Aylla – Nove
Aukamañ si ripara dalla pioggia sotto un albero caduto. Per proteggersi ha usato anche delle foglie di gunnera, ma l’acqua si infiltra comunque e lo bagna.
Mi avvicino lentamente perché non veda in me una minaccia, perché non pensi che sono mandato dai wingka, perché mi riconosca.
Allarmato, il ragazzo si mette in ginocchio e nella mano gli brilla un pugnale. Non manda odore di paura, conosco quell’odore ripugnante, così mi avvicino finché non abbassa la mano armata, e allora mi accuccio al suo fianco.
«Aufman!» esclama Aukamañ abbracciandomi. Per tutta risposta gli lecco il volto e sento il sapore salato delle lacrime.
Mi stringe fra le braccia e nella lontana lingua della Gente della Terra mi dice che non mi ha mai dimenticato, che ha sempre saputo che un giorno sarei tornato da lui.

È il mio peñi, mio fratello. Sono il suo peñi, suo fratello. Aukamañ mi tocca il ventre, palpa la mia fame, da una borsa di lana tessuta nei colori del coraggio e della nobiltà tira fuori della farina tostata, fa una pappa con l’acqua pura della pioggia e con le mani a conca mi dà da mangiare. Prima di saziare la fame ringrazio il Ngünemapu per quel cibo che un tempo è stato spiga, poi grano che delle mani hanno tostato e macinato.
Aukamañ non smette di abbracciarmi e mi dice che dobbiamo andarcene da lì prima che spiova. Parla di noi, di lui e di me uniti come un tempo e stavolta per sempre. Solo adesso vedo il sangue secco sulla sua gamba destra.
Si è strappato i pantaloni e ha applicato sulla ferita un impacco di muschio.
«Non è una ferita grave, Aufman. Il tuo latrato ha fatto sbagliare la mira al wingka» spiega mentre accenna ad alzarsi.
L’odore della ferita mi dice che presto sarà attaccata da püllameñ, il moscone azzurro che depone le larve nelle ferite di uomini e animali. Quando quel moscone attacca vengono la febbre e l’infezione. So che devo fare qualcosa e gli metto tutte e due le zampe anteriori sul petto e spingo per evitare che si alzi.
«Aufman, che fai? Dobbiamo andarcene prima che passi il temporale» dice sorpreso, ma io non smetto di spingere con le zampe perché rimanga dov’è.
Aukamañ mi guarda negli occhi. C’è fiducia nel suo sguardo, sa che non lo abbandonerò e che nella mia testa di cane c’è un’idea che posso spiegare solo coi miei gesti e movimenti canini, perché al principio dei tempi il Ngünemapu ha disposto che gli animali e gli uomini non si capissero parlando ma attraverso i sentimenti espressi dal modo di guardare. Chi non coglie la tristezza negli occhi di kawell, il cavallo, che dopo essere stato domato sente ancora sotto gli zoccoli la libertà perduta? Chi non percepisce la pena nello sguardo di mansur, il bue legato al giogo e allontanato dalla prateria? Chi non avverte la propria piccolezza contemplando le pupille di mañke, il condor, sovrano del cielo più alto?
Mantengo lo sguardo fisso negli occhi spalancati del mio peñi, mio fratello, che brillano come due luci nere sotto la fascia tessuta nei colori del coraggio e della nobiltà, l’ornamento del longko, di colui che più sa, di colui che insegna e consiglia.
«Va bene, Aufman. Resto qui» dice Aukamañ e allora io torno al fiume, là dove il branco di wingka ha lasciato le cose che non poteva portare con sé.
Continua a piovere e mi fa piacere. Che tralkan, il tuono, suoni il suo terribile tamburo, perché il temporale non spaventa chi è cresciuto con la Gente della Terra.