«Non plus. Cela met la cour dans de trop mauvais draps,» proseguì Bilibin. «Ce n’est ni trahison, ni lâcheté, ni bêtise; c’est comme à Ulm…» Parve restare soprappensiero, cercando l’espressione: «c’est… c’est du Mack. Nous sommes mackès,» concluse, sentendo d’aver pronunciato un mot, un mot che poi sarebbe stato ripetuto.

Le pieghe sulla fronte, sino a quel momento raggrinzite, si rilassarono di colpo in segno di soddisfazione, e Bilibin, con un lieve sorriso, si mise a scrutare le proprie unghie.

«Dove andate?» disse a un tratto, rivolgendosi al principe Andrej che si era alzato e si dirigeva verso la sua stanza.

«Parto.»

«Per dove?»

«Raggiungo l’esercito.»

«Ma non intendevate fermarvi altri due giorni?»

«Ora, invece, ho deciso di partire subito.»

E il principe Andrej, dopo aver dato le disposizioni per la partenza, si ritirò nella sua camera.

«Sapete che cosa vi dico, mio caro,» disse Bilibin, entrando nella stanza di Bolkonskij. «Ho pensato a voi. Perché partite?»

E, a dimostrazione della ragionevolezza della sua obiezione, tutte le pieghe scomparvero dal suo viso.

Il principe Andrej guardò il suo interlocutore con espressione interrogativa e non rispose nulla.

«Perché volete partire? Lo so, voi pensate che sia vostro dovere raggiungere al galoppo l’armata, adesso che si trova in pericolo. Ma io lo capisco, mon cher, c’est de l’héroisme

«Niente affatto,» rispose il principe Andrej.

«Ma voi siete un philosophe: dunque siatelo fino in fondo, considerate le cose da un altro punto di vista e vedrete che il vostro dovere, al contrario, è quello di salvaguardare voi stesso. Lasciate queste cose ad altri, a quelli che non sanno fare niente di meglio… Nessuno vi ha ordinato di tornare indietro, né siete stato congedato da qui; di conseguenza, potete restare e partire con noi, dove ci condurrà il nostro infausto destino. Dicono che si vada a Olmütz. Olmütz è una città molto simpatica, ci andremo tranquillamente, con la mia carrozza.»

«Smettetela di scherzare, Bilibin,» disse Bolkonskij.

«Io vi parlo francamente, vi parlo da amico. Ragionate: per dove e per cosa partite, ora che potreste fermarvi qui? Delle due una (e Bilibin increspò la pelle sopra la tempia sinistra): o non farete in tempo a raggiungere l’armata e la pace sarà conclusa, o vi toccherà la disfatta e la vergogna, con tutta l’armata di Kutuzov.»

E Bilibin rilassò la pelle, sentendo che l’alternativa da lui preconizzata era irrefutabile.

«Sono cose che non posso giudicare,» rispose freddamente il principe Andrej. «Vado per salvare l’armata,» pensava.

«Mon cher, vous êtes un héros,» disse Bilibin.

XIII

Quella stessa notte, dopo essersi congedato dal ministro della guerra, Bolkonskij partì per raggiungere l’armata, senza sapere dove l’avrebbe trovata e col timore di esser fatto prigioniero dei francesi lungo la strada di Krems.

A Brünn, la corte e tutto il suo seguito facevano i bagagli: i colli pesanti erano già stati spediti a Olmütz. Presso Etzelsdorf il principe Andrej sbucò sulla strada lungo la quale con gran fretta e gran disordine si andava spostando l’armata russa. La strada era così ingombra di veicoli che non era possibile procedere in carrozza. Dopo aver prelevato un cavallo e un cosacco di scorta da un comandante dei cosacchi, il principe Andrej, stanco e affamato, sorpassando le salmerie, si mise a cercare il comandante supremo e i propri bagagli. Lungo la strada lo raggiungevano le voci più funeste sulla situazione dell’armata, e lo spettacolo delle truppe che fuggivano in disordine non faceva che confermare quelle voci.

«Cette armée russe que l’or de l’Angleterre à transportée des extrémités de l’univers, nous allons lui faire éprouver le même sort (le sort de l’armée d’Ulm).» Il principe Andrej ricordava le parole del proclama di Bonaparte al suo esercito prima della campagna, e queste parole suscitavano in lui una stupita ammirazione per il geniale eroe, e al tempo stesso un sentimento d’orgoglio offeso e una speranza di gloria. «E se non restasse altro che morire?» pensava. «Ebbene, se sarà necessario, sia pure! Non morirò peggio degli altri.»

Il principe Andrej guardava con disprezzo quell’ammasso caotico e sterminato di reparti, salmerie, pezzi d’artiglieria, e ancora carriaggi di ogni tipo, che si incalzavano a vicenda e, disposti su tre, quattro file, ingombravano la strada fangosa. Da tutte le parti, davanti e alle spalle, fin dove l’orecchio poteva giungere, si udivano rumori di ruote, fragore di cassoni, di carri e di affusti di cannone, calpestio di cavalli, schiocchi di frusta, grida d’incitamento, imprecazioni di soldati, di attendenti e di ufficiali. Ai lati della strada si vedevano di continuo ora cavalli caduti, scuoiati e non scuoiati, ora carri fracassati vicino ai quali sedevano soldati solitari in attesa di chissà cosa, ora soldati staccatisi dalle compagnie che si dirigevano in folla nei vicini villaggi e ne asportavano galline, agnelli, fieno, sacchi pieni di masserizie. Sulle discese e sulle salite la folla si faceva più fitta e si udiva un ininterrotto vocio. Sprofondando fino alle ginocchia nel fango, i soldati sollevavano a braccia carri e cannoni; le fruste schioccavano, gli zoccoli sdrucciolavano, le tirelle si spezzavano e i petti si schiantavano a forza di grida. Gli ufficiali che dirigevano il movimento passavano e ripassavano a cavallo, in mezzo alle salmerie, avanti e indietro. Le loro voci si udivano debolmente in mezzo al frastuono generale, ma dalle loro facce si vedeva che essi disperavano della possibilità di por fine a quel disordine.

«Voilà la chère armée orthodoxe,» pensò Bolkonskij, ricordando le parole di Bilibin.

Volendo chiedere a uno di quegli uomini dove si trovasse il comandante supremo, si avvicinò a un carro. Proprio di fronte a lui procedeva uno strano veicolo a un solo cavallo, palesemente rimediato con mezzi di fortuna dagli stessi soldati, e che sembrava qualcosa di mezzo fra una telega, un calesse e una carrozza. Lo guidava un soldato e sotto il mantice di cuoio, dall’alto del quale pendeva un grembiale teso, era seduta una donna tutta avvolta in uno scialle. Il principe Andrej si avvicinò e stava per rivolgersi al soldato quando la sua attenzione fu attratta dalle grida disperate della donna seduta nel veicolo. Vedendo il principe Andrej ella si sporse fuori del grembiale e, agitando le magre braccia che emergevano di sotto lo scialle, gridò:

«Signor aiutante! Signor aiutante di campo!… Per l’amor di Dio… difendetemi… Che cos’è questa storia?… Io sono la moglie del medico del settimo cacciatori… non mi lasciano passare; siamo rimasti indietro, abbiamo perso i nostri…»

«Ti riduco la faccia come una frittella! Volta e torna indietro, indietro, tu e la tua sgualdrina!» gridò al soldato un ufficiale furibondo.

«Signor aiutante di campo, difendetemi! Che modi sono questi?» gridava la moglie del medico.

«Fate il piacere di lasciar passare questa vettura. Non vedete che c’è una donna?» disse il principe Andrej avvicinandosi col suo cavallo all’ufficiale.

L’ufficiale gli gettò un’occhiata, e senza rispondergli si volse di nuovo verso il soldato: «Ti insegnerò io… Indietro!»

«Lasciatela passare, ho detto,» ripeté il principe Andrej a denti stretti.

«E tu chi sei?» lo interpellò a un tratto l’ufficiale con furore da ubriaco. «Tu chi sei?» (Calcava ostentatamente sul «tu».) «Saresti un capo, forse? Qui il capo sono io, non sei tu. Indietro,» ripeté, «o ti riduco una frittella.»

Evidentemente quell’espressione piaceva all’ufficiale. «Lo hanno trattato coi fiocchi, il nostro aiutante,» si udì una voce alle loro spalle.

Il principe Andrej si accorse che l’ufficiale era in preda a quell’inconsulto accesso di immotivato furore in cui gli uomini non sanno ciò che dicono. Si accorse che il suo intervento a favore della moglie del medico seduta nel veicolo appariva pieno di ciò che egli temeva più di ogni cosa al mondo, e cioè di quello che egli chiamava ridicule; ma il suo istinto gli parlava con voce diversa. L’ufficiale non fece in tempo a pronunciare le ultime parole che il principe Andrej gli si era avvicinato col volto alterato dalla collera e sollevò lo scudiscio:

«La-scia-te pas-sa-re!»

L’ufficiale fece un vago gesto con la mano e si affrettò a scostarsi.

«Tutto il disordine è dovuto a costoro, a quelli dello stato maggiore,» brontolò. «Fate come vi pare.»

Il principe Andrej si allontanò in fretta senza guardare la moglie del medico che lo chiamava suo salvatore, e ricordando con senso di ripugnanza i minimi particolari di questa scena umiliante, galoppò avanti raggiungendo il villaggio in cui, secondo quanto gli era stato detto, doveva trovarsi il comandante supremo.

Entrato nel villaggio, smontò da cavallo e a piedi si avviò verso la prima casa con l’intenzione di riposarsi almeno un poco, di mangiare qualcosa e riordinare tutti i pensieri che lo offendevano e lo tormentavano. «È una folla di mascalzoni, non un esercito,» pensava avvicinandosi alla finestra della prima casa. Ma in quel momento una voce conosciuta lo chiamò per nome.

Si volse a guardare. Da una piccola finestra si sporgeva la bella faccia di Nesvickij. Masticando qualcosa con la sua bocca carnosa, Nesvickij lo chiamò agitando le mani.

«Bolkonskij, Bolkonskij! Non senti? Vieni, presto!» gridava.

Entrando nella casa, Bolkonskij vide Nesvickij e un altro aiutante che stavano mangiando qualcosa, che subito si volsero verso di lui chiedendogli se avesse novità. Su quelle facce, che il principe Andrej conosceva tanto bene, il principe Andrej lesse un’espressione di ansia e di preoccupazione, particolarmente intensa sul volto sempre ilare di Nesvickij.

«Dov’è il comandante in capo?» domandò Bolkonskij.

«Qui, in quella casa,» rispose l’aiutante.

«Ma è vero, dunque, che siamo alla pace e alla capitolazione?» domandò Nesvickij.

«Lo domando io a voi. Io so solo che ho fatto molta fatica a trovarvi.»

«Ah, come siamo ridotti, mio caro! Un disastro! Ci rimorde il cuore di aver tanto riso di Mack: a noi è capitato di peggio,» disse Nesvickij. «Ma siediti, mangia qualcosa.»

«Qui, principe, non troverete più né il carro né altro; il vostro Pëtr Dio solo sa dove sia finito,» disse l’altro aiutante.

«Dov’è il quartier generale?»

«Noi pernottiamo a Znaim.»

«Quanto a me, ho caricato tutto quello che mi occorreva su due cavalli,» disse Nesvickij, «e mi hanno imballato tutto molto bene. Purché si riesca a svignarsela attraverso i monti della Boemia. Brutta situazione, caro mio. Ma tu che hai: non stai bene che tremi così?» domandò poi, notando che il principe Andrej aveva avuto un sussulto come se avesse toccato una bottiglia di Leida.

«Non è niente,» rispose il principe Andrej.

In quel momento s’era ricordato dell’incontro di poco prima con la moglie del medico e con l’ufficiale addetto alle salmerie.

«Cosa fa qui il comandante in capo?» domandò.

«Non lo so proprio,» rispose Nesvickij.

«Io so soltanto una cosa: che tutto è ignobile, ignobile e ributtante,» disse il principe Andrej e si avviò verso la casa nella quale era alloggiato il comandante in capo.

Passando davanti alla carrozza di Kutuzov, agli stremati cavalli da sella del seguito e ai cosacchi che discorrevano fra loro ad alta voce, il principe Andrej entrò nel vestibolo. Come gli era stato riferito, Kutuzov in persona si trovava nella casetta insieme al principe Bagration e a Weirother, il generale austriaco che aveva sostituito il defunto Schmidt. Nel vestibolo, il piccolo Kozlovskij se ne stava accoccolato davanti a uno scritturale dalle maniche rimboccate, che scriveva frettolosamente su un barilotto rovesciato. La faccia di Kozlovskij era disfatta: anche lui, evidentemente, non aveva dormito quella notte. Lanciò uno sguardo al principe Andrej e non gli fece nemmeno un cenno col capo.

«La seconda linea… Hai scritto?» chiese, continuando a dettare allo scritturale. «Reggimento dei granatieri di Kiev, reggimento di Podolsk…»

«Non riesco a starvi dietro, eccellenza,» rispose lo scritturale in modo irrispettoso e adirato, voltandosi a guardare Kozlovskij.

In quel momento, dietro la porta, si udì la voce agitata e scontenta di Kutuzov, interrotta da un’altra voce sconosciuta. Dal suono di quelle voci, dall’indifferenza con la quale Kozlovskij lo aveva guardato, dai modi irrispettosi dello scritturale esausto, dal fatto che lo scritturale e Kozlovskij sedevano così vicini al comandante supremo, per terra, vicino a un barilotto, e dal fatto che i cosacchi addetti ai cavalli ridevano sguaiatamente sotto la finestra della casa: da tutto questo il principe Andrej comprese che era accaduto qualcosa di decisivo e di funesto.

Rivolse allora con insistenza varie domande a Kozlovskij.

«Vengo subito, principe,» disse Kozlovskij. «Sono gli ordini per Bagration.»

«Ma la capitolazione?»

«Niente capitolazione; sono state date disposizioni per la battaglia.»

Il principe Andrej si diresse verso la porta dalla quale giungevano le voci. Ma mentre stava per aprire la porta, le voci tacquero, la porta si aprì da sola, e sulla soglia comparve Kutuzov col suo naso aquilino che spiccava sul viso paffuto. Il principe Andrej si trovò in piedi davanti a Kutuzov, ma, dall’espressione di quell’unico occhio dal quale il comandante supremo vedeva, era palese che i pensieri e le preoccupazioni lo assorbivano a tal punto, da impedirgli di distinguere chi gli stava dinanzi. Guardava in faccia il suo aiutante di campo senza riconoscerlo.

«Allora, hai terminato?» chiese Kutuzov a Kozlovskij.

«In questo istante, eccellenza.»

Bagration, piuttosto basso di statura, non ancora anziano, il corpo asciutto e un viso duro e immoto di tipo orientale, emerse dietro le spalle del comandante supremo.

«Ho l’onore di presentarmi,» ripeté per la seconda volta il principe Andrej a voce abbastanza vibrata, porgendo un plico.

«Ah, da Vienna. Bene. Dopo, dopo!»

Kutuzov si affacciò con Bagration sulla porta d’ingresso.

«Ebbene, principe, addio,» disse a Bagration. «Che Dio ti accompagni. Ti benedico per questa grande impresa.»

Improvvisamente il volto di Kutuzov si addolcì e gli spuntarono delle lacrime negli occhi. Attrasse a sé con la mano sinistra Bagration e con la destra, quella che recava l’anello, con un gesto palesemente abituale, gli fece il segno della croce, e al tempo stesso gli porgeva la guancia grassoccia. Ma invece della guancia Bagration gli baciò il collo.

«Dio ti accompagni!» ripeté Kutuzov, e si avvicinò alla carrozza. «Monta con me,» disse a Bolkonskij.

«Eccellenza, desidererei rendermi utile, qui. Permettete che mi aggreghi al distaccamento del principe Bagration.»

«Monta,» ripeté Kutuzov. «Anch’io ho bisogno di buoni ufficiali, anch’io,» aggiunse, vedendo che Bolkonskij esitava ancora.

Salirono in carrozza, e per alcuni minuti procedettero in silenzio.

«Davanti a noi abbiamo ancora tante cose, cose di tutti i generi,» disse Kutuzov con un’espressione di senile perspicacia, come se comprendesse tutto ciò che passava nell’animo di Bolkonskij. «Se domani tornerà anche solo la decima parte del suo distaccamento ringrazierò Dio,» aggiunse, come parlando a se stesso.

Il principe Andrej sogguardò Kutuzov e involontariamente lo colpirono, così ravvicinato, il bordo ben lavato della cicatrice sulla tempia del comandante supremo, nel punto dove la pallottola che lo aveva ferito a lzmail gli aveva forato la testa, l’orbita vuota dell’occhio mancante. «Sì, lui ha il diritto di parlare con tanta calma della morte di questi uomini!» pensò Bolkonskij.

«Per questo vi prego di destinarmi a quel distaccamento,» disse.

Kutuzov non rispose. Sembrava che avesse già dimenticato ciò che aveva detto poc’anzi, e se ne stava assorto nelle sue riflessioni. Cinque minuti dopo, dondolando dolcemente sulle molle elastiche della carrozza, Kutuzov si rivolse al principe Andrej. Sulla sua faccia non c’era traccia d’emozione. Con sottile ironia interrogò il principe Andrej sui particolari del suo incontro con l’imperatore, sulle reazioni che aveva captato a corte a proposito degli scontri di Krems e su alcune dame di loro comune conoscenza.

XIV

Il primo novembre, per mezzo di un suo informatore, Kutuzov aveva ricevuto una notizia che poneva l’armata al suo comando in una situazione quasi disperata. L’informatore riferiva che i francesi, passato il ponte di Vienna, si dirigevano con forze schiaccianti sulla via di collegamento tra Kutuzov e le truppe provenienti dalla Russia. Se Kutuzov fosse rimasto a Krems, i centocinquantamila uomini di Napoleone l’avrebbero tagliato fuori da tutte le comunicazioni, avrebbero accerchiato la sua esausta armata di quarantamila uomini ed egli si sarebbe trovato nella situazione di Mack a Ulm. Anche se avesse deciso di rinunciare a congiungersi con le truppe provenienti dalla Russia, avrebbe dovuto inoltrarsi senza strade negli sconosciuti territori montuosi della Boemia, difendendosi da un nemico superiore in forze, e abbandonare ogni speranza di riunirsi a Buxhöwden. Se poi Kutuzov avesse deciso di ritirarsi sulla strada da Krems a Olmütz per riunirsi alle truppe provenienti dalla Russia, avrebbe corso il rischio d’esser preceduto su questa strada dai francesi che avevano passato il ponte di Vienna, e in tal modo di esser costretto ad accettare battaglia mentre era in marcia, con tutti i bagagli e le salmerie, e per di più avendo a che fare con un nemico di tre volte superiore che lo cingeva su due lati.

Kutuzov aveva scelto quest’ultima soluzione.

I francesi, come aveva riferito l’informatore, attraversato il Danubio a Vienna, puntavano a marce forzate su Znaim, che si trovava sulla via della ritirata di Kutuzov, oltre cento miglia più in là, e cioè di gran lunga davanti a lui. Raggiungere Znaim prima dei francesi significava creare fondate speranze di salvare l’esercito; lasciarsi precedere dai francesi a Znaim significava esporre con assoluta certezza l’intera armata a un’onta simile a quella di Ulm, oppure alla rovina totale. Ma precedere i francesi con tutta l’armata era impossibile. La strada che i francesi seguivano da Vienna a Znaim era più breve e assai migliore di quella che i russi dovevano percorrere da Krems alla stessa Znaim.

La notte in cui aveva ricevuto quella notizia, Kutuzov inviò Bagration, sulla sua destra, con un’avanguardia di quattromila uomini, su per i monti, fra la strada Krems-Znaim e la strada Vienna-Znaim. Bagration avrebbe dovuto procedere senza sosta e fermarsi con la faccia rivolta verso Vienna e le spalle a Znaim; poi, se fosse riuscito a precedere i francesi, avrebbe dovuto cercare di trattenerli per quanto gli era possibile. Dal canto suo, Kutuzov si stava dirigendo verso Znaim con tutte le salmerie.

Dopo aver percorso quarantacinque miglia coi soldati affamati e scalzi, senza strade, attraverso le montagne, durante una notte tempestosa, perdendo un terzo della sua formazione tra uomini dispersi o attardati lungo il cammino, Bagration riuscì a raggiungere Hollabrunn, sulla strada Vienna- Znaim, varie ore prima dei francesi che si avvicinavano a Hollabrunn da Vienna. Kutuzov avrebbe dovuto marciare per altre ventiquattro ore con le sue salmerie prima di raggiungere Znaim: prima, quindi, di poter considerare salva l’armata. Di conseguenza, con quattromila soldati affamati ed esausti Bagration doveva bloccare per ventiquattro ore tutto l’esercito nemico, cosa evidentemente impossibile. Ma uno strano destino rese possibile l’impossibile. La riuscita dell’inganno che senza colpo ferire aveva messo il ponte di Vienna nelle mani dei francesi, indusse Murat a cercar d’ingannare allo stesso modo anche Kutuzov. Incontrando sulla strada di Znaim il debole distaccamento di Bagration, Murat credette che si trattasse dell’intera armata di Kutuzov. Per essere certo di poterla schiacciare egli attese dunque le truppe rimaste indietro sulla strada di Vienna, e a tale scopo propose un armistizio di tre giorni alla condizione che l’uno e l’altro esercito non mutassero la loro posizione e non si muovessero da dove si trovavano. Murat assicurava che erano già in corso trattative di pace e che pertanto egli proponeva l’armistizio ad evitare un inutile spargimento di sangue. Il generale austriaco conte Nostitz, che si trovava agli avamposti, prestò fede alle parole del parlamentare di Murat e si ritirò, scoprendo il distaccamento di Bagration. Allora un altro parlamentare si recò allo schieramento russo ad annunciare la stessa notizia delle trattative di pace e a proporre alle truppe russe un armistizio di tre giorni. Bagration rispose che non era autorizzato ad accettare o respingere un armistizio, e spedì il proprio aiutante da Kutuzov, con un rapporto sulla proposta che gli era stata fatta.

L’armistizio era, per Kutuzov, l’unico mezzo per guadagnar tempo, dar modo di riposare all’esausto distaccamento di Bagration e far procedere di almeno una tappa verso Znaim il carreggio e l’artiglieria pesante, il cui movimento era tuttora nascosto ai francesi. La proposta di armistizio offriva l’unica e inattesa possibilità di salvare l’armata. Dopo aver ricevuto questa notizia, Kutuzov spedì subito nel campo nemico l’aiutante generale Wintzingerode che si trovava presso di lui. Non soltanto Wintzingerode doveva accettare l’armistizio, ma anche proporre le condizioni della capitolazione; nel frattempo Kutuzov inviò i suoi aiutanti di campo perché affrettassero quanto più possibile il movimento del carreggio di tutta l’armata sulla strada Krems-Znaim. Esausto e affamato, il distaccamento di Bagration rimase solo e immobile davanti a un nemico otto volte superiore, a copertura dei movimenti del carreggio e di tutta l’armata.

Le aspettative di Kutuzov si avverarono in pieno: sia perché la proposta di una capitolazione, che non lo impegnava in nulla, dava il tempo di far avanzare almeno una parte delle salmerie; sia perché l’errore di Murat non avrebbe tardato a rivelarsi. Non appena Bonaparte, che si trovava a Schönbrunn, a venticinque miglia da Hollabrunn, ricevette il rapporto di Murat e il progetto d’armistizio e di capitolazione, si avvide dell’inganno e scrisse a Murat la seguente lettera:

«Au prince Murat.

Schönbrunn, 25 brumaire en 1805 - à huit heures du matin.

Il m’est impossible de trouver des termes pour vous exprimer mon mécontentement. Vous ne commandez que mon avant-garde et vous n’avez pas le droit de faire darmistice sans mon ordre. Vous me faites perdre le fruit d’une campagne. Rompez l’armistice sur le champ et marchez à l’ennemi. Vous lui ferez déclarer que le général qui a signé cette capitulation n’avait pas le droit de le faire, qu’il n’y a que l’Empereur de Russie qui ait ce droit.

Toutes les fois cependant que l’Empereur de Russie ratifierait la dite convention, je la ratifierai; mais ce n’est qu’une ruse. Marchez, détruisez l’armée russe… vous êtes en position de prendre son bagage e son artillerie.

L’aide-de-camp de l’Empereur de Russie est un… Les officiers ne sont rien quand ils n’ont pas de pouvoirs: celui-ci n’en avait point… Les Autrichiens se sont laissés jouer pour le passage du pont de Vienne, vous vous laissez jouer par un aide-de-camp de l’Empereur.

Napoléon

Un aiutante di Bonaparte galoppò a spron battuto con questa terribile lettera per Murat. Non fidandosi dei suoi generali, Bonaparte in persona mosse con tutta la guardia verso il campo di battaglia, temendo di lasciarsi sfuggire la vittima già pronta. Intanto i quattromila uomini del distaccamento di Bagration, accesi allegramente i fuochi, si asciugavano, si scaldavano, cuocevano per la prima volta dopo tre giorni la kaša, senza sapere né pensare che cosa li aspettasse.

XV

Alle quattro del pomeriggio il principe Andrej, che aveva insistito nella sua richiesta a Kutuzov, giunse a Grunt e si presentò a Bagration. L’aiutante di Bonaparte non era ancora giunto al distaccamento di Murat e la battaglia non era ancora incominciata. Nel distaccamento di Bagration non si sapeva nulla dell’andamento generale delle cose: si parlava di pace, ma non si credeva che fosse possibile, si parlava di battaglia ma non si credeva nell’imminenza della battaglia.

Bagration, sapendo che Bolkonskij era l’aiutante di campo che il comandante supremo stimava e amava maggiormente, lo accolse da superiore ma con particolare attenzione e benevolenza; gli spiegò che presumibilmente quel giorno o l’indomani ci sarebbe stata battaglia e gli concesse piena libertà di rimanere presso di lui durante la battaglia o di andare nella retroguardia a controllare il buon ordine della ritirata, «il che era parimenti molto importante».

«Del resto, è probabile che per oggi non ci sia battaglia,» disse Bagration, come per tranquillizzare il principe Andrej.

«Se costui è uno dei soliti bellimbusti dello stato maggiore in cerca di una decorazione, avrà modo di procurarsela anche nella retroguardia; se invece vuole stare con me, faccia pure… potrà esser utile se è un ufficiale valoroso,» pensò Bagration.

Senza rispondere nulla, il principe Andrej chiese il permesso di ispezionare le posizioni e di rendersi conto dello schieramento delle truppe, in modo da sapere dove andare nell’eventualità di qualche incarico. L’ufficiale di servizio del distaccamento, un bell’uomo vestito con eleganza ricercata, con un anello di brillanti all’indice, che parlava male ma volentieri il francese, si offrì d’accompagnare il principe Andrej.

Da tutte le parti si vedevano ufficiali fradici, con le facce cupe, che sembravano cercare qualcosa; e soldati che portavano via dal villaggio porte, panche e steccati.

«Vedete, principe, non riusciamo proprio a salvarci da questa gente,» disse l’ufficiale accompagnatore indicando quegli uomini. «Sono i comandanti che li lasciano fare. Ecco,» e indicò la tenda piantata dal vivandiere, «si riuniscono qui e non si muovono. Questa mattina li ho cacciati via tutti: guardate, è piena un’altra volta. Bisogna che ci avviciniamo, principe, e li spaventiamo un po’. Un minuto solo.»

«Andiamoci pure, così mi farò dare del formaggio e del pane,» disse il principe Andrej, che non era ancora riuscito a mangiare.

«Ma perché non l’avete detto, principe? Vi avrei offerto il mio “pane e sale”.»

Smontarono di cavallo ed entrarono nella tenda del vivandiere. Alcuni ufficiali, con le facce stanche e arrossate, sedevano a tavola, bevendo e mangiando.

«Insomma, che significa tutto ciò, signori?» disse l’ufficiale di stato maggiore in tono di rimprovero, con l’aria di un uomo che ha già ripetuto varie volte la stessa cosa. «Non potete abbandonare così il vostro posto. Il principe ha ordinato che nessuno resti qui. E voi, signor capitano in seconda,» si rivolse a un ufficiale d’artiglieria piccolo, magro e sporco, che davanti ai nuovi venuti si era alzato in piedi senza gli stivali (li aveva dati al vivandiere perché li mettesse ad asciugare), con i soli calzini, sorridendo in modo non del tutto naturale. «Insomma, non vi vergognate, capitano Tušin?» proseguì l’ufficiale di stato maggiore, «mi pare che, come ufficiale d’artiglieria, dovreste dare l’esempio, e invece ve ne state così senza stivali. Se suona l’allarme, starete proprio bene, senza stivali.» L’ufficiale sorrise. «Fatemi il piacere di ritornare ai vostri posti, signori, tutti, tutti,» aggiunse poi, in tono di comando.

Il principe Andrej, guardando il capitano in seconda Tušin, ebbe un involontario sorriso. Tušin sorrideva in silenzio; appoggiandosi ora su uno ora sull’altro dei suoi piedi senza scarpe, con i grandi occhi intelligenti e buoni, guardava interrogativamente il principe Andrej, e l’ufficiale di stato maggiore.

«I soldati dicono: “scalzi si è più lesti,”» disse il capitano Tušin sorridendo intimidito, col palese desiderio di passare dalla propria imbarazzante situazione a un tono di scherzo.

Ma non aveva ancora finito di parlare, e già aveva compreso che il suo scherzo non veniva accettato e non era riuscito. Allora si turbò.

«Fatemi il piacere di andarvene,» disse l’ufficiale di stato maggiore, sforzandosi di conservare un tono serio.

Il principe Andrej diede ancora un’occhiata alla piccola figura dell’ufficiale d’artiglieria. Quella figura aveva un che di singolare: non era affatto soldatesca: era un po’ buffa, anzi, ma straordinariamente simpatica.

L’ufficiale di stato maggiore e il principe Andrej montarono a cavallo e proseguirono.

Inoltratisi oltre il villaggio, sorpassando e incontrando senza posa soldati e ufficiali dei vari comandi che andavano e venivano, videro alla loro sinistra alcuni trinceramenti appena scavati, rosseggianti di argilla fresca. Alcuni plotoni di soldati, in camiciotto e senza giubba nonostante il vento freddo, brulicavano in quei trinceramenti come formiche bianche; da dietro il terrapieno, buttate senza posa da gente che restava invisibile, piombavano palate di argilla rossa. Si avvicinarono al trinceramento, lo esaminarono e proseguirono oltre. Proprio a ridosso della trincea s’imbatterono in alcune decine di soldati che avvicendandosi di continuo correvano verso quel luogo. Dovettero tapparsi il naso e spingere i cavalli al trotto per uscire da quell’atmosfera mefitica.

«Voilà l’agrément des camps, monsieur le prince,» disse l’ufficiale di servizio.

Sbucarono sul poggio antistante. Da quel monte già si scorgevano i francesi. Il principe Andrej si fermò e si mise a osservare.

«Ecco, lì c’è una nostra batteria,» disse l’ufficiale, indicando il punto più elevato; «è la batteria di quell’originale che se ne stava senza stivali; di là si vede tutto; andiamo, principe.»

«Vi ringrazio molto, ma ora proseguirò da solo,» disse il principe Andrej desiderando liberarsi dell’ufficiale, «non incomodatevi, ve ne prego.»

L’ufficiale rimase indietro, e il principe Andrej si avviò da solo.

Quanto più procedeva verso il nemico, tanto più ordinato e sereno appariva l’aspetto delle truppe. Il colmo del disordine e della desolazione il principe Andrej li aveva trovati prima di Znaim, fra i carri che aveva incontrato al mattino e che si trovavano a dieci miglia dai francesi. Anche a Grunt si avvertiva una certa ansia, come una paura di qualcosa. Ma, quanto più il principe Andrej si avvicinava alle linee francesi, tanto più le nostre truppe apparivano sicure di sé. I soldati erano allineati con i cappotti indosso, mentre il sergente maggiore e il comandante di compagnia contavano gli uomini puntando il dito sul petto del soldato capofila e ordinandogli di alzare il braccio; altri soldati, sparpagliati per tutta la zona, trasportavano legna e sterpaglia e fabbricavano piccole baracche, ridendo e chiacchierando allegramente. Davanti ai falò sedevano soldati, vestiti o seminudi, che facevano asciugare camicie e pezze da piedi, oppure accomodavano gli stivali e i cappotti, o si affollavano intorno ai pentoloni e ai cucinieri. In una compagnia il rancio era pronto e i soldati guardavano con facce avide i pentoloni fumanti aspettando l’assaggio che il capocuciniere recava in una ciotola di legno all’ufficiale seduto su una trave di fronte alla baracca.

In un’altra compagnia, più fortunata, che aveva ancora una riserva di vodka, i soldati si stringevano attorno a un sergente maggiore largo di spalle, col volto butterato, che inclinava un barilotto e versava un po’ di liquore nei tappi delle borracce che gli venivano messi davanti l’uno dopo l’altro. I soldati con espressioni estasiate portavano alla bocca i tappi delle borracce, ne rovesciavano il contenuto in gola e, sciacquandosi la bocca e tergendosela con le maniche dei cappotti, si allontanavano dal sergente maggiore con un’aria più allegra di prima. Tutte le facce erano tranquille, come se tutto succedesse non al cospetto del nemico, prima di una battaglia nella quale sarebbe rimasta sul terreno almeno una metà del distaccamento, ma come se si trovassero in patria, in un pacifico bivacco. Attraversato il reggimento dei cacciatori, fra le file dei granatieri del reggimento di Kiev, uomini valorosi occupati in quelle stesse faccende pacifiche, il principe Andrej, non lontano dall’alta baracca, diversa dalle altre, del comandante del reggimento, si trovò di fronte a un plotone schierato di granatieri davanti al quale giaceva un uomo denudato. Due soldati lo tenevano e due agitavano delle verghe flessibili, colpendo ritmicamente quella schiena nuda. Il punito mandava urla innaturali. Un grasso maggiore camminava davanti al plotone schierato, e senza badare alle grida, diceva in continuazione:

«Per un soldato, rubare è una vergogna: un soldato dev’essere onesto, nobile e coraggioso: chi deruba un suo compagno, vuol dire che è un uomo senza onore, che è un farabutto. Ancora, ancora!»

E continuavano a risuonare i colpi elastici, e quel grido di simulata disperazione.

Un giovane ufficiale si allontanò dal punito con una espressione di sgomento e di sofferenza e si volse a guardare con aria interrogativa l’aiutante di campo che passava.

Raggiunta la prima linea, il principe Andrej si avviò lungo il fronte. La nostra linea e quella nemica, al fianco sinistro e al fianco destro, erano assai distanziate l’una dall’altra; ma al centro, nel punto in cui al mattino erano transitati i parlamentari, le linee si avvicinavano a tal punto che i soldati degli opposti schieramenti potevano vedersi nitidamente e scambiare perfino delle battute. Oltre ai soldati che tenevano la linea in quel punto, dall’una e dall’altra parte c’erano molti curiosi che osservavano ridendo quei nemici, che a loro apparivano strani e ignoti.

Sin dalle prime ore del mattino, nonostante il divieto di avvicinarsi alle linee, i comandanti non avevano potuto liberarsi di quei curiosi. I soldati di prima linea, come persone che mettono in mostra qualcosa di raro, non guardavano più i francesi, ma facevano le loro osservazioni su chi si avvicinava, e aspettavano il cambio annoiandosi. Il principe Andrej si fermò a osservare i francesi.

«Guarda là, guarda…» diceva un soldato a un compagno, indicando un fuciliere russo insieme a un ufficiale che si era avvicinato alla prima linea e con voce accalorata parlava fittamente a un granatiere francese. «Senti come chiacchiera! Neanche il francese riesce a tenergli dietro. Ehi, tu, Sidorov!»

«Aspetta, sta’ a sentire. Accidenti come parla in fretta!» rispose Sidorov che era considerato un maestro nella lingua francese.

Il soldato cui accennavano coloro che stavano ridendo era Dolochov. Il principe Andrej lo riconobbe e si mise ad ascoltare la sua conversazione. Dolochov insieme al suo comandante di compagnia si era portato sulla linea, proveniente dal fianco sinistro, dove si trovava il suo reggimento.

«Su, ancora, ancora!» lo incitava il comandante della compagnia, piegandosi in avanti e cercando di non perdere nemmeno una di quelle parole per lui incomprensibili. «Più in fretta, per favore. E lui che cosa dice?»

Dolochov non gli rispose; era trascinato in una calorosa discussione con il granatiere francese. Naturalmente, e non avrebbe potuto essere altrimenti, parlavano della campagna in corso. Confondendo i russi con gli austriaci, il francese diceva che i russi si erano arresi e già ad Ulm avevano cominciato a fuggire. Dolochov ribatteva che i russi non si erano affatto arresi, e che al contrario avevano battuto i francesi.

«Abbiamo l’ordine di respingervi, e vi respingeremo,» diceva Dolochov.

«Badate piuttosto a non farvi acchiappare tutti insieme, voi e i vostri cosacchi,» rispondeva il granatiere francese.

Gli spettatori e ascoltatori di parte francese si misero a ridere.

«Vi faremo ballare come avete ballato al tempo di Suvorov (on vous fera danser),» disse Dolochov.

«Qu’est-ce qu’il chante?» domandò un francese.

«De l’histoire ancienne,» disse un altro, intuendo che si parlava di guerre passate. «L’Empereur va lui faire voir à votre Souvara, comme aux autres…»

«Bonaparte…» cominciò Dolochov. Ma il francese lo interruppe.

«Non c’è nessun Bonaparte: c’è l’imperatore! Sacré nom…» gridò con rabbia.

«Che il diavolo se lo porti, il vostro imperatore!»

E Dolochov uscì in volgari imprecazioni russe, alla maniera di tutti i soldati; poi, gettandosi il fucile a tracolla, si allontanò.

«Andiamo, Ivan Lukiè,» disse al comandante di compagnia.

«Questo sì che si chiama parlare in francese,» cominciarono a dire i soldati in prima linea. «Ehi tu, Sidorov!»

Sidorov strizzò l’occhio, e rivolgendosi ai francesi cominciò a farfugliare delle parole precipitose e incomprensibili:

«Carì, malà, tafà, safì, mutèr, cascà,» borbottava, sforzandosi di dare intonazioni espressive alla propria voce.

«Oh, oh, oh! Ah, ah, ah, ah! Uh! Uh!» Fra i soldati echeggiò uno scroscio di risa così allegro e spensierato che trasmettendosi spontaneamente attraverso le linee anche ai francesi, dava l’impressione che a partire da questo momento si dovessero scaricare i fucili e far esplodere le cariche, per poi andarsene al più presto ciascuno a casa sua.

Ma i fucili restarono carichi, le feritoie delle trincee e delle case continuarono a guardare innanzi a sé minacciose come prima; e come prima i cannoni, tolti dal loro affusti, rimasero puntati gli uni contro gli altri.

XVI

Percorso tutto lo schieramento dal fianco destro al sinistro, il principe Andrej salì alla batteria dalla quale, secondo l’affermazione dell’ufficiale di stato maggiore, si scorgeva tutto il campo. Qui egli smontò di cavallo e si avvicinò all’ultimo dei quattro cannoni levati dagli affusti. Davanti ai cannoni camminava avanti e indietro l’artigliere di guardia, il quale stava per fermarsi sull’attenti davanti all’ufficiale, ma invece, a un cenno di quest’ultimo, riprese il suo tedioso moto uniforme. Dietro i cannoni stavano gli avantreni, e ancor più indietro i pali ai quali erano legati i cavalli, e i falò degli artiglieri. A sinistra, non lontano dall’ultimo cannone, c’era una capanna nuova, fatta di rami intrecciati, dalla quale provenivano voci animate di ufficiali.

In effetti, dalla batteria lo sguardo spaziava su quasi tutto lo schieramento russo e su buona parte di quello nemico. Proprio di fronte alla batteria, sul profilo della collina antistante, si scorgeva il villaggio di Schöngraben; più a sinistra e più a destra si vedevano, in tre punti distinti, fra il fumo dei loro falò, ammassamenti di truppe francesi; il grosso dei francesi, evidentemente, si trovava dentro il villaggio e al di là della collina. A sinistra del villaggio, in mezzo al fumo, si discerneva qualcosa che poteva essere una batteria, ma ad occhio nudo non si riusciva a vedere bene. Il nostro fianco destro era attestato su una collina abbastanza ripida che dominava la posizione dei francesi. Qui era schierata la nostra fanteria, alla cui estremità si riconoscevano i dragoni. Al centro, dove era collocata anche la batteria di Tušin dalla quale il principe Andrej stava osservando lo schieramento, la discesa o la salita al torrente che ci separava da Schöngraben era resa più facile da un pendio meno ripido. A sinistra, le nostre truppe si appoggiavano al bosco, dove fumavano i fuochi della nostra fanteria impegnata a tagliare la legna. La linea dei francesi era più estesa della nostra ed era chiaro che i francesi potevano facilmente aggirarci da entrambi i lati. Dietro il nostro schieramento c’era un ripido e profondo burrone che avrebbe ostacolato la ritirata dell’artiglieria e della cavalleria. Appoggiandosi con i gomiti a un cannone, il principe Andrej prese di tasca un taccuino e tracciò uno schizzo dello schieramento. In due punti, col lapis, fece delle note, col proposito di mostrarle a Bagration. Egli era dell’avviso che, in primo luogo, si dovesse concentrare tutta l’artiglieria al centro; e, in secondo luogo, fosse opportuno spostare indietro la cavalleria, sull’altro lato del burrone. Poiché era sempre stato presso il comandante in capo e aveva sempre seguito i movimenti delle masse e le disposizioni generali, e per di più si dedicava di continuo allo studio delle battaglie dell’antichità, anche in quell’azione imminente senza volerlo il principe Andrej immaginava il futuro svolgersi delle operazioni soltanto nelle sue linee generali. Riusciva a prospettare solo due grandi possibilità: «Se il nemico condurrà l’attacco sul fianco destro,» si diceva, «il reggimento di granatieri di Kiev e i cacciatori del Podolsk dovranno mantenere le loro posizioni finché le riserve del centro non li avranno raggiunti. In questo caso i dragoni possono colpire sul fianco e travolgerli. In caso di attacco al centro, invece, noi piazziamo su quest’altura il grosso dell’artiglieria e, sotto la sua copertura, spieghiamo il fianco sinistro e ci ritiriamo, a scaglioni, fino al burrone,» ragionava fra sé…

Come sovente accade, durante tutto il tempo in cui era rimasto alla batteria vicino al cannone, il suo udito era stato colpito dall’incessante vocio degli ufficiali che parlavano nella capanna, ma senta riuscire a distinguere una sola parola di ciò che stavano dicendo. A un tratto nel suono delle voci provenienti dalla capanna lo colpì un accento così appassionato, che suo malgrado si mise in ascolto.

«No, mio caro,» diceva una voce di timbro gradevole e che al principe Andrej parve di conoscere, «io dico che se fosse possibile sapere che cosa ci aspetta dopo la morte, nessuno di noi avrebbe paura di morire. È proprio così, mio caro.»

Un’altra voce, più giovane, lo interruppe:

«Sì, ma che tu ne abbia paura o no, in ogni caso alla morte non si scappa.»

«Ma si ha paura egualmente. Eh, voi, sapienti,» disse una terza voce, di timbro molto virile, interrompendo tutti e due. «Già, già, voialtri artiglieri siete tanto sapienti, perché potete sempre portarvi appresso tutto quello che volete: la vostra vodka, la vostra colazione…»

E il titolare della voce molto virile, evidentemente un ufficiale di fanteria, scoppiò a ridere.

«Però si ha paura,» continuò la prima voce, quella che al principe Andrej pareva di conoscere. «Hai paura dell’ignoto, ecco come stanno le cose. Hai un bel dire che l’anima se ne andrà in cielo… tanto lo sappiamo che il cielo non esiste, ma esiste semplicemente l’atmosfera.»

Di nuovo la voce virile interruppe l’artigliere:

«Su, offriteci un po’ del vostro liquore a base di erbe, Tušin,» disse.

«Ah, è il capitano senza stivali che era dal vivandiere,» pensò il principe Andrej, riconoscendo con piacere la gradevole voce che filosofava.

«Il liquore posso anche offrirlo,» rispose Tušin, «però, poter sapere com’è la vita futura…» Ma non concluse il discorso.

In quel momento nell’aria echeggiò un sibilo sempre più vicino, più veloce e distinto. Poi la granata, come se non avesse finito di dire tutto ciò che doveva, esplose al suolo a breve distanza dalla baracca proiettando terriccio tutt’intorno con forza disumana. La terra parve gemere sotto quel colpo inaudito.

In quello stesso istante dalla capanna emerse per primo il piccolo Tušin con la piccola pipa stretta in un angolo della bocca. La sua faccia buona e intelligente era pallida. Dietro di lui sbucò l’uomo della voce virile, un gagliardo ufficiale di fanteria che prese a correre in direzione della sua compagnia, abbottonandosi la giubba.

XVII

Il principe Andrej rimase fermo a cavallo presso la batteria, guardando il fumo del cannone da cui era partita la granata. I suoi occhi spaziarono su tutta la linea. Egli vide che le masse dei francesi, fino a poco prima immobili, ora erano in agitazione e che in realtà a sinistra c’era una postazione d’artiglieria. Il fumo sopra di essa non si era ancora dileguato. Due francesi a cavallo, probabilmente due aiutanti di campo, salivano al galoppo l’altura. Nella valle, forse per andare a rafforzare le prime linee, si distingueva bene una piccola colonna del nemico in movimento. Non si era ancora dissipata la fumata del primo tiro, che apparve una seconda fumata seguita dallo sparo. Era cominciata la battaglia. Il principe Andrej girò il cavallo e galoppò indietro, verso Grunt, in cerca del principe Bagration. Dietro di sé udiva il cannoneggiamento farsi più fitto e tuonare più rumoroso. Evidentemente i nostri avevano incominciato a rispondere. In basso, nel punto dov’erano passati i parlamentari, echeggiarono dei colpi di fucile.

Lemarrois era appena giunto al galoppo da Murat con la feroce lettera di Bonaparte e Murat, mortificato, nella speranza di ovviare al suo errore, aveva subito spostato le sue truppe per colpire il centro e aggirare i due fianchi dei russi, confidando di riuscire a schiacciare l’insignificante distaccamento che gli stava di fronte ancor prima del calar della sera e dell’arrivo dell’imperatore.

«Si comincia! Ci siamo!» pensò il principe Andrej, sentendo il sangue che cominciava ad affluirgli al cuore. «Ma dove, come prenderà forma la mia Tolone?» pensò.

Passando fra le stesse truppe che un quarto d’ora prima mangiavano la kaša e bevevano la vodka, vide dappertutto gli stessi rapidi movimenti dei soldati che si allineavano e verificavano i fucili; su tutte le facce riconobbe quel senso di eccitazione che colmava anche il suo cuore. «Si comincia! Ci siamo. È terribile e allegro insieme,» diceva la faccia d’ogni soldato e ufficiale.

Prima di giungere alla trincea in costruzione, nella luce serale della fosca giornata d’autunno, il principe Andrej vide dei cavalieri venirgli incontro. Quello che galoppava in testa, rivestito di un mantello caucasico e un berretto di pelle d’agnello in testa, cavalcava un cavallo bianco. Era il principe Bagration. Il principe Andrej si fermò ad aspettarlo. Il principe Bagration fermò il cavallo. Riconobbe il principe Andrej, gli fece un cenno col capo, e mentre Bolkonskij gli riferiva ciò che aveva visto, continuò a guardar fisso davanti a sé.

Quella stessa espressione: «Si comincia! Ci siamo!» appariva anche sulla vigorosa faccia bruna, dagli occhi socchiusi, torbidi, sonnacchiosi, del principe Bagration. Il principe Andrej scrutò con inquieta curiosità quel volto immobile, e avrebbe voluto sapere che cosa quell’uomo pensava e sentiva, che cosa pensava e sentiva in quel momento. «C’è davvero qualcosa, dietro quel viso immobile?» si domandava guardandolo. Il principe Bagration chinò il capo in segno d’assenso alle parole del principe Andrej, e disse: «Bene,» come se tutto quello che era successo e che gli veniva comunicato fosse né più né meno ciò che egli aveva previsto. Il principe Andrej parlava in fretta, ansimando per la veloce cavalcata. Il principe Bagration, col suo accento orientale, parlava invece lentamente, quasi a indicare che non c’era alcun motivo di affrettarsi. Spinse tuttavia al trotto il suo cavallo nella direzione della batteria di Tušin, e il principe Andrej si accodò al seguito. Dietro il principe Bagration cavalcavano l’ufficiale del seguito, l’aiutante di campo particolare del principe, Žerkov, un ufficiale d’ordinanza, l’ufficiale di stato maggiore di servizio in sella a un bel cavallo con la coda all’inglese, e un funzionario in abito borghese: un auditore, che aveva chiesto di assistere alla battaglia per curiosità. L’auditore, un uomo obeso e paffuto, si guardava attorno con un ingenuo sorriso di gioia, sussultando in cima al suo cavallo, ed era buffo a vedersi, col suo cappotto di lana cammello, seduto com’era su una sella da soldato delle salmerie, circondato dagli ussari, dai cosacchi e dagli aiutanti di campo.

«Ecco, vuol vedere la battaglia,» disse Žerkov a Bolkonskij, indicando l’auditore, «e sta già male di stomaco.»

«Smettetela, voi,» replicò l’auditore con un sorriso raggiante, ingenuo e al tempo stesso malizioso, come se lo lusingasse il fatto d’esser motivo di lazzi e come se di proposito cercasse di apparire più sciocco di quanto fosse in realtà.

«Très drôle, mon monsieur prince,» disse l’ufficiale di stato maggiore di servizio. (Sapeva che in francese il titolo di principe si traduce in un certo modo, ma non riusciva assolutamente a ricordarselo.)

Nel frattempo tutti si erano avvicinati alla batteria di Tušin e proprio davanti a loro si schiantò una granata.

«Cos’è caduto?» domandò l’auditore con un sorriso pieno di candore.

«Frittelle francesi,» rispose Žerkov.

«È così che ammazzano, dunque?» domandò l’auditore. «Che spavento!»

E parve gongolare tutto dal piacere. Aveva appena finito di parlare quando inaspettatamente echeggiò un sibilo terribile che d’improvviso s’interruppe con un tonfo in qualcosa di liquido, e sc-ciaff!… il cosacco che cavalcava un po’ a destra, dietro l’auditore, crollò a terra col suo cavallo. Žerkov e l’ufficiale di stato maggiore si piegarono sulle selle e fecero scostare i cavalli. L’auditore si fermò davanti al cosacco, esaminandolo con attenta curiosità. Il cosacco era morto, il cavallo si dibatteva ancora.

Il principe Bagration, socchiudendo gli occhi, si volse a guardare e, resosi conto della ragione del trambusto, si volse con indifferenza, come a dire: «Non vale proprio la pena di occuparsi di simili sciocchezze!» Arrestò il cavallo con un gesto elegante da buon cavaliere, si chinò un poco e riassestò la sciabola che si era impigliata nel mantello. La sciabola era antica: non di quelle che si portavano a quel tempo. Il principe Andrej ricordò di aver sentito raccontare che Suvorov in Italia aveva donato la propria sciabola a Bagration e in quel momento quel ricordo gli tornò particolarmente accetto. Si avvicinarono a cavallo alla batteria dove si era fermato Bolkonskij per osservare il campo di battaglia.

«Chi comanda la compagnia?» domandò il principe Bagration a un artificiere che stava in piedi presso le casse di munizioni.

Aveva chiesto: «Chi comanda la compagnia?» Ma in sostanza con la sua domanda intendeva chiedere: «Non avrete mica paura voialtri?» E l’artificiere l’aveva capito.

«Del capitano Tušin, eccellenza,» gridò con voce allegra, irrigidendosi sull’attenti, il fulvo artificiere dal volto coperto di efelidi.

«Già, già,» disse Bagration assorto nei suoi pensieri, e passando accanto agli avantreni, si avvicinò all’ultimo cannone.

Nel momento in cui passava, da quel cannone, assordando tutti, echeggiò un colpo, e nel fumo che ad un tratto avvolse tutto il cannone si videro gli artiglieri che lo afferravano e, tendendosi nello sforzo, lo spingevano al posto di prima. Enorme, largo di spalle, il soldato numero uno che teneva lo scovolo, le gambe allargate, fece un balzo indietro verso la ruota. Con la mano tremante il numero due introdusse la carica nella canna. Un omino di bassa statura, un po’ curvo, l’ufficiale Tušin, corse avanti inciampando nell’affusto, senza accorgersi del generale e riparandosi gli occhi con la piccola mano:

«Aggiungi ancora due linee, così andrà bene,» prese a gridare con una vocetta sottile alla quale si sforzava di conferire un tono baldanzoso che però non si addiceva alla sua figura. «Il secondo,» squittì. «Spacca, Medvedev!»

Bagration chiamò l’ufficiale e Tušin, con un movimento timido e impacciato - non certo come salutano i militari, ma piuttosto come benedicono i sacerdoti - portò tre dita alla visiera avvicinandosi al generale. Sebbene i pezzi di Tušin fossero destinati a battere l’avvallamento, egli tirava con proiettili incendiari sul villaggio di Schöngraben che appariva lì dirimpetto, e di fronte al quale si muovevano grandi masse di soldati francesi.

Nessuno aveva ordinato a Tušin dove e con che cosa tirare; ed egli, consigliatosi con il suo sergente Zacharèenko, per il quale provava grande stima, aveva deciso che fosse opportuno incendiare il villaggio.

«Bene!» disse Bagration rispondendo al rapporto dell’ufficiale e si mise a contemplare tutto il campo di battaglia che gli si apriva davanti, continuando ad apparire assorto nei suoi pensieri.

I francesi si erano avvicinati soprattutto dal lato destro. Un po’ più in basso dell’altura sulla quale si trovava il reggimento di Kiev, nell’avvallamento del fiumicello si sentiva un crepitio scrosciante di fucilate che stringeva il cuore; molto più a destra, dietro i dragoni, l’ufficiale del seguito indicò al principe una colonna di francesi che stava aggirando il nostro fianco. A sinistra l’orizzonte era delimitato da un bosco vicino. Il principe Bagration ordinò a due battaglioni del centro di andare di rinforzo sulla destra. L’ufficiale del seguito osò rivolgersi al principe osservando che, se si spostavano quei battaglioni, i pezzi sarebbero rimasti senza protezione. Il principe Bagration si volse verso l’ufficiale del seguito e lo guardò in silenzio con occhi inespressivi. Al principe Andrej sembrò che l’osservazione dell’ufficiale fosse giusta e che in effetti non vi fosse nulla da obiettarvi. Ma in quel momento sopraggiunse al galoppo un aiutante di campo da parte del comandante del reggimento che si trovava nell’avvallamento, con la notizia che enormi masse di francesi avanzavano, che il reggimento era sbaragliato e si ritirava verso i granatieri del reggimento di Kiev. Il principe Bagration chinò la testa in segno d’assenso. Tenendo il cavallo al passo si portò sulla destra e inviò il suo aiutante dai dragoni con l’ordine di attaccare i francesi. Ma l’aiutante ritornò dopo una mezz’ora con la notizia che il comandante del reggimento dei dragoni si era già ritirato oltre il burrone, perché contro di esso era stato diretto un fuoco terribile ed egli perdeva uomini senza alcuno scopo, sicché aveva mandato in tutta fretta dei tiratori nel bosco.

«Sta bene!» disse Bagration.

Mentre egli si allontanava dalla batteria, anche a sinistra, nel bosco, si udirono degli spari, e poiché il fianco sinistro era troppo lontano perché egli potesse giungervi tempestivamente, il principe Bagration mandò Žerkov a dire al generale anziano, quello stesso che a Braunau aveva presentato il reggimento a Kutuzov, di ritirarsi il più in fretta possibile oltre il burrone, dato che probabilmente il fianco destro non sarebbe stato in grado di trattenere a lungo il nemico. Di Tušin e del battaglione che lo copriva si dimenticarono. Il principe Andrej aveva ascoltato con grande attenzione il discorso del principe Bagration con i comandanti e gli ordini che egli aveva impartito, e con stupore si era accorto che non era stato impartito alcun ordine, e che il principe Bagration si sforzava soltanto di dare l’impressione che tutto quanto si faceva per necessità, per caso e per volontà dei singoli comandanti, fosse fatto, se non per suo ordine, almeno in conformità alle sue intenzioni. Grazie al tatto di cui dava prova il principe Bagration, il principe Andrej notò che, nonostante la casualità degli eventi e la loro indipendenza dalla volontà del comandante in capo, la sua presenza agiva in modo straordinario. I comandanti che giungevano dal principe Bagration con le facce sconvolte diventavano tranquilli; i soldati e gli ufficiali lo accoglievano con gioia; la sua presenza li rianimava, ed era chiaro che davanti a lui mostravano tutto il loro valore.

XVIII

Dopo aver raggiunto la quota più alta del nostro fianco destro il principe Bagration cominciò a scendere verso il basso, dove si udiva la sparatoria tambureggiante e non si vedeva nulla a causa del fumo della polvere. Più scendevano verso l’avvallamento, più diminuiva la visuale, mentre più vicina e tangibile si avvertiva la presenza del vero campo di battaglia. Cominciarono a incontrare dei feriti. Uno di essi, senza chepì, con la testa sanguinante, rantolava e sputava, mentre due soldati lo trascinavano sostenendolo per le ascelle. Evidentemente la pallottola l’aveva colpito in bocca o alla gola. Un altro camminava stoicamente da solo, senza fucile, urlando forte e agitando per l’acuto dolore la mano dalla quale il sangue sgorgava sul suo cappotto come da una fiasca. Il suo volto sembrava più spaventato che sofferente. Era stato ferito un minuto prima. Dopo aver attraversato la strada, cominciarono a scendere per un ripido pendio, lungo il quale incontrarono una folla di soldati fra i quali qualcuno non era ferito. I soldati salivano la collina, ansanti, e nonostante la presenza del generale conversavano forte agitando le braccia. Davanti, nel fumo, si scorgevano le file di cappotti grigi, e un ufficiale, avendo visto Bagration, corse gridando dietro i soldati che camminavano in folla, esigendo che tornassero indietro. Bagration si avvicinò a cavallo alle file, lungo le quali, a tratti, schioccavano rapidi gli spari, soffocando il chiacchiericcio e le grida di comando. L’aria era impregnata del fumo della polvere. Le facce dei soldati apparivano stravolte, eccitate, affumicate dalla polvere. Alcuni affondavano le bacchette nei fucili, altri versavano la polvere sul focone, estraevano le cariche dalle giberne, altri ancora sparavano. Ma contro chi sparassero, non si vedeva a causa del fumo della polvere che il vento non riusciva a dissipare. Abbastanza spesso si udivano dei suoni ronzanti e sibilanti, alquanto piacevoli all’udito. «Cos’è questo?» pensò il principe Andrej avvicinandosi a quella folla di soldati. «Non è uno schieramento, dal momento che sono ammassati! Non è un attacco, perché non si muovono; non è un carré, perché non sono disposti come dovrebbero.»

Il comandante del reggimento, un vecchietto magro, dall’aria fragile, con un sorriso accattivante e le palpebre che cadevano pesanti sui suoi occhi senili conferendogli un’aria mite, si avvicinò a cavallo al principe Bagration e lo accolse come un padrone di casa accoglie un ospite caro. Egli riferì che contro il suo reggimento i francesi avevano sferrato un attacco di cavalleria, e che sebbene questo attacco fosse stato respinto, il reggimento aveva perduto più della metà degli uomini. Disse che l’attacco era stato respinto, facendo ricorso a questo termine militare per qualificare ciò che era accaduto nel suo reggimento; ma in realtà lui stesso non sapeva che cosa fosse accaduto, in quella mezz’ora, alle truppe affidategli, né poteva affermare con sicurezza se l’attacco fosse stato respinto, o se invece il suo reggimento fosse stato sbaragliato dall’attacco. Egli sapeva soltanto che all’inizio delle operazioni, su tutto il suo reggimento avevano preso a cadere palle di cannone e granate, che poi qualcuno si era messo a gridare: «La cavalleria!» e i nostri avevano cominciato a sparare. E avevano sparato fino allora: non più contro la cavalleria, che si era nascosta, ma contro i fanti francesi che erano apparsi nell’avvallamento e sparavano contro i nostri. Il principe Bagration chinò il capo in segno d’assenso, quasi a dire che tutto questo era esattamente ciò che egli desiderava e aveva previsto. Rivoltosi all’aiutante, gli ordinò di far scendere dalla collina due battaglioni del Sesto cacciatori accanto al quale erano passati poco prima. In quell’istante il principe Andrej fu colpito dal mutamento avvenuto sulla faccia del principe Bagration. Essa esprimeva quella felice e concentrata risolutezza che è propria di chi in una giornata di calura è pronto a tuffarsi in acqua e prende l’ultimo slancio. Dal suo viso erano scomparsi quello sguardo spento e sonnacchioso, quell’espressione falsamente assorta: gli occhi tondi, duri, da sparviero, guardavano davanti a sé in modo solenne e un po’ sprezzante, senza indugiare su nulla, sebbene nei movimenti di Bagration fossero rimaste la lentezza e la misurata tranquillità di prima.

Il comandante del reggimento si rivolse al principe Bagration pregandolo di tornare indietro, poiché là era troppo pericoloso. «Ve ne prego, eccellenza, per amor di Dio!» diceva, guardando, per averne una conferma, l’ufficiale del seguito che sfuggiva il suo sguardo. «Ecco, vedete?» E faceva notare le pallottole che senza posa sibilavano, cantavano e fischiavano accanto a loro. Parlava con lo stesso tono di preghiera e di rimprovero col quale un legnaiuolo dice a un signore che mette mano all’accetta: «Noialtri ci siamo abituati, ma voi vi farete venire i calli sulle mani!» Parlava come se quelle pallottole non lo potessero colpire, e gli occhi socchiusi conferivano alle sue parole una portata ancora più convincente. L’ufficiale di stato maggiore si unì alle esortazioni del comandante del reggimento, ma il principe Bagration non rispondeva; ordinò semplicemente di cessare il fuoco e di disporsi in modo da lasciar posto ai due battaglioni sopraggiunti. Mentre parlava, la cortina di fumo che nascondeva la valletta si spostò, come tirata da una mano invisibile, da destra a sinistra, a causa del vento che si era levato, e l’altura dirimpetto, con i francesi che vi si muovevano, apparve dinnanzi a loro. Tutti gli occhi erano involontariamente fissi su quella colonna francese che si avvicinava muovendosi attraverso il terreno scosceso. Già si vedevano i chepì di pelo dei soldati, si potevano distinguere gli ufficiali dai fanti, il drappo della bandiera sbattere contro l’asta.

«Marciano magnificamente,» disse qualcuno al seguito di Bagration.

La testa della colonna aveva già raggiunto il fondo del l’avvallamento. Lo scontro sarebbe avvenuto dall’altra parte del pendio…

I resti del nostro reggimento che aveva partecipato all’azione, riordinandosi in fretta si ritirarono verso destra; dietro di loro, cacciando avanti i più lenti a muoversi, avanzavano in bell’ordine i due battaglioni del Sesto cacciatori. Non erano ancora all’altezza di Bagration, ma già echeggiava il passo pesante, solido e cadenzato di quella massa umana. Sul fianco sinistro, il più vicino a Bagration, marciava un comandante di compagnia: un uomo aitante, col viso tondo, l’espressione ottusa e felice. Era l’ufficiale uscito di corsa dalla baracca. Era evidente che in quel momento egli non pensava a nulla, tranne che a marciare con passo marziale davanti ai superiori. Con l’aria soddisfatta del soldato a una sfilata, egli procedeva leggero sulle gambe muscolose, come se nuotasse, tenendosi eretto senza sforzo e distinguendosi per quella leggerezza d’andatura dal passo pesante dei soldati, cadenzato sul suo. Reggeva lungo la gamba una stretta e sottile sciabola sguainata, (una piccola sciabola ricurva che non sembrava nemmeno un’arma) e, volgendosi a guardare ora i superiori, ora dietro di sé, ruotava agilmente su se stesso, senza perdere il passo, con tutto il suo corpo poderoso. Sembrava che tutte le forze della sua anima fossero tese allo scopo di sfilare nel modo migliore al cospetto dei superiori; e, sentendo di adempiere degnamente a questo dovere, egli era felice. «Sinist… Sinist… Sinist…» pareva ripetere dentro di sé a ogni passo; e su quel ritmo si muoveva, con le facce diversamente severe, la muraglia delle figure dei soldati appesantite dagli zaini e dai fucili, come se ognuno di quelle centinaia di soldati proferisse mentalmente ad ogni passo «Sinist… Sinist… Sinist…» Un grasso maggiore, sbuffando e perdendo il passo, girò intorno a un cespuglio che gli tagliava la strada; un soldato rimasto indietro, ansimante, con la faccia spaventata per il suo fallo, raggiunse di corsa la sua compagnia; una palla di cannone, comprimendo l’aria, volò sopra la testa del principe Bagration e del seguito e, ritmata su quel «Sinist… Sinist!» si schiantò in mezzo alla colonna. «Serrare le file!» echeggiò la voce vanitosa del comandante della compagnia. I soldati, descrivendo una specie di semicerchio, evitavano qualcosa nel punto in cui era caduta la palla: un sottufficiale, che aveva il posto di capofila, dopo essersi attardato accanto agli uccisi raggiunse la propria fila, fece un piccolo salto, cambiò piede riprendendo il passo e si volse indietro con rabbia. «Sinist… sinist… sinist…» pareva di sentire dietro il minaccioso silenzio e il monotono rumore dei piedi che battevano ritmicamente contro il terreno.

«Bravi, ragazzi!» disse il principe Bagration.

«Per lo za-a-a-a-a-aaaar!» echeggiò nelle file. Un soldato accigliato, che marciava a sinistra, nel gridare volse gli occhi verso Bagration con un’espressione che pareva volesse dire: «Lo sappiamo anche noi.» Un altro, senza volgersi a guardare e come timoroso di distrarsi, spalancò la bocca, gridò e passò oltre.

Fu dato l’ordine di fermarsi e di posare gli zaini.

Bagration percorse le file che gli erano passate davanti e scese da cavallo. Porse le briglie a un cosacco, si tolse il mantello caucasico, consegnò anche questo, si sgranchì le gambe e si accomodò il chepì sulla testa. La colonna francese, con gli ufficiali davanti, era apparsa sotto la montagna.

«Con l’aiuto di Dio!» esclamò Bagration con voce ferma e asciutta. Si volse per un istante verso lo schieramento e, agitando leggermente le braccia, con un passo impacciato da cavallerizzo, quasi mostrando di far fatica si avviò sul terreno diseguale. Il principe Andrej sentiva che una forza invincibile lo trascinava avanti, e ne provava una grande felicità.

I francesi erano ormai vicini. Il principe Andrej, che camminava al fianco di Bagration, vedeva ormai chiaramente le bandoliere, le spalline rosse, perfino le facce dei francesi. (Distingueva benissimo un vecchio ufficiale francese che s’inerpicava faticosamente su per la collina con le gambe arcuate fasciate dalle ghette, afferrandosi ai cespugli.) Il principe Bagration non diede altri ordini; continuava a camminare in silenzio davanti alle file. A un tratto tra le file dei francesi crepitò uno sparo, un secondo, un terzo… e, attraverso tutte le file nemiche scompigliate, si diffuse il fumo e crepitarono le fucilate. Alcuni dei nostri uomini caddero e, fra loro, l’ufficiale dal viso tondo che marciava con tanta allegra baldanza. Ma nello stesso istante in cui echeggiava il primo sparo, Bagration si volse e gridò: «Urrà!»

«Urrà-à-à!» Un grido prolungato si propagò lungo la nostra linea. Passando oltre il principe Bagration e incalzandosi l’un l’altro, in folla disordinata ma allegra ed elettrizzata, i nostri corsero giù per la china dietro i francesi in rotta.

XIX

L’attacco del Sesto cacciatori assicurò la ritirata del fianco destro. Al centro, l’azione della dimenticata batteria di Tušin, che era riuscito a incendiare Schöngraben, arrestò l’avanzata dei francesi. I francesi dovettero spegnere l’incendio propagato dal vento, dando così ai russi il tempo di ritirarsi. La ritirata del centro attraverso il burrone si svolse caoticamente, in un clamore di voci. Tuttavia, ritirandosi, le unità non si confusero tra loro. Ma il fronte sinistro, formato dai reggimenti di fanteria di Azov e di Podol’sk e dal reggimento degli ussari di Pavlograd, che era stato attaccato contemporaneamente, e aggirato dalle preponderanti forze francesi al comando di Lannes, venne sbaragliato. Bagration inviò Žerkov dal comandante del fianco destro con l’ordine di ritirarsi senza indugio.

Subito, senza nemmeno togliere la mano dalla visiera, Žerkov spronò il cavallo e partì al galoppo. Ma non appena si fu allontanato da Bagration, le forze lo tradirono. Preso da un invincibile terrore non poté recarsi là dove c’era pericolo. Avvicinatosi alle truppe del fianco sinistro, non procedette fin dove si sparava fittamente, ma prese a cercare il generale e i comandanti dove loro non potevano essere e perciò non trasmise l’ordine.

Il comando del fianco sinistro spettava per anzianità al comandante dello stesso reggimento che Kutuzov aveva visitato davanti a Braunau e in cui Dolochov prestava servizio come soldato semplice. Il comando delle truppe all’estremità del fianco sinistro era invece affidato al comandante del reggimento di Pavlograd nel quale prestava servizio Nikolaj Rostov; e questo diede luogo a un equivoco. I due comandanti erano molto irritati l’uno contro l’altro, e proprio nel momento in cui sul fianco destro già da tempo era in corso il combattimento e i francesi avevano sferrato l’offensiva, i due ufficiali erano tutti presi da trattative che avevano il solo scopo di permetter loro di offendersi reciprocamente. I reggimenti, poi - sia quello di cavalleria, sia quello di fanteria - erano assai poco preparati alla battaglia che li attendeva. Gli uomini dei reggimenti, dal generale all’ultimo soldato, non prevedevano il combattimento ed erano intenti a pacifiche occupazioni, come dar la biada ai cavalli, tra la cavalleria, e a raccogliere la legna in fanteria.

«Lui, in ogni modo, essere superiore a me per grado,» diceva il tedesco che comandava gli ussari, facendosi rosso e rivolgendosi all’aiutante di campo che si era avvicinato, «e dunque lascialo fare come vuole. Miei ussari io non potere sacrificarli. Trombettiere! Suona la ritirata!»

Ma l’azione incalzava. Il cannoneggiamento e la fucileria si fondevano e tuonavano a destra e al centro; le mantelline francesi dei tiratori di Lannes stavano già passando la diga del mulino e si stavano schierando di fronte, a due tiri di fucile. Il colonnello che comandava la fanteria si avvicinò barcollando al suo cavallo, vi montò sopra e, fattosi di nuovo alto ed eretto nella persona, si recò dal comandante del reggimento di Pavlograd. I due comandanti si scambiarono inchini assequiosi, celando in cuore la reciproca collera.

«Ve lo ripeto, colonnello,» disse il generale, «in fin dei conti io non posso lasciare la metà dei miei uomini nel bosco. Vi prego, vi prego, di occupare la posizione e di prepararvi all’attacco,» ripeté.

«E io pregare voi di non occuparvi di faccende che voi non riguardare,» rispose il colonnello, scaldandosi. «Se voi essere della cavalleria…»

«Io non sono della cavalleria, colonnello, ma sono un generale russo, e se non lo sapete…»

«Lo so benissimo, eccellenza,» gridò improvvisamente il colonnello, spronando il cavallo e facendosi paonazzo. «Voi non volere venire in prima linea? Così vedere che questa posizione essere insostenibile. Io non voler distruggere mio reggimento per vostro piaccere.»

«State dimenticando con chi parlate, colonnello. Io non bado al mio piacere e non permetterò che si dica una cosa simile.»

Raccogliendo l’invito del colonnello a una sfida di ardimento, il generale, gonfiando il petto e aggrottando le sopracciglia, si mosse con lui in direzione della linea, come se tutto il loro dissenso dovesse risolversi là, in prima linea, sotto i proiettili. Giunsero in prima linea; varie pallottole volarono sopra di loro ed essi si arrestarono in silenzio. Agli avamposti non c’era nulla da vedere; era chiaro che la cavalleria non poteva operare in mezzo a macchie di cespugli e a burroni, e che i francesi stavano aggirando l’ala sinistra. Il generale e il colonnello si guardarono con espressione severa e significativa, come due galletti che si preparano alla lotta, aspettando invano qualche sintomo di viltà da parte dell’avversario. Entrambi superarono la prova. Siccome non c’era nulla da dire e nessuna delle due parti voleva offrire al nemico il motivo per dire che era stata la prima a sottrarsi alle pallottole, essi sarebbero rimasti a lungo dov’erano, misurando reciprocamente il proprio coraggio, se in quel momento nel bosco, quasi dietro di loro, non si fosse udito un gridare sordo e un crepitio di fucilate. I francesi erano piombati sui soldati che si trovavano nel bosco a far legna. Gli ussari ormai non potevano più ritirarsi insieme con la fanteria. Sulla sinistra la prima linea francese li aveva tagliati fuori dalla via della ritirata. Adesso, per quanto scomoda fosse la posizione geografica, per aprirsi un varco era necessario attaccare.

Lo squadrone in cui Rostov prestava servizio fece appena in tempo a montare a cavallo che si trovò, bloccato, di fronte al nemico. Anche ora, come al ponte sull’Enns, fra lo squadrone e il nemico non c’era nessuno; e tuttavia, a dividerli, c’era solo quella terribile linea dell’ignoto e del terrore, simile alla linea che divide i vivi dai morti. Tutti gli uomini avvertivano l’esistenza di questa linea, e si chiedevano, agitati, se l’avrebbero, e come l’avrebbero passata.

In prima linea arrivò a cavallo il colonnello, rispose qualcosa con ira alle domande degli ufficiali e, come una persona che disperatamente non deflette dal suo parere, diede qualche disposizione. Nessuno disse alcunché di preciso, ma per lo squadrone corse la voce che l’attacco era imminente. Echeggiò il comando di disporsi per plotoni; poi sibilarono le sciabole sguainate dai foderi. Nessuno però si muoveva ancora. Le truppe del fianco sinistro, fanteria e ussari, sentivano che i comandanti stessi non sapevano esattamente cosa fare, e l’indecisione dei capi contagiò anche le truppe.

«Che facciano presto! Presto!» pensava Rostov, sentendo che finalmente era venuto il momento di assaporare il piacere della carica di cui aveva sentito tanto parlare dagli ussari, suoi compagni.

«Con l’aiuto di Dio, vagazzi,» risuonò la voce di Denisov, «al tvotto, mavsc!»

Nella fila di testa ondeggiarono le groppe dei cavalli. Graèik tirò le redini e si mosse da sé.

Rostov vedeva a destra le prime file degli ussari, mentre davanti si scorgeva una striscia scura che lui non poteva identificare con sicurezza, ma che pensava fosse il nemico. Si udivano spari, in lontananza.

«Più veloce il tvotto!» tuonò il comando, e Rostov sentì che Graèik inarcava la groppa, passando al galoppo.

Indovinava in anticipo i movimenti del cavallo, e si sentiva sempre più allegro. Notò un albero solitario proprio dinanzi a sé. Prima quell’albero era davanti, lontano, al centro di quella linea che sembrava così terribile. Ma ecco che l’avevano sorpassata quella linea; e non solo non c’era nulla di terribile, ma ci si sentiva più allegri ed eccitati. «Ah, come li sferzerò,» pensava Rostov, stringendo nella mano l’elsa della sciabola.

«Ur-r-à-a-a!!» tuonarono voci all’intorno.

«Mi capiti pure qualcuno sottomano,» pensava Rostov, conficcando gli speroni nei fianchi di Graèik, spronandolo a tutta forza e oltrepassando gli altri. Davanti, il nemico era già visibile. All’improvviso qualcosa, come una grossa scopa, si abbatté sullo squadrone. Rostov sollevò la sciabola, pronto a menar fendenti; ma in quello stesso istante il soldato Nikitenko, il soldato che gli cavalcava davanti, si staccò da lui e Rostov sentì come in sogno che continuava a galoppare con rapidità innaturale e che al tempo stesso restava dov’era. Da dietro gli venne addosso al galoppo l’ussaro Bondarèuk, che lui ben conosceva, e lo guardò adirato. Il cavallo di Bondarèuk fece uno scarto e gli passò rasente.

«Cosa mi succede? Perché non mi muovo? Sono caduto, mi hanno ucciso…» si domandò e si rispose Rostov, in un lampo. Era solo in mezzo al campo. Invece dei cavalli in movimento e delle schiene degli ussari vedeva intorno a sé la terra immobile e le stoppie. Sotto di sé sentiva del sangue tiepido. «No, sono ferito, e il cavallo è stato ucciso.» Graèik fece per sollevarsi sulle zampe anteriori, ma cadde, schiacciando una gamba al cavaliere. Dalla testa del cavallo sgorgava sangue. La bestia si dibatteva, non riusciva a rialzarsi. Rostov volle levarsi in piedi, ma anch’egli cadde. La fibbia si impigliò alla sella. Dove erano i nostri, dove erano i francesi, non lo sapeva. Intorno non c’era nessuno.

Liberata la gamba, si alzò in piedi. «Dove, da che parte è, ora, la linea che li separava così nettamente dal nemico?» si domandava e non poteva rispondere. «Se mi fosse successo qualcosa di male? Sono cose che capitano… Ma che cosa bisogna fare in casi del genere?» si domandò, mentre si levava in piedi; e in quel momento sentì che qualcosa di pesante gli penzolava dal braccio destro intorpidito. La sua mano era diventata un corpo estraneo. Si guardò il braccio, cercandovi una traccia di sangue. «Ah, ecco qualcuno,» pensò con gioia, vedendo alcuni uomini che correvano verso di lui. «Loro mi aiuteranno!» In testa a tutti correva un uomo con uno strano berretto e con la mantellina azzurra, nero, abbronzato, dal naso aquilino. Seguivano altri due correndo, e poi molti altri. Uno di loro disse qualcosa di incomprensibile, in una lingua che non era il russo. Fra altri uomini simili a quei primi, con gli stessi copricapi, c’era un ussaro di Pavlograd. Lo tenevano per le braccia; dietro di lui qualcuno conduceva per la briglia il suo cavallo.

«Certo è uno dei nostri, prigioniero… Sì. Prenderanno anche me? E costoro chi sono?» continuava a pensare Rostov, incapace di credere ai propri occhi. «Possibile che siano i francesi?» Guardava i francesi che si avvicinavano e, sebbene un istante prima galoppasse solo per raggiungere quei francesi e farli a pezzi, la loro vicinanza gli sembrava così spaventosa che ora non riusciva a credere ai propri occhi. «Chi sono? Perché corrono? Verso di me? Corrono proprio verso di me? Ma perché? Per uccidermi? Uccidere me, a cui tutti vogliono bene?» Si ricordò dell’amore che avevano per lui sua madre, la famiglia, gli amici; il proposito dei nemici di ucciderlo gli parve assurdo. «Magari - proprio per uccidermi!» Per qualche istante rimase fermo, senza muoversi di dov’era e senza comprendere la propria situazione. Il francese col naso aquilino che precedeva tutti, si era così avvicinato che già si vedeva l’espressione della sua faccia. E la fisionomia esaltata, estranea di quell’uomo che correva a grandi passi leggeri verso di lui con la baionetta inastata, trattenendo il respiro, lo lasciò atterrito. Egli afferrò la pistola, ma, invece di sparare, la scagliò contro il francese e cominciò a correre più in fretta che poteva verso i cespugli. Non correva col sentimento di dubbio e di lotta con cui s’era inoltrato sul ponte dell’Enns, ma piuttosto come una lepre inseguita dai cani. Un unico, indistinto timore per la sua vita così giovane, così felice, dominava tutto il suo essere. Saltando agilmente fra i solchi dei campi, con lo stesso impeto col quale correva quando giocava a gorelki, adesso volava per la campagna, volgendo ogni tanto all’indietro la sua faccia pallida, buona, giovane; e il brivido d’orrore gli percorreva la schiena. «No, meglio non guardare,» pensava; ma, raggiunti di corsa i cespugli, si volse ancora una volta. I francesi erano rimasti indietro; inoltre, proprio nel momento in cui egli si girava, quello di testa cessò di correre e si mise al passo; poi, voltandosi, gridò forte qualcosa al compagno che lo seguiva. «No, non è quel che credevo,» pensò, «non è possibile che vogliano uccidermi.» Intanto la sua mano sinistra s’era fatta sempre più pesante, come se vi fosse stato attaccato un peso da due libbre. Non riusciva più a correre. Anche il francese si fermò e prese la mira. Rostov strizzò gli occhi e si chinò. Di fianco a lui volò ronzando una pallottola, poi un’altra ancora. Rostov raccolse le ultime forze, si afferrò la mano sinistra con la destra e raggiunse di corsa i cespugli. Fra i cespugli c’erano i fucilieri russi.

XX

I reggimenti di fanteria, colti di sorpresa nel bosco, erano fuggiti allo scoperto e le compagnie, mescolandosi fra loro, si allontanavano in frotte disordinate. Un soldato in preda allo spavento pronunciò una parola che in guerra suona terribile e assurda: «Siamo accerchiati!» E questa parola, unita a un sentimento diffuso di terrore, si trasmise a tutta la massa.

«Siamo accerchiati! Ci hanno tagliato fuori! Siamo perduti!» gridavano le voci dei fuggitivi.

Nello stesso istante in cui udì la sparatoria e le grida alle sue spalle il comandante capì che al suo reggimento era accaduto qualcosa di terribile, e il pensiero che lui, un ufficiale esemplare, con tanti anni di servizio, di nulla colpevole, potesse venire incolpato dai superiori di negligenza o di incapacità, lo colpì a tal punto che subito, dimenticandosi del riottoso colonnello di cavalleria e della propria dignità di generale, e dimenticando soprattutto il pericolo e l’istinto di conservazione, si aggrappò all’arcione della sella, spronò il cavallo e galoppò verso il reggimento sotto una grandine di pallottole che gli cadevano intorno, e per fortuna non lo colpirono. Desiderava una cosa sola: rendersi conto di cosa stesse accadendo, portare aiuto e rimediare ad ogni costo lo sbaglio, se pur da parte sua c’era stato sbaglio, e non essere colpevole, lui che aveva prestato servizio per ventidue anni, lui che era sempre stato un ufficiale irreprensibile ed esemplare.

Dopo esser passato al galoppo e senza danno attraverso i francesi, s’inoltrò verso il campo dietro il bosco attraverso il quale i nostri fuggivano e, ignorando i comandi, discendevano verso la valle. Era sopravvenuta quella fase di esitazione morale che decide le sorti delle battaglie: quelle folle scompigliate di soldati avrebbero ascoltato la voce del loro comandante o, volgendosi a guardarlo, avrebbero continuato a fuggire? Nonostante il grido disperato del comandante del reggimento, che prima suonava così temibile alle orecchie dei soldati, nonostante la faccia furibonda, paonazza e stravolta del comandante e la vista della sua sciabola sguainata, i soldati continuavano a fuggire, a vociare fra loro, a sparare in aria, e non ubbidivano ai comandi. L’esitazione morale che decide le sorti delle battaglie qui si risolveva a favore della paura.

Con la gola irritata dal gridare e dal fumo della polvere, il generale cominciò a tossire e si fermò, disperato. Tutto sembrava perduto; ma in quel momento i francesi che incalzavano i nostri, d’improvviso, senza apparente motivo presero a retrocedere, scomparvero dalla radura del bosco, e nel bosco apparvero i fucilieri russi. Era la compagnia di Timochin, l’unica che si fosse mantenuta compatta nel bosco e che ora, appostatasi in un fossato inaspettatamente aveva attaccato i francesi. Timochin si avventò sui francesi con un urlo così disperato, si lanciò loro addosso con una così folle ed ebbra risolutezza, armato soltanto della sua piccola sciabola, che i francesi, prima ancora di potersi riavere dalla sorpresa, gettarono le armi e si diedero alla fuga. Dolochov, che correva a fianco di Timochin, uccise a bruciapelo un francese, e per il primo agguantò per il bavero un ufficiale, che si arrese. I russi in fuga tornarono sui loro passi, i battaglioni si riordinarono e i francesi, che erano stati prossimi a tagliare in due lo schieramento del fianco sinistro, momentaneamente vennero respinti. Le unità di riserva fecero in tempo ad affluire e i fuggitivi si fermarono.

Il comandante del reggimento era vicino al ponte insieme al maggiore Ekonomov e vedeva sfilare le compagnie che si ritiravano, quando gli si avvicinò un giovane soldato, gli afferrò la staffa e quasi gli cadde addosso. Il soldato indossava un cappotto di panno azzurrognolo da borghese, non aveva zaino né chepì; aveva la testa bendata e portava a tracolla una cartuccera francese. Fra le mani teneva una sciabola da ufficiale. Era pallido, ma i suoi occhi celesti fissavano sfrontatamente il comandante del reggimento e la sua bocca era atteggiata al sorriso. Sebbene il comandante fosse occupato a dar ordini al maggiore Ekonomov, non poté non fare attenzione a quel soldato.

«Eccellenza, ecco due trofei,» disse Dolochov, indicando la sciabola francese e la cartucciera. «Ho fatto prigioniero un ufficiale. Ho fermato una compagnia…» Dolochov ansimava per la stanchezza, parlava con voce spezzata. «Tutta la compagnia può testimoniarlo. Vi prego di ricordarvene, eccellenza!»

«Bene, bene,» disse il comandante del reggimento, e si rivolse al maggiore Ekonomov.

Ma Dolochov non si allontanò; slegò il fazzoletto, se lo strappò dalla testa e mostrò il sangue raggrumato fra i capelli.

«È una ferita di baionetta, io sono rimasto in prima linea. Ricordatevene, eccellenza.»

 

La batteria di Tušin era stata dimenticata, e solo alla fine del combattimento, continuando a udire i cannoni che sparavano al centro, il principe Bagration mandò l’ufficiale di stato maggiore di servizio e poi anche il principe Andrej per ordinare alla batteria di ritirarsi al più presto. Le truppe di copertura poste a difesa del battaglione di Tušin se n’erano già andate a metà dell’azione, per ordine di qualcuno; ma la batteria aveva continuato a far fuoco, e non era stata catturata dai francesi soltanto perché il nemico non poteva immaginare che quei quattro cannoni fossero così temerari da seguitare a sparare senza essere protetti da nessuno. Al contrario, dall’energia con cui la batteria operava, esso aveva supposto che lì, al centro, fossero concentrate le forze principali dei russi: infatti per due volte aveva cercato di attaccare quel punto, e tutt’e due le volte era stato respinto dal tiro a mitraglia di uno di quei quattro cannoni isolati, piazzati sull’altura.

Il principe Bagration si era allontanato da poco, quando Tušin riuscì ad appiccare il fuoco a Schöngraben.

«Guarda che confusione! Brucia! Che fumo! Bel colpo! Magnifico! Guarda il fumo, il fumo!» esclamavano i serventi, animandosi.

Tutti i pezzi tiravano senza bisogno di comandi in direzione dell’incendio. Come per attizzarlo, a ogni tiro che partiva, i soldati gridavano: «Bel colpo! Ecco, ecco, così! Guarda là… Magnifico!» L’incendio, propagato dal vento, si estendeva con rapidità. Ora le colonne francesi che si erano spinte al di qua del villaggio, tornavano indietro; ma, quasi per vendicarsi di questo insuccesso, a un certo punto il nemico piazzò a destra del villaggio dieci cannoni e cominciò a far fuoco contro Tušin.

In preda al giubilo infantile suscitato dall’incendio e alla frenesia del tiro fortunato contro i francesi, i nostri artiglieri si accorsero della batteria solo quando due granate e subito dopo altre quattro, piombarono in mezzo ai cannoni e una atterrò due cavalli, mentre un’altra portò via una gamba a un conducente dei cassoni. Tuttavia l’animazione, ormai radicata negli spiriti, non s’indebolì, ma mutò solamente lo stato d’animo. I cavalli furono sostituiti con altri dell’affusto di riserva, i feriti raccolti e i quattro pezzi rivolti contro la batteria di dieci cannoni. Un ufficiale, collega di Tušin, era stato ucciso all’inizio della battaglia e dei quaranta uomini di servizio ai cannoni diciassette erano fuori combattimento; ma gli artiglieri continuavano ad essere allegri e animati. Per due volte videro in basso, vicino a loro, i francesi, e fecero fuoco a mitraglia contro di essi.

Il piccolo ufficiale, dai movimenti goffi e impacciati, chiedeva di continuo al suo tenente ancora una pipetta per compenso, come diceva lui; poi, facendone cadere la brace, correva avanti e, facendosi schermo con la piccola, gracile mano, guardava i francesi.

«Forza, ragazzi!» diceva come in un ritornello, e lui stesso afferrava le ruote dei cannoni, allentava le viti.

In mezzo al fumo, assordato dai colpi incessanti che ogni volta lo facevano sussultare, senza mai levarsi di bocca la sua pipa, Tušin correva da un pezzo all’altro, ora aggiustando il tiro, ora contando le cariche, ora disponendo il cambio dei cavalli uccisi e feriti, o gridando ordini con la sua vocetta debole, sottile e irresoluta. La sua faccia si animava sempre più. Solo quando gli uccidevano o gli ferivano gli uomini, egli si accigliava e, distogliendo lo sguardo dall’ucciso, gridava furibondo rivolto agli uomini che, come sempre, indugiavano a sollevare il ferito o il cadavere. I soldati, per la maggior parte bei ragazzi robusti (molto più alti e più larghi di spalle del loro ufficiale, come sempre avviene nelle unità d’artiglieria), come bambini in una situazione imbarazzante guardavano tutti il loro comandante, e l’espressione che assumeva il suo volto immancabilmente si rispecchiava sulle loro facce.

A causa di quel terribile boato, del frastuono, della necessità di vigilare e di agire, Tušin non sentiva il minimo sgradevole senso di paura, e il pensiero che avrebbero potuto ucciderlo o ferirlo gravemente non gli passava nemmeno per la testa. Al contrario, sentiva crescere sempre più forte, dentro di sé, una sensazione d’allegria. Gli sembrava che dal momento in cui aveva visto il nemico e aveva tirato il primo colpo fosse passato molto tempo, che fosse accaduto addirittura il giorno prima, e che quel tratto di terreno sul quale si trovava gli fosse noto da molto tempo, come un luogo a lui familiare. Sebbene si ricordasse di tutto, ponderasse tutto, facesse tutto ciò che avrebbe fatto il migliore degli ufficiali nella sua situazione, egli era in preda a una sorta di delirio febbrile, simile all’ebbrezza.

Il tuonare dei suoi cannoni, che da ogni parte lo assordava, il sibilo e lo scoppio delle granate nemiche, la vista dei serventi sudati e trafelati che si affannavano intorno ai pezzi, la vista del sangue degli uomini e dei cavalli, la vista dei pennacchi di fumo che si levavano dalle batterie nemiche (dopo i quali una palla di cannone volava e ricadeva su un uomo, su un cannone o su un cavallo), tutte queste sensazioni avevano creato a poco a poco nella sua testa un mondo fantastico, tutto suo, che in quel momento gli dava un senso di voluttà. Nella sua immaginazione i cannoni nemici non erano cannoni, ma piccole pipe dalle quali un fumatore invisibile emetteva fumo a rade volute.

«Guarda, guarda: ha tirato un’altra boccata,» disse Tušin fra sé mentre dalla montagna si levava una nube di fumo che il vento sfilacciava e trasportava verso sinistra; «adesso aspettiamo che arrivi la palla, poi penseremo noi a rimandarla indietro.»

«Cosa ordinate, eccellenza?» domandò l’artificiere che gli stava molto vicino e l’aveva sentito borbottare qualcosa.

«Niente, una granata in arrivo…» rispose lui.

«Su, adesso tocca alla nostra Matvevna,» diceva fra sé.

Nella sua fantasia chiamava Matvevna il cannone di modello antico posto all’estremità della sua batteria. I francesi accanto ai loro pezzi li chiamava «le formiche». Il numero uno del secondo pezzo, un bel giovane, gran bevitore, era in quel suo mondo fantastico «lo zio»; Tušin guardava a lui più spesso che agli altri e provava piacere a ogni suo movimento. Il rumore della fucileria che, a valle, ora si spegneva, ora andava di nuovo rafforzandosi, nella sua fantasia era il respiro di qualcuno. Ed egli tendeva l’orecchio all’affievolirsi e al riaccendersi di quei rumori.

«Ecco, ecco che respira di nuovo,» diceva tra sé.

Quanto a se stesso, immaginava di essere un uomo poderoso, di statura gigantesca, che brandiva con le mani le palle da cannone e le scaraventava contro i francesi.

«Su, Matvevna, su mammina cara, non ci tradire!» stava dicendo, mentre si scostava dal cannone che stava per sparare; quando sopra la sua testa risuonò una voce estranea, sconosciuta:

«Capitano Tušin! Capitano!»

Tušin si guardò intorno, spaventato. Era l’ufficiale di stato maggiore che lo aveva cacciato via da Grunt. Con voce ansante adesso gli gridava:

«Che fate, siete impazzito? Vi è stato ordinato due volte di ritirarvi, e voi…»

«Ma perché ce l’hanno con me? pensava Tušin guardando timoroso il superiore.

«Io… niente…» disse, portando due dita alla visiera. «Io…»

Ma il colonnello non poté terminare ciò che avrebbe voluto dire. Una palla gli volò così vicino da costringerlo ad abbassare la testa reclinandosi sulla groppa del cavallo. Tacque; poi, quando stava di nuovo per dire qualcosa, un’altra granata lo interruppe. Allora voltò il cavallo e galoppò via.

«Ritirarsi! Ritirarsi tutti!» gridò, ormai lontano.

I soldati scoppiarono a ridere. Un minuto dopo giunse un aiutante di campo con lo stesso ordine.

Era il principe Andrej. La prima cosa che vide, sbucando sul terreno occupato dai cannoni di Tušin, fu un cavallo staccato dall’avantreno: aveva una zampa spezzata e nitriva vicino ai cavalli attaccati. Dalla zampa il sangue sgorgava come da una polla. Fra gli avantreni giacevano i corpi di parecchi morti. Mentre si avvicinava a cavallo, sopra di lui volavano l’una dopo l’altra le granate, ed egli sentì un tremito nervoso corrergli per la schiena. Ma la sola idea che potesse aver paura bastò a rinfrancarlo. «Io non posso aver paura,» pensò e scese lentamente da cavallo in mezzo ai cannoni. Trasmise l’ordine e non si allontanò dalla batteria. Decise di far togliere lui stesso i cannoni e di sgombrare la posizione. Camminando in mezzo ai cadaveri e sotto il fuoco micidiale dei francesi provvide a far smistare i pezzi.

«Poco fa è venuto un superiore, ma se l’è svignata in fretta,» disse l’artificiere al principe Andrej, «non ha fatto come vossignoria.»

Il principe Andrej non diceva nulla a Tušin. Erano tutti e due così occupati che non parevano nemmeno vedersi. Quando, dopo aver caricato sugli avantreni i due cannoni ancora servibili, mossero giù per il pendio (un cannone fracassato e un obice vennero abbandonati), il principe Andrej in sella al suo cavallo si avvicinò a Tušin.

«Ebbene, arrivederci,» disse, porgendo la mano a Tušin.

«Arrivederci, carissimo,» rispose Tušin. «Arrivederci, caro amico,» ripeté fra le lacrime che, ad un tratto, chissà perché, gli erano sgorgate dagli occhi.

XXI

Il vento era caduto; nuvole nere gravavano sul campo di battaglia, fondendosi all’orizzonte col fumo della polvere. Calava la notte, cosicché in due punti dell’orizzonte il bagliore degli incendi risaltava, più vivo. Il cannoneggiamento era più debole, ma il crepitio dei fucili alle spalle e a destra echeggiava anche più fitto e più vicino di prima. Quando Tušin con i suoi pezzi, aggirando i feriti e rischiando a ogni passo di calpestarli, uscì dal raggio del fuoco e arrivò in fondo all’avvallamento, lo accolsero i comandanti e gli altri ufficiali, e fra questi l’ufficiale di stato maggiore e Žerkov, che due volte era stato mandato e neanche una volta era arrivato alla batteria di Tušin. Tutti costoro, parlando insieme, si misero a dargli e a trasmettergli ordini sul come e dove andare, e a fargli osservazioni e rimproveri. Tušin non dava ordini e cavalcava in silenzio dietro tutti in sella al suo ronzino d’artiglieria, timoroso di parlare perché ad ogni parola, e senza sapere il perché, era pronto a mettersi a piangere. Sebbene fosse stato dato ordine di abbandonare i feriti, molti di loro si trascinavano dietro le truppe e invocavano un posto sui cannoni. Quello stesso baldanzoso ufficiale di fanteria che prima della battaglia era sbucato fuori dalla baracchetta di Tušin, adesso era deposto sull’affusto della Matvevna con una pallottola nel ventre. A valle, un pallido junker degli ussari, che si reggeva una mano con l’altra, si accostò a Tušin e chiese di farlo salire.

«Capitano, per amor di Dio, sono contuso a una mano,» disse timidamente. «Per amor di Dio, non posso camminare. Per amor di Dio!»

Si capiva che lo junker aveva già chiesto ad altri di salire su un traino e ne aveva avuto un rifiuto. Egli supplicava con voce querula e compassionevole.

«Date ordine di farmi salire, per amor di Dio.»

«Fatelo salire, fatelo salire,» disse Tušin. «Tu, zio, stendigli un pastrano,» disse, rivolgendosi al suo soldato prediletto. «Ma dov’è l’ufficiale ferito?»

«L’hanno abbandonato: era morto,» rispose qualcuno.

«Fatelo salire. Salite, caro, sedetevi. Stendigli un pastrano, Antonov.»

Lo junker era Rostov. Si reggeva una mano con l’altra. Era pallido, e la mascella inferiore gli tremava, scossa da un fremito febbrile. Lo fecero salire sulla Matvevna, lo stesso cannone dal quale era stato scaricato l’ufficiale morto. Il pastrano che gli adagiarono sotto era macchiato di sangue, e Rostov se ne macchiò i calzoni e le mani.

«Cos’è, siete ferito, colombella?» disse Tušin, avvicinandosi al cannone su cui si trovava Rostov.

«No, contuso.»

«Perché allora c’è sangue sull’affusto?»

«È il sangue dell’ufficiale, eccellenza,» rispose un artigliere, tergendo il sangue con la manica del pastrano e come scusandosi per la scarsa pulizia del cannone.

A gran fatica, con l’aiuto della fanteria, i cannoni furono trainati su per la collina. Poi, raggiunto il villaggio di Gunthersdorf, fecero sosta. Era già così buio, che a dieci passi di distanza, non si distinguevano le divise dei soldati. La sparatoria cominciò a diradarsi. All’improvviso, sulla destra, a poca distanza risuonarono di nuovo grida e fucilate. Nel buio si distingueva il bagliore degli spari. Era l’ultimo attacco dei francesi, al quale rispondevano i nostri appostati nelle case del villaggio. Di nuovo tutti si precipitarono fuori del villaggio, ma i cannoni di Tušin non potevano più esser schierati in linea, cosicché gli artiglieri, Tušin e Rostov restarono a guardarsi in silenzio, in attesa di subire la loro sorte. Poi gli spari cominciarono a diminuire e da una strada laterale sbucarono dei soldati che parlavano animatamente.

«Sei sano, Petrov?» domandava uno.

«Gliele abbiamo date di santa ragione, caro mio. Adesso non si faranno più vedere,» diceva un altro.

«Non si vede niente. Hai visto che se le davano fra loro? Non si vede nulla: è buio, ormai. Non c’è qualcosa da bere?»

I francesi erano stati respinti un’ultima volta. E di nuovo nell’oscurità più completa, i pezzi di Tušin, circondati come da una cornice dalla fanteria vociante, ripresero a procedere alla cieca.

Era come se nelle tenebre scorresse un fiume cupo, invisibile, sempre nella medesima direzione, con un mormorio misto di bisbigli, di voci, del rumore secco degli zoccoli e delle ruote. In quel sordo rumore, in mezzo a tutti gli altri suoni, emergevano i gemiti e le voci dei feriti nell’oscurità della notte. Sembrava che i loro gemiti riempissero tutto il buio che circondava le truppe. Quei lamenti e l’oscurità della notte parevano fondersi in una cosa sola. Dopo qualche tempo, nella folla in movimento si produsse un’agitazione. Qualcuno era passato con il seguito su un cavallo bianco, e passando aveva detto qualcosa.

«Che cos’ha detto? Dove si va, adesso? Ci fermiamo? Ci ha fatto degli elogi?» Da ogni parte risuonavano ansiose domande; e poi l’intera moltitudine in movimento cominciò a serrarsi su se stessa (evidentemente i primi si erano fermati) e si diffuse la voce che era stato dato l’ordine di arrestarsi. Tutti si fermarono, lì dove si trovavano, in mezzo alla strada melmosa.

Vennero accesi dei fuochi e il brusio si fece più intenso. Il capitano Tušin, dopo essersi occupato della sua compagnia, inviò un soldato in cerca di un posto di medicazione o un medico per lo junker e sedette al margine della strada, accanto al fuoco acceso dai soldati. Anche Rostov si trascinò accanto al fuoco. Un tremito convulso, di freddo, di dolore, gli scuoteva tutto il corpo. Aveva sonno, ma non riusciva ad addormentarsi per il dolore tormentoso alla mano intorpidita, per la quale non trovava una posizione acconcia. Ora chiudeva gli occhi, ora guardava il fuoco che gli sembrava d’un rosso ardente, oppure fissava la figura fragile e curva di Tušin, seduto alla turca di fianco a lui. I grandi occhi buoni e intelligenti di Tušin lo fissavano con simpatia e compassione. Rostov capiva che Tušin con tutta l’anima avrebbe voluto aiutarlo, ma non poteva.

Da ogni parte si udivano i passi e il parlottare di uomini che transitavano a piedi e a cavallo, della fanteria che si andava accampando lì attorno. I rumori delle voci, dei passi, e degli zoccoli dei cavalli che sguazzavano nel fango, il vicino e lontano crepitare della legna si fondevano in unico fluttuante ronzio.

Ora non scorreva più, come prima, nell’oscurità un fiume invisibile: era un mare fosco che si placava e fremeva dopo la tempesta. Rostov guardava e ascoltava senza rendersi conto di ciò che succedeva intorno a lui. Un soldato di fanteria si accostò al fuoco, si accoccolò sulle gambe, protese le mani sul fuoco e voltò la faccia.

«Posso restare, vossignoria?» domandò a Tušin. «Ho perduto la mia compagnia, non so nemmeno dove sia. Che guaio!»

Insieme al soldato si era avvicinato al fuoco anche un ufficiale di fanteria che aveva una guancia bendata. Rivolgendosi a Tušin, gli aveva chiesto che ordinasse di spostare un poco i cannoni per lasciar passare un carro. Dopo il comandante di compagnia si avvicinarono al fuoco due soldati. Si insultavano e si azzuffavano furibondi, lottando per il possesso di uno stivale.

«Come no? Sei stato tu a raccoglierlo! Sentilo, il fratacchione!» gridava uno dei due con voce rauca.

Poi si avvicinò un soldato magro e pallido, il collo fasciato da una pezza da piedi insanguinata, e con voce rabbiosa chiese un po’ d’acqua agli artiglieri.

«Dovrei morire come un cane, forse?» diceva.

Tušin ordinò che gli dessero dell’acqua. Poi venne un soldato allegro che chiedeva del fuoco per la fanteria.

«Un focherello ben caldo per la fanteria! Buon riposo, compaesani, e grazie tante per il fuoco; ve lo restituiremo con l’interesse,» disse, portando chissà dove nell’oscurità un tizzone ardente.

Dopo, accanto al fuoco passarono altri quattro soldati che trasportavano qualcosa di pesante su un pastrano. Uno inciampò.

«Maledetti, guarda se devono mettere la legna in mezzo alla strada,» brontolò.

«È morto. A che scopo portarcelo appresso?» disse un altro di loro.

«Già, se dipendesse da voi…»

E scomparvero nell’oscurità con il loro carico.

«Ebbene? Fa male?» domandò Tušin a Rostov con un bisbiglio.

«Sì, fa male.»

«La signoria vostra è chiamata dal generale! È qui nella capanna,» disse un artigliere avvicinandosi a Tušin.

«Subito, caro.»

Tušin si alzò e si allontanò dal fuoco abbottonandosi il cappotto e passandosi le mani nei capelli.

Non lontano dal falò degli artiglieri, in una capanna preparata apposta per lui, il principe Bagration cenava parlando con alcuni comandanti di unità che si erano riuniti presso di lui. C’era il vecchietto con gli occhi semichiusi che rosicchiava avidamente un osso di montone; il generale con ventidue anni di servizio irreprensibile, rosso in faccia a causa del pasto e di un bicchierino di vodka; l’ufficiale di stato maggiore con le iniziali sull’anello; Žerkov che sbirciava tutti con aria inquieta, e il principe Andrej, pallido, con le labbra serrate e uno scintillio febbrile nello sguardo.

Nella capanna c’era, appoggiata in un angolo, la bandiera catturata ai francesi; l’auditore, palpava il tessuto della bandiera con espressione ingenua; perplesso scuoteva il capo, forse perché la vista di quella bandiera davvero lo interessava, o forse perché gli pesava, affamato com’era, guardare quella tavola alla quale si stava mangiando, e dove, d’altra parte, non c’era posto per lui. In un’altra capanna si trovava il colonnello francese preso prigioniero dai dragoni, circondato dai nostri ufficiali che lo esaminavano con curiosità. Il principe Bagration ringraziava i vari comandanti e li interrogava sui particolari della battaglia e sull’entità delle perdite. Il comandante del reggimento che a Braunau era stato ispezionato da Kutuzov riferiva al principe che, non appena cominciata la battaglia, lui era indietreggiato dal bosco, aveva raccolto gli uomini che erano stati mandati a raccoglier legna e, fattili sfilare davanti a sé con due battaglioni aveva attaccato alla baionetta e aveva travolto i francesi.

«Appena ho visto, eccellenza, che il primo battaglione era sbandato, mi sono messo sulla strada e ho pensato: “Farò passare costoro e poi accoglierò il nemico con un fuoco di fila.” E così ho fatto.»

Il comandante del reggimento aveva desiderato a tal punto compiere questa azione, e rimpiangeva talmente di non esservi riuscito, da sembrargli che tutto si fosse svolto esattamente così. E poi, chissà che non fosse veramente accaduto? Era forse possibile capire, in quella baraonda, che cosa era successo e che cosa no?

«A proposito, devo far notare a vostra eccellenza,» proseguì, ricordandosi del colloquio di Dolochov con Kutuzov e del suo ultimo incontro con il degradato, «che l’ufficiale degradato Dolochov ha preso prigioniero sotto i miei occhi un ufficiale francese e si è particolarmente distinto.»

«Proprio allora, eccellenza, ho veduto la carica del reggimento di Pavlograd,» intervenne Žerkov guardandosi attorno con inquietudine; quel giorno Žerkov non aveva visto affatto gli ussari, ma ne aveva semplicemente udito parlare da un ufficiale di fanteria. «Hanno travolto due quadrati, eccellenza.»

Alle parole di Žerkov qualcuno sorrise, aspettandosi da lui, come sempre, qualche battuta; ma poi, accorgendosi che quanto andava dicendo tornava anche a onore delle nostre armi e di quella giornata di combattimenti, assunsero un’espressione compunta, sebbene quasi tutti sapessero che le parole di Žerkov erano assolutamente prive di fondamento. Il principe Bagration si rivolse al vecchio colonnello.

«Vi ringrazio tutti, signori; tutte le unità hanno combattuto eroicamente: fanteria, cavalleria, artiglieria. Come mai al centro sono stati abbandonati due cannoni?» domandò poi, cercando qualcuno con gli occhi. (Il principe Bagration non aveva chiesto ragguagli sui cannoni del fianco sinistro: sapeva già che da quella parte tutti i cannoni erano stati abbandonati sin dall’inizio dell’azione.) «Mi pare di avervi pregato…» aggiunse, rivolgendosi all’ufficiale superiore di servizio in quella giornata.

«Un pezzo era fracassato,» rispose l’ufficiale; «quanto all’altro, non riesco a capire; io sono rimasto in persona, per tutto il tempo, e ho dato gli ordini. Me ne sono andato solo all’ultimo momento… Era un inferno, credetemi,» aggiunse in tono di modestia.

Qualcuno disse che il capitano Tušin si trovava nelle immediate vicinanze del villaggio e che era stato mandato a chiamare.

«Ma voi c’eravate,» disse il principe Bagration, rivolgendosi al principe Andrej.

«Come no? Per poco non c’incontravamo,» interloquì l’ufficiale di stato maggiore, sorridendo affabilmente a Bolkonskij.

«Io non ho avuto il piacere di vedervi,» proruppe il principe Andrej con voce tagliente. Tutti tacquero.

Sulla soglia apparve Tušin che avanzò timidamente alle spalle dei generali. Girando dietro i generali nell’angusto interno della casupola come sempre imbarazzato e confuso dalla presenza dei superiori, Tušin non scorse l’asta della bandiera e vi inciampò. Qualcuno scoppiò a ridere.

«Come mai sono stati abbandonati i cannoni?» domandò Bagration, accigliandosi, non tanto contro il capitano quanto nei confronti di quelli che ridevano, fra cui, più forte di tutti, Žerkov.

Solo ora, al cospetto del terribile superiore, Tušin ebbe in tutto il suo orrore l’esatta visione della sua colpa e dell’onta di aver perduto due cannoni e di essere sopravvissuto. Era così agitato che sino a quel momento non se n’era ancora reso conto. Le risa degli ufficiali lo sconcertarono ancor di più. Era in piedi davanti a Bagration con la mascella inferiore che gli tremava e riuscì appena a mormorare:

«Non saprei… eccellenza… mancavano uomini, eccellenza.»

«Avreste potuto prenderli dalle truppe di copertura!»

Tušin non disse che truppe di copertura non ce n’erano, sebbene questa fosse la pura verità. Temeva con questo di compromettere qualche altro comandante e fissava in silenzio Bagration, con gli occhi sbarrati, come un allievo che non sa rispondere guarda negli occhi il suo esaminatore.

Il silenzio che seguì fu abbastanza lungo. Il principe Bagration, che evidentemente non desiderava mostrarsi severo, non sapeva che cosa dire; gli altri non osavano immischiarsi nel colloquio. Il principe Andrej guardava Tušin di sottecchi e le sue dita si contraevano nervosamente.

«Eccellenza,» disse il principe Andrej, rompendo quel silenzio con la sua voce tagliente, «voi mi avete inviato alla batteria del capitano Tušin. Io ci sono andato e ho trovato due terzi degli uomini uccisi, i cavalli abbattuti, due pezzi fracassati e niente truppe di copertura.»

Il principe Bagration e Tušin fissavano con pari intensità Bolkonskij che parlava in tono contenuto ed emozionato.

«Eccellenza, se mi permettete di esprimere la mia opinione,» proseguì il principe Andrej, «noi dobbiamo il successo della giornata soprattutto all’azione di questa batteria, all’eroica fermezza del capitano Tušin e della sua compagnia.» E senza aspettare la risposta, Bolkonskij si alzò e si allontanò dalla tavola.

Il principe Bagration guardò Tušin. Evidentemente non intendeva mostrarsi incredulo di fronte al giudizio così reciso di Bolkonskij, né d’altra parte si sentiva autorizzato a credergli senza riserve. Chinò il capo e disse a Tušin che poteva andare. Subito dopo uscì anche il principe Andrej.

«Grazie davvero, caro amico; mi avete tolto dai guai,» gli disse Tušin.

Il principe Andrej lo guardò e si allontanò senza dir nulla. Il suo cuore era triste ed oppresso. Tutto ciò era così strano, così diverso da quel che aveva sognato.

 

«Chi sono? Perché ci sono? Che cosa vogliono? E quando finirà tutto questo?» pensava Rostov, guardando le ombre che si susseguivano dinanzi a lui. Il dolore alla mano era sempre più lancinante. Tuttavia un sonno invincibile lo prendeva; negli occhi gli danzavano dei cerchietti rossi; l’impressione di quelle voci di quelle facce, e una sensazione di solitudine si fondevano con la sensazione del dolore. Erano loro, i soldati, feriti e non feriti: erano loro che lo schiacciavano, gli gravavano addosso, gli stiravano i tendini, gli bruciavano la carne nella mano spezzata e nella spalla. Chiuse gli occhi per liberarsi di loro.

Per un minuto, perdette conoscenza: ma in quel breve intervallo d’oblio vide in sogno un’infinità di cose: vide sua madre e le sue grandi mani bianche, vide le spalle magroline di Sonja, gli occhi e il riso di Nataša; e Denisov con la sua voce e i baffi, e Teljanin, e tutta la storia fra lui e Teljanin, fra lui e Bogdanyè. Tutta questa storia era una cosa sola con quel soldato dalla voce aspra, e tutta questa storia, e quel soldato insieme, gli stringevano il braccio senza tregua, dolorosamente, lo schiacciavano e lo tiravano, sempre dalla stessa parte. Lui cercava di scostarsi, ma loro non lo lasciavano, ma essi non lasciavano, non cedevano nemmeno per un istante la sua spalla. Quella spalla non gli avrebbe fatto male, sarebbe stata sana, se loro non l’avessero tirata a quel modo; ma era impossibile liberarsi di loro.

Aperse gli occhi e guardò in alto. La nera coltre della notte era sospesa a un braccio sopra il bagliore della brace. In quella luce volava il pulviscolo della neve che cadeva. Tušin non tornava, il medico non veniva. Era solo. Ora accanto al fuoco c’era solo un piccolo soldato, nudo, che si scaldava il corpo magro e giallognolo.

«Nessuno ha bisogno di me!» pensò Rostov. «Non c’è nessuno che mi aiuti, nessuno che mi compatisca. Eppure una volta ero a casa mia, forte, allegro, amato da tutti!» Sospirò, e in quel sospiro involontariamente gli sfuggì un gemito.

«Vi fa male?» domandò il piccolo soldato scuotendo la sua camicia sopra il fuoco. Non attese la risposta: scatarrò e poi aggiunse: «Quanta gente hanno storpiato oggi. Uno spavento!»

Rostov non ascoltava il soldato. Guardava i fiocchi di neve che volteggiavano sopra il fuoco e ricordava l’inverno in Russia, la sua casa calda e luminosa, la sua pelliccia soffice, la slitta veloce, il suo corpo sano, e tutto l’amore e le premure della famiglia. «Perché mai sono venuto qui?» pensò.

Il giorno dopo i francesi non rinnovarono l’attacco e i resti del distaccamento di Bagration si congiunsero con l’armata di Kutuzov.