Pura – Otto
Spunta l’alba e continua a piovere. Non so se ho dormito e ho sognato tutto ciò che küdemallü, la lucciola, mi ha fatto vedere, oppure se ho sognato di dormire. Mi sento forte e dimentico la fame, perché prima di aprire gli occhi vedo la tenue luce verde di mia sorella la lucciola che brilla ancora sotto le mie palpebre.
Il capobranco dei wingka ordina di continuare la caccia, di controllare le armi per uccidere, di portarsi dietro stavolta solo lo stretto necessario per un’avanzata rapida, e poi distribuisce bottiglie di quell’acqua torbida che li rende crudeli.
«Nel canneto non torniamo» brontola un uomo del branco.
«Lo circonderemo. L’indio ha attraversato il canneto, lo sappiamo, e adesso può solo essere nel bosco ad alta quota. Più sale, meno alberi ci sono, quindi lo vedremo» dice il capobranco.
Il capobranco ha ragione a metà. Non sa che Aukamañ, il fuggiasco, non ha attraversato il canneto di koliwe, le tracce dicono che l’ha evitato ed è salito verso il bosco. Ma è vero che lassù il bosco non è fitto e che si entra nel regno del gigantesco pewen, l’altissima araucaria, dove cominciano le rocce, i ghiacciai, la casa azzurra di ñamku, il falco, di këlikëli, il gheppio, di mañke, il condor, di Wenupang, il leone del cielo.
Ancora una volta attraverso il fiume, nuoto, raggiungo l’altra sponda e corro verso la spiaggia di ciottoli e il canneto. Non corro veloce, risparmio le forze perché so di avere davanti un lungo cammino. Raggiungo il canneto, aspetto di sentire da vicino i passi del branco di wingka, fingo di cercare le tracce fiutando per terra, abbaio e mi spingo tra i fusti fitti del koliwe. Là mi nascondo e aspetto.
Poco dopo sento le loro voci, le imprecazioni, i lamenti.
«Il cane ha trovato le tracce. Avanti, superiamo il canneto» ordina il capobranco e li vedo passare seguendo il corso del fiume.
So che cammineranno molto per raggiungere il limitare del canneto. Il koliwe costeggia la riva umida e anche se non si estende quanto il bosco infinito sulla terra piana, il branco di wingka dovrà sostenere una marcia faticosa per trovare un passaggio verso il bosco e l’inizio delle montagne.
Senza muovermi, aspetto che si siano allontanati e poi torno sulla riva del fiume nel punto in cui ho visto le orme di Aukamañ, il fuggiasco.
Non ci sono più tracce di sangue, sia perché la pioggia le ha cancellate sia perché kollalla, la formica, ha trasportato le goccioline di sangue secco nel labirinto del formicaio. Può darsi che la ferita non sanguini più e il pensiero mi conforta perché anche se Aukamañ e io abbiamo la stessa età, lui è giovane, forte, e il suo corpo si può riprendere velocemente.
Nel bosco regna una semioscurità e tralkan, il tuono, fa sentire più volte il suo ruggito annunciando che il temporale sarà lungo. Anche questo mi fa piacere, malgrado sia più difficile trovare le tracce di Aukamañ, perché rende più dura e faticosa la marcia del branco di wingka.
Avanzo così fra pelliñ, la quercia dal legno rosso, nguefü, il nocciolo dalle foglie fragranti, rewli, il faggio dalla corteccia dura come la pietra, foike, il sacro albero del cinnamomo che è sempre verde. In mezzo al rumore della pioggia mi arriva dall’alto solo il canto di trikawe, il pappagallo.

La mia pancia reclama per la fame ma ignoro la sua protesta. Ogni tanto bevo l’acqua fresca che cade dalle enormi foglie di gunnera e proseguo col naso quasi attaccato a terra. All’improvviso fiuto il confortante odore della lana e cercando fra i rami bassi di raral, il noce selvatico che cresce all’ombra degli alberi alti, vedo una fibra di lana nera.
Quella piccola fibra di lana sa di legna secca, di farina, di latte e miele, di tutto quel che ho perduto. Allora, seduto sulle zampe posteriori, ululo con tutte le mie forze, ululo perché Aukamañ sappia che sono vicino e che sto andando da lui. Ululo perché la voce del dolore non si dimentica mai.