Mari – Dieci
Il branco di wingka ha lasciato sulla riva varie sacche coperte coi mantelli di tela cerata che usano per proteggersi dalla pioggia. Le mie zampe e le mie zanne squarciano, trovo bottiglie di quell’acqua torbida che li rende brutali, pane bagnato, munizioni delle armi per uccidere. Continuo a squarciare, a rompere le sacche finché non trovo la scatola con il disegno di una linea verticale attraversata da un’altra orizzontale.
La prendo fra i denti, non pesa troppo e posso trasportarla senza grandi sforzi, ma prima di tornare nel posto dove Aukamañ mi aspetta, rompo tutte le sacche.
So che la pioggia rovinerà l’attrezzatura del branco di wingka, che questo provocherà in loro un’ira enorme, li indurrà a odiarsi a vicenda, e per rendere ancora più grave il danno spingo nel fiume una dopo l’altra le bottiglie di quell’acqua torbida che li rende brutali. Senza quell’acqua torbida e senza attrezzature dovranno andarsene e io guiderò Aukamañ nel paese dei pewenche che cureranno la sua ferita.
A questo penso, l’euforia con cui squarcio tutto mi distrae e quando le mie orecchie captano la presenza dei wingka è troppo tardi.
«Maledetto cane!» grida uno di loro.
Sono in due, nessuno li segue. Uno si appoggia alla sua arma per uccidere perché si è fatto male a un piede e si regge a stento. L’altro alza la sua arma per uccidere e io gli salto addosso.
Lo sparo fa un rumore potente come il ruggito di tralkan, il tuono, io sento un colpo atroce al petto, che però non ferma il mio balzo e le mie due zampe anteriori si scontrano con il wingka, lui cade nel fiume, perde la sua arma per uccidere e scappa via lungo la riva. Poi viene il dolore che mi fa crollare a terra e il sangue che mi sgorga dal petto si unisce all’acqua che bagna i ciottoli.
Anche l’altro wingka è fuggito. Lo vedo allontanarsi zoppicando, aiutandosi con la sua arma per uccidere che sprofonda nel fango.
Allora, da un punto che le mie orecchie non riescono a individuare, arriva una voce che mi ordina di lasciar perdere i wingka, di alzarmi, di prendere fra i denti la scatola con sopra una linea verticale attraversata da un’altra orizzontale e di andare al rifugio di Aukamañ.
Forse è la voce di lemu, il bosco protettore. Forse è la voce del Ngünemapu che mi ricorda che mi chiamo Aufman – leale e fedele – e che devo essere degno del nome che mi ha dato la Gente della Terra.
Quando attraverso il fiume, l’acqua fredda rende meno dolorosa la ferita ma, arrivato sull’altra sponda, dal mio petto continua a cadere goccia a goccia il tempo di vita che mi resta.
Corro fra gli alberi che sembrano aprire un sentiero apposta per me. Il Ngünemapu ordina a añpe, la morbida felce, di ripulirmi la ferita al petto mentre passo, a wemul, il cerbiatto, di incoraggiarmi col suo dolce sguardo, e a rere, il picchio, di mandare un messaggio di speranza al rifugio di Aukamañ.

Corro. Non sento le zampe toccare terra. Non so se l’aria mi entra dal naso, non so se i miei occhi vedono qualcosa di più del verde del bosco, finché mi accascio sfinito e mi arriva la voce di Aukamañ.
«Aufman!» esclama abbracciandomi e io lascio andare la scatola con il disegno di una linea verticale attraversata da un’altra orizzontale.
Mi avvolge un dolce aroma di lana e con gli occhi semichiusi scorgo i colori della nobiltà e del coraggio sul poncho che mi copre. Non avverto più dolore perché Aukamañ ha aperto la scatola e ha tirato fuori una polvere bianca che si è versato sulla ferita, per poi coprire tutto con una striscia di stoffa immacolata che si è arrotolato intorno alla gamba, ed è come se avesse curato la mia di ferita.
L’aria pian piano si ferma e non ha bisogno di entrarmi nei polmoni. Aukamañ mi accarezza, nella dolce lingua della Gente della Terra mi ripete che sono il suo peñi, suo fratello Aufman, leale e fedele, e mi parla dei giorni lontani in cui eravamo solo un pichiche e un pichitrewa che crescevano protetti dal fiume e dal bosco.
Una gran pace mi invade e dal profondo del mio essere la voce del Ngünemapu, che è la stessa voce del vecchio Wenchulaf, mi dice che è il momento di intraprendere il grande viaggio, ma che prima di mettermi in cammino devo ascoltare per l’ultima volta la voce del mio peñi, del mio fratello mapuche.
Aukamañ mi prende fra le braccia e dice: Marichiweu peñi, dieci volte vinceremo fratello, perché è così che si saluta la Gente della Terra, senza mai dire addio.
Io sono Aufman, il ricordo di un cane, e la mia storia si racconta nelle ruka della Wallmapu, quando la nebbia del Sud del mondo nasconde il paese della Gente della Terra.
Gijón, luglio 2015. Llitun ül wilki küyen.
Mese in cui il tordo inizia a cantare,
secondo mese del calendario mapuche.