Küla – Tre

All’alba gli uomini del branco sfogano la loro furia uno contro l’altro. Si danno la colpa a vicenda perché il fuoco si è spento e il freddo passa attraverso i vestiti e penetra fino alle ossa. La luce del giorno arriva avvolta da una nebbia densa che come sempre fa tacere i rumori del bosco.

Uno degli uomini taglia un pezzo di pane e me lo tira, ma prima che io possa prenderlo il capobranco lo afferra e lo lancia lontano.

«Ti ho detto che il cane deve essere affamato.»

«L’indio ormai sarà lontano. Conosce il bosco e le montagne» si giustifica quello che mi ha buttato il pezzo di pane.

«L’indio è ferito e non può essersi allontanato troppo. E poi se io dico che l’indio si nasconde nel bosco, vuol dire che è così. Slega il cane» ordina il capobranco.

Mi slegano dalla catena e io corro sulla riva del fiume, fiuto in giro, cerco l’odore del fuggiasco tra gli aromi di muschio e licheni, tra le foglie di larici e faggi antartici e andini che marciscono perché possano crescere le erbe e gli arbusti che rendono impenetrabile la boscaglia.

Il fuggiasco ha lasciato una traccia facile da seguire, è ferito, lo rivela qualche goccia di sangue che macchia le foglie. Corro più veloce, mi allontano dal branco di uomini che avanzano a fatica evitando gli alberi cresciuti sulla riva del fiume, i tronchi caduti e le rocce.

Gli uomini del branco sono in attesa dei miei latrati, li devo avvertire che ho trovato le tracce per poi condurli dal fuggiasco. Ma non faccio niente di quello che si aspettano. Mi accuccio per terra e lecco le gocce d’acqua che scorrono sulle foglie delle felci. Così calmo la sete e ignoro le grida del branco di uomini che chiamano: «Cane! Cane!»

Il silenzio degli uccelli mi dice che sono vicino e allora corro via allontanandomi dalle tracce del fuggiasco. La nebbia svanisce e tutto il bosco è una tenebra verde.

Dalla Gente della Terra, i mapuche, ho imparato che ci sono molte sfumature di verde, che il verde della foglia di larice non è uguale a quello del filo d’erba, ma io non riesco a distinguere le differenze perché sono un cane. Se alzo la testa, tra le chiome degli alberi vedo pezzi di un cielo grigio. Guido gli uomini del branco verso la parte più ampia del fiume. Poi abbaio più volte per chiamarli e con i miei latrati indico che il fuggiasco è passato sull’altra sponda.

«Bravo, cane» dice il capobranco e mi lancia un tozzo di pane che ingoio all’istante.

Sono affamato, la pancia vuota mi si attacca alle ossa, ma non lo guardo per implorare un altro pezzo. Abbaio furioso verso la riva opposta, agito frenetico la coda, rizzo i peli del dorso senza smettere di latrare.

«L’indio è vicino, il cane l’ha fiutato» dice il capobranco e mi ordina di stanare il fuggiasco.

Il cane corre per stanare il fugiasco

Obbedisco, corro, entro nell’acqua, nuoto, attraverso il fiume e ricomincio a correre sulla riva fra gli arbusti e i grossi tronchi, allontanandomi sempre più dalle tracce. Il branco di uomini mi segue, sento il loro respiro alterato, i passi goffi, guadano il fiume con l’acqua fino alla vita, carichi delle armi per uccidere e di tutta la loro roba. Continuo a correre e coi miei latrati li sprono a seguirmi. Quando non sento più le loro voci e le loro continue imprecazioni abbaio con ancora più forza. So che il capobranco non darà il permesso di fermarsi a riposare, li obbligherà a proseguire e nessuno resterà indietro perché temono il fuggiasco, il bosco, i rumori che arrivano dal folto degli alberi. La paura li lega in un branco inseparabile.

Quando arrivo su un’ampia spiaggia di ciottoli fiuto l’aria, non riesco a distinguere la gamma di verdi, l’ho già spiegato, ma al mio naso arrivano gli aromi di tutto ciò che cresce. Così cerco l’odore che voglio e non appena sento che mi arriva al naso abbaio per spronare gli uomini del branco.

Avanzo senza smettere di abbaiare finché non trovo quello che cresce senza dare né semi né frutti. Koliwe lo chiama la Gente della Terra, e bambù quelli che non appartengono alla Gente della Terra.

Avanzo nel canneto allontanandomi dalla riva, quasi strisciando per evitare i rami bassi, sottili ed elastici, le foglie dure che potrebbero ferirmi gli occhi. So che la marcia del branco di uomini è diventata molto difficile perché il koliwe cresce fitto, i fusti non lasciano quasi spazio per passare, e il carico che trasportano è una zavorra che li stordisce dalla fatica. Quando mi arrivano flebili alle orecchie i loro richiami: «Cane! Cane!», abbaio con ancora più impeto e furia, come se avessi la preda a portata di denti.

Mi accuccio e aspetto. So che i miei latrati li spronano e che ogni difficoltà accresce il loro odio nei confronti del fuggiasco. Così aspetto finché non li sento vicini e poi, muovendomi guardingo, passo a poca distanza da loro facendo la strada al contrario e torno indietro fin sulla riva del fiume.

«Cane! Cane!» gridano gli uomini del branco senza sapere da che parte andare tra i fusti fitti del koliwe.