Tornato a casa, egli si mise a ripercorrere con la memoria gli ultimi quattro mesi della sua vita a Pietroburgo, come se si trattasse di qualcosa di nuovo. Ricordava le brighe che s’era date, le sue sollecitazioni, tutta quella sua storia del progetto di codice militare, che era stato preso in considerazione ma che ora si cercava di soffocare sotto il silenzio perché era già stato preparato e presentato all’imperatore un altro progetto, peraltro molto mediocre; si ricordò delle sedute del comitato, di cui faceva parte anche Berg; si ricordò con quanta minuzia in quelle sedute si esaminasse tutto ciò che riguardava la forma e la procedura delle sedute stesse e con quanto affannato zelo si eludesse tutto ciò che riguardava la sostanza delle cose. Si sovvenne anche del suo lavoro legislativo, di come egli si fosse dato pena di tradurre in russo gli articoli dei codici latino e francese, ed ebbe vergogna di se stesso. Poi nella sua immaginazione riaffiorò Bogučarovo, le sue occupazioni in campagna, il suo viaggio a Rjazan’; ricordò i contadini, lo starosta Dron e, applicando a loro i diritti delle persone, che aveva distribuito in paragrafi, si chiese con stupore come avesse potuto occuparsi così a lungo di un lavoro del tutto vano.
XIX
Il giorno dopo il principe Andrej andò in visita presso alcune famiglie dove ancora non era stato, e fra queste anche la famiglia Rostov con la quale aveva rinnovato la conoscenza in occasione dell’ultimo ballo. A parte i doveri di cortesia, in forza dei quali appariva tenuto a recarsi dai Rostov, sentiva il desiderio di rivedere a casa sua quella singolare, vivace giovinetta che gli aveva lasciato un ricordo così piacevole.
Nataša fu una delle prime persone ad accoglierlo. Indossava un abito da casa blu e con quell’abito parve al principe Andrej ancora più graziosa di quando l’aveva vista vestita da ballo. Lei e tutta la famiglia accolsero il principe Andrej come fosse stato un vecchio amico, cioè in modo semplice e cordiale. Tutta la famiglia, che prima il principe Andrej aveva giudicato così severamente, ora gli parve composta da bravissime persone, semplici e buone. L’ospitalità e i modi affabili del vecchio conte, che a Pietroburgo colpivano in modo particolarmente gradevole, erano tali che il principe Andrej non poté rifiutare l’invito di trattenersi a pranzo. «Sì, sono buone, sono brave persone,» pensava Bolkonskij, «incapaci, beninteso, di comprendere quale tesoro abbiano in Nataša; ma sono brava gente, il miglior sfondo sul quale possa far spicco questa ragazza incantevole, così poetica, così traboccante di vita!»
Il principe Andrej sentiva in Nataša la presenza di un mondo suo particolare, per lui del tutto nuovo, pervaso di gioie a lui sconosciute: di quel mondo a lui estraneo che già allora, sul viale di Otradnoe e alla finestra di quella notte di luna, lo aveva tanto irritato. Ma ora quel mondo non lo esasperava più; non era più un mondo estraneo, ed egli stesso, entrandovi, vi trovava un piacere affatto nuovo.
Dopo pranzo, su preghiera del principe Andrej Nataša sedette al clavicembalo e si mise a cantare. Il principe Andrej stava in piedi accanto alla finestra e l’ascoltava discorrendo con le signore. A mezzo di una frase musicale egli ammutolì, e inaspettatamente sentì che le lacrime gli salivano alla gola, cosa di cui non si sarebbe creduto capace. Guardava Nataša cantare e nella sua anima avveniva qualcosa di nuovo e di lieto. Era felice, e al tempo stesso provava un senso di tristezza. Non aveva alcun motivo per piangere, eppure era sul punto di rompere in lacrime. Piangere su che cosa? Sul suo amore di un tempo? Sulla piccola principessa? Sulle sue delusioni?… Sulle sue speranze per l’avvenire?… Sì e no. Più che per ogni altra cosa gli veniva voglia di piangere per la terribile contraddizione della quale a un tratto si era così vivamente reso conto: qualcosa di immenso e di indefinito che c’era in lui e quel qualcosa di angusto e di palpabile, cioè lui stesso. Lui ed anche Nataša. Questa contraddizione lo faceva soffrire ed esultare, mentre ella continuava il suo canto.
Non appena ebbe finito di cantare, lei gli si fece accanto e gli domandò se gli fosse piaciuta la sua voce. Fece questa domanda e subito dopo si turbò, rendendosi conto che non avrebbe dovuto chiedere una cosa simile. Egli sorrise, la guardò e rispose che il suo canto gli piaceva, così come gli piaceva tutto ciò che faceva lei.
Il principe Andrej lasciò casa Rostov a tarda sera. Si mise a letto per pura abitudine, ma ben presto constatò che non avrebbe potuto prender sonno. Ora accendeva la candela e si sedeva sul letto, ora si alzava, ora si coricava di nuovo senza affatto sentire il peso dell’insonnia, tanto era nuovo e gioioso il sentimento che provava nell’anima: era come se da una stanza soffocante fosse uscito alla libera luce di Dio. Non gli passava neppure per la mente di essere innamorato di Nataša Rostova; non pensava a lei: ne vedeva semplicemente l’immagine e, in seguito a questo, tutta la sua esistenza gli apparve sotto una nuova luce. «Per che cosa mi dibatto, per che cosa mi affanno in questa cornice chiusa e ristretta, quando la vita, tutta la vita, mi si spalanca davanti con le sue gioie?» diceva a se stesso. E, per la prima volta dopo tanto tempo, prese a fare lieti progetti per l’avvenire. Decise fra sé che doveva occuparsi dell’educazione di suo figlio, trovare un precettore e affidarlo a lui; poi avrebbe dovuto dare le dimissioni e partire per l’estero, visitare l’Inghilterra, la Svizzera, l’Italia. «Bisogna che approfitti della mia libertà finché sento in me tanta energia, tanta giovinezza,» diceva a se stesso. «Pierre aveva ragione dicendomi che per essere felici bisogna credere anzitutto nella possibilità di esserlo: io adesso ci credo. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti, ma fin quando si è vivi, bisogna vivere ed essere felici,» pensava.
XX
Una mattina il colonnello Adol’f Berg, che Pierre conosceva come del resto conosceva tutti a Mosca e a Pietroburgo, si presentò in casa sua vestito di un’uniforme perfetta, le ciocche gonfie e impomatate sulle tempie, come le portava l’imperatore Alessandro.
«Sono stato proprio ora in casa della contessa vostra moglie e sono stato sfortunato. La mia preghiera non è stata esaudita; spero di aver più fortuna con voi, conte,» disse sorridendo.
«Che cosa vi serve, colonnello? Sono al vostro servizio.»
«Adesso, conte, io mi sono sistemato alla perfezione nel nuovo appartamento,» esordì Berg, evidentemente convinto che anche gli altri, nell’udire un fatto del genere, potessero soltanto compiacersene, «e perciò ho deciso di dare una piccola serata per i conoscenti miei e di mia moglie.» (Egli sorrise in modo ancor più amabile.) «Volevo pregare la contessa e voi di onorarmi di una vostra visita a casa nostra per una tazza di tè e… per la cena.»
Soltanto la contessa Elena Vasil’evna, giudicando indecoroso per sé recarsi in casa d’una famiglia Berg, poteva esser capace di rifiutare quell’invito. Berg spiegò con tanta chiarezza perché desiderasse raccogliere presso di sé una piccola e selezionata compagnia, perché questo gli avrebbe fatto piacere, e per quale ragione fosse incline a non sprecar denaro in partite a carte e altre cose mediocri, ma per un gruppo eletto di persone fosse pronto ad affrontare delle spese, che Pierre non seppe declinare l’invito e promise di andare.
«Però non venite tanto tardi, conte, se posso chiedervelo; dieci minuti prima delle otto, scusate l’ardire. Faremo una partita, ci sarà il nostro generale. Lui è molto buono con me. Poi si cenerà. Siate così gentile, dunque.»
Contrariamente alla sua abitudine di arrivare in ritardo, invece che alle otto meno dieci quel giorno Pierre giunse in casa Berg alle otto meno un quarto.
I Berg, provveduto a quanto occorreva per la serata, erano già pronti a ricevere gli invitati.
Berg era insieme alla moglie nel suo nuovo studio, lindo e luminoso, arredato con mobili nuovi, con piccoli busti e quadretti qua e là. Sedeva vestito della sua uniforme nuova, tutta abbottonata, accanto alla moglie, e le andava spiegando che si possono e si debbono sempre avere conoscenze al di sopra di noi, perché soltanto così si può trarne qualche piacevole conseguenza.
«Ne ricavi qualcosa, puoi chiedere qualcosa. Ecco, guarda come sono vissuto io sin dai primi gradi che ho avuto (Berg non misurava la sua vita in base agli anni, ma in base alle sue promozioni). I miei compagni non sono ancora nulla, mentre io faccio le veci del comandante del reggimento, ho la gioia di essere vostro marito.» Si alzò e baciò la mano di Vera, ma, prima di avvicinarsi a lei, distese l’angolo del tappeto che si era rivoltato. «E con che cosa ho ottenuto tutto questo? Soprattutto sapendo scegliere le mie conoscenze. Va da sé che bisogna anche saper essere virtuosi e diligenti.»
Berg sorrise, consapevole della sua superiorità sulle deboli donne e tacque, pensando che quella sua diletta consorte era appunto una debole donna che non poteva capire ciò che fa il valore di un uomo: ein Mann zu sein. Ma nello stesso momento anche Vera aveva avuto un sorriso di superiorità su quel marito così dabbene e così virtuoso, che tuttavia, a parere di Vera, non diversamente da tutti gli uomini intendeva male la vita. Giudicando da sua moglie, considerava tutte le donne deboli e stupide. Da parte sua Vera, giudicando da suo marito e dilatando questo giudizio, pensava che tutti gli uomini attribuiscono la facoltà di ragionare soltanto a se stessi, ma in realtà non capiscono nulla e sono superbi ed egoisti.
Berg si alzò e, abbracciata sua moglie, con precauzione, per non sciupare il collo di merletto della pèlerine, che aveva pagata cara, la baciò nel mezzo delle labbra.
«Solo una cosa: bisogna evitare di aver troppo presto dei bambini,» disse, seguendo un’inconscia associazione d’idee.
«Sì,» rispose Vera, «io non lo desidero affatto. Bisogna far vita di società.»
«La principessa Jusupova ne aveva uno identico al tuo!» esclamò Berg con un sorriso buono e felice, indicando il collo di merletto.
In quel momento fu annunciato il conte Bezuchov. I due coniugi si scambiarono un sorriso soddisfatto, ciascuno attribuendo a se stesso l’onore di quella visita.
«Ecco che cosa vuol dire saper fare delle conoscenze,» pensò Berg. «Ecco che cosa vuol dire sapersi comportare a modo!»
«Solo, ti prego, quando intrattengo gli ospiti,» disse Vera, «tu non mi interrompere, perché io so come si deve intrattenere ciascuno e come ci si deve esprimere, a seconda delle persone.»
Anche Berg sorrise.
«Sì,» rispose, «ma a volte tra uomini si deve parlare da uomini.»
Pierre fu ricevuto nel salotto nuovo, nel quale non era possibile sedere in alcun luogo senza sciupare la simmetria, la pulizia e l’ordine; perciò fu del tutto comprensibile e niente affatto strano che Berg, pur avendo magnanimamente deciso di spostare una poltrona o un divano in favore di un ospite di tanto riguardo, poiché evidentemente egli stesso era in preda ad una dolorosa indecisione, lasciasse la decisione di questo problema alla scelta dell’ospite. Pierre guardò la simmetria, spostando verso di sé una sedia, e subito Berg e Vera diedero corso alla serata, intrattenendo l’ospite e interrompendosi l’un l’altro.
Vera, essendosi messa in testa che bisognava intrattenere Pierre con un discorso sull’ambasciata francese, aveva subito scelto quell’argomento. Berg, invece, avendo deciso che era opportuno anche un discorso da uomini, interruppe la moglie per affrontare la questione della guerra con l’Austria e, involontariamente, dall’argomento generale cadde in considerazioni personali in merito alle proposte che gli erano state fatte per prender parte alla campagna d’Austria e alle ragioni per le quali egli non le aveva accettate. Sebbene la conversazione risultasse molto sconclusionata e Vera fosse risentita perché vi si era immischiato l’elemento maschile, entrambi i coniugi si compiacevano di constatare che, sebbene al momento ci fosse soltanto uno degli invitati, la serata era cominciata molto bene e che questa loro serata assomigliava come due gocce d’acqua a ogni altra serata: con le sue conversazioni, il tè e le candele accese.
Poco dopo giunse Boris, vecchio compagno d’arme di Berg. Egli trattava Berg e Vera con una certa sfumatura di superiorità e di protezione. Poi arrivò una signora accompagnata da un colonnello, poi il generale in persona, poi i Rostov, e la serata era ormai in tutto simile a ogni altra serata del genere. Berg e Vera non sapevano trattenere un sorriso di soddisfazione alla vista di quel movimento che regnava nel loro salotto e ascoltando quel chiacchiericcio incoerente, quel fruscio degli abiti e delle riverenze. Tutto era come in tutte le altre case e particolarmente a posto era il generale, che elogiò l’appartamento, diede una pacca cordiale sulla spalla di Berg e con paterna autorità dispose la sistemazione del tavolo per il boston. Il generale sedette vicino al conte Il’ja Andreič che, dopo di lui, era l’invitato di maggior prestigio. I vecchi in compagnia dei vecchi, i giovani con i giovani, la padrona presso il tavolo del tè sul quale era posato un cestino d’argento, colmo degli identici biscotti che i Panin offrivano alle loro serate: tutto, insomma, era né più né meno come in casa degli altri.
XXI
Pierre, essendo uno degli ospiti di maggior riguardo, dovette giocare a boston con Il’ja Andreič, col generale e col colonnello. Al tavolo del boston gli accadde di sedersi a un posto dal quale poteva vedere Nataša, e fu colpito dallo strano cambiamento avvenuto in lei dal giorno del ballo. Nataša era taciturna, e non soltanto non appariva bella come il giorno del ballo, ma sarebbe stata addirittura brutta se non avesse avuto un aspetto dolce e indifferente a tutto.
«Che cos’avrà?» pensava Pierre, guardandola. Nataša sedeva al tavolo del tè accanto a sua sorella e, senza guardarlo, rispondeva di malavoglia qualcosa a Boris che le si era seduto al fianco. Dopo aver buttato sul piano del tavolo tutte le carte di un seme e aver fatto, con grande soddisfazione del suo partner, cinque levate, Pierre, avendo udito delle voci di saluto e il rumore dei passi di qualcuno che entrava nella stanza proprio mentre si raccoglievano le carte dal tavolo, gettò di nuovo un’occhiata a Nataša.
«Che cosa le è successo?» si chiese, ancor più stupito.
Appariva trasfigurata. Non era più brutta come qualche istante prima, ma di nuovo bella come era apparsa al ballo.
Il principe Andrej si avvicinò a Pierre e Pierre notò anche sul viso dell’amico un’espressione nuova, più giovanile.
Egli cambiò posto diverse volte durante il gioco, ora trovandosi di spalle, ora di faccia rispetto a Nataša, e durante il corso dei sei rubbers, fece tra sé varie considerazioni su di lei e sul principe Andrej.
«Fra di loro sta accadendo qualcosa di importante,» pensò Pierre, e un sentimento di pianto di gioia e di amarezza insieme lo turbava, distraendolo dal gioco.
Dopo i sei rubbers il generale si alzò dicendo che così non era possibile giocare e Pierre venne lasciato in libertà. Nataša, in disparte, parlava con Sonja e con Boris. Vera, con un fine sorriso sulle labbra, parlava col principe Andrej. Pierre si avvicinò al suo amico e, dopo aver domandato se ciò di cui stavano parlando non fosse segreto, si sedette vicino a loro. Vera, essendosi accorta dell’attenzione del principe Andrej per Nataša, aveva deciso che a una serata, a una vera serata, era necessario che si facessero sottili allusioni a problemi sentimentali e, colto un momento in cui il principe Andrej era solo, aveva dato corso a una conversazione sui sentimenti in genere e sulla sorella in particolare. Con un invitato così intelligente (tale infatti ella considerava il principe Andrej) era necessario che lei mettesse in opera tutta la sua arte diplomatica.
Quando Pierre si avvicinò a loro, notò che Vera era nel pieno e più compiaciuto fervore del suo discorso, mentre il principe Andrej appariva confuso, cosa che gli accadeva ben di rado.
«Che cosa ne pensate, principe?» diceva Vera con quel fine sorriso. «Voi siete così perspicace, così bravo a capire al volo il carattere delle persone. Che cosa pensate di Nathalie? Può essere costante nei suoi affetti, può come altre donne (Vera alludeva a se stessa) amare una volta sola e restar fedele allo stesso uomo? Io credo che sia questo il vero amore. Qual è il vostro parere, principe?»
«Io non conosco abbastanza vostra sorella,» rispose il principe Andrej con un sorriso ironico sotto il quale voleva nascondere il proprio turbamento, «per pronunciarmi su una questione così delicata; e poi ho notato che quanto meno una donna piace, tanto più è costante,» aggiunse, e gettò un’occhiata a Pierre che in quel momento si era avvicinato.
«Sì, questo è vero, principe,» continuò Vera. «Nella nostra epoca (parlava della sua epoca come in genere amano parlarne le persone limitate, che credono di aver scoperto tutte le peculiarità del presente e che le peculiarità degli uomini mutino col tempo), ai nostri giorni una ragazza ha tanta libertà, che spesso le plaisir d’être courtisée soffoca il vero sentimento. Et Nathalie, il faut l’avouer, y est très sensible.» Questo ritorno a Nathalie non fece che contrariare di nuovo il principe Andrej; egli avrebbe voluto alzarsi, ma Vera, con un sorriso ancor più sottile, continuò: «Penso che nessuna sia stata cortisée quanto lei, eppure, fino a questi ultimi tempi, nessuno le è mai veramente piaciuto.
Del resto anche voi, conte, lo sapete,» disse, rivolgendosi a Pierre; «anche il nostro caro cousin Boris che, entre nous, era molto ma molto dans le pays du Tendre…» continuò alludendo a una carta geografica dell’amore che allora era di moda.
Il principe Andrej taceva, con la fronte aggrottata.
«Voi siete amico di Boris, vero?» gli chiese Vera.
«Sì, lo conosco…»
«Immagino che vi ha parlato del suo amore d’infanzia per Nataša.»
«C’è stato un amore d’infanzia?» chiese il principe Andrej, arrossendo di colpo.
«Sì. Vous savez, entre cousin et cousine cette intimité mène quelquefois à l’amour: le cousinage est un dangereux voisinage, n’est ce pas?»
«Oh, non c’è dubbio,» disse il principe, e a un tratto, con una vivacità improvvisa e innaturale prese a scherzare con Pierre, ammonendolo a sorvegliare i suoi rapporti con le cugine cinquantenni di Mosca; alla fine, nel mezzo di questa scherzosa conversazione, si alzò, prese Pierre sotto braccio e lo trasse in disparte.
«Be’, che cosa c’è?» chiese Pierre, il quale aveva osservato non senza stupore la strana animazione del suo amico e aveva notato l’occhiata che il principe Andrej, alzandosi, aveva lanciato a Nataša.
«Ho bisogno, ho bisogno di parlare con te,» disse il principe Andrej. «Tu conosci i nostri guanti da donna (parlava dei guanti massoni che venivano dati a ogni nuovo confratello affinché li consegnasse alla donna amata). Io… Ma no, parleremo dopo…» E, con una strana luce negli occhi e una strana inquietudine nei gesti, si avvicinò a Nataša sedendolesi accanto. Pierre vide che le domandava qualcosa e lei gli rispondeva, con un subitaneo rossore.
Ma in quel momento Berg si avvicinò a Pierre e lo pregò con particolare insistenza di prender parte alla discussione sugli avvenimenti di Spagna che stava svolgendosi tra il colonnello e il generale.
Berg era felice. Un sorriso di soddisfazione non abbandonava mai la sua faccia. Era una serata molto riuscita, in tutto e per tutto uguale agli altri ricevimenti ai quali aveva assistito. Sì, tutto era perfettamente uguale: i fini discorsi delle signore, il gioco di carte, il generale che al gioco alzava la voce, il samovar, i biscotti. C’era una sola cosa che ancora mancava, una cosa che aveva sempre visto alle serate e avrebbe voluto imitare: mancava una rumorosa discussione fra uomini, una discussione su qualcosa d’importante e d’intelligente; ma alla fine il gentrale aveva dato inizio a questa discussione, e in essa, appunto, Berg trascinò Pierre.
XXII
Il giorno dopo il principe Andrej, che era stato invitato dal conte Il’ia Andreič, andò a pranzo dai Rostov, e passò tra loro l’intera giornata.
Tutti in casa sentivano per chi fosse venuto il principe Andrej, ed egli, senza nasconderlo, fece in modo di stare tutta la giornata con Nataša. Non soltanto nell’anima di Nataša, sbigottita, eppure felice e piena di esaltazione, ma nella casa intera si avvertiva una sorta di timore di fronte a qualcosa d’importante che sarebbe dovuto accadere. La contessa guardava con occhi tristi e gravemente severi il principe Andrej mentre parlava con Nataša, e timidamente fingeva di cominciare qualche insignificante discorso non appena lui si voltava a guardarla. Sonja aveva paura di allontanarsi da Nataša e al tempo stesso temeva di essere d’impaccio quando era insieme a loro. Nataša, ogni volta che restava per un momento a tu per tu con lui, impallidiva nel timore dell’attesa: la timidezza del principe Andrej la lasciava stupita. Ella sentiva che lui doveva dirle qualcosa, ma che non riusciva a decidersi.
Quando la sera il principe Andrej se ne andò, la contessa si avvicinò a Nataša e le chiese in un bisbiglio:
«Ebbene?»
«Mamma, per amor di Dio, non domandatemi nulla, ora. Non sono cose di cui si possa parlare,» rispose Nataša.
Ma, nonostante questo, quella sera Nataša rimase a lungo nel letto della madre, e a tratti appariva sbigottita, con gli occhi incantati, a tratti si lasciava cogliere dall’agitazione. Raccontò alla madre come lui l’avesse elogiata, come le aveva detto che sarebbe andato all’estero, poi le aveva chiesto dove loro avrebbero trascorso la prossima estate, e le aveva chiesto anche di Boris.
«Ma una cosa simile, una cosa simile… non l’avevo mai provata!» soggiunse. «Solo che con lui sono spaventata, ho sempre paura quando sono insieme a lui. Che cosa vorrà dire, questo? Vorrà dire che stavolta è una cosa vera? Mamma, state dormendo?»
«No, tesoro; ma sono spaventata anch’io,» rispose la contessa. «Ora va’!»
«Fa’ lo stesso; tanto non posso dormire. Che stupidaggine dormire! Mamma, mammina, una cosa simile a me non era mai successa!» disse Nataša con un misto di stupore e di spavento, al cospetto del sentimento che provava dentro di sé. «Ma chi avrebbe mai potuto pensarlo!…»
A Nataša sembrava d’essersi innamorata del principe Andrej fin da quando lo aveva visto la prima volta a Otradnoe. Ed ora la spaventava quella strana, inattesa fortuna d’aver incontrato di nuovo colui che aveva scelto fin da allora (di questo lei era fermamente convinta), e di constatare che egli non era affatto indifferente nei suoi confronti.
«E doveva proprio capitare a Pietroburgo, proprio adesso che ci siamo anche noi. E dovevamo incontrarci proprio a quel ballo! Sembra fatto apposta. Ma questo è destino. È chiaro che è destino, che tutto portava a questo. Già allora, appena l’ho visto, ho sentito qualcosa di strano.»
«E cos’altro ti ha detto? Che cosa sono questi versi? Leggi…» disse pensierosa la madre, domandandole dei versi che il principe Andrej aveva scritto nell’album di lei.
«Mamma, non è una cosa sconveniente che lui sia vedovo?»
«Basta, Nataša. Prega Dio. Les mariages se font dans les cieux.»
«Mamma, mammina cara, come vi voglio bene! Come sono contenta!» gridò Nataša, piangendo di felicità e d’emozione ed abbracciando sua madre.
In quello stesso momento il principe Andrej era da Pierre. Gli parlava del suo amore per Nataša e del fermo proposito di sposarla.
Quel giorno in casa della contessa Elena Vasil’evna c’era un raout: erano intervenuti l’ambasciatore francese, un principe che negli ultimi tempi era diventato assiduo frequentatore della casa della contessa, molte signore e numerosi uomini brillanti. Pierre era sceso dal suo appartamento, aveva gironzolato per le sale e stupito tutti gli invitati con la sua aria assorta, distratta e cupa.
Dalla sera del ballo Pierre aveva sentito approssimarsi una delle sue crisi di ipocondria, e con sforzi disperati cercava di combatterla. Da quando il principe era diventato un assiduo frequentatore del salotto di sua moglie, Pierre, in modo affatto inatteso, era stato nominato gentiluomo di corte. Da quel momento aveva cominciato a provare un senso di oppressione e di vergogna quando si trovava nell’alta società, e sempre più spesso avevano cominciato ad assalirlo i tetri pensieri di un tempo sulla vanità d’ogni cosa umana. Nello stesso tempo il sentimento da lui notato fra la sua protetta, Nataša, e il principe Andrej acuiva maggiormente questo suo umore cupo, col contrasto fra la sua posizione e quella del suo amico. Pierre cercava di non pensare né a sua moglie né a Nataša e al principe Andrej. Tutto tornava a sembrargli insignificante al confronto con l’eternità; di nuovo gli si prospettava la domanda: «A che scopo?» E giorno e notte, si costringeva ad occuparsi delle incombenze massoniche, sperando di allontanare così lo spirito maligno. Dopo le undici, mentre, uscito dall’appartamento della contessa, se ne stava nella sua stanza al piano superiore, bassa e piena di fumo e, seduto al tavolo con indosso una logora veste da camera, copiava gli originali di certi atti scozzesi, qualcuno entrò nella camera. Era il principe Andrej.
«Ah, siete voi,» disse Pierre con aria distratta e scontenta. «Io sto lavorando,» disse, indicando il quaderno come fosse stato un rifugio dai guai della vita, che è il modo con cui le persone infelici considerano il proprio lavoro.
Il principe Andrej, raggiante, felice, rinato alla vita, si fermò davanti a Pierre e, senza accorgersi del suo volto malinconico, gli sorrise con l’egoismo della felicità.
«Ebbene, mio caro,» disse, «volevo dirtelo fin da ieri e oggi sono venuto da te apposta per questo. Non mi è mai capitato di provare nulla di simile. Sono innamorato, amico mio.»
Pierre trasse un sospiro profondo e lasciò cadere il suo corpo massiccio sul divano, accanto al principe Andrej.
«Di Nataša Rostova, vero?» disse.
«Sì, sì; e di chi altri, se no? Non avrei mai creduto che potesse accadere, ma questo sentimento è più forte di me. Ieri mi sono tormentato, ho sofferto, ma non avrei dato nemmeno questa sofferenza per nulla al mondo. Prima non vivevo. Solo adesso vivo, ma non posso vivere se non ho lei. Ma è possibile che lei mi ami?… Io per lei sono vecchio… Ma tu perché non dici nulla?»
«Io? Io? Che cosa volete che vi dica,» disse Pierre bruscamente, alzandosi e cominciando a camminare per la stanza. «Io l’avevo sempre pensato… È un tale tesoro, quella ragazza, un tale… È una ragazza rara… Caro amico, vi prego, non vi lambiccate troppo il cervello, non lasciatevi cogliere dai dubbi. Sposatevi… Io sono sicuro che nessuno sarà più felice di voi.»
«Ma lei?»
«Lei vi ama.»
«Non dire assurdità…» disse il principe Andrej sorridendo e guardando Pierre dritto negli occhi.
«Vi ama, io lo so che vi ama,» proruppe Pierre con voce stizzita.
«No, stammi a sentire,» disse il principe Andrej afferrandolo per un braccio, «lo capisci in che posizione mi trovo? Ho bisogno di dire tutto a qualcuno.»
«Ma sì, certo, parlate; mi fa molto piacere che parliate,» disse Pierre; e in effetti il suo viso mutò; le rughe gli si erano spianate ed egli si dispose ad ascoltare con gioia il principe Andrej.
Il principe Andrej sembrava, ed era, una persona del tutto diversa, una persona nuova. Dov’era quella sua espressione tediata, quel suo disprezzo per la vita, quel suo perpetuo scetticismo? Pierre era l’unica persona con la quale egli fosse disposto a confidarsi, e gli si confidava con assoluto abbandono, rivelandogli tutto ciò che sentiva in cuore. Ora, disinvolto e sicuro, faceva progetti per un lungo avvenire; dichiarò che non intendeva sacrificare la propria felicità ai capricci di suo padre, che avrebbe indotto il padre ad acconsentire al matrimonio e a voler bene a lei, oppure avrebbe fatto a meno del suo consenso; e non finiva di stupirsi del sentimento che si era impossessato di lui come qualcosa di strano, di estraneo, di totalmente autonomo dalla sua volontà.
«Non avrei mai creduto a chi mi avesse detto che sarei stato capace di amare così,» disse il principe Andrej. «È un sentimento del tutto diverso da quello che ho provato in altri tempi. Il mondo intero per me è diviso in due metà, adesso: una è lei e lì è riposta tutta la felicità, la speranza, la luce; l’altra metà è tutto il resto; e dove lei non c’è tutto è desolazione e tenebre…»
«Desolazione e tenebre,» ripeté Pierre, «Sì, sì, questo lo capisco.»
«Io non posso non amare la luce, non si può farmene una colpa. E sono tanto felice. Mi comprendi? Io lo so che sei contento per me.»
«Sì, si,» confermò Pierre, guardando l’amico con occhi mesti e commossi. Quanto più luminosa gli appariva la sorte del principe Andrej, tanta più cupa gli sembrava la propria.
XXIII
Per potersi sposare era necessario il consenso di suo padre, e a tale scopo l’indomani il principe Andrej partì per recarsi da lui.
Il vecchio principe accolse quella notizia con apparente tranquillità, ma con intima acrimonia. Non comprendeva che qualcuno potesse desiderare di cambiar vita, di introdurvi qualcosa di nuovo, quando per lui l’esistenza era ormai conclusa. «Mi lascino finir di vivere come mi pare, poi facciano quello che vogliono,» diceva a se stesso il vecchio. Col figlio, tuttavia, egli ricorse alla diplomazia che era solito usare nelle circostanze importanti. Con voce tranquilla prese a esaminare la cosa.
In primo luogo il matrimonio non era brillante né dal punto di vista del parentado né da quello del censo e del casato. In secondo luogo, il principe Andrej non era nella prima gioventù e la sua salute era delicata (il vecchio insistette in modo particolare su questo punto), mentre lei era giovanissima. In terzo luogo, c’era un figlioletto, e preoccupava affidarlo a una ragazzina. «Quarta e ultima cosa,» disse il vecchio, guardando ironicamente suo figlio, «io ti chiedo soltanto di rimandare tutto di un anno; va’ all’estero, curati, cerca, come appunto vuoi fare, un precettore tedesco per il principe Nikolaj; dopo, se davvero l’amore, la passione, il puntiglio, chiamali come ti pare, sono così grandi, sposati pure. E questa è la mia ultima parola, sappilo, l’ultima…» concluse il principe, in un tono che rivelava come nulla l’avrebbe indotto a mutare la sua decisione.
Il principe Andrej comprese perfettamente come il vecchio sperasse che il suo sentimento o quello della sua futura sposa non avrebbero sostenuto la prova di un anno, oppure che lui stesso, il vecchio principe, nel frattempo sarebbe morto; decise così di rispettare la volontà del padre: di fare la richiesta di matrimonio e di rimandare le nozze di un anno.
Tre settimane dopo l’ultima serata trascorsa dai Rostov, il principe Andrej fece ritorno a Pietroburgo.
Il giorno successivo a quella spiegazione con sua madre, Nataša aveva atteso Bolkonskij per tutto il giorno, ma egli non era venuto. Il giorno dopo e quello seguente passarono allo stesso modo. Nemmeno Pierre si faceva vedere e Nataša, non sapendo che il principe Andrej si era recato da suo padre, non sapeva spiegarsi quella sua assenza.
Passarono così tre settimane. Nataša non voleva andare in nessun posto e girava per le stanze come un’ombra, oziosa e accasciata; la sera, di nascosto da tutti, si abbandonava al pianto e non andava nemmeno in camera di sua madre. Arrossiva continuamente e s’irritava per nulla. Le pareva che tutti sapessero della sua delusione, che la compiangessero e ridessero di lei. Data l’intensità del suo intimo dolore, questa ferita del suo amor proprio acuiva la sua infelicità.
Una volta sola andò dalla contessa, per dirle qualcosa, ma all’improvviso scoppiò a piangere. Le sue lacrime erano le lacrime di una bambina offesa, che non sa per quale ragione sia stata castigata.
La contessa prese a consolarla. Nataša, che in principio era stata ad ascoltare le parole di sua madre, a un tratto la interruppe:
«Basta, mamma, io non ci penso neppure, non voglio pensarci! È semplice: prima veniva e ora non viene più, non viene più…»
La sua voce tremò; per poco ella non scoppiò di nuovo a piangere, ma si riprese e continuò con calma:
«E poi io non voglio affatto sposarmi. Lui mi fa paura: adesso mi sono calmata, mi sono calmata del tutto.»
Il giorno dopo questa conversazione Nataša si mise un vecchio vestito che indossava quando si sentiva felice, e cominciò la giornata secondo il sistema di vita che aveva abbandonato dopo il ballo. Dopo aver bevuto il tè andò nella sala che le piaceva più di tutte per la sua forte résonnance e prese a cantare i suoi solfeggi. Terminato il primo esercizio, si fermò nel mezzo della sala e ripeté una frase musicale che le era particolarmente piaciuta. Rimase gioiosamente sospesa, quasi fosse stato del tutto imprevedibile, all’incanto con cui i suoni, fondendosi insieme, riempivano il vuoto della sala e lentamente morivano, e a un tratto si sentì allegra. «Perché pensarci tanto? Anche così è tanto bello!» disse a se stessa, e cominciò a camminare avanti e indietro sul sonoro parquet della sala, non a passi normali, ma passando a ogni passo dal tacco sulla punta (aveva le scarpe nuove preferite) e ascoltando con lo stesso piacere dei suoni della propria voce anche questo battere cadenzato del tacco e lo scricchiolare della punta. Passando davanti allo specchio, vi diede un’occhiata. «Ecco, quella sono io!» pareva dire l’espressione della sua faccia alla vista di se stessa. «E va benissimo così: non ho bisogno di nessuno.»
Un domestico voleva entrare per mettere in ordine qualcosa nel salone, ma lei non glielo permise; chiuse la porta alle sue spalle e continuò la sua passeggiata. Quella mattina stava ritrovando il suo stato d’animo preferito: d’amore e di entusiasmo per se stessa. «Ma che incanto, questa Nataša!» disse di nuovo fra sé con le parole di un’ipotetica terza persona di sesso maschile. «È bella, è giovane, ha una voce deliziosa e non dà fastidio a nessuno: basta solo lasciarla in pace.» Ma, per quanto la lasciassero in pace, non le era più possibile stare tranquilla, e subito ne ebbe la sensazione.
In anticamera era stato aperto il portone d’ingresso e qualcuno domandava: «Sono in casa?» Poi si udirono dei passi. Nataša continuava a guardarsi nello specchio, ma non si vedeva più. Aveva l’orecchio teso a quei rumori in anticamera. Quando tornò a vedersi, il suo viso era pallido. Era lui. Lo sapeva con certezza, sebbene avesse udito appena il suono della sua voce attraverso la porta chiusa.
Pallida e sgomenta corse nel salone.
«Mamma, è venuto Bolkonskij!» disse. «Mamma, è una cosa tremenda, insopportabile! Io non voglio… soffrire! Che cosa devo fare?…»
La contessa non ebbe il tempo di risponderle: il principe Andrej entrò nel salotto col viso serio e preoccupato.
Non appena scorse Nataša, si fece raggiante. Baciò la mano alla contessa e a Nataša, poi sedette accanto a loro sul divano.
«Da un pezzo non abbiamo più avuto il piacere…» incominciò la contessa, ma il principe Andrej la interruppe, rispondendo alla sua domanda e insieme affrettandosi, evidentemente, a dire ciò che aveva bisogno di dire.
«Non sono venuto da voi in tutto questo tempo, perché sono stato da mio padre; dovevo parlare con lui di una cosa molto importante. Sono tornato soltanto questa notte,» disse, dopo aver gettato un’occhiata a Nataša. «Ho bisogno di parlare con voi, contessa,» soggiunse dopo un momento di silenzio.
La contessa trasse un pesante sospiro e abbassò gli occhi.
«Sono a vostra disposizione!» disse.
Nataša sapeva che doveva uscire, ma non poteva farlo; qualcosa le stringeva la gola, ed ella guardava dritto in faccia il principe Andrej, con gli occhi spalancati, in modo del tutto sconveniente.
«Proprio ora? Proprio in questo istante?… No, non può essere!» pensava.
Egli la guardò di nuovo e questo sguardo la convinse che non si era sbagliata. Sì, adesso, in quel momento, si decideva la sua sorte.
«Va’, Nataša, ti chiamerò io,» disse la contessa a bassa voce.
Nataša guardò il principe Andrej e sua madre con occhi sbigottiti, supplichevoli; poi uscì.
«Sono venuto, contessa, a chiedervi la mano di vostra figlia,» disse il principe Andrej.
Il volto della contessa si fece di fiamma, ma ella non disse nulla.
«La vostra richiesta…» cominciò con solenne lentezza (egli taceva, guardandola fisso negli occhi), «la vostra richiesta…» qui lei si confuse, «ci fa piacere e… io accetto la vostra richiesta, ne sono felice. Anche mio marito… spero… ma è da lei che dipenderà tutto.»
«Glielo chiederò io stesso quando avrò avuto il vostro consenso… me lo concedete?» disse il principe Andrej.
«Sì,» disse la contessa, e gli porse la mano; poi, mentre lui si chinava sulla sua mano, con un sentimento misto di distacco e di tenerezza, appoggiò le labbra sulla sua fronte. Avrebbe desiderato volergli bene come a un figlio, ma sentiva che egli era per lei una persona estranea, che le incuteva soggezione.
«Sono certa che mio marito darà il consenso,» disse la contessa, «ma vostro padre…»
«Mio padre, al quale ho comunicato i miei progetti, ha posto come condizione inderogabile del suo consenso che il matrimonio non venga celebrato prima di un anno. Questo, appunto, volevo comunicarvi,» disse il principe Andrej.
«È vero che Nataša è ancora giovane, tuttavia un così lungo periodo…»
«Non è possibile fare altrimenti,» disse con un sospiro il principe Andrej.
«Vi manderò Nataša,» disse la contessa, e uscì dalla stanza.
«Signore, abbi pietà di noi,» pregò, mentre andava in cerca della figlia.
Sonja le disse che Nataša era nella sua camera. Nataša era seduta sul letto, pallida, con gli occhi asciutti; guardava un’immagine e, facendosi dei rapidi segni di croce, mormorava qualcosa. Quando vide sua madre, balzò in piedi e corse verso di lei.
«Allora, mamma?… Allora?»
«Va’, va’ da lui. Ha chiesto la tua mano,» disse la contessa in un tono che a Nataša parve freddo. «Va’… va’…» ripeté ancora la madre con un accento pieno di mestizia e di rimprovero, mentre la figlia correva via, e trasse un sospiro profondo.
Nataša non si ricordò mai come fosse entrata nel salotto. Varcò la soglia e, vedendolo, si fermò. «Possibile che quest’uomo estraneo ora sia diventato tutto per me?» si domandò; e subito rispose a se stessa: «Sì, tutto; ora lui solo mi è più caro di ogni altra cosa al mondo.»
Il principe Andrej le si avvicinò con gli occhi bassi.
«Vi ho amato fin dal primo istante che vi ho vista. Posso sperare?»
La guardò e l’appassionata gravità di quel volto lo colpì. Quel volto diceva: «Perché domandare? Perché dubitare di ciò che non si può non sapere? Perché parlare quando con le parole non si può esprimere ciò che si sente?»
Lei gli si fece accosto, poi si fermò. Il principe Andrej le prese la mano e vi depose un bacio.
«Mi amate?»
«Sì, sì,» rispose Nataša quasi con stizza. Trasse un sospiro profondo, poi un secondo ed un terzo, sempre più spesso, e alla fine scoppiò in singhiozzi.
«Perché piangete? Che cosa avete?»
«Ah, sono così felice» rispose lei sorridendo fra le lacrime; poi si fece ancor più vicina, piegandosi verso di lui, meditò un secondo come per domandarsi se lo potesse fare, poi gli diede un bacio.
Il principe Andrej le teneva le mani, la guardava negli occhi e non trovava più nel profondo della sua anima l’amore per lei che aveva sentito fino allora. Nella sua anima subitamente era avvenuto un rivolgimento: al poetico e misterioso incanto del desiderio era subentrata la pietà per la sua debolezza di donna e di bambina, la paura al cospetto della sua dedizione e della sua fiducia, la coscienza grave e al tempo stesso lieta del dovere che lo legava eternamente a lei. Il sentimento che ora provava, anche se non era più luminoso e poetico come prima, era tuttavia più serio e più intenso.
«Ve lo ha detto, maman, che deve passare ancora un anno?» chiese il principe Andrej, continuando a fissarla negli occhi.
«Possibile che proprio io, quella fanciulla, (tutti mi chiamavano così),» pensava Nataša, «possibile che da questo momento io sia la moglie, l’eguale di quest’uomo quasi sconosciuto ma così caro, così intelligente, stimato perfino da mio padre? Possibile che tutto questo sia vero? Possibile che sia vero che ormai non si può più scherzare con la vita, che io ormai sono grande, che adesso mi assumo una responsabilità precisa per ogni mio atto, per ogni mia parola? Ma che cosa mi ha domandato?»
«No,» rispose; ma non aveva capito ciò che lui le aveva domandato.
«Perdonatemi,» disse il principe Andrej, «ma voi siete così giovane mentre io ho già tanta esperienza della vita. Ho paura per voi. Voi non conoscete ancora voi stessa.»
Nataša ascoltava tesa, concentrata, sforzandosi di capire il senso delle sue parole; ma non capiva.
«Per quanto gravoso possa sembrarmi quest’anno che rinvia e ritarda la mia felicità,» continuò il principe Andrej, «in questo termine di tempo voi avrete modo di valutare i vostri sentimenti. Fra un anno vi chiederò di fare la mia felicità, ma voi ora restate libera: il nostro fidanzamento resterà un segreto e, se voi vi convinceste di non amarmi o, invece, di amarmi…» disse il principe Andrej con un sorriso forzato.
«Perché dite questo?» lo interruppe Nataša. «Lo sapete che vi ho amato fin dal giorno che veniste la prima volta a Otradnoe,» soggiunse, fermamente persuasa di dire ciò che pensava.
«In un anno vi conoscerete meglio…»
«Un anno intero!» esclamò all’improvviso Nataša, comprendendo solo a questo punto che le nozze erano rimandate di un anno. «Ma perché mai un anno? Perché?»
Il principe Andrej prese a spiegarle i motivi di quel rinvio. Nataša non lo ascoltava.
«E non è possibile fare altrimenti?» domandò.
Il principe Andrej non rispose, ma il suo viso espresse l’impossibilità di mutare questa decisione.
«È orribile! Sì, questo è orribile, orribile!» proruppe Nataša, e di nuovo scoppiò in singhiozzi. «Io morirò, ad aspettare un anno: non è possibile, è spaventoso.» Gettò uno sguardo al viso del suo fidanzato e vi colse una espressione di pietà e di indecisione. «No, no, farò qualunque cosa,» disse, smettendo improvvisamente di piangere, «sono così felice!»
Il padre e la madre entrarono nella stanza e benedirono il fidanzato e la fidanzata.
Da quel giorno il principe Andrej cominciò ad andare in casa Rostov come fidanzato.
XXIV
Non ci fu alcuna cerimonia di fidanzamento ufficiale, e a nessuno venne data notizia dell’avvenuta promessa di matrimonio fra Bolkonskij e Nataša: su questo punto il principe Andrej aveva insistito. Aveva detto che, essendo lui stesso la causa del rinvio, a lui toccava portarne tutto il peso. E aveva aggiunto che con la sua parola si era legato per sempre, ma non voleva legare Nataša e le lasciava piena libertà. Se fra sei mesi lei avesse sentito di non amarlo, avrebbe avuto tutto il diritto di dirgli di no. S’intende che né i genitori, né Nataša volevano sentir ventilare una simile ipotesi, ma il principe Andrej fu irremovibile. Egli andava ogni giorno dai Rostov, ma non trattava Nataša da fidanzato: le dava del «voi» e le baciava soltanto la mano. Dopo il giorno della domanda di matrimonio, fra il principe Andrej e Nataša si erano stabiliti rapporti semplici, affettuosi, del tutto diversi da prima. Era come se prima non si fossero conosciuti. E tutti e due amavano ricordare come si guardassero a vicenda quando ancora erano niente l’uno per l’altro; adesso si sentivano due esseri completamente diversi: allora erano innaturali, adesso erano semplici e sinceri. All’inizio in famiglia si avvertì un certo imbarazzo, in presenza del principe Andrej; egli dava l’impressione di essere una persona appartenente a un altro mondo, e Nataša impiegò qualche tempo a render più familiari i rapporti fra lui e le persone di casa, fiera di assicurare a tutti che egli, se dava l’impressione di essere così diverso, in realtà era come tutti gli altri, che lei non ne aveva affatto soggezione e che quindi nessuno doveva aver soggezione di lui. Dopo un po’ di giorni in famiglia tutti si abituarono alla sua presenza e, anche al suo cospetto, ripresero il loro abituale modo di vivere, senza vergognarsi. Lui stesso, d’altronde, vi prendeva parte. Sapeva parlare di problemi amministrativi col conte, di toilettes con la contessa e con Nataša, di album e di ricami con Sonja. A volte, fra loro ma anche in presenza del principe Andrej, i Rostov si stupivano di come tutto fosse avvenuto e di come i presagi ne fossero stati evidenti: la visita del principe Andrej a Otradnoe, il loro arrivo a Pietroburgo, la somiglianza fra Nataša e il principe Andrej, che la njanja aveva notato durante la prima visita del principe, lo scontro nel 1805 fra Andrej e Nikolaj, e molti altri sintomi di quanto poi era accaduto vennero osservati e commentati dai familiari.
Nella casa regnavano quella poetica noia e quel silenzio che accompagnano sempre la presenza di un fidanzato e di una fidanzata. Spesso, quando erano tutti insieme, tacevano. A volte si alzavano e se ne andavano, e i due fidanzati, pur restando soli, continuavano egualmente a tacere. Di rado accadeva che parlassero della loro futura esistenza. Il principe Andrej provava, a parlarne, un senso di timore e di vergogna. Nataša condivideva questo sentimento, come tutti i sentimenti di lui, che intuiva sempre. Una volta Nataša si mise a fargli domande sul figlio. Il principe Andrej arrossì, cosa che adesso gli accadeva di rado e invece a Nataša piaceva in modo particolare, e disse che suo figlio non sarebbe vissuto insieme a loro.
«Perché?» domandò Nataša, sbigottita.
«Non posso toglierlo al nonno, e poi…»
«Come gli avrei voluto bene!» esclamò Nataša, indovinando subito il suo pensiero. «Ma lo so, voi volete che non esistano pretesti per accusare me e voi.»
Talvolta il vecchio conte si avvicinava al principe Andrej, lo baciava, gli domandava consigli a proposito dell’educazione di Petja o della carriera di Nikolaj. La vecchia contessa, guardandoli, sospirava, Sonja temeva sempre di essere di troppo e si sforzava di trovare dei pretesti per lasciarli soli anche quando loro non ne avevano motivo. Quando il principe Andrej parlava (ed egli sapeva raccontare molto bene), Nataša lo ascoltava con orgoglio; quando parlava lei, a volte si accorgeva con una sorta di gioioso timore che lui la guardava attento, indagatore. Allora si domandava, perplessa:
«Che cosa cerca in me? Dove vuole arrivare col suo sguardo? E se in me non ci fosse ciò che lui cerca col suo sguardo?» A volte la prendeva quella pazza allegria che era una sua peculiarità, e allora le piaceva soprattutto ascoltare e guardare come rideva il principe Andrej. Egli rideva di rado, ma in compenso, quando gli accadeva di ridere, si abbandonava tutto alla propria ilarità, e ogni volta, dopo quelle risate, Nataša si sentiva più vicina a lui. Ella sarebbe stata pienamente felice se non l’avesse turbata il pensiero dell’imminente separazione, che si andava avvicinando sempre più.
La vigilia della sua partenza da Pietroburgo il principe Andrej portò con sé Pierre, che dall’epoca del ballo non si era più fatto vedere dai Rostov. Pierre appariva sconcertato e confuso. Si mise a discorrere con la contessa. Nataša sedette con Sonja al tavolino degli scacchi, invitando tacitamente il principe Andrej, a unirsi a loro. Egli si avvicinò.
«Conoscete da molto tempo Bezuchov?» le domandò. «Gli volete bene?»
«Sì, è un uomo eccellente; e così buffo!»
E, come sempre quando parlava di Pierre, Nataša si mise a raccontare buffi aneddoti sulla sua distrazione, storielle che magari erano state del tutto inventate.
«Sapete, io gli ho confidato il nostro segreto,» disse il principe Andrej. «Lo conosco dall’infanzia. È un cuore d’oro. Vi prego, Nathalie,» aggiunse a un tratto con voce seria, «io parto, Dio sa che cosa può accadere. Voi potete disamor… Sì, lo so che non dovrei parlare di questo. Ma voglio dirvi una cosa sola: qualsiasi cosa vi accada quando io non ci sarò…»
«Che cosa dovrebbe accadere?»
«Qualunque cosa sgradevole dovesse accadere,» proseguì il principe Andrej, «io vi prego, M.lle Sophie, qualunque cosa accada, rivolgetevi soltanto a lui per consiglio e per aiuto. È l’uomo più distratto e buffo del mondo, ma è il cuore più grande che si possa trovare.»
Né il padre, né la madre, né Sonja, né lo stesso principe Andrej potevano prevedere quale reazione avrebbe suscitato in Nataša il distacco dal suo fidanzato. Rossa e sconvolta, ma con gli occhi asciutti, quel giorno ella gironzolò per la casa, occupandosi delle cose più insignificanti, come incapace di comprendere ciò che l’attendeva. Non pianse nemmeno nel momento in cui, prendendo congedo, egli le baciò la mano per l’ultima volta.
«Non partite!» disse soltanto, con una voce che indusse il principe Andrej a riflettere se non dovesse restare davvero, e che poi egli ricordò per molto tempo. Non pianse nemmeno quando egli era ormai partito; ma per vari giorni rimase nella sua stanza, senza piangere, senza interessarsi di nulla e semplicemente qualche volta dicendo:
«Ah, perché se n’è andato?»
Ma due settimane dopo la partenza del principe Andrej, in modo altrettanto inatteso per chi le stava intorno, Nataša si scosse da questa sua malattia morale, tornò quella di sempre, sebbene con una mutata fisionomia morale: come i bambini, dopo una lunga malattia, si alzano dal letto con un altro viso.
XXV
La salute e il carattere del principe Nikolaj Andreevič Bolkonskij erano molto declinati, in quell’ultimo anno, dopo la partenza del figlio. Il vecchio principe era diventato ancora più irascibile e le sue escandescenze peraltro immotivate si scaricavano sulla principessina Mar’ja. Sembrava che cercasse con cura particolare tutti i punti deboli di sua figlia per poterla sottoporre a torture morali, e nel modo più crudele possibile. La principessina Mar’ja aveva due passioni, e perciò due gioie: il nipotino Nikoluška e la religione; sicché l’uno e l’altra erano gli argomenti preferiti degli attacchi e dei sarcasmi di suo padre. Di qualunque cosa si parlasse, egli portava il discorso sulla superstizione delle vecchie zitelle o sulla mania di viziare e di guastare i bambini. «Di lui (Nikoluška) vorresti fare una vecchia zitella come te; ma ti sbagli: il principe Andrej ha bisogno di un figlio, non di una femminuccia,» diceva. Oppure si rivolgeva a M.lle Bourienne, e in presenza della principessina Mar’ja le domandava se le piacevano i nostri popi e le icone russe, e ci scherzava sopra…
Senza posa egli offendeva così, e nel modo più esulcerante, la principessina Mar’ja ma ella non aveva neppure bisogno di fare sforzi su di sé per perdonargli. Forse che lui poteva essere in colpa, nei suoi confronti? Poteva, lui che era suo padre e che, lei lo sapeva, le voleva bene, essere ingiusto? E che cos’era poi la giustizia? La principessina non aveva mai meditato su questa parola pretenziosa: «Giustizia». Tutte le complicate leggi dell’umanità si sommavano per lei in una sola legge, semplice e chiara: quella dell’amore e dell’abnegazione trasmessaci da Colui che con amore aveva sofferto per l’umanità, pur essendo Dio. Che importava a lei della giustizia o dell’ingiustizia altrui? Lei doveva soffrire ed amare, e questo, appunto, faceva.
Durante l’inverno il principe Andrej arrivò a Lysye Gory. Era allegro, dolce e affettuoso come da tempo la principessina Mar’ja non lo aveva più visto. Ella presentì che qualcosa di nuovo doveva essergli accaduto, ma egli non disse nulla del suo amore. Prima di partire conversò a lungo di qualcosa con suo padre e la principessina Mar’ja si accorse che, al momento della partenza, erano irritati l’uno verso l’altro.
Poco dopo la partenza del principe Andrej la principessina Mar’ja scrisse da Lysye Gory a Pietroburgo alla sua amica Julie Karagina, che lei sognava, come sempre sognano le ragazze, di maritare a suo fratello e che in quel periodo era in lutto in seguito alla morte di suo fratello ucciso in Turchia.
«È chiaro che le afflizioni sono la nostra sorte comune, cara e dolce amica Julie.
La vostra perdita è così terribile che io non me la posso spiegare altrimenti se non come una grazia speciale di Dio, il quale, nel Suo amore per voi, vuole mettere alla prova voi e la vostra meravigliosa mamma. Ah, cara amica, soltanto la religione può, non dico consolarci, ma sottrarci alla disperazione; soltanto la religione può spiegarci ciò che, senza il suo aiuto, l’uomo non può comprendere: per quale scopo, per quale ragione creature elevate, capaci di trovare la felicità in questa vita e non solo non fanno del male a nessuno, ma sono indispensabili alla felicità altrui, vengano chiamate a Dio, mentre continuano a vivere i malvagi, gli spietati, i nocivi, oppure coloro che sono di peso a se stessi e agli altri. La prima morte alla quale io abbia assistito e che non dimenticherò mai, la morte della mia cara cognata, ha suscitato in me quest’impressione. Come voi domandate al destino perché mai dovesse morire il vostro caro fratello, così io domandavo perché dovesse morire Liza, quell’angelo che non soltanto non aveva mai fatto del male a persona alcuna, ma non aveva mai nutrito in cuor suo altro che pensieri benevoli. Ebbene, cara amica, da quel giorno sono trascorsi cinque anni, ed io con la mia debole mente comincio tuttavia a comprendere perché ella dovesse morire, e in qual modo questa morte sia stata la semplice espressione dell’infinita misericordia del Creatore, le cui opere, sebbene a noi non sia quasi mai concesso di comprenderle, non sono altro che la manifestazione dell’infinito amore che Lui porta alla Sua creazione. Mi accade spesso di pensare che lei fosse innocente, di un’innocenza troppo angelica per aver la forza di sopportare tutti i suoi doveri di madre. Adesso non soltanto ella ha lasciato in noi tutti, e soprattutto nel principe Andrej, il rimpianto e il ricordo più puro, ma lassù sono certa che starà godendo quel posto che io non oso sperare per me. Ma, per non parlare soltanto di lei, questa morte terribile e prematura ha avuto, malgrado tanto cordoglio, il più benefico influsso su di me e su mio fratello. Allora, nel momento della perdita, questi pensieri non potevano venirmi in mente; allora li avrei respinti con spavento. Adesso, invece, tutto ciò mi appare chiaro e fuori d’ogni dubbio. Scrivo questo a voi, cara amica, solo per meglio persuadervi della verità evangelica, che per me è diventata una regola di vita: non un capello cade dal capo senza il Suo volere; e il Suo volere è guidato dall’unico e sconfinato amore per noi, sicché tutto ciò che ci accade è per il nostro bene. Mi domandate se passeremo il prossimo inverno a Mosca. Nonostante il grande desiderio che ho di vedervi, non lo credo e nemmeno lo desidero. E voi vi stupirete di apprendere che la causa di tutto questo è Buonaparte. Ed ecco perché: la salute di mio padre va sensibilmente deteriorandosi; egli non può sopportare che lo si contraddica e diventa sempre più irritabile. Questa irascibilità, come voi sapete, è rivolta in prevalenza agli avvenimenti politici. Egli non può sopportare l’idea che Buonaparte tratti da eguale con tutti i sovrani d’Europa e, in particolare, col nostro, il nipote della grande Caterina! Come sapete, io sono del tutto indifferente ai problemi della politica, ma, dalle parole di mio padre e dalle sue conversazioni con Michail Ivanovič, apprendo tutto ciò che accade nel mondo e, in particolare, so di tutti gli onori tributati a Buonaparte, il quale, stando almeno alle apparenze, solo a Lysye Gory e in nessun altro luogo del globo terrestre non è riconosciuto come un grand’uomo, né, ancor meno, come l’imperatore di Francia. Mio padre, invece, non può tollerare tutto questo. Mi sembra che, soprattutto a causa delle sue opinioni politiche e in previsione degli scontri ai quali andrebbe incontro per la sua maniera di esprimere queste opinioni senza riguardo per nessuno, egli consideri malvolentieri un viaggio a Mosca. Tutti i vantaggi che trae dalle cure che fa, vanno poi dispersi a causa delle inevitabili discussioni su Buonaparte. La nostra vita familiare procede come al solito, a parte la visita di mio fratello Andrej. Come già vi ho scritto, negli ultimi tempi egli è molto cambiato. Dal tempo della sua disgrazia soltanto ora, nel corso di quest’anno, ha cominciato veramente a rivivere. È tornato quello che conoscevo da bambino: buono, affettuoso, con quel cuor d’oro di cui non conosco l’eguale. Ha capito, o almeno così mi sembra, che la vita per lui non è finita.
Tuttavia, in concomitanza con questo mutamento morale, fisicamente s’è indebolito assai. È diventato più magro, più nervoso. Temo per lui e sono contenta che abbia intrapreso questo viaggio all’estero che già da tempo i dottori gli consigliavano. Spero che questo varrà a rimetterlo in salute. Voi mi scrivete che a Pietroburgo parlano di lui come uno dei giovani più attivi, più colti e intelligenti. Perdonate l’amor proprio dovuto alla parentela, ma io non ne avevo mai dubitato. Non si può contare il bene che egli, qui, ha fatto a tutti, dai nobili ai contadini. Arrivando a Pietroburgo, ha avuto soltanto quello che gli spettava. Mi stupisco in generale di tutte queste voci che arrivano da Pietroburgo a Mosca, e, in particolare, di voci così false come quella di cui voi mi scrivete; e cioè di una presunta possibilità di matrimonio fra mio fratello e la piccola Rostova. Non credo che Andrej si sposerà mai più con nessuna, e meno di tutte con lei. Ed ecco perché: in primo luogo so che, sebbene egli parli di rado della defunta moglie, l’afflizione per questa perdita si è radicata troppo profondamente nel suo cuore perché egli possa mai decidersi di passare la successione a un’altra donna e di dare una matrigna al nostro piccolo angelo. In secondo luogo perché, per quanto io ne so, questa ragazza non è il tipo di donna che può piacere al principe Andrej. Non credo che il principe Andrej l’abbia scelta come sua moglie e sinceramente vi dirò che io non lo desidero. Ma mi sono lasciata andare alle chiacchiere, sto terminando il secondo foglio. Addio, mia cara amica, Iddio vi conservi sotto la Sua santa e possente protezione. La mia cara amica, M.lle Bourienne, vi manda un bacio.
Marie»
XXVI
A metà dell’estate la principessina Mar’ja ricevette, dalla Svizzera, una lettera inaspettata del principe Andrej, in cui egli le comunicava una strana e inattesa notizia. Il principe Andrej le annunciava il suo fidanzamento con Nataša Rostova. La lettera era tutta pervasa d’amoroso entusiasmo per la sua fidanzata e di tenera amicizia e fiducia verso la sorella. Scriveva che non aveva mai amato come amava adesso e che soltanto ora aveva compreso e conosciuto la vita; chiedeva alla sorella di perdonarlo se durante la sua visita a Lysye Gory non le aveva fatto parola di questa decisione, pur avendone parlato con suo padre. Non glielo aveva detto perché ella avrebbe cominciato a pregare il padre di dare il suo consenso e, senza raggiungere lo scopo, avrebbe fatto irritare il vecchio principe contro di sé, subendo di conseguenza tutto il peso del suo malcontento. Del resto, egli scriveva, allora la cosa non era ancora del tutto decisa come adesso. «Allora nostro padre mi fissò il termine di un anno ed ecco che già sei mesi sono trascorsi, ed io sono più che mai fermo nella mia decisione. Se i dottori non mi trattenessero qui alle acque, sarei in Russia, ma ora debbo rinviare il mio ritorno di altri tre mesi. Tu mi conosci e conosci i miei rapporti con nostro padre. Da parte sua io non ho bisogno di nulla, sono sempre stato e sarò indipendente; ma fare qualcosa in contrasto con la sua volontà, meritarmi la sua collera quando forse gli resta così poco da vivere con noi, distruggerebbe la metà della mia gioia. Adesso gli scriverò una lettera su questo stesso argomento; anzi, ti prego di trasmettergli questa lettera scegliendo il momento adatto e di farmi sapere come egli consideri tutto questo e se vi sia una speranza che acconsenta ad abbreviare il termine di tre mesi.»
Dopo lunghe esitazioni, dopo molti dubbi e molte preghiere la principessina Mar’ja consegnò la lettera al padre. Il giorno dopo il vecchio principe le disse con tutta calma:
«Scrivi a tuo fratello di aspettare che io muoia… Non manca molto, presto vi lascerò liberi…»
La principessina avrebbe voluto replicare qualcosa, ma il padre non glielo permise e prese ad alzare sempre più la voce.
«Sposati, sposati pure, caro mio… Bella parentela!… Sono persone così intelligenti, così ricche! Sì, sì, una bella matrigna per Nikoluška. Lei farà da matrigna a Nikoluška e io mi sposerò la Bourienne!… Ah, ah, ah, così anche lui avrà una matrigna! Voglio solo una cosa: nella mia casa non c’è posto per altre donne; si sposi pure, se vuole, ma vada a vivere per conto suo. O forse hai intenzione anche tu di trasferirti da lui?» domandò alla principessina Mar’ja. «Ebbene, va’ con Dio, e buona fortuna!»
Dopo questa sfuriata il vecchio principe non tornò mai più sull’argomento; ma l’irritazione trattenuta nei confronti della debolezza del figlio si manifestava nei rapporti con la figlia. Ai vecchi pretesti per fare del sarcasmo, ora se n’era aggiunto uno nuovo: il discorso sulla matrigna e le cortesie a M.lle Bourienne.
«E perché non dovrei sposarmela?» diceva alla figlia. «Sarebbe una magnifica principessa!»
E, in effetti, con suo grande sconcerto e meraviglia, negli ultimi tempi la principessina Mar’ja cominciò ad accorgersi che suo padre cominciava a dare sempre maggiore confidenza alla francese. La principessina Mar’ja scrisse al principe Andrej riferendogli come il padre avesse reagito alla sua lettera, ma confortò il fratello dandogli la speranza di conciliare il padre con quel pensiero.
André, la religione, Nikoluška e la sua educazione, erano i motivi di conforto della principessina Mar’ja; ma, oltre a questo, siccome ad ogni persona è necessario coltivare le proprie personali speranze, la principessina Mar’ja nel più profondo segreto della sua anima aveva un sogno, coltivava una speranza nascosta che le dava il principale conforto della sua vita. Questa speranza consolatrice le veniva dai «servi di Dio»: dagli jurodivye e dai pellegrini che le facevano visita di nascosto dal principe. Quanto più la principessina Mar’ja viveva, quanto più acquistava esperienze della vita e meditava sulla vita stessa, tanto più la stupiva la miopia delle persone che cercano sulla terra i piaceri e la felicità, che si affaticano, che soffrono, che lottano e si fanno del male per raggiungere questa felicità impossibile, illusoria e peccaminosa. «Il principe Andrej aveva amato sua moglie: lei è morta, e questo a lui non è bastato, vuole legare la sua felicità a un’altra donna. Mio padre non vuole, perché desidera per Andrej un matrimonio più illustre e più facoltoso. E tutti loro lottano, soffrono, si tormentano e rovinano la loro anima, la loro anima eterna, per raggiungere dei beni che durano solo un istante fuggevole. E non solo noi stessi sappiamo questo, ma Cristo, il figlio di Dio, è disceso sulla terra e ci ha detto che questa vita è la vita di un momento, una prova, e invece noi tutti ci attacchiamo a essa e pensiamo di trovarvi la felicità. Come mai nessuno ha capito tutto questo?» pensava la principessina Mar’ja, «nessuno, tranne questi disprezzati “servi di Dio”, che vengono da me con la bisaccia sulle spalle passando dall’ingresso di servizio, terrorizzata di finire sotto gli occhi del principe, ma questo non per il timore di subire un torto da parte sua, bensì per non indurlo in peccato. Lasciare la famiglia, i luoghi nativi, tutte le preoccupazioni per i beni del mondo, allo scopo di andare di luogo in luogo, distaccati da tutto, vestiti di cenci, con un altro nome, senza fare male a nessuno e pregando sia per quelli che li perseguitano, sia per quelli che li proteggono: davvero, una verità e una vita come questa sono la verità e la vita più alte che ci siano!»
C’era una di quelle pellegrine, Fedos’juška, una donna sui cinquant’anni, piccola, quieta, col viso butterato, che da più di trent’anni ormai andava in giro scalza e con un cilicio addosso. La principessina Mar’ja le era affezionata in modo speciale. Una volta, mentre nella stanza buia, alla luce di un solo lume, Fedos’juška le raccontava la sua vita, alla principessina Mar’ja a un tratto venne con tanta forza il pensiero che forse soltanto costei avesse trovato la giusta strada della vita, che fu quasi sul punto di seguirla e diventare anch’ella una pellegrina. Quando Fedos’juška andò a dormire, la principessina Mar’ja rifletté a lungo su questo, e alla fine decise che - per quanto strano potesse sembrare - lei doveva mettersi a fare la pellegrina. Confidò questa sua intenzione soltanto al suo confessore, che era un monaco, padre Akinfij, e questi approvò il suo proposito. Col pretesto di fare un dono ai pellegrini, preparò un abito completo da pellegrina: una camicia, un paio di lapti, un caffettano e un fazzoletto nero. Spesso, avvicinandosi a quel cassettone segreto, ella si fermava indecisa, pensando se non fosse venuto il momento di mettere in esecuzione il suo proposito.
Talvolta, ascoltando i racconti delle pellegrine, rimaneva sconvolta da questi discorsi che per loro erano un fatto meccanico e per lei invece pieni d’un profondo significato, tanto che varie volte fu sul punto di abbandonare tutto e di fuggire di casa. Nella sua immaginazione già si vedeva camminare, vestita di ruvidi cenci, insieme a Fedos’juška lungo una strada polverosa, con il bastone e la bisaccia, dirigendo il proprio cammino da un santuario all’altro, scevra da invidie e da umane passioni, senza nutrire alcun desiderio, fino all’ultima meta, dove non vi sono dolori né rimorsi, ma soltanto gioia e beatitudine eterna.
«Arriverò in un posto, pregherò; non farò in tempo ad abituarmi, ad amare, che già proseguirò oltre. E continuerò ad andare finché le gambe non cederanno. Allora giacerò per terra e morirò non importa dove, e finalmente giungerò a quell’eterno, placido porto dove non c’è dolore né rimorso!…» ripeteva a se stessa la principessina Mar’ja.
Ma poi, alla vista del padre, e soprattutto del piccolo Koko, i suoi propositi perdevano ogni forza; ella piangeva in silenzio e sentiva di essere una peccatrice: al padre e al nipotino voleva più bene che a Dio.