Meli – Quattro

Sul fiume, dopo aver bevuto l’acqua fresca che scorre fra le pietre coperte di muschio, cerco da mangiare, perché ho bisogno di mangiare, di recuperare le forze.

Non mi costa nessuna fatica catturare tunduku, il topo di montagna, lo sgozzo con un morso, ma prima di mangiarlo ricordo ciò che ho imparato dalla Gente della Terra e latro dolcemente: «Come che, l’uomo, chiede perdono ad aliwen, l’albero, prima di tagliarlo e a ufisa, la pecora, prima di toglierle la lana, io ti chiedo perdono, tunduku, se sazierò la mia fame col tuo corpo».

Mangio in fretta, ma non più del necessario, e il corpo caldo di tunduku mi cede il suo tepore e la sua energia. Gli avanzi saranno un banchetto per ñamku, il falco, e prima o poi, mentre lui starà volando nell’ampio cielo, un altro tunduku si nutrirà delle sue uova.

Quando riprendo a cercare le tracce del fuggiasco, un rumore scuote il bosco. È tralkan, il tuono che annuncia il temporale. So che sarà difficile trovare le tracce mentre cade la pioggia perché mapu, la terra, apre tutti i suoi pori piena di gratitudine e non si avverte altro che l’odore della sua contentezza.

Cerco rifugio sotto un grosso tronco e là mi accuccio. Allora penso al motivo per cui l’odore del fuggiasco mi ricorda tutto quel che ho perduto. E pensando con dolore a quel che ho perduto mi addormento mentre la pioggia cade incessante. Allora sogno.

Sogno di essere vicino a un fuoco che mi sprofonda in una placida sonnolenza. Vicino al fuoco ci sono altre persone, uomini, donne, bambini, che ascoltano qualcuno che parla e intanto mangiano i frutti del pewen, l’altissima araucaria. Parlano di me.

Dicono: «Raccontano gli anziani che un giorno nawel, un giaguaro forte e agile, scese dalla cordigliera di Nawelfüta, la sua casa, perché non a caso nella nostra lingua Nawelfüta significa ‘giaguaro grande’».

Il giaguaro trasporto il cane davanti a una ruka

Accadde in una mattina molto fredda e velata da una nebbia così fitta che impediva di vedere i rami degli alberi, le cime delle montagne coperte di neve, e lasciava intuire a stento il sentiero che portava alle ruka, le case mapuche costruite sulle rive del grande lago. Raccontano gli anziani che i cani non abbaiavano nonostante la presenza del giaguaro, anche se temendo per le pecore loro li aizzavano gridando trewa!, trewa!, e cioè cane!, cane! In quella mattina di nebbia, però, malgrado le grida, i nobili cani che non temono nawel, il giaguaro, rimasero buoni, a testa bassa, e il grande felino della cordigliera si avvicinò alla prima ruka e, davanti alla porta orientata verso la puelmapu, la terra dell’Est, depositò dolcemente il carico che teneva tra le fauci. Poi nawel, il giaguaro, ruggì e scomparve nella nebbia.

«È così che andarono le cose» dice un altro di quelli che parlano nel mio sogno. In quella ruka viveva Wenchulaf, un anziano che, fedele al significato del suo nome – uomo felice –, si occupava di intrattenere i bambini nell’ayekantun, l’appuntamento quotidiano per ascoltare storie e canti gioiosi tramandati da altri tempi che non dovevano essere dimenticati, perché in quelle storie e in quei canti passati di padre in figlio palpitava l’orgoglio di essere mapuche, Gente della Terra.

Allarmato dalle grida Wenchulaf uscì dalla ruka, si chinò, prese tra le braccia il corpicino scuro, gli fece una carezza e annunciò che era un pichitrewa, un cucciolo di cane.

Tutta la comunità circondò Wenchulaf e lo strano regalo lasciato da nawel, il giaguaro. Certi dicevano che quella mattina, benché non soffiasse vento di tempesta, dalle alte montagne era sceso kallfütray, il rumore del cielo, altri invece sostenevano che il cucciolo era un regalo di Wenupang, il leone del cielo.

Wenchulaf li invitò a tacere. «L’importante» disse «è che il cucciolo ha freddo e fame, e come tutto ciò che ci dà Ngünemapu, lo spirito della terra, è per il nostro bene, quindi io lo accolgo con gratitudine.»

Nel mio sogno sento il calore delle braccia di Wenchulaf e alla memoria del mio naso arrivano gli odori della ruka: fumo di legna secca, lana, miele e farina.

Nel mio sogno e nella semioscurità della ruka vedo Kinturray, colei che ha un fiore. Sta allattando un cucciolo d’uomo e, quando mi vede, versa un po’ del suo latte generoso in una ciotola e mi chiama.

Mentre lecco quel latte, qualcuno dice: «Hai un bel cane, Wenchulaf, speriamo che diventi un nobile pastore per le tue pecore». E il vecchio mapuche risponde: «Non è il mio cane, sarà il compagno di mio nipote Aukamañ, condor libero. Non sapremo mai dove l’ha trovato nawel, il giaguaro, né che cosa sia successo a sua madre, ma sappiamo che questo cucciolo è sopravvissuto alla fame e al freddo della montagna. Questo cucciolo ha dimostrato lealtà a monwen, la vita, non ha ceduto al comodo invito di lakonn, la morte, perciò si chiamerà Aufman, che nella nostra lingua significa leale e fedele».