Epu – Due
Sogno quel che ho perduto e i miei sogni mi riportano al giorno freddo in cui caddi nella neve. Prima di cadere viaggiavo avvolto dal tepore di una borsa di lana e, ogni tanto, gli uomini di un altro branco mi lanciavano un’occhiata e dicevano: «È bello il cucciolo, diventerà un gran cane».
I miei ricordi cominciano il giorno in cui caddi nella neve, anche se a volte mi arrivano brevi immagini di un tempo ancora precedente in cui mi ritrovo accanto a un corpo tiepido e allora mi vedo insieme ad altri cani piccoli come me, attaccati a sorgenti da cui sgorga un latte caldo e saporito.
Gli uomini di quel branco si spostavano fra le alte montagne varcando passi stretti e bui che solo loro conoscevano. Montavano cavalli robusti e trasportavano cose dagli aromi piacevoli, mate, farina, carne secca, aromi che io percepivo mischiati all’odore acido del sudore dei cavalli.
Caddi fuori dalla borsa mentre ci inerpicavamo su per una scarpata, nessun uomo del branco se ne accorse e il vento freddo si portò via i miei deboli latrati. Cercai di rincorrere i cavalli ma sprofondavo nella neve e, sfinito, mi accovacciai sentendo svanire tutto il calore dal mio corpo. La neve cominciò a coprirmi. Scendeva con la stessa dolcezza del sonno che mi chiudeva gli occhi.
Il buio stava calando sulle montagne quando mi svegliai al tocco di una lingua tiepida e umida che mi scivolava addosso dal muso alla coda. Nel frattempo un naso mi fiutava tutto e, dal fondo della mia piccola memoria di ciò che ancora non conoscevo bene, spuntò un timore che mi fece rattrappire ancora di più. Pian piano però quella lingua tiepida che mi leccava scacciò la paura e, passato il freddo, lasciai che dei denti forti mi prendessero per la collottola senza farmi male. Così sospeso venni trasportato fino a una grotta e là il mio salvatore, nawel, il giaguaro, condivise con me il calore del suo grande corpo.
Passarono vari giorni. La luce si rifletteva sulla neve e io rimanevo accanto a nawel, il giaguaro. Quando il buio copriva tutto quello che c’era fuori dalla grotta, nawel usciva e dopo un po’ rientrava con il corpo inerte di chinge, la moffetta, o di wemul, il cerbiatto, e mangiavamo insieme la loro carne ancora calda.
Nawel, il giaguaro, misurava le mie forze spingendomi con le zampe o con la testa, io mi sentivo sicuro sulle gambe e mi azzardavo addirittura a uscire dalla grotta, per scorrazzare su pire, la neve bianca indurita.
Una notte senza ombre in cui kuyen, la luna, decise di condividere la sua luce con la neve, nawel mi prese di nuovo per la collottola con i denti e ci mettemmo in viaggio scendendo dalle montagne.
Quando vidi, spaventato, che ci allontanavamo sempre più dalla tiepida grotta, abbaiai la mia paura chiedendo di tornare. Allora nawel mi posò a terra e ruggì. E io compresi.
«La montagna non è posto per un pichitrewa, un cucciolo di cane. Starai meglio con i mapuche, con la Gente della Terra» ruggì nawel, il giaguaro, e continuammo la nostra discesa dalle montagne.