PARTE PRIMA
I
Erano passati sette anni. Il mare sconvolto della storia d’Europa era rientrato nelle sue rive. Pareva acquietato, ma le forze misteriose che muovono l’umanità (misteriose perché le leggi che ne regolano il movimento ci sono ignote) continuavano ad operare.
Benché la superficie del mare della storia sembrasse immobile, il moto dell’umanità continuava ininterrottamente allo stesso modo del movimento del tempo. Si componevano, si scomponevano vari gruppi di collegamenti umani; si andavano preparando le cause della formazione e della disgregazione degli stati, degli spostamenti dei popoli.
Il mare della storia non si avventava più con impeto da una sponda all’altra, ma ribolliva in profondità. I personaggi storici non venivano più come prima portati dalle onde da una riva all’altra; ora sembravano roteare su se stessi sempre in uno stesso punto. I personaggi storici che prima, alla testa degli eserciti, rispecchiavano i movimenti delle masse attraverso ordini di guerra, di avanzate, di battaglie, ora rispecchiavano quel movimento profondo nelle considerazioni politiche e diplomatiche, nelle leggi, nei trattati…
Questa attività dei personaggi storici viene chiamata dagli storici «reazione».
Descrivendo l’attività di quei personaggi storici che, a loro avviso, furono la causa di ciò che essi chiamano «reazione», gli storici li giudicano severamente. Tutti gli uomini famosi di quel tempo, da Alessandro e da Napoleone fino a Madame de Staël, a Fozio, a Schelling, a Fichte, Chateaubriand ecc., sfilano davanti al loro severo tribunale e vengono assolti o condannati a seconda che abbiano contribuito al progresso o alla «reazione».
Anche in Russia, stando alle loro descrizioni, in quel periodo di tempo imperversò la reazione, e il principale responsabile di questa reazione fu Alessandro I, quello stesso Alessandro I che, sempre secondo le loro descrizioni, fu il principale promotore delle iniziative liberali del suo regno e della salvezza della Russia.
Nella letteratura russa contemporanea non c’è persona, dallo studente ginnasiale allo storico erudito, che non abbia scagliato la sua pietruzza contro Alessandro per gli errori commessi in quel periodo del suo regno.
«Avrebbe dovuto agire così e così. Nella tal occasione agì bene, nella talaltra male. Si è comportato in modo eccellente agli inizi del regno e durante il 1812, ma ha agito male dando la Costituzione alla Polonia, fondando la Santa Alleanza, affidando il potere ad Arakčeev, incoraggiando prima Golicyn e il misticismo, poi Šiškov e Fozio. Ha fatto male ad occuparsi della direzione dell’esercito; ha fatto male a sciogliere il reggimento Semënovskij, ecc.
Sarebbero necessari dieci fogli per enumerare tutti i rimproveri che gli muovono gli storici sulla base di quella conoscenza del bene dell’umanità che essi possiedono.
Che senso hanno questi rimproveri?
Quelle stesse azioni per le quali gli storici approvano Alessandro I, e cioè: le riforme del suo regno, la lotta contro Napoleone, la fermezza dimostrata nel 1812 e la campagna del 1813, non scaturiscono forse dalle stesse fonti - condizioni di sangue, di educazione, di vita, che formarono la personalità di Alessandro - dalle quali scaturirono anche quelle azioni per le quali gli storici lo biasimano, e cioè la Santa Alleanza, la restaurazione della Polonia, la reazione degli anni venti?
In che cosa consiste la sostanza di questi rimproveri?
Consiste nel fatto che un personaggio storico come Alessandro I, che stava su una delle vette del potere umano, quasi nel punto focale di tutti i raggi storici concentrati su di lui; un personaggio soggetto alle influenze più forti nel mondo, le influenze degli intrighi, degli inganni, dell’adulazione, dell’autosuggestione, che sono inseparabili dal potere; un personaggio che in ogni momento della sua vita sentiva gravare su di sé la responsabilità di tutto ciò che accadeva in Europa, un personaggio non inventato, ma vivente, e come ogni altro uomo con sue abitudini personali, passioni, aspirazioni al bene, alla bellezza, alla verità, - che questo personaggio cinquant’anni fa, senza non essere virtuoso (di questo gli storici non lo accusano), non avrebbe avuto circa il bene dell’umanità le stesse concezioni che ha oggi un professore che si è occupato fin da giovane di scienza, ossia della lettura di libri, di lezioni e di prendere appunti in un suo quaderno di questi libri e di queste lezioni.
Ma se anche si ammette che Alessandro I cinquant’anni fa si è sbagliato su ciò che è il bene del popolo, allo stesso modo si deve necessariamente ammettere che anche lo storico, che giudica Alessandro, dopo un certo periodo di tempo si rivelerà in errore nella sua concezione di ciò che è il bene dell’umanità. È una supposizione tanto più naturale e necessaria in quanto, considerando lo sviluppo della storia, noi vediamo che di anno in anno e da uno scrittore all’altro si modifica la concezione di ciò che è bene per l’umanità; per cui ciò che sembrava un bene, dopo cinquant’anni si rivela un male e viceversa. E non solo; noi troviamo contemporaneamente nella storia opinioni assolutamente opposte su ciò che è stato un male e ciò che è stato un bene: gli uni ascrivono a merito di Alessandro la Costituzione data alla Polonia e la Santa Alleanza, altri invece a demerito.
Dell’attività di Alessandro e di Napoleone non si può dire se sia stata utile o dannosa, giacché noi non possiamo dire in rapporto a che cosa sia stata utile o dannosa. Se questa attività dispiace a qualcuno, ciò deriva solo dal fatto che non coincide con la sua limitata concezione di quel che sia il bene. Che a me appaia come un bene la conservazione della casa di mio padre nel 1812 a Mosca, o la gloria dell’esercito russo o il fiorire dell’università di Pietroburgo o di altre università, o la libertà della Polonia, o la potenza della Russia, o l’equilibrio europeo, o un certo tipo di civiltà e progresso europei, devo tuttavia riconoscere che le azioni di ogni personaggio storico, oltre a questi scopi, ne hanno anche altri più generali e per me inaccessibili.
Ma supponiamo che la cosiddetta scienza abbia la capacità di conciliare tutte le contraddizioni e abbia per gli avvenimenti e i personaggi storici una misura immutabile del bene e del male.
Supponiamo che Alessandro avesse potuto agire in modo completamente diverso. Supponiamo che, secondo le affermazioni di coloro che lo accusano, di coloro che professano di conoscere il fine ultimo verso cui muove il genere umano, avesse potuto dare disposizioni secondo quel programma di nazionalità, di libertà, di uguaglianza e di progresso (un altro programma, a quanto pare, non c’è) che gli avrebbero proposto gli attuali accusatori. Supponiamo che questo programma fosse possibile e attuabile e che Alessandro avesse agito in base ad esso. Che cosa ne sarebbe stato allora dell’attività di tutte quelle persone che si opponevano all’indirizzo del governo di allora, di quell’attività che, secondo l’opinione degli storici, è stata buona e utile? Questa attività non sarebbe esistita; non ci sarebbe stata vita; non ci sarebbe stato nulla.
Se si ammette che la vita umana possa essere guidata dalla ragione, si distrugge la possibilità stessa della vita.
II
Se si ammette, come fanno gli storici, che i grandi uomini conducono l’umanità al raggiungimento di determinati fini - la grandezza della Russia o della Francia, o l’equilibrio dell’Europa, o la diffusione delle idee della rivoluzione, o il progresso generale o qualsiasi altra cosa - è impossibile spiegare i fenomeni storici senza i concetti di caso e di genio.
Se si suppone che lo scopo delle guerre europee dell’inizio del XIX secolo era la grandezza della Russia, questo scopo avrebbe potuto essere raggiunto senza l’invasione di Napoleone e senza alcuna delle guerre che la precedettero. Se lo scopo era la grandezza della Francia, avrebbe potuto essere raggiunto anche senza la rivoluzione e senza l’impero. Se lo scopo era la diffusione delle idee, la stampa lo avrebbe conseguito assai meglio dei soldati. Se era il progresso della civiltà, è assai facile supporre che oltre all’annientamento degli esseri umani e delle loro ricchezze, vi fossero altre vie più idonee per diffondere la civiltà.
Perché dunque le cose andarono a quel modo e non altrimenti? Perché andarono appunto a quel modo.
«Il caso provocò una situazione; il genio ne approfittò,» dice la storia. Ma che cos’è il caso? Che cosa è il genio?
I termini caso e genio non designano nulla di realmente esistente, e perciò sfuggono a una definizione. Sono termini che indicano solo un dato grado di comprensione dei fenomeni. Io non so perché si verifichi un certo fenomeno; penso di non poterlo sapere; perciò non voglio sapere e dico: il caso. Vedo una forza che produce un’azione sproporzionata alle comuni facoltà umane; non capisco perché ciò avviene e dico: il genio.
A un branco di montoni, il montone che ogni sera viene chiuso dal pastore in un recinto a parte e diventa due volte più grosso degli altri, deve sembrare un genio. E quella circostanza che ogni sera quello stesso montone non vada a finire nell’ovile comune, ma in un recinto speciale dove trova l’avena, e che proprio quel montone, ben ricoperto di grasso, sia ucciso per essere mangiato, deve apparire una stupefacente combinazione del genio con tutta una serie di casi eccezionali.
Ma ai montoni basterebbe smettere di pensare che tutto quanto accade loro avviene solo per il raggiungimento dei loro scopi particolari di montoni; basterebbe ammettere che quanto accade loro può anche avere scopi per foro incomprensibili; ed immediatamente vedrebbero l’unità, la consequenzialità in ciò che capita al montone così ben nutrito. E anche se non riuscissero a scoprire per quale scopo è stato supernutrito, saprebbero almeno che tutto ciò che è successo al montone non è successo casualmente e non avrebbero più bisogno di ricorrere né al concetto di caso né a quello di genio.
Solo rinunciando a conoscere lo scopo immediato e comprensibile e riconoscendo che lo scopo finale è per noi inaccessibile, riusciremo a vedere una consequenzialità e una logica nella vita dei personaggi storici; ci si rivelerà la causa di quell’azione sproporzionata alle comuni facoltà umane e non ci occorrerà più di far ricorso alle parole caso e genio.
Basterà riconoscere che lo scopo delle agitazioni dei popoli europei ci è ignoto, e ci sono noti solamente i fatti, consistenti in una serie di uccisioni, avvenute dapprima in Francia, poi in Italia, in Africa, in Prussia, in Austria, in Spagna, in Russia, e che il movimento da occidente a oriente e da oriente a occidente costituisce l’essenza e lo scopo di questi avvenimenti; e non solo non avremo più bisogno di vedere l’eccezionalità e la genialità nei caratteri di Napoleone e di Alessandro, ma non potremo più immaginarci questi personaggi se non come uomini come tutti gli altri; e non solo non occorrerà più spiegare con il caso quei piccoli avvenimenti che li hanno resi ciò che sono stati, ma sarà chiaro che tutti questi piccoli avvenimenti erano necessari.
Rinunciando a conoscere lo scopo finale, capiremo chiaramente che, come non è possibile inventare per una pianta fiori e semi ad essa più conformi di quelli che essa produce, così è impossibile immaginare altri due uomini, che con tutto il loro passato corrispondano talmente, fin nei minimi particolari, a quella missione che erano destinati a svolgere.
III
Il significato fondamentale ed essenziale degli avvenimenti europei all’inizio del XIX secolo è insito nel movimento di carattere militare dei popoli europei da occidente a oriente e poi da oriente a occidente. Il primo movimento fu quello da occidente a oriente. Perché i popoli dell’occidente potessero compiere quel movimento militare fino a Mosca che essi eseguirono era necessario: 1) che si costituissero in un raggruppamento militare di tale grandezza da essere in grado di resistere all’urto con il raggruppamento militare dell’oriente; 2) che rinunciassero a tutte le tradizioni e le consuetudini preesistenti; 3) che, compiendo il loro movimento, avessero alla loro testa un uomo che potesse giustificare - per sé e per loro - gli inganni, i saccheggi e gli omicidi che avrebbero avuto luogo durante quel movimento.
E a partire dalla rivoluzione francese, si distrugge il vecchio raggruppamento, non sufficientemente grande; si distruggono le vecchie consuetudini e tradizioni; gradualmente si elabora un gruppo di nuove dimensioni, nuove consuetudini e tradizioni, e si prepara l’uomo che dovrà mettersi alla testa del futuro movimento e addossarsi tutta la responsabilità di quanto deve accadere.
Un uomo senza convinzioni, senza consuetudini, senza tradizioni, senza nome, e che non è neppure francese, grazie ai casi più strani si fa avanti fra i partiti che dilacerano la Francia e, senza aderire ad alcuno di essi, sale a un posto di rilievo.
L’ignoranza dei colleghi, la debolezza e la nullità degli avversari, la capacità di mentire e la limitatezza brillante e soddisfatta di sé di quest’uomo lo portano al comando dell’esercito. Lo splendido organico dei soldati dell’armata d’Italia, la scarsa volontà di battersi da parte dei nemici, la temerarietà fanciullesca e la sicurezza di sé, gli procurano la gloria militare. Dappertutto lo accompagna un’innumerevole quantità di cosiddetti casi fortuiti. La disgrazia in cui cade presso i governanti francesi si risolve a suo vantaggio. I suoi tentativi di cambiare il cammino che gli è predestinato non riescono: non lo accettano al servizio militare in Russia e non riesce ad ottenere la destinazione in Turchia. Durante la campagna d’Italia si trova varie volte sull’orlo della rovina e ogni volta si salva in modo inaspettato. Le truppe russe, che avrebbero potuto annientare la sua gloria, in seguito a diverse considerazioni diplomatiche non entrano in Europa finché egli vi si trova.
Di ritorno dall’Italia trova a Parigi il governo in preda a quel processo di disgregazione in cui gli uomini che ne assumono le redini vengono inevitabilmente logorati e distrutti. Ed ecco che gli si presenta una via d’uscita da quella pericolosa situazione, e cioè l’insensata e immotivata spedizione in Africa. Di nuovo i cosiddetti casi fortuiti riprendono ad accompagnarlo. La flotta nemica, che in seguito non lascerà più passare nemmeno una barca, lascia passare un’intera armata. In Africa viene commessa tutta una serie di misfatti su popolazioni quasi inermi. E gli uomini che commettono questi misfatti, e in modo particolare il loro condottiero, sono sicuri che si tratti di cose magnifiche, gloriose, degne di Cesare e di Alessandro Magno.
Quell’ideale di gloria e di grandezza che consiste non solo nel ritenere che tutto sia lecito, ma nell’andar fieri di ogni proprio delitto, attribuendogli un significato incomprensibile e soprannaturale, quell’ideale che doveva guidare quest’uomo e gli uomini legati a lui si elabora ampiamente in Africa. Tutto ciò che fa, gli riesce. La peste non lo attacca. La crudeltà dell’uccisione dei prigionieri non gli viene ascritta a colpa. La sua partenza fanciullescamente imprudente, immotivata e poco nobile dall’Africa, ove abbandona i compagni di sventura, gli viene ascritta a merito; e di nuovo la flotta nemica lo lascia passare per due volte. Quando pronto a sostenere la sua parte arriva senza alcuno scopo a Parigi, completamente inebriato dai fortunati crimini commessi, la disgregazione del governo repubblicano, che un anno prima avrebbe potuto rovinarlo, ora ha raggiunto un grado estremo, e la sua presenza, la presenza di un uomo estraneo ad ogni fazione può ora solo portarlo in alto.
Non ha nessun piano; ha paura di tutto; ma i partiti si aggrappano a lui ed esigono la sua partecipazione.
Lui solo, con l’ideale di gloria e di grandezza che ha elaborato in Italia e in Egitto, con la sua folle venerazione di sé stesso, con la sua spavalderia nei delitti, con la sua capacità di mentire, lui solo può giustificare ciò che deve accadere.
È indispensabile per quel posto che lo attende, e perciò, quasi indipendentemente dalla sua volontà e nonostante la sua indecisione, la mancanza di un piano e tutti gli errori che commette, è coinvolto in una congiura che ha come fine la conquista del potere, e la congiura è coronata dal successo.
Lo trascinano nell’assemblea dei governanti. Spaventato, vorrebbe fuggire, credendosi perduto; simula uno svenimento, dice frasi insensate che dovrebbero perderlo. Ma i governanti della Francia, prima sagaci e orgogliosi, ora, sentendo che la loro parte è finita, sono ancora più confusi di lui e non pronunciano quelle parole che avrebbero dovuto pronunciare per mantenere il potere e mandarlo in rovina.
Il caso, milioni di casi gli danno il potere e tutti, come per un tacito accordo, collaborano al consolidamento di questo potere. È un susseguirsi di casi che forgiano i caratteri dei governanti della Francia di allora, i quali gli si sottomettono; una serie di casi forgia il carattere di Paolo I, che riconosce il suo potere; è il caso che ordisce contro di lui una congiura che non solo non gli nuoce, ma rafforza il suo potere. Il caso gli consegna nelle mani il duca d’Enghien e glielo fa uccidere, con questo mezzo più efficace di qualsiasi altro convincendo la folla che egli ha il diritto giacché ha la forza. Il caso fa sì che egli concentri tutte le sue forze per una spedizione in Inghilterra, che evidentemente avrebbe comportato la sua rovina, e che non metta mai in atto quest’intenzione, ma si imbatta fortuitamente in Mack con gli austriaci, che si arrendono senza combattere. Il caso e la genialità gli danno la vittoria ad Austerlitz, e per caso tutti, non solo i francesi, ma l’intera Europa, fatta eccezione per l’Inghilterra, che non prenderà parte agli avvenimenti che devono accadere, tutti, nonostante l’orrore e la repulsione di fronte ai suoi delitti, ora gli riconoscono il suo potere, il titolo che egli stesso si è dato, e il suo ideale di grandezza e di gloria che sembra a tutti qualcosa di meraviglioso e di razionale.
Quasi per misurare le proprie forze e prepararsi al movimento imminente, le forze dell’occidente si protendono in varie riprese, nel 1805, 1806, 1807 e 1809, verso oriente irrobustendosi e potenziandosi. Nel 1811 il raggruppamento di uomini che si è costituito in Francia si fonde in un unico enorme raggruppamento con i popoli del centro Europa. Insieme a ciò si sviluppa ulteriormente la tendenza a giustificare l’uomo che è alla testa del movimento. Nel decennio di preparazione che precede il grande movimento, quest’uomo entra in contatto con tutti i regnanti d’Europa. I signori del mondo non sono in grado di opporre all’ideale napoleonico di gloria e di grandezza (che pure non ha senso) alcun ideale ragionevole. Fanno a gara nel mostrargli la propria nullità. Il re di Prussia manda sua moglie a sollecitare le grazie del grand’uomo; l’imperatore d’Austria considera un onore che quest’uomo accolga nel suo letto la figlia dei Cesari, il Papa, custode del sacrario dei popoli, mette la sua religione al servizio del grand’uomo. Non è tanto Napoleone che si prepara ad eseguire la sua parte, quanto tutti coloro che lo circondano, che lo preparano ad assumere su di sé l’intera responsabilità di ciò che accade e dovrà accadere. Non c’è atto, misfatto o meschino inganno da lui commesso che subito non diventi sulle labbra di chi lo circonda una grande impresa. La miglior festa che i tedeschi riescono ad inventare per lui è la commemorazione di Jena e di Auerstädt. Non è solo lui ad essere grande, ma sono grandi i suoi avi, i suoi fratelli, i suoi figliastri e i suoi cognati. Tutto congiura al fine di privarlo dell’ultimo barlume di ragionevolezza e prepararlo alla parte terribile che gli è assegnata. E quando è pronto, sono pronte anche le forze necessarie.
L’invasione si avventa a oriente, raggiunge la meta finale: Mosca. La capitale è presa; l’esercito russo è annientato in misura maggiore degli eserciti nemici nelle guerre precedenti, da Austerlitz a Wagram. Ma improvvisamente, al posto di quei casi e di quella genialità, che in modo così progressivo lo hanno guidato finora, con una serie ininterrotta di successi, verso lo scopo prestabilito, si profilano una quantità incalcolabile di casi contrari, dal raffreddore di Borodino al gelo e alla scintilla che incendia Mosca; e invece della genialità, appaiono una stupidità e una viltà senza paragoni.
L’invasore fugge, ritorna sui suoi passi, di nuovo fugge e tutti i casi fortuiti non sono più costantemente a suo favore, ma contro di lui.
Si verifica un contromovimento da oriente a occidente, che ha una sorprendente somiglianza col movimento da occidente a oriente che l’ha preceduto. Gli stessi tentativi di movimento da oriente a occidente del 1804, 1807, 1809 precedono il grande movimento; lo stesso fondersi in un raggruppamento di enormi dimensioni; la stessa adesione al movimento da parte dei popoli intermedi; la stessa esitazione a mezza via e la stessa rapidità che aumenta via via che ci si avvicina alla meta.
Parigi, la meta finale, è raggiunta. Il governo e l’esercito napoleonico sono distrutti. Lo stesso Napoleone non ha più alcun senso; tutte le sue azioni sono palesemente miserevoli e ripugnanti; ma di nuovo avviene un fatto inspiegabile: gli alleati odiano Napoleone nel quale vedono la causa delle loro sciagure; privato della forza e del potere, smascherato nei suoi delitti e nei suoi inganni, dovrebbe loro apparire quale appariva dieci anni prima e quale apparirà un anno dopo: un bandito fuorilegge. Ma per chissà quale strano caso nessuno lo vede così. La sua parte non è ancora finita. L’uomo che dieci anni prima e un anno dopo era e sarà considerato un bandito fuorilegge viene mandato in esilio in un’isola a due giorni di viaggio dalla Francia, in un’isola che viene lasciata in suo potere, con la sua guardia del corpo e dei milioni, che gli sono versati chissà perché.
IV
Il movimento dei popoli comincia ad assestarsi entro le sue rive. Le onde del grande movimento sono rifluite e sul mare placato si formano dei cerchi in cui si agitano i diplomatici, immaginando di esser loro la causa del quietarsi del movimento.
Ma il mare placato tutto d’un tratto si risolleva. I diplomatici credono di essere stati loro, con i loro contrasti, a causare questo nuovo scuotersi di forze; si aspettano la guerra fra i loro sovrani, la situazione sembra senza via d’uscita. Ma l’ondata, della quale avvertono l’impeto, non viene dalla parte da cui se l’aspettano. È sempre la stessa onda che si solleva dallo stesso punto di partenza: Parigi. Ha luogo l’ultima ondata di riflusso del movimento da occidente, ondata di riflusso che dovrà risolvere le difficoltà diplomatiche apparentemente insolubili e porre fine al movimento bellico di questo periodo.
L’uomo che ha devastato la Francia, solo, senza una congiura, senza soldati, arriva in Francia. Qualsiasi guardia potrebbe catturarlo; ma, per uno strano caso, non solo nessuno lo cattura, ma tutti accolgono con entusiasmo l’uomo che maledicevano il giorno prima e malediranno tra un mese.
Quest’uomo è ancora necessario per giustificare l’ultima azione collettiva.
L’azione è compiuta. L’ultima parte è stata recitata. Si ordina all’attore di spogliarsi e di togliersi il cerone e il belletto: non si avrà più bisogno di lui.
E passano alcuni anni durante i quali quest’uomo, nella solitudine della sua isola, recita dinanzi a se stesso una miserevole commedia, ordisce intrighi e mente, cercando di giustificare le proprie azioni, quando questa giustificazione non è più necessaria, e mostra a tutto il mondo che cosa fosse in realtà ciò che gli uomini avevano scambiato per una forza ai tempi in cui una mano invisibile lo guidava.
Il regista, terminato il dramma, spogliato l’attore, ce lo mostra: «Guardate in che cosa avete creduto! Eccolo! Lo capite ora che ero io a muovervi, non lui?»
Ma gli uomini, acciecati dalla forza del movimento, per molto tempo non lo capirono.
Ancora maggiori sono la connessione e la necessità che ci mostra la vita di Alessandro I, il personaggio che fu a capo del contromovimento da oriente a occidente. Che cosa occorreva a un uomo che mettendo in ombra tutti gli altri, dovesse porsi alla testa di questo movimento da oriente a occidente?
Era necessario il senso della giustizia, un interesse per le vicende europee, ma distaccato, non offuscato da brighe meschine, occorreva il predominio morale sui compagni, cioè i sovrani di quel tempo, occorreva una personalità mite e attraente; occorreva un risentimento personale contro Napoleone. E tutto questo Alessandro I lo aveva; tutto questo si era preparato attraverso infiniti cosiddetti casi fortuiti di tutta la sua vita precedente: dall’educazione e dalle iniziative liberali, e dai consiglieri che lo circondavano, e da Austerlitz, e da Tilsit e da Erfurt.
Durante la guerra nazionale questo personaggio resta passivo, giacché non c’è bisogno di lui. Ma non appena si profila la necessità di una guerra generale europea, egli compare al momento debito e al posto giusto e unendo i popoli d’Europa, li conduce alla meta.
La meta è raggiunta. Dopo l’ultima guerra del 1815, Alessandro è all’apice del potere. Come lo impiega?
Alessandro I, il pacificatore dell’Europa, l’uomo che sin dai suoi giovani anni ha aspirato solo al bene dei suoi popoli, l’iniziatore delle riforme liberali nella sua patria, ora che possiede un enorme potere e perciò la possibilità di fare il bene dei suoi popoli, mentre Napoleone in esilio fa piani infantili e menzogneri sul modo in cui avrebbe reso felice l’umanità se avesse mantenuto il potere, Alessandro I, adempiuta la sua missione e sentendo su di sé la mano di Dio, a un tratto riconosce la nullità di questo apparente potere, gli volta le spalle, lo affida a uomini spregevoli e che lui disprezza e dice soltanto:
«“Non a noi, non a noi, ma al Nome Tuo!” Io sono un uomo come voi; lasciatemi vivere come un uomo e pensare alla mia anima e a Dio.»
Come il sole e ogni atomo dell’etere sono una sfera in sé finita e nello stesso tempo solo un atomo di un tutto, inaccessibile all’uomo per la sua grandezza, così ogni persona singola porta in sé i propri fini e nello stesso tempo serve a fini universali inaccessibili all’uomo.
L’ape, che prima era posata su un fiore, punge un bambino. E il bambino ha paura delle api e dice che il fine delle api è nel pungere la gente. Il poeta ammira l’ape che sorbisce dal calice di un fiore e dice che il fine delle api è di assorbire l’aroma dei fiori. L’apicultore, osservando l’ape raccogliere il polline e portarlo nell’alveare, dice che il fine delle api sta nel fare il miele. Un altro apicultore, studiando più da vicino la vita dello sciame, dice che le api raccolgono il polline per nutrire le giovani api e mantenere la regina e che il loro fine è la continuazione della specie. Un botanico osserva che, volando col polline di un fiore dioico su un pistillo, l’ape lo feconda, e il botanico vede in questo il fine delle api. Un altro, osservando la disseminazione delle piante, vede che l’ape favorisce questa disseminazione: questo osservatore può dire che in questo consiste il fine delle api. Ma il fine ultimo delle api non si esaurisce né nel primo, né nel secondo, né nel terzo fine che la mente umana è in grado di scoprire. Quanto più si prodiga la mente umana nella scoperta di tali fini, tanto più le risulta evidente che il fine ultimo è per lei inaccessibile.
All’uomo è dato solo di osservare i nessi che uniscono la vita delle api con gli altri fenomeni della vita. Lo stesso si può dire dei fini dei personaggi storici e dei popoli.
V
Il matrimonio di Nataša, che nel 1813 si sposò con Bezuchov, fu l’ultimo avvenimento felice nella vecchia famiglia dei Rostov. In quello stesso anno il conte Il’ja Andreevič morì e, come sempre accade, con la sua morte la famiglia si disgregò.
Gli avvenimenti dell’ultimo anno: l’incendio di Mosca e la fuga, la morte del principe Andrej e la disperazione di Nataša, la morte di Petja, il dolore della contessa, - si abbatterono come un colpo dopo l’altro sul capo del vecchio conte. Egli pareva non capire e non essere in grado di capire il significato di tutti questi avvenimenti, e moralmente chinando la vecchia testa, pareva aspettare e chiedere nuovi colpi che lo finissero. A volte sembrava spaventato e smarrito, a volte animato e intraprendente in modo innaturale.
Il matrimonio di Nataša lo occupò per qualche tempo con i suoi aspetti esteriori. Ordinava i pranzi e cene, e voleva chiaramente sembrare allegro, ma la sua allegria non era contagiosa come una volta, suscitava al contrario un senso di pena nelle persone che lo conoscevano e gli volevano bene.
Dopo la partenza di Pierre con la moglie, si fece silenzioso e cominciò a soffrire di malinconia. Alcuni giorni dopo si ammalò e si mise a letto. Fin dai primi giorni della malattia, nonostante le assicurazioni dei medici, capì che non si sarebbe più alzato. La contessa passò due settimane in poltrona al suo capezzale, senza mai spogliarsi. Ogni volta che gli dava una medicina, il conte le baciava in silenzio la mano, piangendo. L’ultimo giorno, fra i singhiozzi chiese perdono alla moglie e al figlio lontano di aver rovinato il patrimonio, la colpa più grande che sentiva di avere. Dopo aver fatto la comunione e aver ricevuto l’estrema unzione, morì quietamente, e il giorno dopo una folla di conoscenti venuti a dare l’estremo saluto al defunto, riempiva l’appartamento in affitto dei Rostov. Tutti questi conoscenti, che tante volte avevano pranzato e ballato in casa sua, che tante volte avevano riso di lui, ora con un identico sentimento di rimorso e di commozione, come giustificandosi di fronte a qualcuno, dicevano: «Sì, comunque la si pensi, era però un uomo eccellente. Uomini così oggi non se ne trovano più. E chi non ha le sue debolezze?»
Proprio nel momento in cui i suoi affari erano talmente aggrovigliati da rendere difficile pensare una via d’uscita se si fosse andati avanti così ancora per un anno, il conte improvvisamente morì.
Nikolaj si trovava con le truppe russe a Parigi quando gli giunse la notizia della morte del padre. Chiese subito il congedo e senza aspettarlo si fece dare una licenza e raggiunse Mosca. La situazione finanziaria a un mese dalla morte del conte si era perfettamente delineata, meravigliando tutti per l’enormità della cifra causata da vari piccoli debiti, di cui nessuno sospettava nemmeno l’esistenza. I debiti ammontavano al doppio del patrimonio.
I parenti e gli amici consigliarono a Nikolaj di rifiutare l’eredità. Ma in questo rifiuto Nikolaj vedeva una specie di rimprovero alla memoria, per lui sacra, del padre e perciò non ne volle sentir parlare e accettò l’eredità con l’obbligo di pagare i debiti.
I creditori, che avevano taciuto per tanto tempo, legati, finché il conte era in vita, da quella vaga ma potente influenza che esercitava su di loro la sua stanca bontà, adirono ad un tratto tutti alle vie legali. Si assistette così, come sempre succede, a una specie di gara a chi avrebbe ricevuto per primo quanto gli spettava e quelle stesse persone che, come Miten’ka e altri, avevano avuto in regalo cambiali senza valore, si dimostrarono ora i creditori più esigenti. A Nikolaj non si concedevano né dilazioni, né momenti di tregua, e quelli che evidentemente avevano avuto pietà del vecchio, che era il responsabile delle loro perdite (se perdite c’erano state), ora si scagliavano spietatamente contro il giovane erede che era evidentemente senza colpa di fronte a loro e che si era assunto volontariamente l’onere del pagamento.
Nessuna delle soluzioni proposte da Nikolaj riuscì; la tenuta fu venduta all’asta a metà prezzo, e la metà dei debiti rimase ancora da pagare. Nikolaj accettò trentamila rubli offertigli dal cognato Bezuchov per pagare quella parte dei debiti che egli riconosceva come debiti reali, debiti in denaro. E per non finire in carcere per gli altri debiti, cosa di cui i creditori lo minacciavano, decise di riprendere un impiego statale.
Tornare nell’esercito, dove al primo posto vacante sarebbe diventato comandante di reggimento, non era possibile, perché sua madre si era attaccata a lui come all’ultima ragione di vita; e perciò, nonostante la sua avversione a fermarsi a Mosca in un ambiente di persone che l’aveva conosciuto precedentemente, e la sua repulsione per un impiego civile, Nikolaj trovò a Mosca un posto nell’amministrazione civile e, toltasi l’amata uniforme, si stabilì con la madre e con Sonja in un piccolo appartamento a Sivcev-Vražëk.
Nataša e Pierre abitavano in quel periodo a Pietroburgo senza avere un’idea chiara della situazione di Nikolaj. Prendendo a prestito del denaro dal cognato, Nikolaj aveva cercato di tenergli nascosta la sua disastrosa situazione. Infatti, con i milleduecento rubli dello stipendio non solo doveva mantenere sé, Sonja e la madre, ma doveva mantenere sua madre in modo che non si accorgesse della loro povertà. La contessa non poteva capire come fosse possibile vivere senza quelle condizioni di lusso che le erano abituali sin dall’infanzia e senza rendersi conto delle difficoltà che creava al figlio, pretendeva ora la carrozza, che essi non avevano, per mandare a prendere una conoscente, ora dei cibi costosi per sé o del vino per il figlio, ora del denaro per fare una sorpresa a Nataša, a Sonja o allo stesso Nikolaj.
Sonja si occupava dell’andamento della casa, faceva compagnia alla zia, leggeva per lei ad alta voce, sopportava i suoi capricci e la sua malcelata insofferenza e aiutava Nikolaj a nascondere alla vecchia contessa la situazione di indigenza in cui versavano. Nikolaj sentiva nei riguardi di Sonja un debito di riconoscenza che non avrebbe mai potuto pagare, per quello che faceva per sua madre, ammirava la sua pazienza e la sua devozione, ma cercava di tenersela lontana.
Era come se in cuor suo la rimproverasse di essere troppo perfetta e di non offrir motivo di rimproveri. Sonja aveva tutte quelle qualità che fanno stimare una persona, ma poco di quelle che ti inducono ad amarla. Ed egli sentiva che quanto più la stimava, tanto meno l’amava. L’aveva presa in parola quando in quella lettera gli aveva restituito la libertà e ora si comportava con lei come se tutto ciò che c’era stato tra di loro fosse da tempo dimenticato e non potesse mai più ripetersi.
La situazione di Nikolaj peggiorava sempre di più. L’idea di poter fare dei risparmi sullo stipendio si era dimostrata un’illusione. Non solo non metteva niente da parte, ma per soddisfare le esigenze della madre, faceva dei piccoli debiti. Non intravvedeva nessuna via d’uscita dalla sua situazione. L’idea, suggeritagli dai parenti, di un matrimonio con una ricca ereditiera gli riusciva odiosa. L’altra via d’uscita da quella situazione - la morte della madre - non gli balenò mai in mente. Non desiderava nulla, non sperava in nulla; e nel profondo dell’anima provava una cupa e severa voluttà nel sopportare con rassegnazione la situazione. Cercava di evitare i conoscenti di un tempo, la loro commiserazione e le avvilenti e offensive offerte d’aiuto, evitava ogni distrazione e ogni divertimento, persino a casa non si occupava di nulla se non di giocare a carte con sua madre, passeggiare in silenzio per la stanza e fumare una pipa dopo l’altra. Pareva custodire con cura quel suo stato d’animo tetro, nel quale solo si sentiva in grado di sopportare la sua situazione.
VI
Al principio dell’inverno la principessina Mar’ja arrivò a Mosca. Dalle voci che circolavano in città venne a sapere della situazione dei Rostov e di come «il figlio si sacrificava per la madre», come si diceva in città.
«Non mi aspettavo altro da lui,» si disse la principessina Mar’ja, sentendo in sé la gioiosa conferma del suo amore per lui. Ricordando i rapporti d’amicizia e quasi di parentela con tutta la famiglia, ritenne suo dovere andare a trovarli. Ma ricordando però i suoi rapporti con Nikolaj a Voronez, ne aveva anche paura. Ma facendosi forza, alcune settimane dopo il suo arrivo in città andò dai Rostov.
Nikolaj fu il primo a riceverla, dato che per andare dalla contessa bisognava passare per la sua stanza. Al primo sguardo che le diede, il viso di Nikolaj, anziché esprimere la gioia che la principessina Mar’ja si aspettava, assunse un’espressione di freddezza, di asciuttezza e di orgoglio, per lei assolutamente nuova. Si informò della sua salute, la accompagnò dalla madre e dopo essersi trattenuto cinque minuti, uscì dalla stanza.
Quando la principessina lasciò la contessa, Nikolaj le si fece di nuovo incontro e la accompagnò in modo particolarmente solenne e altero fino all’anticamera. Non rispose neanche una parola alle sue osservazioni sulla salute della contessa. «A voi che importa? Lasciatemi in pace,» diceva il suo sguardo.
«Che cos’ha da andare tanto in giro per le case altrui? Cosa cerca? Non le posso soffrire queste signorine con tutte le loro smancerie!» disse ad alta voce in presenza di Sonja, evidentemente incapace di frenare il proprio disappunto, dopo che la carrozza della principessina si era allontanata dalla casa.
«Ah, come si può parlare così, Nicolas,» disse Sonja, dissimulando a fatica la sua gioia. «È così buona, e maman le vuole tanto bene.»
Nikolaj non rispose e avrebbe desiderato non parlare più della principessina. Ma la vecchia contessa dopo quella visita parlava di lei quasi tutti i giorni.
La contessa la lodava, esigeva che il figlio contraccambiasse la visita, esprimeva il desiderio di vederla più spesso, ma nello stesso tempo diventava di cattivo umore ogni volta che parlava di lei.
Nikolaj si sforzava di tacere quando la madre parlava della principessina, ma il suo silenzio irritava la contessa.
«È una ragazza davvero eccellente,» diceva, «e tu devi andarla a trovare. Almeno vedrai qualcuno, a star qui sempre con noi finisce che ti annoi.»
«Ma io non ne ho assolutamente voglia, mammina.»
«Un tempo volevi vederla e ora non vuoi più. Davvero, mio caro, non riesco a capirti. Ora ti annoi, ora, tutt’a un tratto, non vuoi vedere nessuno.»
«Ma io non ho detto che mi annoio.»
«Come no, sei stato tu a dire che non vuoi vederla. È una ragazza ricca di qualità che ti è sempre piaciuta; e ora tutto ad un tratto, sembri infastidito, chissà perché. Mi si nasconde sempre tutto.»
«Ma niente affatto, mammina.»
«Se ti chiedessi di fare qualcosa di spiacevole, ma ti chiedo solo di restituire una visita. Anche la cortesia lo esige… Te l’ho chiesto e ora non dirò più niente, dato che hai dei segreti per tua madre.»
«Ma ci andrò, se proprio volete.»
«Per me è indifferente, è per te che lo desidero.»
Nikolaj sospirava mordendosi i baffi e disponeva sul tavolo le carte da gioco, cercando di spostare l’attenzione della madre su un altro argomento.
L’indomani, e il giorno dopo e quello ancora successivo la contessa ritornò sullo stesso discorso.
Dopo la sua visita ai Rostov e l’inattesa fredda accoglienza riservatale da Nikolaj, la principessina Mar’ja riconobbe tra sé che aveva avuto ragione nel non voler andare per prima dai Rostov.
«Non mi aspettavo niente di diverso,» si diceva, chiamando in aiuto il proprio orgoglio. «Non ho nulla da spartire con lui, volevo solo vedere quella povera vecchia che è sempre stata buona con me e verso la quale ho tanti obblighi…»
Ma questi ragionamenti non riuscivano a tranquillizzarla e quando ricordava la sua visita era tormentata da un sentimento che rassomigliava a un rimorso. Benché avesse fermamente deciso di non andare più dai Rostov e di dimenticare tutto questo, si sentiva continuamente come in una posizione non ben definita. E quando si domandava che cosa la tormentasse, doveva riconoscere che erano i suoi rapporti con Rostov. Quel tono freddo e cortese non derivava dai sentimenti che aveva per lei (questo lo sapeva), ma nascondeva qualcosa. Questo ella voleva chiarire e sentiva che fino a quel momento non avrebbe potuto essere tranquilla.
Un giorno, verso la metà dell’inverno, mentre si trovava nella stanza da studio sorvegliando i compiti del nipote, le fu annunciata la visita di Rostov. Fermamente decisa a non tradire il suo segreto e a non far trapelare il suo turbamento, chiamò M.lle Bourienne e apparve in salotto insieme a lei.
Un’occhiata al viso di Nikolaj le bastò per capire che era venuto solo per adempiere a un dovere di cortesia. Decise di attenersi allo stesso tono con cui lui le si sarebbe rivolto.
Presero a parlare della salute della contessa, dei conoscenti comuni, delle ultime notizie della guerra, e quando furono trascorsi quei dieci minuti richiesti dalle convenienze, passati i quali un ospite può accomiatarsi, Nikolaj si alzò per andarsene.
Con l’aiuto di M.lle Bourienne la principessina aveva sostenuto molto bene la conversazione, ma proprio alla fine, mentre lui si alzava, era così stanca di parlare di cose che non la interessavano e il pensiero che a lei sola, la vita concedeva così poche gioie la occupò talmente che ebbe un momento di assenza completa e continuò a star seduta, immobile, con gli occhi luminosi fissi nel vuoto, senza accorgersi che Nikolaj si era alzato.
Nikolaj la guardò e per non far vedere che si era accorto della sua distrazione, disse qualche parola a M.lle Bourienne e tornò poi a guardare la principessina. Essa sedeva sempre immobile e sul viso delicato era impressa la sofferenza. Improvvisamente gli fece pena e confusamente intuì che era forse lui la causa di quella tristezza. Avrebbe voluto aiutarla, dirle qualcosa di gradevole, ma non gli venne in mente nulla.
«Addio, principessina,» disse.
Essa si riprese, avvampò e sospirò profondamente.
«Ah, scusate,» disse come destandosi. «Ve ne andate già conte? Ebbene addio! E il cuscino per la contessa?»
«Aspettate, lo porto subito,» disse M.lle Bourienne e uscì dalla stanza.
Tutti e due tacevano, ogni tanto scambiandosi un’occhiata.
«Davvero principessina,» disse infine Nikolaj con un triste sorriso, «sembra che sia stato poco tempo fa e invece quanta acqua è passata sotto i ponti da quando ci siamo visti quella prima volta a Bogučarovo. Ci sentivamo tutti sopraffatti dalla sventura, e tuttavia cosa non pagherei per tornare a quei tempi… ma indietro non si torna.»
La principessina lo fissava attentamente negli occhi col suo sguardo luminoso. Pareva cercar di penetrare il senso segreto delle sue parole che le avrebbe spiegato il sentimento che nutriva per lei.
«Sì, sì,» rispose, «ma voi non avete alcun motivo di rimpiangere il passato. Da quel che capisco la vostra vita di adesso, voi ve ne ricorderete sempre con piacere, perché l’abnegazione con la quale vivete…»
«Non posso accettare le vostre lodi,» la interruppe in fretta Nikolaj, «al contrario, non faccio che rimproverarmi… ma questo è un discorso ben poco interessante e tutt’altro che allegro.»
E il suo sguardo riprese l’espressione fredda e distaccata di prima. Ma ormai la principessina aveva visto di nuovo in lui l’uomo che conosceva e amava e ora parlava soltanto con quest’uomo.
«Credevo che mi avreste permesso di dirvi questo,» disse. «Siamo stati così vicini voi e io… e la vostra famiglia, che pensavo che non avreste giudicato inopportuno il mio interessamento, ma mi sono sbagliata,» disse, e la sua voce improvvisamente tremò. «Non so perché,» proseguì riprendendosi, «voi prima eravate un altro e…»
«Ci sono migliaia di perché (e accentuò in modo particolare la parola perché). Vi ringrazio, principessina,» aggiunse a bassa voce. «A volte è penoso…»
«Dunque è per questo! Ecco perché!» diceva una voce nell’anima della principessina Mar’ja. «No, in lui non ho amato solo quello sguardo allegro, buono ed aperto, e il bell’aspetto; avevo intuito la nobiltà, la fermezza del suo animo, la sua capacità di abnegazione,» pensò. «Sì, ora lui è povero e io sono ricca… Sì, è soltanto per questo… Sì, se non ci fosse questo…» E ricordando la sua tenerezza di un tempo, e guardando il suo volto buono e triste, ad un tratto comprese la causa della sua freddezza.
«Perché, conte, perché?» quasi gridò e involontariamente gli si avvicinò. «Perché, ditemelo, dovete dirmelo!» Lui taceva. «Conte, io non conosco i vostri perché» continuò, «ma per me è penoso… ve lo confesso. Per qualche motivo voi volete privarmi dell’amicizia di una volta. E questo mi addolora.» Le lacrime le affioravano negli occhi e nella voce. «Ho avuto così poca felicità nella vita, che ogni perdita mi è gravosa… Perdonatemi, addio.» E improvvisamente scoppiò a piangere e si accinse a lasciare la stanza.
«Principessina! Aspettate per amor di Dio!» gridò Nikolaj cercando di fermarla. «Principessina!»
Ella si voltò. Per alcuni secondi si guardarono in silenzio negli occhi e ciò che sembrava lontano, impossibile, improvvisamente diventò vicino, possibile e inevitabile.
VII
Nell’autunno del 1813 Nikolaj sposò la principessina Mar’ja, e insieme a lei, alla madre e a Sonja si stabilì a Lysye Gory.
Nel giro di quattro anni, senza vendere nessuna delle proprietà di sua moglie, finì di pagare i debiti e, grazie a una piccola eredità derivante dalla morte di una cugina, saldò anche il debito con Pierre.
Tre anni dopo, nel 1820, Nikolaj aveva riassestato così bene la sua situazione economica da essere in grado di acquistare una piccola tenuta vicino a Lysye Gory; era anche in trattative per riscattare il paterno Otradnoe e realizzare così un vecchio sogno.
Aveva cominciato ad occuparsi dell’azienda per necessità, ma ben presto vi si appassionò tanto che divenne la sua occupazione preferita e quasi esclusiva.
Nikolaj gestiva la sua azienda agricola in modo semplice, non amava le innovazioni, specialmente quelle inglesi, che allora stavano diventando di moda, rideva dei trattati teorici sull’agricoltura, non amava i grossi impianti, le produzioni costose, le semine di grano pregiato e, in genere, non si occupava separatamente di un singolo settore dell’azienda. Aveva sempre davanti agli occhi tutta la proprietà e non una singola parte di essa. Nella tenuta, poi, l’elemento principale non era per lui l’azoto, e neanche l’ossigeno, che si trovavano nel terreno e nell’aria, non un aratro o un concime particolare, ma quello strumento principale per mezzo del quale agiscono sia l’azoto che l’ossigeno, sia il concime che l’aratro, ossia l’uomo che lavora, il contadino. Quando Nikolaj aveva cominciato ad occuparsi dell’azienda e a impratichirsi dei suoi vari settori, il contadino aveva attratto in modo particolare la sua attenzione; il contadino non gli era parso semplicemente uno strumento, ma anche un fine e un giudice. In un primo tempo era stato ad osservarlo, sforzandosi di capire di che cosa avesse bisogno, che cosa considerasse buono e che cosa cattivo, apparentemente dava ordini e comandava, in realtà non faceva che imparare dai contadini le maniere, i discorsi e i giudizi su ciò che è buono e ciò che è cattivo. E solo quando ebbe compreso i gusti e le aspirazioni del contadino, ed ebbe imparato a parlare con il suo linguaggio e a capire il senso riposto dei suoi discorsi, quando si fu sentito un suo consanguineo, solo allora cominciò arditamente a dirigerlo, cioè a svolgere nei confronti dei suoi contadini quelle funzioni che spettavano a lui. E l’amministrazione di Nikolaj conseguiva i risultati più brillanti.
Assumendo l’amministrazione della proprietà, Nikolaj aveva scelto subito, senza sbagliare, quasi per un dono di chiaroveggenza, come borgomastro, come starosta, come intendente, proprio quegli uomini che sarebbero stati eletti dai contadini stessi se avessero potuto eleggerli, e i capi da lui scelti non venivano mai cambiati. Prima di analizzare le proprietà chimiche di un concime, prima di dedicarsi al «dare» e all’«avere» (come gli piaceva dire, ironicamente), si informava sulla qualità del bestiame che avevano i contadini e aumentava questa quantità con tutti i mezzi possibili. Tendeva a mantenere unite le famiglie dei contadini, non permettendo loro di dividersi. Si schierava in egual modo contro i pigri, i corrotti e i deboli e cercava di allontanarli dalla comunità.
Durante le semine e la raccolta del fieno e dei cereali, badava nello stesso modo ai suoi campi come a quelli dei contadini. Ed erano pochi i proprietari che avevano i campi seminati e mietuti così presto e bene, e così redditizi come Nikolaj.
Con i servi di casa preferiva non aver a che fare, lì chiamava «parassiti» e a detta di tutti li lasciava abbandonati a se stessi e li guastava; quando bisognava prendere qualche provvedimento nei confronti di un servitore, specialmente quando si trattava di una punizione, era sempre indeciso e si consigliava con tutti quelli di casa; ma quando si poteva mandare a fare il soldato un servo al posto di un contadino, se ne incaricava subito, senza la minima esitazione. In tutti i provvedimenti che riguardavano i contadini, invece, non aveva mai il minimo dubbio. Ogni suo provvedimento - lo sapeva - sarebbe stato approvato da tutti contro uno o pochissimi.
Caricare di lavoro un uomo o punirlo solo perché così gli andava erano cose che non si permetteva, come non si permetteva di alleggerire il lavoro o di compensare un uomo solo perché ne sentiva il desiderio. Non avrebbe saputo dire in che cosa consistesse questa misura di ciò che si doveva e di ciò che non si doveva fare, ma questa misura nella sua anima era ferma e incrollabile.
Spesso commentava con dispetto qualche insuccesso o disordine dicendo: «con questo nostro popolo russo…» e si immaginava di non poter sopportare i mužiki.
Ma egli amava con tutte le forze dell’anima questo nostro popolo russo e il suo modo di vivere, e solo per questo era riuscito a comprendere e assimilare quell’unica via e quel metodo di amministrazione che davano risultati così buoni.
La contessa Mar’ja era gelosa di questa passione di suo marito e si rammaricava di non potervi partecipare; ma non poteva capire le gioie e le amarezze che gli procurava quel mondo a se stante, per lei estraneo. Non poteva capire perché fosse così particolarmente animato e felice quando, dopo essersi alzato all’alba e aver trascorso l’intera mattinata nei campi o sull’aia, tornava da lei per il tè da una semina, da una falciatura o da un raccolto. Non riusciva a condividere la sua ammirazione per il contadino agiato Matvej Ermišin, il quale - raccontava Nikolaj tutto entusiasta - per tutta la notte aveva trasportato covoni con la famiglia, e mentre nessuno aveva ancora portato i covoni sulle aie, lui aveva già le biche alte. Non capiva perché con tanta gioia, passando dalla finestra al balcone, sorridesse sotto i baffi ammiccando, quando una pioggerella tiepida e fitta cadeva sui germogli dell’avena che stavano inaridendo, o perché, quando il vento sospingeva via dai luoghi di falciatura e di raccolto una nube minacciosa, Nikolaj, rosso, abbronzato e tutto sudato, con i capelli odorosi di artemisia e di genziana, rientrando in casa dall’aia, fregandosi allegramente le mani dicesse: «Bene, ancora una giornatina, e tutto il raccolto, sia il mio che quello dei contadini, sarà sulle aie.»
Ancor meno poteva capire perché mai, col suo buon cuore, con la sua costante prontezza nel prevenire i suoi desideri, quasi si disperasse quando lei gli trasmetteva le preghiere di qualche donna o di qualche contadino che si erano rivolti a lei per essere esentati da un lavoro; perché mai lui, il buon Nicolas, ostinatamente le opponesse un rifiuto, pregandola con irritazione di non immischiarsi in faccende che non la riguardavano. Sentiva che per lui esisteva un mondo a parte, cui era appassionatamente dedito, con certe sue leggi che lei non riusciva a capire.
Quando certe volte, sforzandosi di capirlo, gli parlava dei suoi meriti, che consistevano nel fare del bene ai suoi sottoposti, Nikolaj si arrabbiava e rispondeva: «Ma niente affatto! Cose del genere non mi passano mai per la mente, e per il loro bene non faccio un bel nulla. Tutto questo è poesia, fantasie da donnette, il bene del prossimo e compagnia bella! A me interessa che i nostri figli non debbano andare in giro a mendicare; devo sistemare bene il nostro patrimonio finché sono vivo, ecco tutto. E per questo ci vuole ordine, ci vuole severità… ecco tutto!» diceva, serrando il suo pugno poderoso. «E anche giustizia, beninteso,» aggiungeva, «perché se un contadino è nudo, affamato e ha soltanto un cavalluccio, non lavora né per sé né per me.»
E, probabilmente, proprio perché Nikolaj non si permetteva di pensare che faceva qualcosa per gli altri in modo disinteressato, tutto quello che faceva era fruttifero: il suo patrimonio aumentava rapidamente; i contadini del vicinato venivano a chiedergli di comprarli, e per molto tempo dopo la sua morte si conservò tra il popolo un devoto ricordo della sua amministrazione. «Quello era un padrone… Prima la roba dei contadini, e poi la sua. E di complimenti non ne faceva con chi non rigava dritto! Insomma: un vero padrone!»
VIII
L’unica cosa che qualche volta angustiava Nikolaj nella sua coscienza di amministratore della sua azienda era l’irascibilità unita alla vecchia abitudine da ussaro di menar le mani. Nei primi tempi non vedeva in questo nulla di riprovevole, ma nel secondo anno del suo matrimonio la sua opinione su questo modo di imporsi improvvisamente mutò.
Un giorno, in estate, era stato chiamato da Bogučarovo lo starosta che era succeduto al defunto Dron e che era accusato di diverse malefatte e negligenze. Nikolaj gli andò incontro sulla scalinata d’ingresso e fin dalle prime risposte dello starosta, si udirono nel vestibolo grida e rumori di colpi. Tornato a casa per colazione, Nikolaj si avvicinò alla moglie, che sedeva con la testa china sul telaio, e, come d’abitudine, si mise a raccontare quello che aveva fatto in mattinata, e fra le altre cose le parlò anche dello starosta di Bogučarovo. La contessa Mar’ja arrossendo, impallidendo e stringendo le labbra, continuava a restar seduta con la testa china, senza rispondere nulla alle parole del marito.
«Che spudorato farabutto,» diceva Nikolaj, scaldandosi al solo ricordo. «Almeno mi avesse detto che era ubriaco, che non aveva visto… Ma che cos’hai, Marie?» domandò ad un tratto.
La contessa Mar’ja alzò la testa come per dire qualcosa, ma subito la riabbassò in fretta e strinse le labbra.
«Che c’è? Che cos’hai, amica mia?»
Il pianto abbelliva sempre la non bella contessa. Non piangeva mai di dolore o di ira, ma sempre di tristezza e di compassione. E quando piangeva, i suoi occhi luminosi acquistavano una fascino irresistibile.
Non appena Nikolaj le ebbe preso una mano, non riuscì più a trattenersi e scoppiò in lacrime.
«Nicolas, ho visto… lui è in torto, ma tu, perché tu?… Nicolas!…» e si nascose la faccia tra le mani.
Nikolaj rimase in silenzio, arrossì violentemente, si scostò e prese a camminare per la stanza. Aveva capito che cosa la faceva piangere; ma non poteva così di colpo consentire in cuor suo con lei, che ciò a cui era abituato fin da bambino, che aveva sempre considerato come la cosa più normale del mondo fosse una cosa sbagliata.
«Sono leziosaggini, cose da donnicciole, oppure ha ragione lei?» si chiedeva. Prima di aver risolto tra sé la questione, guardò ancora il volto sofferente e pieno d’amore della contessa Mar’ja e ad un tratto capì che aveva ragione lei e che ormai da tempo egli era in fallo di fronte a se stesso.
«Marie,» disse a bassa voce avvicinandosi, «questo non succederà mai più; ti dò la mia parola. Mai più, ripeté con voce tremante, come un bambino che chiede perdono.
Le lacrime sgorgarono ancora più copiose dagli occhi della contessa. Afferrò la mano del marito e la baciò.
«Nicolas, quand’è che hai rotto il cammeo?» chiese per cambiare discorso guardandogli la mano al cui anulare portava un anello con la testa di Laocoonte.
«Oggi, sempre per quella storia. Ah, Marie, non parlarmene più.» Di nuovo diventò scarlatto. «Ti do la mia parola d’onore che non succederà più. E che questo me lo ricordi sempre,» disse indicando l’anello rotto.
Da quel giorno, ogni volta che discutendo con gli starosty o con i fattori sentiva il sangue montargli alla testa e cominciava a stringere i pugni, Nikolaj girava sul dito l’anello rotto e abbassava gli occhi davanti alla persona che lo aveva mandato in collera. Un paio di volte all’anno, tuttavia, perdeva il controllo e allora rientrando confessava la cosa alla moglie e nuovamente le prometteva che quella sarebbe stata veramente l’ultima volta.
«Marie, tu mi disprezzerai, lo so,» diceva. «Me lo merito.»
«Tu devi andartene, andartene subito, se ti accorgi di non riuscire a trattenerti,» diceva con tristezza la contessa Mar’ja, cercando di consolare il marito.
Nell’ambiente della nobiltà del governatorato, Nikolaj era stimato, ma non amato. Degli interessi della nobiltà non si curava minimamente. E per questo certuni lo ritenevano un orgoglioso, altri un uomo ottuso. D’estate, dalle semine di primavera fino al raccolto, tutto il suo tempo era impegnato nelle occupazioni agricole. In autunno, con la stessa serietà con cui si occupava dell’azienda, si dedicava alla caccia e se ne stava in giro per un mese o due con i suoi amici cacciatori. D’inverno visitava gli altri villaggi e si dava alla lettura. Leggeva soprattutto libri di storia, che ogni anno si faceva mandare per una data somma. Si era così formato una biblioteca seria, come lui diceva, e si era imposto di leggere tutti i libri che acquistava. Con aria grave e assorta si chiudeva nel suo studio per impegnarsi in queste letture che dapprima si era imposto come un dovere, ma che gradualmente diventarono un’occupazione abituale che gli procurava un piacere tutto particolare e la consapevolezza di occuparsi di cose serie. Fatta eccezione per i viaggi d’affari, d’inverno passava la maggior parte del tempo in casa, dedicandosi alla famiglia e intervenendo nei rapporti più minuti tra madre e figli. Il rapporto con sua moglie si faceva ogni giorno più intenso, e ogni giorno scopriva in lei nuovi tesori spirituali.
Sonja, da quando Nikolaj si era sposato, viveva in casa loro. Ancora prima del matrimonio, accusando se stesso e elogiando lei, Nikolaj aveva raccontato alla moglie tutto ciò che c’era stato tra lui e Sonja. Aveva pregato la principessina Mar’ja di essere affettuosa e buona con sua cugina. La contessa Mar’ja si rendeva conto della colpa di suo marito; si sentiva anche lei colpevole di fronte a Sonja; pensava che il suo patrimonio poteva aver influito sulla scelta di Nikolaj, non aveva nulla da rimproverare a Sonja, desiderava volerle bene, ma non solo non le voleva bene, ma spesso avvertiva in sé dei sentimenti cattivi nei suoi confronti e non era capace di superarli.
Un giorno si mise a parlare con la sua amica Nataša di Sonja e di quanto fosse ingiusta nei suoi confronti.
«Sai che ti dico?» disse Nataša, «tu hai letto tanto il Vangelo e proprio lì c’è un passo che riguarda Sonja.»
«Quale?» domandò stupita la contessa Mar’ja.
«A chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto. Ricordi? Sonja è di quelli che non hanno. Perché? Non ti so dire. Forse perché manca di egoismo, non so, ma è di quelli a cui viene tolto, e appunto tutto le è stato tolto. Certe volte mi fa profondamente pena; un tempo desideravo molto che Nikolaj la sposasse; ma ho sempre avuto come un presentimento che questo non sarebbe successo. È un fiore sterile; sai, come quelli delle fragole. Certe volte mi fa compassione, ma a volte penso che non soffra del suo stato come ne soffriremmo noi.»
E sebbene la contessa Mar’ja avesse spiegato a Nataša che quelle parole del Vangelo si dovevano intendere in un altro modo, tuttavia, guardando Sonja, doveva convenire con la spiegazione data da Nataša. Effettivamente pareva che Sonja non fosse amareggiata della sua situazione e che si fosse completamente rassegnata al suo destino di fiore sterile. Sembrava avesse care non tanto le singole persone quanto la famiglia nel suo complesso. Come una gatta, si era affezionata non alle persone, ma alla casa. Assisteva la vecchia contessa, vezzeggiava e viziava ì bambini, era sempre pronta a sbrigare quei piccoli servigi ai quali era portata, ma tutto questo veniva accolto dagli altri, involontariamente, con ben poca gratitudine.
La palazzina di Lysye Gory era stata ricostruita, ma non più su quel tono che aveva avuto all’epoca del defunto principe.
La costruzione, iniziata in un periodo di ristrettezze, era di un’assoluta semplicità. L’immensa casa, sulle vecchie fondamenta di pietra, ora era di legno, intonacata solo all’interno. La grande spaziosa dimora con il pavimento di legno grezzo, era ammobiliata in modo semplicissimo con divani e poltrone, tavoli e sedie fatti con betulle della tenuta da falegnami propri. Non mancavano però le stanze per la servitù e appartamenti per gli ospiti. I parenti dei Rostov e dei Bolkonskij venivano a volte a soggiornare a Lysye Gory al gran completo, con le loro famiglie, sedici cavalli, decine di servitori, e si fermavano per mesi. Inoltre, quattro volte all’anno, per gli onomastici e i compleanni dei padroni di casa vi affluivano, per un giorno o due, fine a cento invitati. Per il resto dell’anno, la vita vi scorreva con un ritmo assolutamente regolare con le solite occupazioni, i tè, le colazioni, i pranzi, le cene basati sulle provviste domestiche.
IX
Era la vigilia del giorno di San Nicola d’inverno, il 5 dicembre 1820. Quell’anno Nataša con i bambini e il marito era ospite del fratello fin dal principio dell’autunno. Pierre era a Pietroburgo, dove era andato per certi suoi affari particolari, come aveva detto, contando di trattenersi per tre settimane. Ne erano ormai passate sette e lo si aspettava da un momento all’altro.
Il 5 dicembre, oltre alla famiglia Bezuchov, era ospite dei Rostov anche un vecchio amico di Nikolaj, il generale a riposo Vasilij Fëdorovič Denisov.
Nikolaj sapeva che l’indomani, giorno della festa, quando sarebbero giunti tutti gli ospiti, avrebbe dovuto togliersi il besmet, indossare una giacca, mettersi le scarpe strette con la punta aguzza, recarsi nella nuova chiesa da lui costruita, e poi ricevere auguri e offrire i zakuski e discorrere delle elezioni della nobiltà e del raccolto, ma quel giorno di vigilia si sentiva ancora in diritto di passarlo come al solito. Fino all’ora di pranzo verificò i conti del borgomastro del villaggio in territorio di Rjazan’, dov’era la tenuta del nipote della moglie; scrisse due lettere d’affari e andò a fare un giro di controllo nell’aia, nelle stalle e nelle scuderie. Dopo aver dato disposizioni in vista dell’ubriacatura generale che era prevista per l’indomani, in occasione della festa solenne, rientrò a casa giusto per il pranzo e senza aver avuto il tempo di parlare a tu per tu con la moglie, si sedette alla lunga tavola apparecchiata per venti persone, intorno alla quale si erano riuniti tutti i familiari. A tavola c’erano la madre, la vecchia Belova che viveva con lei, la moglie, i tre figli, la governante, un precettore, il nipote col suo precettore, Sonja, Denisov, Nataša, i suoi tre figli, la loro governante e il vecchio Michail Ivanyč, l’architetto del principe, che viveva a Lysye Gory ormai a riposo.
La contessa Mar’ja sedeva al capo opposto della tavola. Non appena il marito si fu seduto al suo posto, dal gesto col quale spostò rapidamente il bicchiere e il bicchierino dopo aver spiegato il tovagliolo, la contessa Mar’ja decise che era di cattivo umore, come gli capitava qualche volta, soprattutto prima della minestra, quando dalle occupazioni in campagna passava direttamente alla stanza da pranzo. La contessa Mar’ja conosceva molto bene questo suo stato d’animo, e quando era ben disposta, aspettava tranquillamente che avesse mangiato la minestra, e solo allora gli rivolgeva la parola e lo costringeva ad ammettere che non aveva motivi di essere di cattivo umore. Quel giorno però dimenticò completamente questo suo modo di fare; fu addolorata all’idea che fosse adirato con lei senza motivo e si sentì infelice. Gli domandò dove fosse stato. Egli rispose. Gli domandò ancora se tutto funzionava regolarmente nella tenuta. Lui si accigliò sentendo quel suo tono poco naturale e rispose in modo affrettato.
«Così non mi sono sbagliata,» pensò la contessa. Mar’ja, «ma perché è arrabbiato con me?» Nel tono col quale Nikolaj le aveva risposto, la contessa Mar’ja aveva avvertito del malanimo nei suoi confronti e il desiderio di troncare il discorso. Si era accorta che le proprie parole avevano un tono sforzato, ma non poté trattenersi dal fare qualche altra domanda.
Grazie a Denisov, la conversazione a tavola diventò ben presto generale e animata, e la contessa Mar’ja non parlò più col marito. Quando tutti si alzarono da tavola e andarono a ringraziare la vecchia contessa, la contessa Mar’ja dando il braccio al marito lo baciò e gli domandò perché fosse adirato con lei.
«Tu hai sempre delle strane idee, sono ben lontano dall’essere in collera,» disse lui.
Ma la parola sempre era di per sé una risposta alla contessa Mar’ja: «sì, sono arrabbiato e non voglio dire perché.»
Nikolaj andava così d’accordo con sua moglie che persino Sonja e la vecchia contessa alle quali per gelosia non sarebbe dispiaciuto qualche contrasto fra di loro, non riuscivano a trovare un motivo per un rimprovero; anche fra loro, comunque, c’erano dei momenti di irritazione reciproca. Succedeva che, proprio dopo i periodi più felici, avvertissero a un tratto un senso di estraneità e di ostilità; questa sensazione li prendeva più spesso durante i periodi di gravidanza della contessa Mar’ja. In quel momento, essa si trovava proprio in quello stato.
«Ebbene, messieurs et mesdames,» disse Nikolaj ad alta voce in tono allegro (che alla contessa Mar’ja sembrò usato a bella posta per offenderla), «è dalle sei che sono in piedi. Domani ci sarà da soffrire, ma oggi possiamo andare a riposare.»
E senza dire più nulla alla contessa Mar’ja, si ritirò nella piccola stanza dei divani dove si coricò.
«Ecco, fa sempre così,» pensò la contessa Mar’ja. «Parla con tutti tranne che con me. Lo vedo, lo vedo, che gli sono odiosa. Specialmente in questo stato.» Si guardò il ventre ormai alto e nello specchio la faccia smagrita e giallognola, quasi divorata dagli occhi.
E tutto le diventò insopportabile: la voce stentorea e le risate di Denisov, e la conversazione di Nataša, e in modo particolare l’occhiata frettolosa che le lanciò Sonja.
Sonja era sempre il primo pretesto che la contessa Mar’ja sceglieva per concentrarvi la sua irritazione.
Dopo essere rimasta per un po’ con gli ospiti, senza capire nulla di quanto dicevano, uscì alla chetichella e andò nella stanza dei bambini.
I bambini seduti su una fila di sedie immaginavano di viaggiare alla volta di Mosca e la invitarono con loro. Si sedette, giocò con loro, ma il pensiero del marito e della sua irritazione senza motivo la tormentava continuamente. Si alzò e camminando a fatica in punta dei piedi, andò nella piccola stanza dei divani.
«Forse non dorme; mi spiegherò con lui,» si disse.
Il maggiore dei ragazzi, Andrjuša, la seguì, imitandola, in punta dei piedi. La contessa Mar’ja non se ne accorse.
«Chère Marie, il dort, je crois; il est si fatigué,» e disse Sonja nella grande stanza dei divani capitandole improvvisamente davanti (pareva alla contessa Mar’ja di averla sempre tra i piedi), «purché Andrjuša non lo svegli…»
La contessa Mar’ja si voltò e vide dietro di sé Andrjuša, sentì che Sonja aveva ragione e proprio per questo avvampò e si trattenne a fatica dal dirle qualcosa di aspro. Non rispose nulla, e per non ubbidirla, con la mano fece segno ad Andrjuša di non far rumore ma di venire pure con lei e si avvicinò alla porta. Sonja si avviò verso un’altra porta. Dalla stanza in cui dormiva Nikolaj si sentiva il suo respiro regolare, che la moglie conosceva fin nelle minime sfumature. Udendo quel respiro, la contessa si vedeva davanti la bella fronte liscia, i baffi, tutto il viso, che così spesso guardava a lungo, durante il sonno, nel silenzio della notte. Nikolaj improvvisamente si mosse e si schiarì la gola. In quello stesso momento Andrjuša gridò da dietro la porta: «Babbo, mammina è qui.»
La contessa Mar’ja impallidì per lo spavento e si mise a far segni al figlio. Questi ammutolì e ci fu un momento di silenzio, molto allarmante per la contessa Mar’ja. Essa sapeva quanto a Nikolaj dispiaceva venir svegliato. Ad un tratto dietro la porta si udì di nuovo quel suono gutturale insieme a un movimento, e la voce scontenta di Nikolaj: «Non ti lasciano in pace un momento. Marie, sei tu? Perché l’hai portato qui?»
«Ero venuta solo per vedere, non l’avevo visto… scusa…»
Nikolaj tossì e tacque. La contessa Mar’ja si allontanò dalla porta e accompagnò il figlio nella stanza dei bambini. Cinque minuti dopo la piccola Nataša di tre anni, dagli occhi nerissimi, la prediletta del padre, avendo saputo dal fratello che il babbo dormiva e la mamma era nella stanza dei divani, corse dal padre senza che la madre se ne accorgesse. La piccola fece cigolare arditamente la porta, si avvicinò con energici passettini dei suoi piccoli piedi al divano e osservata la posizione del padre che dormiva voltandole la schiena, si sollevò in punta di piedi e baciò la mano che il padre teneva sotto la testa. Nikolaj si voltò con un tenero sorriso sul volto.
«Nataša! Nataša!» si udì fuori della porta il bisbiglio spaventato della contessa Mar’ja. «Il babbo vuole dormire.»
«No, mamma, non vuole dormire,» rispose convinta la piccola Nataša, «sta ridendo.»
Nikolaj mise giù i piedi, si alzò e prese in braccio la figlia. «Entra Maša,» disse alla moglie.
La contessa Mar’ja entrò nella stanza e si sedette accanto al marito.
«Non avevo visto che il bambino mi correva dietro,» disse timidamente. «Ero venuta solo così…»
Tenendo con un braccio la figlia, Nikolaj guardò la moglie e notando l’espressione avvilita del suo viso, la cinse con l’altro braccio e la baciò sui capelli.
«Si può baciare la mamma?» domandò a Nataša.
Nataša sorrise confusa.
«Ancora!» disse con un gesto imperioso, indicando il punto dove Nikolaj aveva baciato la moglie.
«Non so proprio che cosa ti faccia pensare che io sia di cattivo umore,» disse Nikolaj, rispondendo alla domanda che sapeva al centro dei pensieri della moglie.
«Marie, basta, sono sciocchezze. Come fai a non vergognarti?» aggiunse gaiamente.
«Mi sembra che tu non possa volermi bene, di essere così brutta… sempre… ma ora poi… in questo stato…»
«Ah, come sei buffa! Non si ha cara una persona perché è bella, ma è bella perché ci è cara. Solo Malvina e le altre del suo stampo sono amate perché sono belle; ma forse che io amo mia moglie? Non è che l’ami, ma così, non so come dirti. Senza di te, e quando ecco, tra noi c’è qualche malinteso, io mi sento come perduto e non sono più in grado di far nulla. Ma sì, forse amo il mio dito? No, che non lo amo, ma prova a tagliarmelo!»
«No, per me non è così, ma ti capisco. Allora non sei arrabbiato con me?»
«Tremendamente arrabbiato,» rispose sorridendo e alzandosi in piedi e ravviandosi i capelli si mise a camminare per la stanza.
«Sai, Marie, a che cosa pensavo?» passò subito a dire ora che si erano riconciliati, mettendosi subito a pensare ad alta voce in presenza della moglie. Non le chiedeva se fosse disposta ad ascoltarlo, era superfluo. Gli era venuta in mente una cosa, quindi anche a lei. E le comunicò la sua intenzione di convincere Pierre a restare con loro fino a primavera.
La contessa Mar’ja lo ascoltò fino in fondo, fece le sue osservazioni e cominciò a sua volta ad esporre ad alta voce i suoi pensieri. I suoi pensieri riguardavano i bambini.
«Come si vede già da ora la donna,» disse in francese, indicando la piccola Nataša. «Voi rimproverate noi donne di mancare di logica. Ecco la nostra logica. Io dico: il babbo vuole dormire, e lei dice: no, ride. Ed è lei ad aver ragione,» disse la contessa Mar’ja, sorridendo felice.
«Sì, sì!»
E Nikolaj, presa col suo forte braccio la figlia, la sollevò in alto, se la mise sulle spalle, tenendola per le gambette, e si mise a girare con lei per la stanza. Sia il padre che la figlia avevano la stessa faccia spensieratamente felice.
«Ma sai, forse sei ingiusto. Vuoi troppo bene a questa,» bisbigliò in francese la contessa Mar’ja.
«È vero, ma che posso farci?… Cerco di non farlo vedere…»
In quel momento dal vestibolo e dall’anticamera si sentì un rumore di porte e di passi che facevano pensare a un arrivo improvviso.
«È arrivato qualcuno.»
«Sono sicura che è Pierre. Vado ad informarmi,» disse la contessa Mar’ja e uscì dalla stanza.
In sua assenza Nikolaj si permise di portare al galoppo la bambina intorno alla stanza. Poi, ansante, mise rapidamente giù la bambina che rideva e se la strinse al petto. I suoi salti gli avevano ricordato il ballo e ora, guardando il rotondo, felice visetto infantile, pensava a come sarebbe stata quando lui, ormai anziano, avrebbe cominciato a portarla in società, e così come il suo povero padre ballava ballava con la figlia il Danilo Cooper, così lui avrebbe ballato con lei una mazurca.
«È lui, è lui, Nicolas!» disse pochi minuti dopo la contessa Mar’ja rientrando nella stanza. «Adesso la nostra Nataša sembra rinata. Dovevi vedere il suo entusiasmo e quante ne ha dovute sentire Pierre perché ha tardato tanto a tornare. Sù, andiamo, presto, andiamo! Dividetevi una buona volta,» disse guardando con un sorriso la bambina che si stringeva al padre.
Nikolaj uscì, tenendo la figlia per mano. La contessa Mar’ja si trattenne nella stanza dei divani.
«Mai, mai avrei creduto,» mormorò fra sé, «che si potesse essere così felici.» Il suo volto era tutto illuminato da un radioso sorriso, ma nello stesso momento sospirò e una quieta mestizia aleggiò nel suo sguardo profondo; come se, oltre alla felicità che provava, ve ne fosse un’altra, irraggiungibile in questa vita, della quale involontariamente in quel momento si fosse ricordata.
X
Nataša si era sposata al principio della primavera del 1813, e nel 1820 aveva già tre figlie e un figlio, che aveva molto desiderato e che ora allattava. Si era fatta florida e piena tanto che era difficile riconoscere in quella madre robusta l’esile e irrequieta Nataša di un tempo. I lineamenti della faccia si erano definiti e avevano un’espressione di tranquilla dolcezza e limpidezza. Sul suo volto non c’era più, come una volta, quella fiamma di animazione che ardeva senza posa e che costituiva il suo fascino. Sovente ora si vedevano solo il suo viso e il suo corpo, mentre non si vedeva affatto l’anima. Si vedeva unicamente una femmina forte, bella e feconda. Il fuoco di un tempo ormai si accendeva in lei molto di rado. Accadeva solo quando, come in questo caso, ritornava suo marito, quando un bambino guariva da una malattia o quando, insieme alla contessa Mar’ja, ricordava il principe Andrej (col marito non parlava mai di lui, supponendo che fosse geloso della memoria del principe Andrej), oppure, molto più di rado, quando qualcosa la riportava casualmente al canto, che aveva completamente abbandonato dopo il matrimonio. E in quei rari momenti in cui il fuoco di un tempo si accendeva nel suo bel corpo, ora perfetto, era anche più affascinante di prima.
Dal matrimonio Nataša era sempre vissuta con il marito a Mosca, a Pietroburgo e nella campagna nei dintorni di Mosca, o in casa della madre, cioè da Nikolaj. In società, la giovane contessa Bezuchov si faceva vedere assai poco e quelli che l’avevano vista non ne erano entusiasti. Non era né aggraziata né amabile. Non che Nataša preferisse la solitudine (non sapeva neanche lei se le piacesse o no, le pareva anzi di no), ma tra le gravidanze, i parti, le poppate, la partecipazione intensa alla vita del marito, non poteva soddisfare tutte queste esigenze che rinunciando alla vita di società. Tutti coloro che avevano conosciuto Nataša prima del matrimonio si stupivano del cambiamento, davvero straordinario, avvenuto in lei. Soltanto la vecchia contessa, che con il suo intuito materno aveva sempre saputo che tutti gli slanci di Nataša erano originati solo dal bisogno di avere una famiglia, di avere un marito (come lei stessa, non tanto per scherzo quanto in un impeto di sincerità aveva dichiarato a Otradnoe), solo la madre dunque si stupiva dello stupore della gente che non capiva Nataša, e ripeteva di aver sempre saputo che Nataša sarebbe stata una moglie e una madre esemplare.
«Il fatto è che lei spinge all’estremo il suo amore per il marito e per i figli,» diceva la contessa, «tanto che a questo livello la cosa diventa perfino stupida!»
Nataša non seguiva quell’aurea massima professata dalle persone intelligenti e particolarmente dai francesi, secondo la quale una ragazza, sposandosi, non deve lasciarsi andare, non deve trascurare i propri talenti, deve invece aver cura del proprio aspetto ancora più che da ragazza, deve cercare di affascinare il marito come lo affascinava quando marito non era ancora. Nataša, invece, aveva abbandonato di colpo tutte le sue attrattive, fra le quali il canto spiccava in modo particolare. E lo aveva abbandonato proprio perché era una forte attrattiva. Nataša non si curava né delle proprie maniere né della delicatezza dei discorsi, né di mostrarsi a suo marito negli atteggiamenti più favorevoli, né della toilette, né di infastidire il marito con le sue pretese. Sentiva che quei mezzi di seduzione che l’istinto le aveva insegnato ad usare prima, ora sarebbero risultati solo ridicoli agli occhi del marito a cui si era data tutta sin dal primo momento, cioè con tutta l’anima, senza tenere per sé un solo cantuccio. Sentiva che il legame con lui non si basava su quei sentimenti poetici che lo avevano attratto verso di lei, ma su qualcosa d’altro, di non definibile, ma forte, come il legame della sua anima con il corpo.
Farsi i boccoli, mettere le robes-randes e cantare romanze per affascinare suo marito le sarebbe parso altrettanto strano che abbellirsi per piacere a se stessa. Abbellirsi per piacere agli altri forse le avrebbe anche fatto piacere - non ne era proprio sicura - ma non ne aveva assolutamente il tempo. La ragione principale per cui non si dedicava né al canto, né alle toilettes, né si curava di riflettere su quanto diceva, era che non aveva assolutamente il tempo di occuparsi di queste cose.
È noto che l’uomo ha la capacità di immergersi tutto in un oggetto, anche in quello che può sembrare il più insignificante. Ed è noto che non esiste un oggetto così insignificante che non si dilati fino all’infinito qualora vi si concentri l’attenzione.
L’oggetto che assorbiva completamente Nataša era la famiglia, ossia il marito, del quale bisognava occuparsi in modo che appartenesse completamente a lei, alla casa; e ai figli, che bisognava portare nel ventre, partorire, allattare ed educare.
E quanto più non con l’intelligenza ma con tutto il suo essere penetrava nell’oggetto che la occupava, tanto più questo oggetto si dilatava e tanto più deboli e insignificanti le apparivano le sue stesse forze, per cui le concentrava tutte sempre in quella direzione, e ciò nonostante non riusciva a fare tutto quello che le pareva necessario.
Anche allora, esattamente come oggi, si discuteva e ragionava sui diritti delle donne, sui rapporti fra i coniugi, sulla loro libertà e sui loro diritti, anche se allora non si chiamavano ancora questioni; ma erano problemi che non solo non interessavano Nataša, ma le riuscivano anche incomprensibili.
Anche allora, come oggi, tali questioni esistevano soltanto per quelle persone che nel matrimonio vedono unicamente il piacere che i coniugi si danno l’un l’altro e non tutto il suo significato che sta nella famiglia.
Le discussioni di un tempo e le odierne questioni, analoghe a quelle sul modo di ricavare il maggior piacere possibile da un pranzo, allora non esistevano, come non esistono neanche oggi per le persone per le quali lo scopo di un pranzo è nel nutrirsi e lo scopo del matrimonio è nella famiglia.
Se lo scopo del pranzo è il nutrimento del corpo, chi mangia in una volta sola due pranzi ne avrà forse un maggior piacere, ma non raggiungerà lo scopo, perché lo stomaco non digerisce due pranzi.
Se lo scopo del matrimonio è la famiglia, chi vorrà avere molte mogli o molti mariti, ne ritrarrà forse molto piacere, ma in nessun caso riuscirà ad avere una famiglia.
Tutta la questione, se lo scopo del pranzo sia il nutrimento e lo scopo del matrimonio la famiglia si risolve solamente col non mangiare più di quanto lo stomaco possa digerire e non avere più mogli e mariti di quanto è necessario per una famiglia, ossia una e uno. Nataša aveva bisogno di un marito. Ora l’aveva. E non solo non vedeva la necessità di un altro, miglior marito, ma, dato che tutte le sue energie spirituali erano concentrate su questo marito e sulla famiglia, non poteva nemmeno immaginarsi e non le interessava minimamente farlo come sarebbe stato se tutto fosse stato diverso.
Nataša non amava la compagnia degli estranei in genere, ma tanto più aveva cara la compagnia dei familiari, della contessa Mar’ja, del fratello, della madre e di Sonja. Le era cara la compagnia delle persone alle quali poteva presentarsi spettinata e in vestaglia, uscendo a grandi passi con aria felice dalla stanza dei bambini, e mostrare un pannolino con una macchia gialla anziché verde e ascoltare parole rassicuranti sulla salute del bambino.
Nataša si era lasciata andare a tal punto che i suoi vestiti, le sue acconciature, le sue parole dette a casaccio, la sua gelosia - era gelosa di Sonja, della governante, di ogni donna, bella o brutta che fosse - erano continuamente oggetto di scherzi da parte dei familiari. Era opinione generale che Pierre fosse completamente succube della moglie, ed effettivamente era così. Fin dai primi giorni di matrimonio Nataša aveva avanzato le sue pretese. Pierre era rimasto molto sorpreso da questo modo di vedere della moglie, che gli riusciva assolutamente nuovo, secondo il quale ogni istante della sua vita apparteneva a lei e alla famiglia; si era stupito delle pretese della moglie, ma ne era rimasto lusingato e vi si adeguava.
La sottomissione di Pierre arrivava al punto che non osava non tanto corteggiare, ma neanche parlare sorridendo con altre donne, non osava frequentare i club, andare a dei pranzi, neppure così, per passare il tempo, non osava spendere denaro per sé, non osava assentarsi da casa per lungo tempo, tranne che per affari, tra i quali sua moglie includeva anche i suoi studi scientifici, di cui non capiva nulla pur attribuendovi grande importanza. In cambio Pierre aveva il pieno diritto di disporre a suo piacimento in casa sua non solo di se stesso, ma dell’intera famiglia. In casa Nataša era agli ordini del marito, e tutti in casa camminavano in punta di piedi quando Pierre era occupato, leggeva o scriveva nel suo studio. Gli bastava manifestare una qualsiasi preferenza per vederla subito realizzata. Gli bastava esprimere un desiderio perché Nataša balzasse in piedi e corresse subito a esaudirlo.
L’intera casa era al suo servizio, al servizio cioè dei suoi desideri che Nataša si ingegnava ad indovinare. Il modo di vivere, la residenza, le conoscenze, le relazioni, le occupazioni di Nataša, l’educazione dei figli, tutto assecondava la volontà espressa da Pierre, non solo, ma Nataša si sforzava di intuire che cosa si poteva dedurre dalle idee enunciate da Pierre mentre conversava. Ed indovinava con sicurezza ciò che formava la sostanza dei desideri di Pierre e una volta indovinatala, vi si atteneva con fermezza e definitivamente. Quando accadeva che lo stesso Pierre esprimesse l’intenzione di cambiare un proprio desiderio, lottava contro di lui con le sue stesse armi.
Così, in un periodo penoso, che rimase per sempre impresso nella loro memoria, dopo la nascita del primo figlio, molto debole di costituzione, quando avevano dovuto cambiare tre balie e Nataša si era ammalata dalla disperazione, Pierre le aveva illustrato un giorno le idee di Rousseau, che lui condivideva completamente, a proposito dell’innaturalezza e della nocività delle balie. Quando nacque il secondo figlio, nonostante l’opposizione della madre, dei medici e dello stesso Pierre, che erano insorti contro il fatto che allattasse, cosa che allora era ritenuta inaudita e nociva, aveva insistito nel suo proponimento e da allora aveva allattato tutti i suoi bambini.
Molto spesso, nei momenti di irritazione, accadeva che marito e moglie litigassero, ma molto tempo dopo la lite, con sua gioia e meraviglia Pierre scopriva non solo nelle parole ma anche nelle azioni della moglie quella stessa sua idea contro la quale essa si era schierata. E non solo trovava quella stessa idea, ma la trovava emendata di quanto c’era in essa di superfluo e di esagerato, provocato dall’eccitazione e dalla lite.
Dopo sette anni di matrimonio Pierre aveva la lieta e ferma consapevolezza di non essere un uomo cattivo; lo sentiva perché si vedeva riflesso in sua moglie. In se stesso sentiva tutto il buono e tutto il cattivo mescolati insieme che si offuscavano a vicenda. Ma in sua moglie si rifletteva solo ciò che vi era in lui di autenticamente buono; tutto ciò che non era completamente buono veniva cancellato. E questa operazione avveniva non per una via logica, ma tramite un misterioso e immediato processo di riflessione.
XI
Due mesi prima, quando era già ospite dei Rostov, Pierre aveva ricevuto una lettera del principe Fëdor che lo invitava a recarsi a Pietroburgo per discutere alcuni importanti problemi che venivano dibattuti a Pietroburgo dai membri di una società della quale Pierre era uno dei principali fondatori.
Nataša, dopo che ebbe letto questa lettera (come tutte le altre che riceveva suo marito), nonostante che l’assenza del marito le riuscisse particolarmente penosa, fu la prima a proporgli di partire per Pietroburgo. A tutto ciò che era attività intellettuale e teorica del marito, Nataša, pur senza capirvi nulla, attribuiva un’enorme importanza; ed era costantemente allarmata all’idea di essere di intralcio a questo tipo di attività del marito. Allo sguardo timido e interrogativo rivoltole da Pierre dopo la lettura della lettera, rispose pregandolo di partire, ma di fissare con precisione la data del ritorno. E gli era stata concessa una licenza di quattro settimane.
Da quando, da due settimane, era scaduto il termine della licenza, Nataša era continuamente in uno stato di agitazione, di timore e di irritazione.
Denisov, generale a riposo, scontento della sua condizione attuale, arrivato lì nelle ultime due settimane, guardava Nataša con stupore e tristezza, come si guarda un ritratto privo di ogni rassomiglianza di una persona un tempo amata. Sguardi melanconici e annoiati, risposte a vanvera, e conversazioni concentrate solo sulla stanza dei bambini erano tutto ciò che vedeva e ascoltava dalla fata di una volta.
Per tutto quel periodo Nataša si mostrò triste e irritata, in modo particolare quando la madre, il fratello, Sonja e la contessa Mar’ja, cercando di consolarla, tentavano di giustificare Pierre e di immaginare le cause del suo ritardo.
«Tutte sciocchezze, stupidaggini belle e buone,» diceva Nataša, «le sue elucubrazioni che non portano a nulla, e tutte quelle balorde società,» diceva, parlando di quelle stesse cose, nella cui importanza credeva fermamente.
E se ne andava nella stanza dei bambini ad allattare il suo unico maschietto, Petja. Nessuno poteva dirle cose consolanti e ragionevoli come quella piccola creatura di tre mesi quando le stava attaccata al seno e sentiva il movimento della sua bocca e lo strofinio del suo nasino. La creatura le diceva: «Ti arrabbi, sei gelosa, vorresti vendicarti di lui, sei in ansia, ma io sono lui. Ma io sono lui…» E non c’era nulla da rispondere.
Era più che la verità.
In quelle due settimane dì preoccupazione Nataša ricorse così spesso al bambino per consolarsi, si occupò tanto di lui, che finì col dargli troppo latte e il bambino si ammalò. Nataša si spaventò molto, ma nello stesso tempo aveva bisogno proprio di questo. Curandolo, riusciva in parte a dimenticare la sua inquietudine per il marito.
Lo stava allattando quando all’ingresso si udì il rumore della vettura di Pierre e la njanja, sapendo che la cosa avrebbe reso felice la signora, entrò a passi silenziosi ma rapidi con la faccia raggiante.
«È arrivato?» domandò sottovoce Nataša, timorosa di muoversi per non svegliare il bambino che si stava addormentando.
«È arrivato, matuška,» bisbigliò la njanja.
Il sangue affluì al viso di Nataša e le gambe istintivamente fecero un movimento, ma non si poteva saltar su e correre di là. Il bimbo aprì di nuovo gli occhietti, la guardò: «Resta qui,» pareva dire e fece di nuovo schioccare pigramente le labbra.
Togliendoselo pian piano dal seno, Nataša lo cullò, lo passò alla njanja e si diresse a passi rapidi verso la porta. Ma raggiuntala si fermò come assalita da un rimorso per aver abbandonato nella sua gioia troppo presto il bambino e si voltò a guardare. La njanja, con i gomiti sollevati, stava mettendo il bambino nel lettino, oltre la sponda.
«Andate, andate pure matuška, state tranquilla, andate,» bisbigliò sorridendo la njanja con quella familiarità che si stabilisce sempre tra una njanja e la signora.
E Nataša corse con passo leggero verso l’anticamera.
Denisov, che era uscito con la pipa in bocca dallo studio per andare nel salone, ora per la prima volta riconobbe Nataša. Una luce chiara, scintillante e gioiosa si sprigionava dal suo volto trasfigurato.
«È arrivato!» gli disse passando di corsa e Denisov si sentì anche lui pieno di entusiasmo per l’arrivo di Pierre che peraltro non gli era granché simpatico. Giunta di corsa nell’anticamera, Nataša vide una figura alta impellicciata che si toglieva la sciarpa dal collo.
«È lui! È lui! È vero! Eccolo!» disse fra sé e volandogli incontro lo abbracciò, lo strinse a sé affondandogli la testa nel petto; poi, scostandolo, guardò la faccia coperta di nevischio rossa e felice di Pierre. «Sì, è lui, felice, contento…»
E ad un tratto si ricordò di tutti i tormenti dell’attesa di quelle due ultime settimane: la gioia che le scintillava sul volto scomparve; mise il broncio e riversò su Pierre un torrente di rimproveri e di parole cattive.
«Sì, tu stai bene, sei soddisfatto, ti sei divertito… Ma io? Almeno fossi stato in pensiero per i bambini! Io allatto, mi si è guastato il latte… Petja è stato sul punto di morire. E tu sei allegro e contento. Sì, contentissimo…»
Pierre sapeva di non avere colpa alcuna perché gli sarebbe stato impossibile tornare prima; sapeva che quell’esplosione era sconsiderata e che fra due minuti tutto sarebbe finito; sapeva, soprattutto, di sentirsi allegro e contento. Avrebbe voluto sorridere, ma non osava neanche pensarci. Fece una faccia mesta e spaventata e chinò il capo.
«Non ho potuto, quant’è vero Dio. Ma che cos’ha Petja?»
«Più niente adesso, andiamo. Come fai a non vergognarti? Se avessi potuto vedere com’ero ridotta senza di te, come mi sono tormentata…»
«Ma stai bene?»
«Andiamo, andiamo,» disse lei senza lasciargli la mano. E si diressero nelle loro stanze.
Quando Nikolaj e la moglie andarono a salutare Pierre, lo trovarono nella stanza dei bambini: sull’enorme palmo della mano destra teneva il lattante che si era svegliato e lo stava ninnando. Sulla faccina larga, con la bocca spalancata e senza denti, era impresso un sorriso beato. La burrasca era passata da un pezzo e un sole fulgido e giocondo splendeva sul viso di Nataša che guardava intenerita il marito e il figlio.
«E avete parlato per bene di tutto col principe Fëdor?» chiese Nataša.
«Sì, perfettamente.»
«Vedi, la regge (Nataša alludeva alla testa). «Ma come mi ha fatto spaventare!… E la principessina l’hai vista? È vero che è innamorata di quel…»
«Ma sì, immaginati un po’…»
In quel momento entrò Nikolaj con la contessa Mar’ja. Sempre tenendo il bambino Pierre si chinò a baciarli e rispose alle loro domande. Ma era evidente che nonostante le molte cose importanti che avevano da dirsi, il bambino con la cuffietta e la testa dondolante assorbiva tutta l’attenzione di Pierre.
«Com’è carino!» disse la contessa Mar’ja guardando il bimbo e vezzeggiandolo. «Ecco una cosa Nicolas che non capisco,» si rivolse al marito, «come tu non veda l’incanto di questa creaturina.»
«Non lo capisco, non mi è possibile,» disse Nikolaj, guardando freddamente il bambino. «Un pezzo di carne. Andiamo Pierre.»
«L’essenziale è che è un padre così affettuoso,» disse la contessa Mar’ja per giustificare suo marito, «però solo quando cominciano ad avere un anno o poco più…»
«No, Pierre invece li culla benissimo,» disse Nataša, «dice che ha la mano fatta su misura per il culetto dei bambini. Guardate!»
«Già, ma non solo per questo!» disse Pierre scoppiando a ridere e passando il bambino alla njanja.
XII
Come in ogni vera famiglia, nella casa di Lysye Gory convivevano alcuni mondi completamente diversi fra loro che, mantenendo ciascuno la propria individualità e facendosi reciproche concessioni, si fondevano in un tutto armonioso. Ogni avvenimento che si verificava nella casa era ugualmente lieto o triste o importante per tutti quei mondi; ma ognuno di quei mondi aveva ragioni sue, indipendenti dagli altri, di rallegrarsi o rattristarsi di ogni avvenimento.
Così, l’arrivo di Pierre era stato un avvenimento lieto e importante e come tale si era riflesso su tutti.
I servitori, che sono i più sicuri giudici dei padroni, giacché non giudicano in base ai discorsi o alla espressione dei sentimenti, ma in base alle azioni e al modo di vivere, erano contenti dell’arrivo di Pierre perché sapevano che presente lui il conte avrebbe smesso di andare ogni giorno in giro per la tenuta e sarebbe stato più allegro e più buono; e che inoltre tutti avrebbero ricevuto ricchi doni in occasione della festa.
I bambini e le governanti erano contenti del ritorno di Bezuchov perché nessuno come lui li faceva tanto partecipare alla vita comune. Solo lui sapeva suonare sul clavicembalo quella écossaise (l’unico pezzo che sapeva) con la quale, come diceva, si potevano ballare tutti i balli possibili; e poi aveva certamente portato regali per tutti.
Nikolen’ka, un ragazzo magro ormai quindicenne, con i capelli biondi ricciuti, malaticcio e intelligente, era contento perché lo zio Pierre, come lo chiamava, era l’oggetto della sua ammirazione e del suo amore appassionato. Nessuno aveva ispirato a Nikolen’ka un particolare affetto per Pierre ed egli lo vedeva solo di rado. La sua educatrice, la contessa Mar’ja, si impegnava con tutte le sue forze a fargli amare suo marito, come lo amava lei, e Nikolen’ka voleva bene allo zio, ma con una sfumatura quasi impercettibile di disprezzo. Adorava invece Pierre. Non voleva diventare un ussaro, né un cavaliere di San Giorgio, come lo zio Nikolaj; voleva diventare un uomo istruito, intelligente e buono come Pierre. In presenza di Pierre la sua faccia era sempre illuminata di gioia, ed egli arrossiva e si sentiva mancare il respiro quando Pierre si rivolgeva a lui. Non perdeva una parola di quanto Pierre diceva e poi con Dessalles e solo con se stesso ricordava e rifletteva sul significato di ogni sua parola. Il passato di Pierre, le sue disgrazie fino al 1812 (delle quali, da quanto aveva sentito, si era fatto un’idea confusa e poetica), le sue avventure a Mosca, la prigionia, Platon Karataev (di cui aveva sentito parlare da Pierre), il suo amore per Nataša (che pure il ragazzo amava in modo particolare), e soprattutto l’amicizia di Piene con suo padre, che Nikolen’ka non ricordava, erano tutte cose che glielo facevano apparire come un eroe, con in più qualcosa di sacro.
Da frasi sempre interrotte su suo padre e su Nataša, dall’emozione con cui Pierre parlava del defunto, dalla rispettosa e devota tenerezza con cui Nataša parlava di lui, il ragazzo, che cominciava appena allora a intuire qualcosa dell’amore, si era fatto l’idea che suo padre amasse Nataša e, morendo, l’avesse affidata all’amico. Suo padre poi, che il ragazzo non ricordava, gli appariva come una divinità al di là di ogni immaginazione alla quale non pensava se non con un tuffo al cuore e lacrime di tristezza e di rapimento. E il ragazzo fu felice del ritorno di Pierre.
Gli ospiti erano lieti di avere Pierre tra loro perché animava e affiatava qualsiasi compagnia.
Le persone adulte di casa, per non parlare della moglie, erano contente del ritorno dell’amico col quale la vita scorreva più facile e tranquilla.
Le vecchie erano contente per i regali che portava e soprattutto perché Nataša si sarebbe ripresa.
Pierre conosceva questi diversi modi che avevano gli altri di vederlo e si premurava di dare a ciascuno quello che si aspettava da lui.
Pierre, uomo distratto e smemorato fino all’inverosimile, in base a una lista compilata dalla moglie, aveva comperato tutto senza dimenticare né le commissioni della suocera e di suo cognato, né l’abito per la Belova, né i giocattoli per i nipotini. Nei primi tempi del suo matrimonio gli era sembrata strana questa pretesa di sua moglie, di eseguire tutti gli incarichi che si era assunto e l’aveva colpito il sincero dispiacere di lei quando nel suo primo viaggio si era dimenticato di ogni cosa. Ma in seguito si era abituato. Sapendo che Nataša non gli dava nessuna commissione per sé e gliene dava per gli altri solo quando lui stesso si offriva, ora provava un piacere infantile e imprevisto in quell’acquisto di regali per tutta la casa e non dimenticava mai nulla. Se si meritava i rimproveri di Nataša, era solo perché aveva acquistato cose in più e troppo care. A tutti i suoi difetti, difetti secondo l’opinione dei più (la sciatteria, la trasandatezza), qualità secondo l’opinione di Pierre, Nataša aggiungeva anche l’avarizia.
Da quando Pierre aveva incominciato a vivere in una grande casa, in una famiglia che richiedeva grandi spese, con sua meraviglia aveva notato che spendeva due volte meno di prima e che la sua situazione economica, negli ultimi tempi non felice (soprattutto per via dei debiti della prima moglie) si era andata riassestando.
La vita era meno dispendiosa perché era ormai una vita legata; Pierre non aveva più, né desiderava più avere, quel lusso che è il più costoso, che consiste in un genere di vita che si può cambiare in ogni momento. Sentiva che il suo modo di vivere era ormai determinato una volta per sempre, fino alla morte, che cambiarlo non era in suo potere, e perciò quel modo di vivere era meno costoso.
Pierre allegro e sorridente sbandierava i propri acquisti.
«Guarda che roba!» diceva srotolando come un negoziante un pezzo di stoffa.
Nataša sedeva di fronte a lui tenendo sulle ginocchia la figlia maggiore, spostando rapidamente lo sguardo splendente dal marito agli oggetti che le mostrava.
«È per la Belova? È magnifico.» E ne tastò la qualità. «Avrai speso un rublo, no?»
Pierre disse il prezzo.
«Caro!» rispose Nataša. «Ma chissà come saranno contenti i bambini e maman. Però hai fatto male a comprarmi questo,» aggiunse, senza però riuscire a trattenere un sorriso di compiacimento alla vista di uno di quei pettini d’oro con le perle, che cominciavano proprio allora a diventare di moda.
«È stata Adèle che mi ha fatto perdere la testa: comperare, comperare,» disse Pierre.
«Quando potrei mettermelo?» Nataša se lo infilò nella treccia. «Sarà per quando porteremo in società Mašen’ka; forse allora li porteranno di nuovo. Ma adesso andiamo.»
E raccolti i doni, si recarono prima nella stanza dei bambini e poi dalla contessa.
La contessa come al solito era intenta con la Belova a un solitario quando Pierre e Nataša entrarono nel salotto con gli involti sotto il braccio.
La contessa aveva ormai più di sessant’anni. Era tutta bianca e portava una cuffia che le circondava il viso con una ruche. Il volto era rugoso, il labbro superiore era rientrato e gli occhi erano velati.
Dopo la morte del figlio e del marito, susseguitesi così rapidamente, si sentiva un essere dimenticato per caso sulla terra, privo di qualsiasi scopo e significato. Mangiava, beveva, dormiva, vegliava ma non viveva. La vita non le procurava nessuna impressione. Dalla vita non esigeva più nulla se non la quiete e la quiete poteva trovarla soltanto nella morte. Ma per il momento la morte non veniva e lei doveva vivere, ossia adoperare tutte le sue energie vitali. In lei si osservava in sommo grado ciò che si riscontra nei bambini molto piccoli e nelle persone molto vecchie. Nella sua vita non si poteva individuare nessuno scopo esterno, era evidente solo il bisogno di tenere in esercizio le diverse inclinazioni e facoltà. Mangiava, dormiva, pensava, parlava, piangeva, lavorava, si adirava e così via solo perché aveva uno stomaco, un cervello, dei muscoli, dei nervi e un fegato. Faceva tutte queste cose senza esservi spinta da nulla di esterno, non come vengono fatte dalle persone nel pieno vigore dell’età, quando oltre allo scopo a cui tendono non si nota l’altro scopo, quello di applicare le proprie energie. Parlava solo perché fisicamente aveva bisogno di far lavorare i polmoni e la lingua. Piangeva come un bambino perché aveva bisogno di liberarsi il naso, e così via. Ciò che per le persone nel pieno del vigore si presenta come uno scopo per lei evidentemente era un pretesto.
Così al mattino, specialmente se la sera prima aveva mangiato qualche cosa di grasso, sentiva il bisogno di arrabbiarsi e allora sceglieva il pretesto più a portata di mano: la sordità della Belova.
Dall’altro capo della stanza cominciava a dirle qualcosa a bassa voce:
«A quanto pare, oggi fa meno freddo, mia cara,» diceva in un sussurro. E quando la Belova rispondeva: «Come no, sono arrivati,» brontolava seccata: «Dio mio, com’è sorda e scema!»
Un altro pretesto era il tabacco da fiuto che un giorno le pareva troppo secco, un giorno umido, un altro mal trinciato. Dopo queste arrabbiature la bile le affluiva al volto e le sue cameriere sapevano a colpo sicuro quando la Belova sarebbe stata di nuovo sorda e il tabacco sarebbe diventato umido e la faccia sarebbe tornata gialla. Così come aveva bisogno di far lavorare la bile, qualche volta aveva bisogno di far lavorare le superstiti facoltà di raziocinio e il pretesto per questo era il solitario. Quando aveva bisogno di piangere, la soccorreva il defunto conte. Quando aveva bisogno di agitarsi, il pretesto era offerto da Nikolaj e dalla sua salute; quando aveva bisogno di aggredire a parole qualcuno, il pretesto era la contessa Mar’ja. Quando le occorreva esercitare l’organo della voce - cosa che accadeva per lo più dopo le sei, dopo il riposo al buio per la digestione - il pretesto era dato dal raccontare sempre le stesse storie agli stessi ascoltatori.
Questo stato della vecchia contessa era noto a tutti i familiari sebbene nessuno ne parlasse mai e tutti facessero il possibile per soddisfare queste sue esigenze. Solo qualche rara volta nelle occhiate che con un mezzo sorriso un po’ mesto si scambiavano fra loro Nikolaj, Pierre, Nataša e la contessa Mar’ja emergeva questa reciproca comprensione del suo stato.
Ma erano occhiate che dicevano anche altro; dicevano che lei aveva già fatto la sua parte nella vita, che non era tutta in che si vedeva di lei ora, che anche noi diventeremo tutti così e che dava gioia assecondarla, contenersi per questo essere un tempo caro, un tempo pieno di vita come noi e che ora era così patetico. Memento mori, dicevano quegli sguardi.
Fra tutte le persone di casa soltanto quelle completamente cattive o stupide e i bambini piccoli non capivano queste cose e la evitavano.
XIII
Quando Pierre e la moglie entrarono nel salotto la contessa si trovava nello stato che le era consueto quando aveva bisogno di occuparsi nel lavoro mentale del solitario e perciò, sebbene dicesse per abitudine le parole che diceva sempre al ritorno di Pierre o del figlio: «Era ora, era ora, mio caro; ti sei fatto aspettare. Be’, sia ringraziato Iddio!» e alla consegna dei regali dicesse altre parole consuete: «Non è il regalo che vale, amico mio, grazie di esserti ricordato di questa povera vecchia…», si vedeva che l’arrivo di Pierre in quel momento la disturbava, perché la distoglieva dal solitario che non aveva ancora finito di disporre sul tavolo. Terminò quindi il solitario e solo allora si occupò dei regali. I regali consistevano in un astuccio per le carte di stupenda fattura, in una tazza di Sèvres di un azzurro vivo, con un coperchio ove erano dipinte delle pastorelle e in una tabacchiera d’oro col ritratto del conte, che Pierre aveva ordinato a un miniaturista di Pietroburgo (la contessa desiderava da tempo quest’oggetto). In quel momento non aveva bisogno di piangere e perciò guardò con indifferenza il ritratto e si interessò soprattutto dell’astuccio.
«Ti ringrazio, amico mio, mi hai dato una consolazione,» disse, come diceva sempre. «Ma il regalo migliore è che sei tornato. Non si sapeva più che cosa fare, dovresti almeno sgridare un po’ tua moglie. Cose da non dirsi! Senza di te pareva impazzita. Non vedeva, non capiva nulla,» diceva, ripetendo le solite frasi. «Guarda, Anna Timofeevna,» soggiunse, «che astuccio mi ha portato mio genero.»
La Belova lodò i regali e andò in estasi per la sua stoffa.
Benché Pierre, Nataša, Nikolaj, la contessa Mar’ja e Denisov desiderassero parlare fra loro di molte cose che non era il caso di dire davanti alla contessa, e questo non perché la si volesse tenere all’oscuro di qualche cosa, ma perché era ormai così lontana da tante cose che, incominciando a parlare davanti a lei, si sarebbe dovuto rispondere a domande fatte a sproposito e ripetere cose già ripetute molte altre volte: raccontare che il tale era morto, quell’altro si era sposato, tutte cose che lei non riusciva a ricordare; tuttavia, come d’abitudine, rimasero in salotto a bere come al solito il tè intorno al samovar e Pierre rispondeva alle domande della contessa, inutili anche per lei e che non interessavano nessuno: se il principe Vasilij fosse invecchiato, se la contessa Mar’ja Alekseevna avesse detto di salutarla, ecc.
Questo genere di conversazione, che non interessava nessuno ma che era indispensabile, si protrasse per tutto il tempo del tè. Per il tè tutti i componenti della famiglia si riunivano intorno alla tavola rotonda accanto al samovar, vicino al quale era seduta Sonja. I bambini, le governanti e i precettori avevano già preso il tè e le loro voci echeggiavano dalla attigua stanza dei divani. Nell’ora del tè tutti occupavano i loro posti abituali; Nikolaj si sedeva vicino alla stufa dietro un tavolino dove gli servivano il tè. La vecchia cagna Milka, figlia della prima Milka, con il muso completamente grigio, sul quale spiccavano ancora di più i grandi occhi neri, era sdraiata sulla poltrona accanto a lui. Denisov, con i capelli ricciuti, i baffi e le fedine ormai ingrigiti, con la giubba da generale sbottonata, era seduto vicino alla contessa Mar’ja. Pierre sedeva tra la moglie e la vecchia contessa. Raccontava di cose che - lui lo sapeva - potevano interessare la vecchia e riuscirle comprensibili. Parlava di avvenimenti del bel mondo e di quelle persone che un tempo avevano formato la cerchia dei conoscenti della vecchia contessa, che una volta avevano formato un gruppo a se stante, attivo e vivo, ma che ora, disperse per il mondo, proprio come lei stavano finendo i loro giorni, raccogliendo le ultime spighe di ciò che avevano seminato in vita. Ma solo questi coetanei parevano costituire alla vecchia contessa un mondo veramente serio e reale. Dall’animazione di Pierre Nataša capiva che il suo viaggio era stato interessante, che avrebbe voluto raccontare molte cose, ma che esitava a dirle davanti alla contessa. Denisov, che non essendo membro della famiglia non capiva la circospezione di Pierre e che inoltre, malcontento com’era, si interessava molto di quanto succedeva a Pietroburgo, incitava continuamente Pierre a raccontare ora di un episodio appena successo nel reggimento Semënovskij, ora di Arakčeev, ora della Società Biblica. Pierre certe volte si lasciava trascinare e incominciava a raccontare, ma ogni volta Nikolaj e Nataša si premuravano di riportarlo alla salute del principe Ivan e della contessa Mar’ja Antonovna.
«E allova, tutte quelle pazzie, Gossnev e la Tatavinova,» domandò Denisov, «possibile che duvino ancova?»
«Se continua?» esclamò Pierre. «Più forte che mai. La Società Biblica adesso è tutto il governo.»
«Come sarebbe a dire, mon cher ami?» domandò la contessa, che aveva finito di bere il suo tè ed evidentemente desiderava trovare un pretesto per irritarsi dopo l’ingestione di un po’ di cibo. «Che cosa dici… il governo? Non capisco.»
«Ma sì, sapete, maman,» si intromise Nikolaj che sapeva come bisognasse tradurre il fatto nel linguaggio della madre, «il principe Aleksandr Nikolaevič Golicyn ha organizzato una società, e adesso, a quanto si dice, è molto in auge.»
«Arakčeev e Golicyn,» disse imprudentemente Pierre, «sono ormai tutto il governo. E che governo! Dovunque vedono congiure, hanno paura di tutto.»
«Ma come, e che colpa ha il principe Aleksandr Nikolaevič? Un uomo così rispettabile. Lo incontravo sempre da Mar’ja Antonovna,» disse con tono offeso la contessa e ancor più offesa dal fatto che tutti tacevano, proseguì: «Oggi tutti si sono messi a giudicare. Una società evangelica, ebbene, che cosa c’è di male?» e si alzò (tutti si alzarono con lei) e con aria severa si avviò verso la stanza dei divani, al suo tavolo.
Nel triste silenzio che era sopraggiunto, dalla stanza vicina arrivarono le voci e le risate dei bambini. Fra i bambini evidentemente, regnava una gioiosa agitazione.
«Pronti, pronti!» su tutte le voci echeggiò lo strillo di gioia della piccola Nataša.
Pierre scambiò un’occhiata con la contessa Mar’ja e con Nikolaj (Nataša l’aveva sempre nello sguardo) e sorrise felice.
«Questa sì che è una musica meravigliosa!» disse.
«Anna Makarovna deve aver finito le calze,» disse la contessa Mar’ja.
«Oh, vado a vedere,» disse Pierre balzando in piedi. «Sapete,» disse fermandosi accanto alla porta, «perché mi piace tanto questa musica? Sono loro i primi a farmi sapere che tutto va bene. Oggi in viaggio più mi avvicinavo a casa, più mi aumentava la paura. Ma appena sono entrato in anticamera, ho sentito Andrjuša ridere a più non posso; allora, mi sono detto, tutto va bene…»
«Lo conosco, lo conosco questo stato d’animo,» confermò Nikolaj. «Io non posso venire, perché le calze devono essere una sorpresa per me.»
Pierre andò dai bambini e gli strilli si fecero ancora più forti. «Ebbene, Anna Makarovna,» si udì la voce di Pierre, «vieni qui in mezzo e attenzione al comando: uno, due, e quando dirò tre, mettiti qua e stendi le mani. Su: uno, due…» scandiva la voce di Pierre nel silenzio generale. «Tre!» e nella stanza si levò un coro entusiastico di voci infantili.
«Sono due! Due!» gridavano i bambini.
Si trattava di due calze che, secondo un segreto che lei sola conosceva, Anna Makarovna lavorava contemporaneamente con i ferri e che poi estraeva solennemente una dall’altra davanti ai bambini quando il lavoro era portato a termine.
XIV
Di lì a poco i bambini vennero a salutare. Scambiarono baci con tutti, i precettori e le governanti salutarono e uscirono. Rimase soltanto Dessalles con il suo allievo. Il precettore lo invitò a bassa voce a scendere da basso.
«Non, monsieur Dessalles, je demanderai à ma tante de rester,» rispose sempre sottovoce Nikolen’ka Bolkonskij.
«Ma tante, permettetemi di restare,» disse Nikolen’ka avvicinandosi alla zia. Il suo viso era tutto preghiera, agitazione ed entusiasmo. La contessa Mar’ja lo guardò e poi si rivolse a Pierre.
«Quando ci siete voi, non vuole più andare via…» gli disse.
«Je vous le ramenerai tout a l’heure, monsieur Dessalles; bonsoir,» disse Pierre stringendo la mano allo svizzero, e quindi si rivolse sorridendo a Nikolen’ka. «Non ci siamo ancora visti noi due. Marie, ma sai che gli rassomiglia sempre di più,» aggiunse rivolgendosi alla contessa Mar’ja.
«A mio padre?» chiese il ragazzo avvampando e guardando di sotto in su Pierre con occhi estatici e splendenti.
Pierre annuì col capo e proseguì nel suo racconto che era stato interrotto dai bambini. La contessa Mar’ja lavorava a un canovaccio; Nataša non distoglieva lo sguardo dal marito. Nikolaj e Denisov si alzavano continuamente, chiedevano le pipe, fumavano, si facevano dare altro tè da Sonja, che se ne stava seduta con un’aria melanconica e ostinata vicino al samovar, e facevano domande a Pierre. Il ragazzo ricciuto e malaticcio stava seduto in un angolo con gli occhi splendenti senza farsi notare da nessuno e si limitava a girare la testa ricciuta sull’esile collo scoperto dal colletto rovesciato sempre in direzione di Pierre; di tanto in tanto trasaliva e mormorava qualcosa tra sé, evidentemente in preda a qualche impressione nuova e violenta.
La conversazione verteva su quei pettegolezzi d’attualità riguardanti le alte sfere amministrative, nei quali la maggior parte degli uomini vede di solito il maggior motivo di interesse della politica interna. Denisov, scontento del governo per la propria sfortuna nella carriera, apprendeva con gioia tutte le stupidaggini che, secondo lui, si stavano facendo a Pietroburgo e commentava le parole di Pierre con espressioni colorite e aspre.
«Pvima bisognava esseve tedeschi, ova bisogna ballave con la Tatavinova e con m.me Kvüdenev, leggeve Eckhavtschausen e compagnia. Oh! Vimettessevo in libevtà il nostvo bvavo Bonapavte! Lui sì che gli toglievebbe tutti i gvilli dalla testa! Ma che voba è mai questa di dave il veggimento Semënovskij in mano a quel soldataccio di Schwavz?» gridava tutto eccitato.
Nikolaj, pur non avendo il preciso desiderio di Denisov di trovare tutto disastroso, riteneva anche lui che fosse giusto e importante criticare il governo e credeva che la nomina di A. a ministro del tal dicastero e di B. a governatore militare nel tal posto e certe parole dell’imperatore e certe altre di un ministro fossero tutte cose molto significative. E riteneva necessario interessarsene e faceva domande al riguardo a Pierre. Per via delle domande di quei due interlocutori la conversazione non abbandonava quel banale carattere di pettegolezzo intorno alle alte sfere governative.
Nataša, però, che conosceva tutti i modi e i pensieri di suo marito, vedeva che Pierre da tempo avrebbe voluto avviare il discorso su un’altra via e parlare di quanto gli premeva, del motivo per cui era andato a Pietroburgo a consultarsi col suo nuovo amico il principe Fëdor. Gli venne allora in aiuto domandandogli come fosse andato il suo incontro con il principe Fëdor.
«Di che cosa si tratta?» domandò Nikolaj.
«Sempre della stessa cosa,» disse Pierre, guardandosi attorno. «Tutti vedono che le cose vanno talmente male che non si può andare avanti così e che il dovere di tutte le persone oneste è di opporsi nella misura delle loro forze.»
«E che cosa potrebbero fare le persone oneste?» chiese Nikolaj aggrottando leggermente le sopracciglia. «Che cosa si può fare?»
«Ecco che cosa…»
«Andiamo nello studio,» disse Nikolaj.
Nataša, che già da un pezzo si aspettava che la venissero a chiamare per allattare, udì il richiamo della njanja e andò nella stanza dei bambini. La contessa Mar’ja uscì con lei. Gli uomini passarono nello studio e Nikolen’ka Bolkonskij, senza che lo zio se ne accorgesse, li seguì e si sedette nella penombra vicino alla finestra, accanto alla scrivania.
«Ebbene, che cosa vovvesti fave?» domandò Denisov.
«Sempre fantasticherie,» disse Nikolaj.
«Ecco che cosa,» cominciò Pierre senza sedersi, ora camminando per la stanza, ora fermandosi, parlando bleso e facendo rapidi gesti con le mani mentre parlava. «Ecco che cosa. La situazione a Pietroburgo è questa: l’imperatore non si occupa di niente. È tutto preso dal misticismo (adesso Pierre non perdonava a nessuno il misticismo). Cerca soltanto la tranquillità, ma la tranquillità gliela possono dare solo quelle persone sans foi ni loi che stroncano e opprimono a tutto andare: Magnickij, Arakčeev e tutti quanti… Sarai d’accordo che se tu non ti occupassi personalmente della tua azienda e volessi soltanto la tranquillità, quanto più spietato fosse il tuo fattore, tanto più facilmente raggiungeresti lo scopo?» chiese rivolgendosi a Nikolaj.
«D’accordo, ma cosa vuoi dire con questo?» disse Nikolaj.
«Bene, intanto tutto va in malora. Nei tribunali si ruba, nell’esercito non c’è che il bastone: passo di parata e deportazioni, si tortura il popolo, si soffoca la cultura. Tutto quello che è giovane e onesto viene annientato! Tutti vedono che non si può più andare avanti così. La corda è troppo tesa e inevitabilmente si spezzerà,» diceva Pierre (come, da quando esistono i governi, dice da sempre la gente esaminando l’operato di qualsiasi governo). «A Pietroburgo io ho detto loro una sola cosa.»
«A chi?» domandò Denisov.
«Su, voi lo sapete a chi,» disse Pierre guardando di sottecchi in modo significativo, «al principe Fëdor e a tutti loro. Favorire la cultura e la beneficenza è un’ottima cosa, naturalmente. Lo scopo è bellissimo e tutto quello che volete, ma nelle circostanze attuali ci vuole qualcos’altro.»
A questo punto Nikolaj si accorse della presenza del nipote. Si aggrondò e gli si avvicinò.
«E tu cosa ci fai qui?»
«Perché no? Lascialo stare,» disse Pierre, prendendo Nikolaj per un braccio, e proseguì: «Questo non basta più, ho detto loro; ora occorre dell’altro. Quando ve ne state passivi ad aspettare che da un momento all’altro questa corda troppo tesa si spezzi, quando tutti aspettano questo rivolgimento inevitabile, è necessario che il maggior numero di persone possibile e nel modo più stretto possibile si prendano per mano per far fronte alla catastrofe generale. Tutto quello che c’è di giovane e forte viene attratto lì e si corrompe. Uno viene adescato dalle donne, l’altro dagli onori, un terzo dalla vanità, e così passano via via dall’altra parte. Di uomini indipendenti, liberi, come voi ed io, non ne restano più. E io dico: allargate la cerchia della società, che il mot d’ordre non sia più solo la virtù, ma anche l’indipendenza e l’attività.»
Nikolaj, lasciato in pace il nipote, aveva spostato nervosamente una poltrona, vi si era seduto e sempre ascoltando Pierre tossicchiava con aria scontenta e si incupiva sempre di più.
«Ma un’attività con quale scopo?» esclamò. «E in quali rapporti sareste col governo?»
«Ecco in quali: in rapporti di collaborazione. La società può anche non essere segreta se il governo lo permette. Non solo non sarebbe ostile al governo, ma sarebbe una società di veri conservatori. Una società di gentlemen nel vero senso della parola. Soltanto affinché un Pugačëv non venga a sgozzare i miei e i tuoi bambini e un Arakčeev non mi spedisca in una colonia militare, soltanto per questo ci prendiamo per mano, con l’unico fine del bene comune e della comune sicurezza.»
«Sì, ma è una società segreta e di conseguenza è una società ostile e nociva, che può generare soltanto del male.»
«Perché? Il Tugenbund che ha salvato l’Europa (allora non si osava ancora pensare che fosse stata la Russia a salvare l’Europa), ha forse prodotto qualcosa di nocivo? Il Tugenbund era una lega della virtù, era l’amore, l’aiuto reciproco; era ciò che Cristo predicava sulla croce…»
Nataša, che era entrata nella stanza nel bel mezzo della conversazione, guardava con espressione gioiosa il marito. Non la rallegrava quanto lui diceva, che al limite non la interessava, poiché le pareva che fossero tutte cose straordinariamente semplici e di saperle da sempre (così le pareva perché conosceva tutto ciò da cui esse provenivano, l’anima di Pierre), ma la rallegrava vedere in Pierre tanta animazione e tanto entusiasmo.
In modo ancor più gioioso ed estatico lo guardava il ragazzo (di cui tutti si erano dimenticati) dal collo sottile che usciva dal colletto rovesciato. Ogni parola di Pierre gli si imprimeva ardente nel cuore; con un movimento nervoso delle dita spezzava senza accorgersene le stecche di ceralacca e le penne che gli capitavano sotto mano sulla scrivania dello zio.
«Assolutamente diverso da quello che credi tu, ecco cosa era il Tugenbund tedesco e quello che propongo io.»
«Be’, fvatello, il tuo Tugenbund va bene pev i mangiatovi di salsicce, ma io non lo capisco e non so neppuve pvonunciavlo,» si sentì ad un tratto la voce alta e decisa di Denisov. «Tutto è vipugnante e ignominioso, sono d’accovdo, solo che il Tugenbund io non lo capisco, e se le cose non mi vanno a genio, meglio il bunt allova, questo sì! Je suis votve homme!»
Pierre sorrise, Nataša scoppiò a ridere, ma Nikolaj aggrottò ancora di più le sopracciglia e si mise a dimostrare a Pierre che nessun rivolgimento era in vista e che il pericolo di cui parlava esisteva soltanto nella sua immaginazione. Pierre cercava di dimostrare il contrario e, dato che le sue facoltà intellettuali erano superiori e più esercitate, Nikolaj si sentì presto con le spalle al muro. La sua irritazione allora aumentò poiché in cuor suo, non per un ragionamento ma per qualcosa ben più forte del ragionamento, sapeva che la sua posizione era senza alcun dubbio quella giusta.
«Ecco che cosa ti dico,» esclamò alzandosi e con movimenti nervosi mettendo da parte la pipa e infine gettandola via. «Non sono capace di dimostrartelo. Tu dici che da noi tutto va in malora e che ci sarà un rivolgimento; io non vedo niente di tutto questo; ma tu dici che il giuramento è una cosa convenzionale e su questo io rispondo: tu sei il mio miglior amico, lo sai bene, ma se voi formaste una società segreta, se cominciaste ad opporvi al governo, qualunque esso sia, so che il mio dovere è di obbedirgli. E se in questo momento Arakčeev mi ordinasse di muovervi contro con uno squadrone e di prendervi a sciabolate, non ci penserei su un istante e lo farei. E tu pensa di me quello che credi.»
A queste parole seguì un silenzio imbarazzato. Nataša lo interruppe per prima, difendendo il marito e attaccando il fratello. La sua difesa era debole e impacciata, ma lo scopo che si proponeva fu raggiunto. La conversazione riprese e non più su quel tono spiacevolmente ostile con cui erano state dette le ultime parole di Nikolaj.
Quando tutti si alzarono per andare a cena, Nikolen’ka Bolkonskij si avvicinò a Pierre, pallido con occhi scintillanti e radiosi.
«Zio Pierre… voi… no… Se il babbo fosse vivo… sarebbe d’accordo con voi?» domandò.
Pierre capì subito quale speciale lavorio, indipendente, complesso e profondo di sentimenti e di pensieri doveva essersi svolto nel ragazzo durante la conversazione e, ricordandosi di tutto quello che aveva detto, gli dispiacque che il ragazzo fosse stato a sentirlo. E tuttavia bisognava rispondergli.
«Credo di sì,» mormorò a fatica e uscì dallo studio.
Il ragazzo chinò la testa e per la prima volta parve accorgersi di quello che aveva combinato sulla scrivania. Diventò rosso e si avvicinò a Nikolaj.
«Zio, scusami, l’ho fatto senza accorgermene,» disse mostrando le stecche di ceralacca e le penne spezzate.
Nikolaj ebbe un moto d’ira.
«Va bene, va bene,» disse gettando sotto la scrivania i pezzi di ceralacca e le penne. E frenando a fatica l’ira che gli cresceva dentro, voltò le spalle a Nikolen’ka. «Non avresti dovuto neanche essere qui,» disse.
XV
A cena la conversazione non riguardò più la politica e le società segrete, ma, grazie a Denisov, si concentrò su un argomento gradito a Nikolaj, i ricordi del 1812, nel quale Pierre era particolarmente simpatico e divertente. E i parenti si congedarono in modo molto cordiale.
Quando, dopo cena, Nikolaj, dopo essersi spogliato nello studio e aver impartito gli ordini al fattore in attesa, si recò in vestaglia in camera da letto, trovò la moglie ancora seduta alla scrivania intenta a scrivere qualcosa.
«Che cosa scrivi, Marie?» domandò Nikolaj.
La contessa Mar’ja arrossì. Aveva paura che ciò che stava scrivendo non fosse capito e approvato dal marito. Avrebbe desiderato nascondergli ciò che aveva scritto, ma nello stesso tempo era contenta che l’avesse sorpresa e di doverglielo dire.
«È un diario, Nicolas,» disse porgendogli un quaderno azzurro, tutto coperto della sua scrittura grande e ferma.
«Un diario?…» disse Nikolaj con una sfumatura d’ironia e prese in mano il quaderno.
Vi si trovava scritto in francese:
«4 dicembre. Oggi Andrjuša (il figlio maggiore), una volta sveglio, non voleva vestirsi e M.lle Louise mi ha mandata a chiamare. Faceva i capricci e si intestardiva. Ho provato a minacciarlo, ma si è arrabbiato ancora di più. Allora mi sono incaricata io della cosa, l’ho lasciato stare e con la njanja mi sono messa a vestire gli altri bambini e a lui ho detto soltanto che non gli volevo bene. È rimasto zitto a lungo come meravigliato; poi, con la sola camicia addosso; è corso verso di me e si è messo a singhiozzare in modo così convulso che ho faticato a calmarlo. Si vedeva che soffriva soprattutto per il fatto di essermi dispiaciuto; poi, quando la sera gli ho dato il bigliettino, si è messo di nuovo a piangere disperatamente e intanto mi baciava. Da lui si può ottenere tutto con la tenerezza.»
«Che cos’è il bigliettino?» domandò Nikolaj.
«Ho incominciato a dare alla sera ai più grandi dei bigliettini nei quali scrivo come si sono comportati.»
Nikolaj guardò gli occhi lucenti che lo fissavano e continuò a sfogliare e a leggere il diario. Vi era annotato tutto ciò che della vita dei bambini pareva interessante alla madre, in quanto rivelatore del loro carattere o perché induceva a teorie generali sui metodi educativi. Per lo più si trattava di particolari insignificanti, ma non sembravano tali né alla madre né al padre che leggeva per la prima volta quel diario sui bambini.
Il 5 dicembre la contessa Mar’ja aveva scritto:
«Mitja ha fatto il monello a tavola. Il babbo ha deciso di non dargli il dolce. Non gliel’hanno dato, ma con quanta tristezza e avidità guardava gli altri mentre lo mangiavano! Penso che punire negando i dolci non faccia altro che sviluppare l’avidità. Parlarne a Nicolas.»
Nikolaj mise da parte il quaderno e guardò la moglie, i cui occhi fulgidi lo scrutavano in modo interrogativo (approvava o non approvava il diario?). Ma non potevano esserci dubbi non solo sull’approvazione, ma anche sull’ammirazione di Nikolaj per la moglie.
Forse il diario poteva essere meno pedante, forse non era neanche necessario, pensava Nikolaj, ma quell’instancabile, ininterrotta tensione spirituale, che aveva come unico scopo il bene morale dei figli, lo riempiva di ammirazione. Se Nikolaj avesse potuto rendersi conto dei propri sentimenti, avrebbe scoperto che il suo fermo, tenero e orgoglioso amore per la moglie era fondato principalmente su quel senso di stupore di fronte alla spiritualità, all’elevato mondo morale, a lui quasi inaccessibile, in cui viveva sempre sua moglie.
Era orgoglioso che fosse così intelligente e si rendeva conto della propria nullità rispetto a lei nel campo spirituale, e tanto più gioiva del fatto che con un’anima come la sua, essa non solo gli appartenesse, ma fosse una parte di lui.
«Approvo molto, moltissimo, amica mia,» disse con un’aria significativa. E dopo essere rimasto per qualche momento in silenzio soggiunse: «Invece io oggi mi sono comportato in modo indecente. Tu non c’eri nello studio. Ci siamo messi a discutere con Pierre e io mi sono scaldato troppo. Ma è una cosa veramente impossibile! È come un bambino. Non so che ne sarebbe di lui se Nataša non lo tenesse a freno. Sai perché è andato a Pietroburgo? Hanno organizzato…»
«Sì, lo so,» disse la contessa Mar’ja. «Me lo ha raccontato Nataša.»
«Allora lo sai,» proseguì Nikolaj, eccitandosi di nuovo al solo ricordo della discussione. «Vorrebbe persuadermi che il dovere di ogni persona onesta consiste nell’andare contro il governo quando il giuramento e il dovere… Mi rincresce che tu non fossi presente. Tutti mi attaccavano, anche Denisov, anche Nataša… Nataša è davvero buffa. Se lo tiene sotto i piedi, ma non appena si tratta di ragionare, di suo non tira fuori niente, non fa che parlare con le parole di Pierre,» aggiunse Nikolaj, cedendo alla tentazione, che è irresistibile, di giudicare le persone più care e più intime.
Nikolaj dimenticava che quello che diceva di Nataša lo si sarebbe potuto dire, parola per parola, di lui nei confronti di sua moglie.
«Sì, l’ho notato,» disse la contessa Mar’ja.
«Quando gli ho detto che il dovere e il giuramento sono al di sopra di tutto, si è messo a dimostrarmi Dio sa che cosa. Peccato che tu non ci fossi. Che cosa gli avresti detto?»
«Secondo me, tu hai perfettamente ragione. L’ho detto anche a Nataša. Pierre dice che tutti soffrono, sono tormentati, si corrompono e che è nostro dovere aiutare il prossimo. Va da sé che ha ragione,» disse la contessa Mar’ja, «ma dimentica che noi abbiamo altri doveri, più vicini, che Dio stesso ci ha indicato, e che possiamo esporre ai pericoli noi stessi, ma non i nostri figli.»
«Ecco, è proprio quello che gli ho detto io,» le fece eco Nikolaj il quale credeva veramente di aver detto proprio quello. «E loro giù a ribadire che l’amore del prossimo e il cristianesimo… e tutto questo davanti a Nikolen’ka che si era intrufolato nello studio e ha ridotto tutto a pezzi.»
«Ah, sai, Nicolas, Nikolen’ka mi preoccupa molto,.» disse la contessa Mar’ja. «È un ragazzo talmente eccezionale. E ho paura di trascurarlo a vantaggio dei miei figli. Noi tutti abbiamo i nostri figli che hanno dei genitori, lui non ha nessuno. È sempre solo con i suoi pensieri.»
«Ma mi pare proprio che tu non abbia nulla da rimproverarti. Tutto ciò che può fare la madre più affettuosa per il proprio figlio tu lo hai fatto e lo fai per lui. E io, s’intende, ne sono molto contento. È un bravissimo ragazzo. Oggi ascoltava Pierre come dimentico di tutto. E immaginati un po’: usciamo per andare a cena e vedo che mi ha fatto a pezzi tutto quello che c’era sulla scrivania, ma me lo ha detto subito. Non mi è mai capitato di sentirgli dire una bugia. È proprio un bravissimo ragazzo!» ripeté Nikolaj, al quale Nikolen’ka in fondo non piaceva, ma che sentiva sempre il bisogno di riconoscere che era un ottimo ragazzo.
«Eppure una madre è un’altra cosa,» disse la contessa Mar’ja. «Sento troppo bene la differenza e questo mi angoscia. È un ragazzo eccellente, ma ho molta paura per lui. Gli farebbe bene stare in compagnia.»
«Be’, succederà presto; quest’estate lo porterò a Pietroburgo,» disse Nikolaj. «Sì, Pierre è sempre stato e sarà sempre un sognatore,» riprese a dire, tornando alla discussione nello studio, che evidentemente lo aveva turbato. «Ma che cosa dovrebbe importarmi di tutte quelle storie di laggiù, che Arakčeev sia un poco di buono e tutto il resto, e che poteva importarmene quando mi sono sposato ed ero sommerso dai debiti - da poter finire in galera - e avevo una madre che non vedeva e non capiva? E poi tu, i bambini, gli affari. È forse un piacere per me andarmene in giro dalla mattina alla sera per la tenuta o star chiuso in ufficio? No, ma so che è mio dovere lavorare per la tranquillità di mia madre, per sdebitarmi con te e per non lasciare i nostri figli nella povertà come sono stato io.»
La contessa Mar’ja avrebbe voluto dirgli che l’uomo non vive di solo pane, che attribuiva troppa importanza agli affari, ma sapeva che era meglio non dirlo e che oltre a tutto era inutile. Si limitò a prendergli una mano e a baciarla. Nikolaj interpretò questo gesto della moglie come un’approvazione delle sue idee e dopo aver riflettuto per qualche tempo in silenzio, continuò ad esprimere ad alta voce le sue considerazioni:
«Sai, Marie,» disse, «oggi è arrivato Il’ja Mitrofanyč (l’amministratore generale) dalla tenuta di Tambov e mi ha detto che per il bosco offrono già ottantamila rubli.» E Nikolaj tutto animato in volto prese a parlare della possibilità di riscattare entro brevissimo tempo Otradnoe. «Ancora dieci annetti di vita e lascerò ai figlioli… un’ottima posizione.»
La contessa Mar’ja ascoltava il marito e capiva tutto quello che le diceva. Sapeva che quando pensava così ad alta voce a volte si interrompeva per chiederle che cosa avesse detto e si arrabbiava se si accorgeva che stava pensando ad altro. Ma le costava non poco seguirlo perché ciò che diceva non la interessava minimamente. Lo guardava e non è che pensasse ad altro, ma sentiva qualcos’altro dentro di sé. Sentiva un amore devoto e tenero per quell’uomo che non avrebbe mai capito tante cose che lei capiva, ed era come se per questo lo amasse ancora di più, con una sfumatura di appassionata tenerezza. Oltre a questo sentimento che la prendeva tutta e le impediva di seguire nei particolari i progetti del marito, meditava su cose che non avevano nulla da spartire con quanto lui diceva. Pensava al nipote (il racconto del marito sulla sua emozione durante i discorsi di Pierre l’aveva molto colpita) e le apparivano i vari aspetti del carattere affettuoso e sensibile del ragazzo; e, pensando al nipote, pensava anche ai figli. Non faceva confronti tra il nipote e loro, ma fra i propri sentimenti verso di lui e verso i figli, e scopriva con tristezza che nel suo sentimento verso Nikolen’ka qualche cosa mancava.
A volte le capitava di pensare che questa differenza derivasse dall’età, ma si sentiva in colpa di fronte a lui e si riprometteva di correggersi e di fare l’impossibile, cioè di amare in questa vita suo marito, e i figli, e Nikolen’ka, e tutti i familiari così come Cristo aveva amato il genere umano. L’anima della contessa Mar’ja tendeva sempre all’infinito, all’eterno e alla perfezione e perciò non poteva mai trovar requie. Sul suo viso era ora affiorata la severa espressione di un’alta e recondita sofferenza dell’anima angustiata dal peso del corpo. Nikolaj la guardò.
«Dio mio! Che ne sarebbe di noi se lei morisse, come mi viene da pensare quando ha quest’espressione sul viso,» pensò e mettendosi davanti alle immagini, si mise a recitare le preghiere della sera.
XVI
Nataša, rimasta sola col marito, conversava anche lei come si conversa soltanto tra marito e moglie, cioè comprendendosi e comunicandosi i reciproci pensieri con una straordinaria chiarezza e rapidità, per una via contraria a tutte le regole della logica, senza la mediazione di ragionamenti, sillogismi e deduzioni, in un modo tutto particolare. Nataša era così abituata a parlare con il marito in questo modo, che l’indizio più sicuro che qualcosa non andava tra di loro le proveniva dalla forma logica dei pensieri di Pierre. Quando Pierre cominciava a dimostrare, a parlare in modo ragionevole e pacato e quando lei, lasciandosi trascinare dal suo esempio, cominciava a fare altrettanto, sapeva che la conversazione sarebbe sicuramente sfociata in un litigio.
Da quando erano rimasti soli e Nataša gli si era avvicinata pian piano con gli occhi dilatati e felici e tutto ad un tratto stringendogli con gesto rapido la testa, se lo era stretto al seno e aveva detto: «Adesso sei tutto, tutto mio, mio! Non mi scappi!», da quel momento era incominciata quella conversazione contraria a tutte le regole della logica, contraria già solo per il fatto che parlavano contemporaneamente di argomenti completamente diversi. E trattare nello stesso tempo di molte cose non solo non impediva la chiarezza della comprensione, ma al contrario era la più sicura conferma del fatto che si capivano perfettamente tra di loro.
Come nel sogno tutto è irreale, assurdo e contraddittorio fuorché il sentimento che guida il sogno, così anche nel loro modo di comunicare, contrario a tutte le leggi del ragionamento, non erano le frasi ad essere chiare e coerenti ma il sentimento che le guidava.
Nataša parlava a Pierre della vita quotidiana di suo fratello, di come soffriva - non era un vivere il suo - quando il marito non c’era, del bene sempre maggiore che voleva a Marie, la quale Marie le era superiore sotto tutti i punti di vista. Dicendo questo, Nataša riconosceva sinceramente la superiorità di Marie, ma nello stesso tempo, dicendolo, esigeva da Pierre che egli comunque la preferisse a Marie e a tutte le altre donne e che glielo ripetesse di nuovo, soprattutto dopo che aveva visto tante donne a Pietroburgo.
Rispondendo alle parole di Nataša, Pierre le raccontò come gli fosse risultato insopportabile a Pietroburgo intrattenersi nei ricevimenti e nei pranzi con le signore.
«Ho completamente disimparato a parlare con le signore,» le disse, «è una tal noia! Soprattutto ero così occupato.»
Nataša lo guardò attentamente e riprese a dire:
«Marie è un vero tesoro! Come sa capire i bambini! È come se la loro anima non avesse misteri per lei. Ieri, per esempio, Miten’ka si era messo a fare i capricci…»
«Ah, come assomiglia a suo padre,» la interruppe Pierre.
Nataša capì perché avesse fatto quest’osservazione sulla somiglianza tra il bambino e Nikolaj: a Pierre pesava il ricordo della disputa con il cognato e desiderava conoscere l’opinione della moglie a questo proposito.
«Nikolen’ka ha questa debolezza, che se una cosa non è accettata da tutti, non l’ammette a nessun costo. Mentre io capisco che tu ci tenga a ouvrir une carrière,» disse ripetendo parole dette una volta da Pierre.
«No, il fatto è che per Nikolaj,» disse Pierre, «le idee e i ragionamenti sono un divertimento, un modo di passare il tempo. Ecco, ora sta facendosi una biblioteca e si è fissato la regola di non acquistare un nuovo libro se prima non ha letto quello che ha già comperato: Sismondi, e Rousseau e Montesquieu,» osservò con un sorriso. «Tu sai benissimo come io lo…» aggiunse per mitigare le sue parole, ma Nataša lo interruppe, facendogli capire che non ce n’era bisogno.
«Così tu dici che per lui le idee sono un divertimento…»
«Sì, mentre per me è un passatempo tutto il resto. A Pietroburgo per tutto il tempo vedevo gli altri come in un sogno; quando un’idea mi occupa, tutto il resto è un divertimento.»
«Ah, che peccato che non abbia assistito al tuo incontro con i bambini!,» disse Nataša. «Chi ti ha fatto più feste? Liza, no?»
«Sì,» disse Pierre, e continuò a parlare dell’argomento che lo interessava. «Nikolaj dice che noi non dobbiamo pensare. Ma io non posso. Per non dire poi che a Pietroburgo ho avuto l’impressione (a te lo posso dire) che senza di me tutto si stava sfasciando, che ciascuno tirava dalla sua parte. Ma sono riuscito a tenerli uniti, e poi la mia idea è talmente semplice e chiara! Non dico che dobbiamo opporci a questo e a quest’altro. Possiamo sbagliarci. Dico che tutti quelli che amano il bene devono prendersi per mano e che ci sia una sola bandiera: la virtù attiva. Il principe Sergij è un’ottima persona, di grande intelligenza.»
Nataša non dubitava minimamente che l’idea di Pierre fosse una grande idea, ma una cosa la turbava: che egli era suo marito. «Possibile che un uomo così importante e necessario per la società sia nello stesso tempo anche mio marito? Come è potuto succedere?» E avrebbe voluto palesargli questo suo dubbio. «Chi sono le persone in grado di decidere se veramente è più intelligente di tutti?» si domandava e passava in rassegna nella fantasia le persone che sapeva molto stimate da Pierre. Stando a quanto le raccontava, Pierre non stimava nessuno come stimava Platon Karataev.
«Sai a che cosa sto pensando?» disse. «A Platon Karataev. Lui che cosa ne direbbe? Ti approverebbe?»
Pierre non si meravigliò affatto di questa domanda. Aveva intuito il corso dei pensieri di sua moglie.
«Platon Karataev?» disse e si fece pensieroso, sforzandosi sinceramente di immaginare il giudizio che avrebbe dato Karataev sulla questione. «Non avrebbe capito, oppure chissà, forse sì.»
«Io ti voglio terribilmente bene,» disse ad un tratto Nataša. «Terribilmente, terribilmente!»
«No, non avrebbe approvato,» disse Pierre dopo aver riflettuto. «Avrebbe invece approvato la nostra vita familiare. Desiderava tanto vedere in tutto l’armonia, la felicità, la tranquillità ed io gli avrei mostrato con orgoglio tutti noi. Tu prima parlavi della lontananza. Ma non puoi immaginare il particolare sentimento che provo per te dopo una separazione…»
«Vorrei vedere…» aveva cominciato Nataša.
«No, non è questo. Io non smetterò mai di amarti. E non si può amare più di così. Ma questa è una cosa particolare… Ma sì…» non fini la frase perché i loro sguardi che si erano incontrati dissero il resto.
«Che sciocchezze,» disse ad un tratto Nataša, «la luna di miele e che la maggior felicità la si provi nei primi tempi. Al contrario, il meglio è adesso. Se soltanto tu non partissi! Ti ricordi come si litigava? E la colpa era sempre mia. Sempre mia. Ma perché si litigasse non lo ricordo più.»
«Sempre per la stessa cosa,» disse Pierre sorridendo, «per la gelo…»
«Non dirlo, non posso sopportarlo!» esclamò Nataša. E nei suoi occhi balenò una luce fredda e cattiva. «L’hai vista?» soggiunse dopo una pausa.
«No, ma anche se l’avessi vista, non l’avrei riconosciuta.»
Tacquero.
«Ah, sai, mentre parlavi nello studio, io ti guardavo,» passò a dire Nataša, col chiaro intento di scacciar via la nube sopraggiunta. «Sì, tu e il ragazzo (chiamava così il figlio) vi somigliate come due gocce d’acqua. Ah, è ora che vada da lui… Sento il latte… Ma mi dispiace andarmene.»
Tacquero per alcuni secondi. Poi tutto ad un tratto si voltarono nello stesso momento uno verso l’altro e ripresero a parlare; Pierre con soddisfazione e trasporto, Nataša con un calmo, felice sorriso. Tutti e due allora si interruppero, cedendosi reciprocamente la parola.
«No, che cosa dicevi? Parla, parla.»
«No, parla tu, le mie erano solo sciocchezze,» disse Nataša.
Pierre finì di dire ciò che aveva cominciato a dire. Era la continuazione delle sue compiaciute osservazioni sul successo ottenuto a Pietroburgo. In quel momento gli sembrava di essere destinato a imprimere una nuova svolta a tutta la società russa e a tutto il mondo.
«Volevo solo dire che tutte le idee che hanno enormi conseguenze sono sempre molto semplici. La mia idea consiste tutta in questo, che se gli uomini corrotti sono collegati tra loro e costituiscono una forza, bisogna che gli uomini onesti facciano la stessa cosa. Vedi come è semplice!»
«Sì.»
«E tu che cosa volevi dire?»
«Così, sciocchezze.»
«No, dì comunque.»
«Ma non vale la pena, sono stupidaggini,» disse Nataša, illuminandosi tutta nel sorriso, «volevo parlare soltanto di Petja: oggi la njanja si è avvicinata per prendermelo e lui si è messo a ridere, ha strizzato gli occhietti e si è stretto a me; certamente pensava di essersi nascosto. È talmente caro! Eccolo che strilla! Bene, arrivederci!» E uscì dalla stanza.
Nel frattempo, da basso, bell’appartamento di Nikolen’ka Bolkonskij, nella sua camera da letto, ardeva come sempre una lampada (il ragazzo aveva paura del buio e non si era riusciti a guarirlo da questo difetto). Dessalles dormiva ben alto sui suoi quattro cuscini e il suo naso romano emetteva i rumori di chi russa. Nikolen’ka, che si era appena svegliato in preda a un sudore freddo, era seduto sul letto con gli occhi sbarrati e guardava davanti a sé. Un sogno terribile lo aveva svegliato. Si era visto in sogno insieme a Pierre con l’elmo in testa, gli stessi elmi disegnati nella sua edizione di Plutarco. Lui e lo zio Pierre marciavano alla testa di un immenso esercito. Questo esercito era composto da linee bianche oblique che riempivano l’aria come quelle ragnatele che si vedono volare in autunno, che Dessalles chiamava le fil de la Vierge. Davanti c’era la gloria, anch’essa fatta di quei fili, solo un po’ più compatti. Loro - lui e Pierre - avanzavano leggeri e felici avvicinandosi sempre più alla meta. Ad un tratto i fili che li muovevano avevano cominciato a cedere, a intricarsi. La situazione era diventata angosciosa. E lo zio Nikolaj Il’ič si era fermato davanti a loro in una posa minacciosa e severa.
«Siete stati voi a fare questo?» aveva detto, indicando le stecche di ceralacca e le penne rotte. «Io vi volevo bene, ma Arakčeev me lo ha ordinato e io ucciderò il primo che farà un passo avanti.»
Nikolen’ka si era voltato a guardare Pierre, ma Pierre non c’era più. Al suo posto c’era suo padre, il principe Andrej, e suo padre non aveva un volto né una forma, ma era lì, e vedendolo, Nikolen’ka aveva sentito tutto il languore dell’amore: si era sentito svuotato di ogni forza, senza ossa e come fluido. Il padre lo accarezzava e lo compativa. Ma lo zio Nikolaj Il’ič si faceva sempre più vicino. Il terrore si era impadronito di Nikolen’ka ed egli si era svegliato.
«Mio padre,» pensava. «Mio padre (sebbene in casa ci fossero due ritratti molto somiglianti, Nikolen’ka non si raffigurava mai il principe Andrej in sembianze umane), mio padre era con me e mi accarezzava. Egli mi approvava, approvava lo zio Pierre. Qualunque cosa lo zio dica, io la farò. Muzio Scevola si è bruciata la mano. E perché nella mia vita non potrebbe accadere la stessa cosa? Lo so, loro vogliono che io studi. E io studierò. Ma un giorno smetterò e allora passerò all’azione. Di una cosa sola prego Dio: che anche a me succeda ciò che è successo agli uomini di Plutarco, e io farò come loro. Anzi farò meglio di loro. Tutti lo sapranno, tutti mi ameranno, tutti mi ammireranno.» E improvvisamente Nikolen’ka sentì che i singhiozzi lo soffocavano e scoppiò in lacrime.
«Etes-vous indisposé?» domandò Dessalles.
«Non,» rispose Nikolen’ka e tornò a poggiare il capo sul cuscino.
«È buono e bravo, gli voglio bene,» pensò di Dessalles. «Ma lo zio Pierre! Oh, che uomo meraviglioso! E mio padre? Mio padre! Mio padre! Sì, farò delle cose di cui anche lui sarà contento…»