Kayu – Sei

Ha smesso di piovere e il bosco ritrova tutti i suoi odori. Sto per rimettermi sulle tracce del fuggiasco, quando sento delle voci che mi allarmano. Il branco di uomini è uscito dal canneto di koliwe e sta arrivando. Li vedo attraversare il fiume ingrossato dalla pioggia.

Bagnati fradici e coperti di graffi, maledicono la loro sfortuna. Sembrano infuriati ed esausti. Su tutte le voci si impone il capobranco che li chiama vigliacchi e ripete che quello che stanno inseguendo è soltanto un indio e per di più ferito.

Io contavo sul fatto che si attardassero nel canneto faticando a trovare un’uscita. Mi conforta sapere che la pioggia ha cancellato le impronte del fuggiasco, così non potranno scoprirle, ed entro nel bosco con un lungo giro per non farmi vedere e per avvicinarmi a quelli che si dicono i miei padroni quando si sono ormai sistemati per la notte.

Vado da loro a testa bassa e con la coda fra le gambe. Mi avvicino sottomesso al capobranco e sopporto le frustate che mi riserva come castigo.

«Maledetto cane!» esclama mentre mi frusta e subito dopo mi lega la catena al collo.

«Non lo picchiare più, il cane ci ha guidato bene e non è colpa sua se l’indio si muove meglio di noi» dice uno degli uomini del branco.

«Non ti impicciare! Lo so io come si tratta il cane» grida il capobranco, poi mi tira un calcio e solo allora mi lascia in pace.

Mi allontano quanto mi è permesso dalla catena, mi accuccio e da laggiù li vedo tutti intirizziti, tremano di freddo, certi dicono di avere la febbre e fame, tanta fame. Tentano invano di accendere un fuoco, perché la pioggia non ha lasciato neanche un legnetto asciutto.

Si accusano a vicenda per l’avanzata lenta, maledicono il tempo, la pioggia, il canneto, il bosco, il cielo, e lo maledicono al punto che il Ngünemapu si offende e fa ruggire tralkan, il tuono, per poi scatenare un nuovo temporale.

Temporale sulle araucarie

Gli uomini del branco si radunano sotto gli alberi, si coprono con mantelli di tela cerata e cercano di scaldarsi tenendosi vicini. Solo il capobranco monta la guardia stringendo la sua arma per uccidere e guardando nel folto del bosco senza vedere altro che ombre indecifrabili.

Io fiuto la disperazione del branco. Fiuto la paura, la fame, lo schifo che provano divorando pezzi di pane bagnato che gli si disfa in mano.

Accucciato, accolgo la pioggia e mi riprendo dai colpi. Ben presto scende la notte. Sento dolore, è vero, ma non sono triste, e me lo dice küdemallü, la lucciola, che malgrado la pioggia emana la sua minuscola luce verde.

Gli uomini del branco non la vedono, ma lei mi si posa sulla punta del naso decisa a passarmi il suo piccolo calore.

Küdemallü vuole che la guardi fisso per ricordarmi che le tracce del fuggiasco odorano di legna secca, di farina, di miele, di tutto quel che ho perduto.

Chiudo gli occhi e il suo splendore verde mi resta sotto le palpebre, le riempie di una luce intensa, e in quella luce mi vedo insieme a Aukamañ e a Wenchulaf. Ci sono anche altri cuccioli d’uomo, tutti Gente della Terra, felici di assistere all’ayekantun, l’incontro per imparare con gioia, perché il vecchio mapuche parla del principio di tutte le cose.

Aukamañ ha nove anni e io forse ho la stessa età. Il bambino mi accarezza la testa mentre ascolta chedki, il padre di sua madre, che facendo risuonare il kultrun, il piccolo tamburo rotondo dei canti, delle preghiere e delle narrazioni importanti, parla del terribile duello combattuto da due serpenti, Trengtreng Filu e Kaykay Filu, per decidere chi di loro meritava di regnare su tutte le cose. La lotta fu lunga e ardua, tanto che alla fine, stanchi, decisero che Trengtreng Filu avrebbe regnato sui mari e Kaykay Filu sulla terraferma, sui monti e sui vulcani. Ecco cosa sta narrando Wenchulaf ai bambini mapuche, quando viene interrotto da voci di allarme che arrivano dalle ruka.

Un veicolo si avvicina, si ferma, un branco di uomini salta giù. Sono wingka, estranei, non sono Gente della Terra, e hanno armi per uccidere.

Il capobranco si rivolge a Wenchulaf e gli chiede se lui è il longko, colui che più sa, colui che insegna e consiglia, colui che guida la Gente della Terra.

Wenchulaf ordina ai bambini di mettersi alle sue spalle e nella lingua dei wingka risponde di sì, che lui è Wenchulaf il longko e che nelle sue vene scorre il sangue del grande Kallfukura.

I wingka fanno smorfie di disprezzo. Non sanno nulla della Gente della Terra. Nessuno di loro parla mapudungun. Non hanno mai sentito il nome di Kallfukura – pietra azzurra –, il grande longko la cui semplice menzione ha fatto tremare di paura migliaia di wingka su tutti e due i versanti delle grandi montagne, su tutte e due le rive dei due grandi oceani.

Il capobranco dei wingka gli mostra un foglio di carta e dice che quel foglio di carta ordina alla Gente della Terra di lasciare il villaggio, le loro case, le loro terre, i loro boschi, i loro fiumi, i loro laghi, le loro valli, i loro frutti, la loro farina, il loro latte e il loro miele.

Wenchulaf risponde che la terra su cui camminano e tutto quello che vedono è del Ngünemapu e che la Gente della Terra non se ne andrà, e poi aggiunge: «Un tempo, molto tempo fa, vennero dei wingka da nord, dalla pikunmapu, la terra della sventura, ma noi combattemmo, vincemmo e li cacciammo via. Poi vennero wingka da ovest, dalla lafkenmapu, la terra degli spiriti del male, furono loro a portare la tua lingua wingka e i tuoi dèi, ma noi combattemmo, vincemmo e li obbligammo ad accettare la pace. Vattene e di’ al tuo longko che la Gente della Terra non se ne andrà». Ecco cosa dice Wenchulaf con una voce che non gli avevamo mai sentito, molto diversa dalla voce dolce e tranquilla delle sue narrazioni e dei suoi canti.

E queste sono le ultime parole dell’anziano che Aukamañ, i bambini mapuche e io abbiamo modo di ascoltare, perché il capobranco dei wingka alza la sua arma per uccidere e il sangue sgorga a fiotti dal petto di Wenchulaf che raggiunge la wallmapu, la patria della Gente della Terra.

La luce verde di küdemallü, la lucciola, bagna i miei occhi chiusi, ma vedo ancora il wingka che mi prende per il collo, vedo anche Aukamañ che abbraccia il nonno caduto e si rialza per difendermi, ma il wingka è forte e lo fa ruzzolare per terra con un colpo in faccia.

«È un cane di razza, è un pastore tedesco. Dove diavolo l’avranno rubato gli indios?» dice il wingka.

Questo accadde il giorno in cui persi tutto, dico dal fondo dei miei occhi a küdemallü, la lucciola, e la sua luce verde mi dice che non sono stato solo io a perdere tutto quel giorno.

Vedo la Gente della Terra, fra cui Aukamañ e Kinturray, che si allontanano affranti dal villaggio in fiamme, sorvegliati da wingka che imbracciano armi per uccidere, e vedo grandi bestie di metallo radere al suolo il bosco, abbattendo lemu e tutta la sua grandezza. Cadono le querce generose di diweñe e i robusti lecci, le araucarie e il sacro foike, il sempre verde cinnamomo. Tutto cade.

«Aufman! Aufman!» grida Aukamañ, e la sua voce è l’ultima cosa che perdo.

Sotto le mie palpebre la luce verde di küdemallü, la lucciola, mi dice: «Hai molti anni nel tuo corpo maltrattato, quasi il doppio di quelli che avevi quando i wingka ti hanno separato da Aukamañ, ma il Ngünemapu ha deciso di farti vivere per poterlo ritrovare e aiutare».