e io l’amo e nessuno lo saprà mai.»

Pierre continuava a frequentare la buona società, continuava a bere molto e a condurre la stessa vita oziosa e dissipata, perché, a parte le ore che trascorreva dai Rostov, doveva pur passare il resto del suo tempo in qualche modo, e le abitudini e le conoscenze contratte a Mosca lo trascinavano inesorabili verso un genere d’esistenza che l’aveva soggiogato. Ma negli ultimi tempi, mentre dal teatro delle operazioni di guerra giungevano voci sempre più allarmanti; mentre la salute di Nataša andava migliorando e lei aveva cessato di suscitare quel sentimento di sollecita pietà, cominciò a essere assalito da un sentimento di crescente inquietudine che non riusciva a spiegarsi. Sentiva che la situazione in cui si trovava non poteva durare a lungo, che sarebbe sopraggiunta una catastrofe destinata a cambiare tutto il corso della sua vita; e con ansia andava cercando dappertutto i sintomi di questa imminente catastrofe. Da uno dei confratelli massoni era stata rivelata a Pierre la seguente profezia su Napoleone tratta dall’Apocalisse dell’apostolo Giovanni.

Nell’Apocalisse, al capitolo tredicesimo, versetto decimottavo, è detto: «Qui sta la sapienza; chi ha intelletto, calcoli la cifra della bestia: giacché è cifra che indica un uomo e la sua cifra è seicentosessantasei.»

E nello stesso capitolo, versetto quinto: «E le fu data una bocca che proferiva parole arroganti ed empie; e le fu dato potere di agire per mesi quarantadue.»

Le lettere francesi, in base alla numerazione ebraica secondo la quale con le prime dieci lettere si designano le unità e con le restanti le decine, hanno il seguente significato:

 

a | b | c | d | e | f | g | h | i | k | l | m | n | o

-------------------------------------------------------------

1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | 8 | 9 | 10 | 20 | 30 | 40 | 50

 

p | q | r | s | t | u | v | w | x | y | z

----------------------------------------------------------

60 | 70 | 80 | 90 | 100 | 110 | 120 | 130 | 140 | 150 | 160

 

Scrivendo in cifre secondo quest’alfabeto le parole L’empereur Napoléon risulta che la somma di questi numeri è eguale a 666, e che pertanto Napoleone è la bestia cui allude la profezia dell’Apocalisse. Inoltre, sempre scrivendo secondo quest’alfabeto, le parole quarante-deux ossia il termine fissato alla bestia per proferire parole arroganti ed empie, la somma dei numeri corrispondenti a quarante-deux è del pari 666. Ne consegue che la fine del potere di Napoleone veniva a scadere nel 1812, anno in cui l’imperatore di Francia compiva quarantadue anni.

Questa profezia aveva molto profondamente impressionato Pierre, e spesso egli si domandava che cosa, in verità avrebbe di fatto posto fine al potere della bestia, ossia di Napoleone. Così sulla base della stessa traduzione delle parole in cifre e calcoli, cercava di trovare una risposta al quesito che lo interessava. In risposta a questa domanda Pierre scrisse: «L’empereur Alexandre? La nation Russe?» Contò le lettere, ma la somma delle cifre risultava o maggiore o minore di 666. Una volta, occupandosi di questi calcoli, scrisse anche il proprio nome: Comte Pierre Besouhoff; ma la somma delle cifre non tornava. Cambiò la grafia: mise una z al posto della s, aggiunse un de, aggiunse l’articolo le; ma parimenti non pervenne al risultato ambito. Allora gli venne in mente che se la soluzione dell’incognita era racchiusa nel suo nome, nella risposta immancabilmente doveva essere indicata la nazionalità. Scrisse Le russe Besuhof e, contando le cifre, ottenne 671. C’era soltanto un 5 in più: il 5 corrispondente a e, quella stessa e che era stata eliminata nell’article davanti alla parola empereur. Togliendo nello stesso modo, sia pure scorrettamente, quella e, Pierre ottenne la risposta cercata: l’Russe Besuhof, pari a 666. Questa scoperta lo sconvolse. Come, attraverso quale nesso, la sua persona fosse collegata a quel grande evento predetto nell’Apocalisse egli non lo sapeva, ma non dubitò nemmeno un istante di questo nesso. Il suo amore per la Rostova, l’Anticristo, l’invasione di Napoleone, la cometa, il 666, le empereur Napoléon e l’Russe Besuhof, erano - tutti quanti insieme - qualcosa che doveva maturare, scoppiare, sottrarlo al cerchio incantato di quel mondo insulso e meschino delle abitudini moscovite di cui si sentiva prigioniero, e spingerlo verso una grande impresa, verso una grande felicità.

 

La vigilia della domenica in cui era stata recitata la preghiera del Sinodo, Pierre aveva promesso ai Rostov di portare in casa loro - tramite il conte Rastopèin, del quale era buon amico - sia il proclama alla Russia, sia le ultime notizie dal fronte. Al mattino, passando da Rastopèin, Pierre trovò soltanto un corriere arrivato in quel momento dalla zona delle operazioni militari.

Questo corriere era uno dei frequentatori di feste e balli moscoviti, e Pierre lo conosceva bene.

«Per amor di Dio, non potreste alleggerirmi un pochino?» disse il corriere, «ho la bisaccia piena di lettere ai genitori.»

Fra queste lettere ce n’era una di Nikolaj Rostov, diretta al padre. Inoltre, il conte Rastopèin diede a Pierre il proclama dell’imperatore ai moscoviti, stampato proprio allora, gli ultimi ordini del giorno alle truppe e il suo ultimo manifesto. Scorrendo gli ordini dei giorno, Pierre trovò frammisto al nome dei feriti, dei caduti e dei decorati, quello di Nikolaj Rostov in quanto era stato insignito della croce di San Giorgio di quarta classe per il valore dimostrato nel fatto d’armi di Ostrovnja; e in quello stesso ordine del giorno, la nomina di Andrej Bolkonskij a comandante di un reggimento cacciatori. Sebbene non volesse certo rammentare Bolkonskij ai Rostov, non seppe peraltro esimersi dal rallegrarli con la notizia della decorazione ottenuta dal figlio; e trattenendo presso di sé il proclama, il manifesto e gli altri ordini del giorno per recarli di persona quando si fosse recato a cena dai Rostov, fece loro recapitare l’ordine del giorno stampato e la lettera di Nikolaj.

Il colloquio col conte Rastopèin; il suo tono inquieto e frettoloso; l’incontro col corriere, che raccontava nel modo più incurante e svagato come le cose si mettessero molto male, al fronte; le voci a proposito di spie scoperte a Mosca, e di una certa carta che girava per Mosca, nella quale si affermava che Napoleone prima dell’autunno prometteva di entrare nelle due capitali del paese; l’arrivo dell’imperatore, atteso in città per l’indomani, furono tutte cose che alimentarono vieppiù, in Pierre, quel sentimento di agitazione e di attesa che non lo aveva abbandonato un momento da quando era apparsa la cometa, e soprattutto da quando era scoppiata la guerra.

Già da tempo Pierre aveva concepito l’idea di arruolarsi nell’esercito e l’avrebbe messa in atto se non fosse stato trattenuto in primo luogo dalla sua appartenenza a quella società massone cui era legato da giuramento, e che predicava la pace eterna e l’abolizione d’ogni guerra; in secondo luogo, il fatto che, guardando il gran numero di moscoviti che avevano indossato l’uniforme ed esaltavano il patriottismo, provava un certo senso di vergogna ad affrontare un passo del genere. Ma il motivo precipuo per il quale non attuava il proposito di arruolarsi nell’esercito, risiedeva nell’oscura sua convinzione di essere l’Russe Besuhof corrispondente al numero 666 della bestia, secondo la quale la sua partecipazione alla grande impresa di por termine al potere della bestia che proferiva parole arroganti ed empie era predestinata ab aeterno; cosicché per lui non c’era nulla da fare, se non attendere ciò che fatalmente doveva accadere.

XX

Come sempre, di domenica, dai Rostov era invitato a pranzo qualche conoscente intimo.

Pierre arrivò presto per trovarli soli.

In quell’anno era così ingrassato, che sarebbe sembrato mostruoso se non fosse stato tanto alto di statura e saldo di membra, da reggere con palese disinvoltura alla sua obesità.

Ansimando e bofonchiando qualcosa fra sé si avviò su per le scale. Il cocchiere non gli chiese se dovesse aspettare. Sapeva che quando il conte era in casa Rostov, vi si tratteneva fino a mezzanotte, i domestici dei Rostov si precipitarono sorridenti a togliergli il mantello, il cappello e il bastone. Seguendo l’abitudine del club, Pierre lasciava in anticamera anche il bastone e il cappello.

La prima persona nella quale s’imbatté fu Nataša. Anzi, la udì ancor prima di vederla, mentre in anticamera si toglieva il mantello. Nataša in salone si esercitava al solfeggio. Pierre sapeva che lei non cantava più da quando era stata malata, cosicché il suono della sua voce lo sorprese e lo rallegrò. Aprì silenzioso la porta e vide Nataša che andava su e giù per la stanza cantando, vestita dello stesso abito lilla col quale era andata a messa. Quando lui aprì la porta camminava volgendogli le spalle, ma allorché si volse bruscamente e vide il volto pingue e stupito di Pierre, arrossì e subito gli mosse incontro.

«Voglio di nuovo provarmi a cantare,» disse. «Se non altro un’occupazione,» aggiunse, come a scusarsi.

«Benissimo!»

«Come sono contenta che siate venuto! Oggi mi sento felice!» soggiunse con l’antica animazione che Pierre da tanto tempo non ravvisava in lei. «Sapete, Nicolaj è stato insignito della croce di San Giorgio. Sono proprio orgogliosa di lui.»

«Sono stato io stesso a mandarvi l’ordine del giorno. Ad ogni modo non voglio disturbarvi,» disse Pierre; e s’avviò per passare in salotto.

«Conte, è forse male che io canti?» disse Nataša facendosi rossa, ma fissando Pierre con espressione interrogativa, senza distogliere gli occhi da lui.

«No… Perché mai? Al contrario… Ma perché me lo domandate?»

«Non lo so nemmeno io,» rispose in fretta Nataša, «ma non vorrei far niente che non vi piacesse. Ripongo fiducia in voi, in tutto e per tutto. Voi non sapete quanto siate importante e quanto avete fatto, per me!…» Parlava in fretta, e non si accorse che Pierre, a quelle parole, era arrossito. «Ho visto in quell’ordine del giorno che lui, Bolkonskij (proferì questo nome in un rapido bisbiglio), che lui è in Russia e presta di nuovo servizio nell’esercito. Che cosa ne pensate?» disse, sempre parlando velocemente, con una palese ansia di parlare perché aveva paura che all’improvviso gliene mancassse la forza, «un giorno mi potrà perdonare? Non mi serberà rancore? Che cosa ne pensate, voi? Che cosa ne pensate?»

«Io penso…» disse Pierre. «Lui non ha nulla da perdonarvi… Se fossi al posto suo…»

Per un’associazione di ricordi Pierre mentalmente si riportò al giorno in cui, per consolarla, le aveva detto che se lui non fosse stato lui, ma l’uomo migliore di questo mondo, e se fosse stato libero, avrebbe chiesto in ginocchio la sua mano; e lo stesso sentimento di compassione, di tenerezza e d’amore lo invase; le stesse parole d’allora gli vennero alle labbra. Ma Nataša non gli diede il tempo di pronunciarle.

«Sì, voi, voi,» diss’ella, pronunciando con estasi questo voi, «voi siete un’altra cosa. Più buono, più generoso di voi non conosco nessuno; non può esistere persona migliore. Se non ci foste stato voi, allora, e anche adesso, non so che cosa sarebbe stato di me, perché…»

A un tratto dagli occhi le sgorgò un fiotto di lacrime. Lei si volse, si mise lo spartito davanti agli occhi e riprese a cantare camminando su e giù per la stanza.

In quel momento, Petja giunse di corsa dal salotto.

Petja ormai era un bel ragazzo di quindici anni, il viso colorito e due labbra rosse e carnose. Assomigliava a Nataša. Si preparava all’università, ma negli ultimi tempi aveva segretamente deciso con il suo compagno Obolenskij di arruolarsi negli ussari.

Ed egli corse verso il suo omonimo per discutere della cosa: già lo aveva pregato d’informarsi se lo avrebbero accettato negli ussari.

Pierre s’era avviato verso il salotto senza badare a Petja.

Petja lo trasse per una manica per richiamare la sua attenzione.

«E allora… la mia… faccenda, Pëtr Kirilyè?… Per amor di Dio! Tutte le mie speranze stanno in voi,» diceva.

«Ah, sì, la tua faccenda. Per arruolarti negli ussari, eh? Ne parlerò, ne parlerò. Oggi stesso m’informerò sul da farsi.»

«Ebbene, mon cher, vi siete procurato il proclama?» domandò il vecchio conte. «La mia cara contessina è andata a messa dai Razumovskij; ha ascoltato una nuova preghiera, dice. Molto bella, a quanto pare.»

«L’ho procurato,» rispose Pierre. «Domani l’imperatore sarà qui… È stata indetta un’assemblea straordinaria della nobiltà. Pare che verrà stabilito un reclutamento di dieci su mille. Sì, congratulazioni.»

«Sì, sì, grazie a Dio. Be’, e dal fronte, quali notizie?»

«I nostri si sono ancora ritirati. Si dice che siano già sotto Smolensk,» rispose Pierre.

«Dio mio, Dio mio!» esclamò il conte. «Ma dov’è il proclama?»

«Il proclama? Ah, sì!»

Egli si mise a cercare le sue carte in tasca, ma non riusciva a trovarle. Sempre continuando a frugare nelle tasche, baciò la mano alla contessa che entrava e si guardò attorno inquieto, evidentemente aspettando Nataša che adesso non cantava più, ma d’altra parte non giungeva in salotto.

«Dio mio, non so più dove l’ho messo,» disse.

«Ecco, perde sempre tutto,» commentò la contessa.

Nataša entrò col viso intenerito e commosso, e sedette guardando Pierre in silenzio. Non appena entrata nella stanza, la faccia di Pierre, fino a quel momento così cupa, si era illuminata e, sempre continuando a cercare le carte, più volte lanciò uno sguardo furtivo.

«Perdio, faccio una corsa, l’ho dimenticato a casa. Certo…»

«Ma no, ma no, farete tardi a pranzo.»

«Ah, anche il cocchiere se ne è andato!»

Ma Sonja, che era andata in anticamera a cercare te carte, le trovò nel cappello di Pierre, dove lui le aveva accuratamente riposte sotto la fodera. Pierre avrebbe voluto mettersi a leggere.

«No, dopo pranzo,» disse il vecchio conte, che evidentemente traeva gran piacere da quella lettura.

Durante il pranzo, innaffiato da champagne in onore del nuovo cavaliere di San Giorgio, Šinšin raccontò le novità cittadine: la malattia d’una vecchia principessa georgiana, la sparizione da Mosca di Métivier, e il fatto che un tedesco era stato condotto davanti a Rastopèin dicendo che era uno champignon (a quanto raccontava lo stesso Rastopèin); ma che il conte Rastopèin aveva ordinato di rilasciare lo champignon dicendo al popolo che non si trattava di uno champignon, ma semplicemente di un vecchio grib tedesco.

«Li prendono, li prendono senza tanti riguardi» disse il conte, «lo ripeto sempre, alla contessa, di parlare un po’ meno in francese. Adesso non è proprio il momento.»

«Avete sentito?» disse Šinšin. «Il principe Golicyn si è preso un maestro di russo. Per imparare il russo. Il commence à devenir dangereux de parler français dans les rues.»

«Dunque, conte Pëtr Kirilyè; quando si farà questo reclutamento salterete anche voi a cavallo, e via?» chiese il vecchio conte a Pierre.

Pierre era stato taciturno e pensieroso durante tutto il pranzo. Sentendosi così apostrofare, guardò il conte, come se non capisse.

«Sì, sì… in guerra,» disse. «Ma no! Che razza di guerriero sarei mai! Del resto, è tutto così strano, così strano! Io, per primo, non ci capisco nulla. Io non so… sono così lontano dai gusti militari, ma coi tempi che corrono nessuno può rispondere di sé.»

Dopo pranzo il conte sedette in una comoda poltrona, e con viso compunto chiese a Sonja (che godeva fama d’essere un’eccellente lettrice) di leggere il proclama.

«“Alla città di Mosca, prima metropoli del nostro impero.

«“Il nemico ha varcato con ingenti forze entro i confini della Russia. Egli viene a devastare la nostra amata patria,”» lesse attentamente Sonja con la sua voce sottile.

Il conte ascoltava ad occhi chiusi, emettendo a tratti accorati sospiri.

Nataša sedeva, tutta protesa a guardare con occhi fissi e indagatori ora il padre ora Pierre.

Pierre sentiva su di sé lo sguardo della fanciulla e si sforzava di non voltarsi. La contessa scuoteva il capo in segno di disapprovazione e scontento a ciascuna delle espressioni solenni del proclama. In tutte quelle parole lei vedeva una sola cosa: che i pericoli che minacciavano suo figlio non sarebbero cessati tanto presto. Šinšin, atteggiata la bocca a un sorriso ironico, si teneva pronto a dileggiare la prima cosa che gliene offrisse il destro: della lettura di Sonja, dei commenti del conte, perfino del proclama, se non si fosse presentato uno spunto migliore.

Dopo aver letto dei pericoli che sovrastano la Russia, delle speranze che l’imperatore riponeva nella città di Mosca e in particolare nella sua illustre nobiltà, Sonja, con un tremito nella voce dovuto in modo precipuo all’attenzione di cui si vedeva circondata, lesse le ultime parole:

«“Noi non indugeremo oltre a venire in mezzo al nostro popolo, in questa capitale e negli altri centri del nostro impero, per consultarci e assumere la guida di tutte le nostre milizie; sia di quelle che attualmente sbarrano la strada al nemico, sia delle altre in fase di mobilitazione, per sconfiggerlo ovunque possa apparire. Che la rovina in cui esso presume di precipitarci possa rivolgersi contro di lui, e che l’Europa liberata dalla schiavitù esalti il nome della Russia!”»

«Ben detto!» esclamò il conte, riaprendo gli occhi inumiditi e ritrovandosi più volte con la parola inceppata come se gli avessero dato da fiutare una boccetta di sali fortemente aromatici. «Basta che l’imperatore parli e noi sacrificheremo tutto, non lesineremo alcunché.»

Šinšin non aveva ancora avuto il tempo di uscire nel suo motto scherzoso sul patriottismo del conte, che Nataša saltò dal suo posto e corse verso il padre.

«Che tesoro, questo nostro papà!» disse, baciandolo, e di nuovo guardò Pierre con quella civetteria inconsapevole che le era ritornata insieme con l’animazione.

«Ecco una vera patriota!» esclamò Šinšin.

«Non sono affatto una patriota,» rispose Nataša risentita. «Voi scherzate su tutto, ma qui non è proprio il caso…»

«Altro che scherzi!» ripeté il conte. «Basta che dica una parola lui e tutti gli andremo dietro… Non siamo mica dei tedeschi qualsiasi, noi…»

«Ma avete notato,» disse Pierre, «quella frase che dice “per consultarci”?»

«Ma sì, sì, di qualunque cosa si tratti…»

Intanto Petja, al quale nessuno aveva fatto caso, si avvicinò al padre, e disse, tutto rosso in viso, con una voce spezzata, ora aspra, ora acuta:

«Be’, adesso papà, ve lo voglio dire, una volta per tutte… E anche a voi, mamma, pensate pure quello che volete. Dovete permettermi di arruolarmi, perché io non posso… ecco tutto…»

La contessa, sgomenta, levò gli occhi al cielo, batté le mani e si rivolse al marito in tono adirato:

«Ecco il frutto dei tuoi discorsi!» disse.

Ma il conte si era già ripreso dall’emozione.

«Be’, be’,» disse. «Ecco un altro guerriero! Lascia perdere queste sciocchezze: tu devi studiare.»

«Queste non sono idee sciocche, papà. Petja Obolenskij è minore di me, eppure anche lui si arruola. E poi non posso studiare, in momenti come questi…» Petja s’interruppe… Arrossì fino a sudarne, ma riuscì a dire: «Adesso che la patria è in pericolo…»

«Basta, basta, tutte stupidaggini…»

«Ma se l’avete detto voi che bisogna sacrificare tutto!»

«Petia, sta’ zitto, ti dico!» gridò il conte, voltandosi a guardare la moglie che fissava il figlio minore, pallidissima.

«E io, invece, voglio dirvelo, papà. E anche Pëtr Kirillovičve lo dirà…»

«E io ti dico che sono pazzie! Figuriamoci ha ancora il latte sulle labbra e pretende di andare a combattere! Suvvia, basta, ti dico!» E il conte raccolse le carte, probabilmente per rileggersele ancora in studio prima della siesta, e uscì dalla stanza.

«Pëtr Kirillovič, andiamo a farci una fumatina…»

Pierre era turbato e perplesso. Gli occhi di Nataša, pervasi di una luce vivida e inconsueta, che si rivolgevano di continuo verso di lui con qualcosa di più di un’amichevole cordialità, lo avevano piombato in quello stato.

«No, credo che andrò a casa…»

«Come, a casa! Ma se volevate passare la serata da noi!… E poi vi siete messo a venire troppo di rado. E pensare che la mia figliola…» disse il conte ingenuamente indicando Nataša, «è allegra soltanto quando ci siete voi…»

«Sì, me n’ero dimenticato… Devo andarmene a casa assolutamente. Certi affari…» balbettò Pierre affrettatamente.

«Be’, arrivederci, allora,» disse il conte. E uscì definitivamente dalla stanza.

«Perché ve ne andate? Che motivo avete per essere così sconvolto? Perché?…» domandò Nataša a Pierre, guardandolo negli occhi, in modo provocante.

«Perché ti amo!» avrebbe voluto risponderle. Ma non pronunciò queste parole. Arrossì fino alle lacrime e chinò gli occhi.

«Perché è meglio che venga più di rado da voi… Perché… No, semplicemente ho degli affari da sbrigare…»

«Perché? Via, dovete dirmelo,» prese a dire Nataša con decisione: ma all’improvviso tacque.

Tutt’e due si guardarono sgomenti e spauriti. Egli tentò di sorridere, ma non poté: il suo sorriso tradiva la sofferenza. Le baciò la mano in silenzio e uscì.

Solo con se stesso, Pierre decise di non andare più in casa Rostov.

XXI

Dopo il reciso rifiuto che gli era stato opposto, Petja se ne andò nella sua stanza; e qui, dopo aver chiuso la porta a chiave, pianse amaramente. Tutti fecero finta di niente quando, all’ora del tè, si presentò taciturno e cupo, gli occhi rossi di pianto.

Il giorno dopo arrivò l’imperatore. Alcuni servitori dei Rostov chiesero il permesso di andare a vedere lo zar. Quel mattino Petja impiegò molto tempo per vestirsi, pettinarsi e accomodarsi il colletto come i grandi. Faceva smorfie davanti allo specchio, gestiva, si stringeva nelle spalle. Alla fine, senza dirlo a nessuno, si mise il berretto e sgattaiolò fuori di casa dall’ingresso di servizio cercando di non farsi notare. Aveva deciso di recarsi direttamente là ove si trovava l’imperatore e dichiarare apertamente a qualche ciambellano (Petja non dubitava che il sovrano fosse sempre circondato da ciambellani) che lui, il conte Rostov, nonostante fosse tanto giovane, desiderava servire la patria, poiché infatti l’estrema giovinezza non poteva costituire un ostacolo alla devozione al sovrano, e lui era pronto a… Mentre si preparava, Petja aveva mentalmente elaborato molte bellissime frasi da dire al ciambellano.

Egli contava sul buon esito della sua presentazione all’imperatore proprio perché era un ragazzo (Petja, anzi, pensava allo stupore generale davanti alla sua giovane età); ma nello stesso tempo, nella foggia in cui si era accomodato il colletto e pettinato, nell’andatura lenta e posata, cercava di assumere i modi di un adulto. Senonché, quanto più proseguiva, tanto più veniva distratto dalla gente che affluiva senza posa verso il Cremlino e tanto più andava scordandosi di mantenere quella lentezza e posatezza proprie degli adulti. Avvicinandosi al Cremlino, poi, cominciò a preoccuparsi che non lo prendessero a urtoni e spinse in fuori i gomiti con gesto risoluto e con fare minaccioso. Ma a Troickie Voroty, nonostante il suo piglio deciso, la folla, che logicamente non poteva sapere quale patriottica aspirazione lo inducesse a recarsi al Cremlino, premette con tale violenza Petja contro le mura, che il ragazzo dovette rassegnarsi e fermarsi, mentre sotto l’androne della grande porta passavano le carrozze con un fragore che echeggiava sotto le volte. Accanto a Petja c’erano una popolana insieme con un servitore, due mercanti e un soldato in congedo. Dopo aver indugiato qualche momento sotto la porta, Petja senza attendere che fossero passate tutte le carrozze, avrebbe voluto proseguire prima degli altri e prese a sgomitare con energia; ma la donna che gli stava davanti, e contro la quale per prima aveva diretto le sue gomitate, gli gridò in un impeto di collera: «Be’, che cos’hai da spingere, signorino. Lo vedi che tutti stanno fermi. Dove vorresti intrufolarti?»

«A questo modo son buoni tutti di andare avanti,» aggiunse il servitore; e mettendosi anche lui a lavorar di gomiti, costrinse Petja a spostarsi verso un angolo maleodorante dell’androne.

Con le mani Petja si terse il sudore che gli copriva il viso e si aggiustò alla bell’e meglio il colletto (bagnato anch’esso di sudore) che a casa si era accomodato con tanta cura alla foggia degli adulti.

Sentiva di avere un aspetto impresentabile e temeva che mostrandosi così al cospetto dei gentiluomini di camera, non lo avrebbero ammesso alla presenza di Sua Maestà Imperiale. Ma la calca gli toglieva ogni possibilità di rimettersi in sesto e cambiar posto. Uno dei generali che passavano in carrozza era un conoscente dei Rostov. Petja avrebbe voluto chiedergli d’intervenire in suo aiuto, ma considerò che questo sarebbe stato un gesto poco virile. Quando tutte le carrozze furono passate, la folla si riversò all’esterno e trascinò anche Petja sulla piazza, ormai gremita. La gente era sparsa dappertutto: non solo nella piazza, ma sui tetti e sui cornicioni. Non appena Petja si trovò nella piazza, gli giunse nitido il suono delle campane che colmava tutto il Cremlino, sovrastando il gioioso vociare del popolo.

Per qualche momento sulla piazza si aprì uno spazio libero; ma all’improvviso tutte le teste si scoprirono, tutti si buttarono avanti. Petja si trovò così pigiato, che durava fatica a respirare, mentre tutti gridavano: «Urrà! Urrà! Urrà!» Il ragazzo si alzò in punta di piedi, diede spintoni, si abbarbicò agli altri; ma non riuscì a veder nulla, tranne la ressa che lo circondava.

Tutte le facce esprimevano un eguale sentimento di commozione e di entusiasmo. Una venditrice ambulante accanto a Petja singhiozzava e le lacrime le scorrevano giù dagli occhi.

«Padre, angelo, batjuska!» ripeteva, tergendosi le lacrime con le dita.

«Urrà!» si gridava da ogni parte.

Per qualche istante la folla rimaneva ferma dov’era, poi tornava a lanciarsi avanti.

Immemore di sé, stringendo i denti e sgranando ferocemente gli occhi, Petja si buttò avanti sgomitando. E anch’egli gridava «Urrà!» come se in quel momento fosse stato pronto a uccidere se stesso e ogni altro; ma ai suoi lati irrompevano visi altrettanto feroci che del pari urlavano: «Urrà!»

«Ecco dunque cosa significa, essere l’imperatore!» pensava Petja. «No, non posso presentargli di persona la mia supplica, sarebbe un gesto troppo temerario!»

Con tutto ciò non desisteva dal buttarsi avanti, sempre con lo stesso disperato accanimento, finché in mezzo alle schiene di quelli che stavano dinanzi a lui balenò per un attimo uno spazio vuoto con una guida rossa di panno stesa per terra; ma in quel momento la folla ondeggiò sospinta all’indietro (davanti, i poliziotti respingevano quelli che si erano avvicinati troppo al corteo: l’imperatore stava recandosi dal palazzo alla Cattedrale Uspenskij) e Petja si buscò un colpo così violento e inaspettato alle costole, che tutto gli si annebbiò davanti agli occhi e perse coscienza. Quando tornò in sé, un prelato con un ciuffo di capelli grigi sulla fronte e una logora tunica azzurra (probabilmente un suddiacono) lo sorreggeva sotto l’ascella con una mano e con l’altra lo difendeva dalla folla che incalzava da ogni parte.

«Hanno schiacciato questo povero signorino!» diceva il suddiacono. «Ma che modi sono, questi!… Piano!… Adagio!… lo avete schiacciato.»

L’imperatore aveva raggiunto la cattedrale Uspenskij. Di nuovo la folla si sparpagliò e il suddiacono condusse Petja, pallido e stremato, fino allo «Zar Cannone». Qualcuno ebbe pietà di Petja, finché a un tratto tutta la folla prese a interessarsi di lui e intorno alla sua persona si assiepò la calca. I più vicini lo soccorrevano, gli sbottonavano la giacchetta, lo facevano sedere sulla parte più alta del cannone, se la prendevano con quelli che l’avevano ridotto a quel modo.

«Così si ammazza la gente! Questo si chiama commettere un assassinio! Guardate, poverino, è bianco come un lenzuolo!» risuonavano qua e là varie voci.

Petja non tardò a riprendersi; il viso ritrovò il suo colorito, il dolore passò e, grazie a quell’incidente passeggero, ebbe un posto sul cannone, donde sperava di scorgere l’imperatore, che di certo avrebbe fatto, tornando, lo stesso percorso! Petja ormai non pensava più a consegnare la supplica. Si accontentava di vederlo: si sarebbe considerato abbastanza fortunato!

Mentre nella cattedrale Uspenskij si celebrava la messa (e a questa si aggiungeva un Te Deum per l’arrivo dell’imperatore e una preghiera di ringraziamento per la stipulazione della pace con i turchi) la folla si diradò; comparvero vocianti venditori di kvas, di panpepato, di semi di papavero - dei quali Petja era particolarmente ghiotto - mentre intorno risuonavano i soliti discorsi. Una venditrice ambulante mostrava il suo scialle strappato e andava ripetendo quanto caro le fosse costato; un’altra si lamentava che ormai i tessuti di seta erano tutti carissimi. Il suddiacono, il salvatore di Petja, chiacchierava con un funzionario menzionando a uno a uno i prelati, che quel giorno avevano celebrato col reverendissimo vescovo. Il suddiacono ripeté più volte la parola «pontificare», di cui Petja non capiva il significato. Due giovani della piccola borghesia scherzavano con certe ragazze della servitù che sgranocchiavano nocciole. Tutti quei discorsi, e soprattutto gli scherzi con le ragazze, per Petja, data la sua età, potevano rivestire particolare attrattiva; ma in un simile frangente non lo interessavano. Se ne stava lassù, sopra il cannone, in preda all’emozione che sempre provava al pensiero dell’imperatore e dell’amore che aveva per lui. La coincidenza della sensazione di dolore e di spavento, quando la folla lo aveva schiacciato, e del sentimento di entusiasmo, accentuava in lui la consapevolezza della solennità di quel momento.

A un tratto dal lungofiume echeggiarono dei colpi di cannone (sparavano per celebrare la pace con i turchi) e la folla si buttò a precipizio in quella direzione, a vedere i cannoni che sparavano. Anche Petja avrebbe voluto correre laggiù, ma il suddiacono, che aveva preso il signorino sotto la sua protezione, non glielo permise. Le cannonate risuonavano ancora, quando dalla cattedrale Uspenskij uscirono di corsa ufficiali, generali, gentiluomini di camera; poi, meno concitati, uscirono altri personaggi. Di nuovo le teste si scoprirono, e quelli che erano corsi a guardare i cannoni, si precipitarono indietro. Finalmente dalla porta della cattedrale uscirono altri quattro uomini con uniformi e fusciacche. «Urrà! Urrà!» gridò di nuovo la folla.

«Qual è? Qual è?» domandava Petja con voce piagnucolante a chi gli stava attorno; ma nessuno gli rispondeva. Tutti erano in preda all’entusiasmo. Allora Petja, sceltasi una di quelle quattro persone di cui, a causa delle lacrime che gli venivano agli occhi per la gioia, non riusciva da discernere i tratti, concentrò su di essa tutto il suo entusiasmo; e sebbene costui non fosse l’imperatore, si mise a gridare «urrà!» a squarciagola, mentre fra sé pensava che l’indomani stesso a qualunque costo, sarebbe stato un soldato.

La folla corse dietro l’imperatore, accompagnandolo fino alla reggia, poi cominciò a disperdersi. Era già tardi; Petja non aveva mangiato nulla e grondava di sudore, ma non andò a casa. Mescolato a quella folla diradata ma ancora abbastanza numerosa indugiò davanti al palazzo ove adesso Sua Maestà sedeva a mensa, spiando le finestre, in attesa che accadesse qualcos’altro e preso da invidia sia per i dignitari che varcavano l’ingresso per prender parte alla cena dell’imperatore, sia per i camerieri che servivano a tavola e s’intravedevano dietro le impannate.

Alla tavola dell’imperatore, Valuev disse a un tratto, voltandosi verso la finestra:

«Il popolo spera di vedere ancora Vostra Maestà.»

Il pranzo volgeva al termine. L’imperatore si alzò, terminando di mangiare un biscotto, e uscì sul balcone. Il popolo, con Petja in mezzo, si precipitò verso il balcone.

«Angelo, batjuška! Urrà! Padre… Urrà!» gridarono Petja e tutti gli altri; e di nuovo le baby e alcuni uomini più vulnerabili (fra cui lo stesso Petja) si misero a piangere di emozione e di felicità.

Il biscotto che l’imperatore teneva in mano si ruppe e finì sulla ringhiera del balcone, e di qui cadde a terra. Un cocchiere in caffettano, che era più vicino di tutti, si avventò su quel pezzo di biscotto e lo raccolse. Qualcuno si buttò sul cocchiere. L’imperatore se ne accorse, e ordinato di portargli il piatto dei biscotti si mise a gettarne dal balcone.

A Petja gli occhi si iniettarono di sangue: il pericolo di finire schiacciato lo eccitò ancor di più, e si gettò sui biscotti. Non sapeva perché, ma capiva che bisognava prendere un biscotto dalle mani dello zar, non si poteva dare per vinto. Si buttò avanti e fece stramazzare una vecchia che stava per raggiungere uno dei biscotti. Ma la vecchia non si diede per vinta, sebbene fosse finita lunga e distesa (annaspava per prendere i biscotti ma non mirava giusto). Petja le scostò violentemente il braccio con un colpo di ginocchio, afferrò il biscotto e, come se avesse paura di non arrivare a tempo, gridò di nuovo «urrà!» con voce ormai arrochita.

Il sovrano si ritirò, dopo di che la maggior parte della folla si disperse definitivamente.

«Lo dicevo io che bisognava aspettare! È stato proprio così!» si udiva ripetere qua e là in tono di giubilo.

Per quanto Petja fosse felice, lo rattristava il pensiero di tornare a casa e la consapevolezza che tutta la gioia di quella giornata era ormai finita. Perciò dal Cremlino andò dal suo amico Obolenskij, che aveva quindici anni e a sua volta intendeva arruolarsi nell’esercito. Finalmente, tornato a casa, dichiarò in modo fermo e risoluto che se non l’avessero lasciato andare, sarebbe fuggito. E il giorno dopo, pur non essendosi ancora del tutto arreso, il conte Il’ja Andreič andò a informarsi dove fosse possibile sistemare Petja in modo che corresse il minor pericolo.

XXII

Tre giorni dopo, la mattina del 15, presso palazzo Slobodskij, sostava un folto stuolo di carrozze.

Le sale erano gremite. Nella prima c’erano i nobili in uniforme; nella seconda i mercanti, barbuti, in caffettano blu e con tanto di medaglie. Nella sala dell’assemblea nobiliare c’era gran movimento e clamore di voci. Presso una grande tavola, sotto il ritratto dell’imperatore, sedevano in alti scranni dignitari più eminenti; ma la maggior parte dei nobili passeggiava su e giù per la sala.

Tutti i nobili - anche quelli che Pierre vedeva ogni giorno al club, o nelle loro case - indossavano l’uniforme, chi del tempo di Caterina, chi dello zar Paolo; altri portavano la nuova uniforme di Alessandro, altri ancora l’uniforme comune della classe aristocratica. E il fatto che tutti vestissero in questa guisa conferiva alcunché di strano e di fantastico a quell’accolita eterogenea per età e peculiarità individuali, anche se tutti si conoscevano. Colpivano soprattutto i vecchi, mezzo ciechi, calvi, sdentati, gonfi di grasso giallognolo, oppure rugosi e rinsecchiti. Per lo più sedevano al loro posto e tacevano o se talvolta passeggiavano e parlavano, si univano sempre a chi era più giovane. Come sui visi della folla che Petja aveva visto nella piazza, anche su queste facce era dipinto un sentimento contrastante, misto di attesa per qualcosa di solenne, e al tempo stesso un che di consueto, qualcosa della sera avanti: la partita a boston, il cuoco Petruška, la salute di Zinaida Dmitrievna, e via discorrendo.

Impacciato dalla sua scomoda divisa nobiliare, diventata troppo stretta per la sua corporatura, Pierre era in quelle sale fin dalla prima mattina. Era molto agitato: l’assemblea straordinaria non solo della nobiltà, ma anche dei mercanti - questa convocazione degli états généraux - suscitava in lui tutta una ridda di pensieri che da tempo lo avevano abbandonato, ma che si erano profondamente radicati nella sua anima, sulla scia del Contrat Social e della Rivoluzione francese. Le parole che aveva notato nel proclama, secondo le quali l’imperatore sarebbe giunto nella capitale per consultarsi col suo popolo, lo confermavano in quest’opinione. Ed egli, nella presunzione che in questo senso si stesse verificando qualcosa che lui s’aspettava da tempo, passeggiava, osservava, tendeva l’orecchio alle conversazioni altrui; ma nessuno esprimeva quei sentimenti che tanto lo assillavano.

Fu letto il manifesto dell’imperatore che aveva suscitato tanta entusiastica adesione; poi tutti si dispersero qua e là chiacchierando. Oltre che dei soliti interessi, Pierre aveva udito parlare dei ruoli che sarebbero stati assegnati ai marescialli della nobiltà quando fosse entrato l’imperatore, di quando si sarebbe dovuto indire il ballo in onore di Sua Maestà, se fosse preferibile dividersi in base ai distretti o restare uniti per tutto il governatorato, e altre cose della stessa indole. Ma non appena si toccava il tasto della guerra e il motivo per cui era stata convocata la nobiltà, i discorsi diventavano vaghi e indecisi. Tutti preferivano ascoltare piuttosto che esprimere opinioni personali.

In una delle sale teneva concione un uomo di mezza età, bello, virile, in uniforme da ufficiale di marina in congedo, e intorno a lui s’era radunato un folto gruppo di persone. Pierre si avvicinò al circolo formatosi intorno all’oratore e si mise in ascolto. Anche il conte Il’ia Andreič, che andava qua e là tra la folla, il viso atteggiato a un affabile sorriso, indossando il suo caffettano da voevoda dei tempi di Caterina, buon conoscente di tutti si avvicinò al gruppo e anch’egli prese ad ascoltare col suo buon sorriso; come sempre, faceva cenni d’assenso col capo, quasi a manifestare la sua approvazione. L’ufficiale di marina in congedo parlava in termini molto arditi: lo si capiva dall’espressione del viso degli ascoltatori e dal fatto che le persone note a Pierre come tranquille e concilianti si allontanavano da lui disapprovandolo, oppure lo contraddicevano. Pierre si fece largo verso il centro del gruppo, ascoltò con maggior attenzione e si convinse che l’uomo che parlava era in effetti un liberale, ma in senso diverso da quello che lui aveva supposto. L’ufficiale di marina parlava con quella voce baritonale, sonora e cantante, tipica dei nobili, con una piacevole erre grassa e l’elisione delle consonanti: quella voce con cui si grida «Cameie-e, una pipa!» e altre cose del genere. Nella sua voce risuonava la consuetudine alla baldoria e al comando.

«Che impo-ta se quelli di Smolensk hanno proposto delle milizie all’imperato-e? Dettano forse legge quelli di Smolensk? Se la generosa nobiltà del governato-ato di Mosca lo riterrà necessario, potrà dimostrare la sua devozione all’imperato-e anche in alt-o modo. Abbiamo forse dimenticato le milizie del 1807! Ci hanno guadagnato solo i bigotti e i mangioni!»

Il conte Il’ja Andreič, sorridendo con dolcezza, annuiva in segno d’approvazione.

«E che forse, allora, le milizie di noialt-i proprietari hanno recato qualche giovamento allo Stato? Nessuno! Hanno soltanto rovinato i nostri patrimoni. Meglio la coscrizione, allora… altrimenti gli uomini ti tornano indietro che non sono diventati soldati e non sono più contadini, col risultato che si saranno corrotti! I nobili non vogliono certo risparmiare la loro vita: andremo in massa, prenderemo con noi le nostre reclute, e tutti moriremo per l’imperato-e: basterà che lui faccia un cenno!» continuò l’oratore riscaldandosi sempre più.

Il’ja Andreič deglutiva saliva dal piacere e dava gomitate a Pierre; ma a Pierre era venuta voglia di dire anche lui qualcosa. Si fece dunque avanti, eccitato, senza sapere ancora con esattezza quello che avrebbe detto. Aveva appena aperto bocca, quando fu interrotto da un senatore completamente sdentato, con una faccia rabbiosa e intelligente, fermo accanto all’oratore. Palesemente assuefatto a trattare problemi e a prender parte a dibattiti, costui si mise a parlare con voce sommessa ma chiara:

«Suppongo, egregio signore,» disse il senatore biascicando con la sua bocca sdentata, «che non siamo stati chiamati qui per giudicare che cosa sia più opportuno per lo Stato in questo momento: la coscrizione o le milizie a cura dei privati. Noi siamo stati convocati per rispondere al proclama che Sua Maestà si è benignato rivolgerci. E lasceremo alla sua suprema autorità di giudicare che cosa sia più opportuno; se la circoscrizione o le milizie…»

Pierre a un tratto trovò una via di sfogo alla sua eccitazione. Si sentiva adirato contro questo senatore che portava tanta correttezza e ristrettezza di vedute nei problemi di cui la nobiltà avrebbe dovuto occuparsi. Pertanto avanzò d’un passo e lo fermò. Non sapeva nemmeno lui che cos’avrebbe detto, ma prese a parlare animatamente uscendo in espressioni francesi intercalate da un russo che scansava allocuzioni libresche.

«Scusatemi, eccellenza,» cominciò (Pierre conosceva benissimo quel senatore, ma in questa circostanza ritenne doveroso rivolgergli la parola in forma ufficiale), «anche se non sono d’accordo con il signor… (Pierre s’imbrogliò: avrebbe voluto dire mon honorable préopinant), con il signore… que je n’ai pas l’honneur de connaître: suppongo tuttavia che il ceto nobiliare, oltre ad esprimere la sua solidarietà e il suo entusiasmo, sia stato chiamato altresì per giudicare dei provvedimenti in base ai quali le è dato di giovare alla nazionale. Io credo,» continuò Pierre, animandosi, «che anche l’imperatore sarebbe contrariato e deluso se in noi trovasse solo dei proprietari di contadini disposti a dargli i nostri uomini e la… chair à canon che siamo pronti a fare di noi stessi, ma non trovasse nella classe aristocratica anche un… un valido parere.»

Molti s’erano allontanati dal gruppo, notando il sorriso sarcastico e sprezzante del senatore e la franca intonazione di Pierre; solo Il’ja Andreič era soddisfatto delle parole di Pierre, come del resto aveva approvato il discorso dell’ufficiale di marina, del senatore e, in genere conveniva sempre con l’opinione dell’ultima persona che gli avveniva di ascoltare.

«Ritengo che prima di esaminare questi problemi,» proseguì Pierre, «noi si debba chiedere all’imperatore, informarci con molto ossequio presso Sua Maestà, per sapere a quanto ammontano le forze armate, in quale posizione si trovano le nostre truppe; dopo di che…»

Ma Pierre non fece in tempo a pronunciare queste parole che all’improvviso da tutte le parti gli si scagliarono contro. Più impetuoso di ogni altro lo investì Stepan Stepanoviè Apraksin, gran giocatore di boston, che lui conosceva da tempo e gli aveva sempre manifestato simpatia. Stepan Stepanoviè era in uniforme; ma fosse per questo o per altro motivo, ora Pierre aveva davanti a sé tutt’altro uomo. Con rabbia senile rivelatasi all’improvviso Stepan Stepanoviè gridò a Pierre:

«Prima di tutto vi faccio presente che noi non abbiamo il diritto di chiedere al sovrano una cosa del genere; in secondo luogo, anche se la nobiltà russa avesse codesto diritto, l’imperatore non sarebbe in grado di risponderci. Le truppe si muovono in conformità alle mosse del nemico, le truppe scemano o si accrescono…»

Un’altra voce, di un uomo di media statura, sulla quarantina, che Pierre in passato aveva veduto dagli zingari e conosceva come un abile e poco onesto giocatore di carte, fattosi avanti (anch’egli trasformato dall’uniforme) si accostò a Pierre e interruppe Apraksin.

«Non è questo il momento di discutere» disse la voce di quest’altro nobile. «Bisogna agire piuttosto. La guerra è già sul territorio russo. Il nostro nemico viene per distruggere la Russia, per profanare le tombe dei nostri padri, per portar via le donne e i bambini.» E il nobile si batté il petto. «Insorgeremo tutti, tutti prenderemo le armi per lo zar nostro padre!» gridò, sbarrando gli occhi iniettati di sangue.

E voci d’approvazione si levarono dalla folla.

«Noi siamo russi e non risparmieremo il nostro sangue per difendere la nostra fede, il trono e la patria. E lasciamo perdere le ciance, se siamo veri figli della patria. Noi dimostreremo all’Europa come la Russia insorge a difesa della Russia,» gridò un aristocratico.

Pierre avrebbe voluto replicare, ma non riuscì a proferire una sola parola. Sentiva che il suono delle sue parole, al di fuori del loro significato, giungeva alle orecchie meno efficace del suono che avevano le parole di quel veemente gentiluomo.

Il’ja Andreič approvava, alle spalle del piccolo assembramento. Molti si voltavano verso l’oratore alla fine di ogni frase ed esclamavano: «Giusto! È così!»

Pierre avrebbe voluto obiettare che lui non era contrario a sacrificare e denaro e contadini e perfino se stesso; ma che, per essere di valido aiuto, era necessario conoscere concretamente la situazione. Ma non poté parlare. Molte voci gridavano e parlavano insieme, tanto che Il’ja Andreič non faceva tempo a manifestare a tutti il proprio assentimento; e il gruppo s’ingrossava, si disperdeva, di nuovo si riuniva. Alla fine si spostò in blocco, in un gran ronzare di voci, verso la tavola grande del salone. Pierre non solo non aveva avuto modo di parlare, ma veniva sgarbatamente sospinto e interrotto, gli voltavano le spalle come se fosse stato un comune nemico. Ciò non era dovuto al loro dispetto per il senso delle sue parole (se si erano addirittura scordate, visto che molti discorsi erano seguiti al suo) ma perché la folla, per mantenere la sua eccitazione, ha bisogno d’un oggetto tangibile di simpatia e di un oggetto tangibile d’odio. Pierre era appunto quest’ultimo. Molti avevano preso la parola dopo il veemente gentiluomo, esprimendosi tutti nello stesso tono. Molti avevano parlato in termini significanti e in tono eloquente.

L’editore dei «Russkij Vestnik», Sergej Nikolaevič Glinka, che fu subito riconosciuto («lo scrittore, lo scrittore!» si udì esclamare dalla folla), disse che l’inferno si doveva respingere con l’inferno, che lui aveva visto un bambino che sorrideva al fulgore di un lampo e al rombo del tuono, ma che noi non avremmo fatto come quel bimbo.»

«Sì, sì, al rombo del tuono!» ripeterono approvando nelle retrovie del gruppo.

La folla si avvicinò alla grande tavola intorno alla quale sedevano, in uniforme e fusciacche, i vecchi, settantenni dignitari calvi o canuti, che Pierre aveva visto quasi tutti in casa loro coi buffoni, oppure al club impegnati a giocare a boston. La folla si avvicinò alla tavola senza smettere di vociare. Gli oratori parlavano l’uno dopo l’altro, e certe volte anche a due insieme, spinti dalla ressa che incalzava contro gli alti schienali delle seggiole. Quelli che stavano più indietro si accorgevano di ciò che l’oratore di turno aveva trascurato di puntualizzare, e tosto intervenivano a colmare la lacuna. Altri, in quel caldo e in quel pigia pigia, frugavano nel loro cervello alla ricerca di qualche idea e si affrettavano ad esternarla. I vecchi dignitari che Pierre conosceva bene continuavano a starsene seduti e si voltavano ora verso l’uno ora verso l’altro, mentre la loro espressione diceva una sola cosa: avevano tanto caldo.

Pierre, tuttavia, si sentiva elettrizzato: anch’egli era stato contagiato da quel diffuso sentimento per il quale occorreva dimostrare che nulla ci faceva paura; e tale stato d’animo si esprimeva più attraverso le voci e l’espressione dei visi che non per mezzo del significato di tutti quei discorsi. Non aveva rinnegato le sue idee, ma si sentiva colpevole di qualcosa e desiderava in qualche modo riscattarsi.

«Io ho detto soltanto che noi potremmo offrire il nostro aiuto se sapessimo esattamente di che cosa c’è bisogno,» disse, cercando di superare le altre voci.

Un vecchio che gli stava più vicino si voltò verso di lui, ma fu subito distratto da un grido che risuonò all’altro capo del tavolo.

«Sì, Mosca sarà abbandonata! Sarà lei a espiare per tutti!» gridò una voce.

«Quell’uomo è il nemico del genere umano!» urlò un altro.

«Permettetemi di parlare… Signori, così mi soffocate…»

XXIII

In quel momento entrò a passo affrettato il conte Rastopèin, passando davanti alla folla degli aristocratici che gli facevano largo. Era in uniforme da generale, con la fascia a tracolla, con quel suo mento prominente e quegli occhi mobilissimi e penetranti.

«Sua Maestà l’imperatore sta per arrivare,» disse. «L’ho lasciato poc’anzi. Credo che, data la situazione nella quale ci troviamo, non ci sia molto da discutere. L’imperatore si è degnato di riunire noi e la classe mercantile,» aggiunse. «Di là sgorgheranno i milioni - e indicò la sala ove erano radunati i mercanti - mentre sarà nostro dovere fornire milizie e non risparmiare noi stessi… È il meno che possiamo fare!»

Cominciarono le consultazioni fra i soli dignitari seduti alla tavola. Tutta la consultazione si svolse in tono composto e sommesso. Ne veniva addirittura un’impressione di malinconia, dopo tutto il clamore di poc’anzi. Si udirono, una alla volta, quelle voci senili che dicevano: «Sono d’accordo!»; oppure, per variare: «Anch’io sono dello stesso parere», e via di questo passo.

Fu dato ordine al segretario di scrivere la deliberazione della nobiltà di Mosca, in forza di cui tutti i proprietari moscoviti - come già quelli di Smolensk - offrivano dieci uomini su ogni mille dotati di equipaggiamento completo. I signori in seduta si alzarono come alleggeriti di un peso, spostando gli scranni con fragore, e s’avviarono qua e là per la sala onde sgranchire le gambe. Prendevano a braccetto il primo che capitava e chiacchieravano fra loro.

«L’imperatore! L’imperatore!» echeggiò un grido di sala, e tutta la folla si affrettò verso l’ingresso.

L’imperatore entrò nella sala lungo lo spazio lasciato libero dai nobili assiepati. Su tutti i visi si dipinse un sentimento di riverente e spaurita curiosità. Pierre era abbastanza discosto e non riuscì a udire distintamente le parole del sovrano. Capì soltanto, da ciò che aveva potuto captare, che l’imperatore parlava del pericolo in cui versava la Nazione e delle speranze che egli riponeva nell’aristocrazia moscovita. Al sovrano rispose una voce che annunciava la deliberazione presa proprio allora dalla nobiltà.

«Signori!» s’impose, rotta da un tremito la voce dell’imperatore.

La folla mormorò, poi tacque di nuovo e Pierre udì distintamente la voce così amabile, così umana e commossa dell’imperatore mentre diceva:

«Non avevo mai dubitato del fervore della nobiltà russa. Ma in questo giorno esso ha superato ogni mia aspettativa. Vi ringrazio a nome della patria. Ora, signori, dobbiamo passare all’azione: il tempo è la cosa più preziosa…»

L’imperatore non aggiunse altro. La folla prese a stringerglisi attorno; da ogni parte echeggiavano esclamazioni d’entusiasmo.

«Sì, la cosa più preziosa… parola dello zar,» esclamava fra i singhiozzi Il’ja Andreič, che non aveva udito nulla ma aveva capito tutto a modo suo.

Dalla sala della nobiltà l’imperatore passò nella sala dei mercanti. Vi si trattenne per una decina di minuti. Insieme agli altri Pierre fu tra coloro che videro uscire Sua Maestà dalla sala dei mercanti con gli occhi pieni di lacrime di commozione. Come si seppe poco dopo, l’imperatore aveva appena cominciato il suo discorso ai mercanti quando il pianto gli era sgorgato dagli occhi e aveva finito di parlare con voce tremante e spezzata. Quando Pierre lo vide, usciva accompagnato da due mercanti. Uno di questi, Pierre lo conosceva: era un appaltatore, un uomo grande e grosso. L’altro era uno dei capi; con un viso giallastro e scarno, e una barbetta a punta. Tutt’e due piangevano. Il magro aveva le lacrime agli occhi, ma il grasso appaltatore singhiozzava come un bambino e continuava a ripetere:

«Prenditi anche la nostra vita, prenditi tutti i nostri beni, maestà!»

In quel momento Pierre non provava più niente se non il desiderio di mostrare che per lui nulla sarebbe stato troppo, che era pronto a sacrificare ogni cosa. Ora gli rimordeva il suo discorso a indirizzo costituzionale, ed egli cercava solo l’occasione per cancellarlo. Avendo saputo che il conte Mamonov offriva un reggimento, Bezuchov dichiarò all’istante al conte Rastopèin che lui avrebbe offerto mille uomini e i mezzi di sussistenza.

Il vecchio Rostov non poté raccontare alla moglie senza piangere tutto ciò che aveva visto e udito. Acconsentì senza altri indugi al desiderio di Petja e andò di persona a iscriverlo tra i volontari.

Il giorno dopo l’imperatore partì. Tutti i nobili che si erano riuniti si tolsero le uniformi, tornarono alle loro case e ai loro club; ed ora, scatarrando, davano disposizioni agli amministratori a proposito della milizia e si meravigliavano di ciò che loro stessi avevano potuto combinare.