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«Apri» disse Lanzafame alla guardia carceraria.

«Non è qui» rispose la guardia.

«E dov’è?» chiese il capitano, teso.

«Di sopra. C’è una puttana che la sta preparando» rise la guardia.

Lanzafame si voltò senza rispondergli, salì le scale del primo piano di Palazzo Ducale, seguito dai suoi soldati, e raggiunse una piccola loggetta, davanti alla quale riconobbe le guardie della prigione. «È qui?» chiese.

Il comandante delle guardie si voltò con indolenza. Aveva il naso gonfio e due grossi versamenti sotto gli occhi. Si teneva un fazzoletto sporco di muco e siero di sangue sotto le narici. Guardò Lanzafame senza rispondergli, poi si affacciò nella loggetta. «È pronta o no? Quanto ci metti?»

«Ho finito» disse una voce di donna dall’interno della stanza.

Il comandante delle guardie si voltò verso Lanzafame. «È tutta vostra, capitano.»

Lanzafame entrò nella stanza.

«Smettila di piangere, stronza!» stava dicendo la prostituta, di spalle, rivolgendosi a Giuditta. «Rovini tutto il lavoro che…»

Non finì la frase. Lanzafame le fu addosso e la spintonò con rabbia, buttandola contro la parete della stanza. «Stai zitta, troia» le ringhiò. Poi si rivolse a Giuditta e le porse una mano. «Vieni» le disse con un’intonazione gentile. «Dobbiamo andare.»

 

Giuditta annuì, tirando su col naso.

«Vieni» ripeté Lanzafame e la portò fuori.

Le guardie fischiarono e risero, vedendola.

Lei abbassò il capo, arrossendo.

Il capitano li fulminò con un’occhiata. Poi fece segno ai suoi soldati, che si schierarono intorno a Giuditta. Lanzafame le rimase accanto, tenendola per un braccio, come se avesse paura che potesse cadere, e scesero le scale, in silenzio.

«Faccio schifo» disse con un filo di voce Giuditta quando furono alla porta che dava sull’esterno.

«Fermi» ordinò Lanzafame ai suoi. Guardò Giuditta. Aveva il viso truccato in maniera pesante, volgare. Il vestito era così scollato che restava poco da intuire del seno. Ai piedi le avevano messo le scarpe alte da cortigiana.

«Faccio schifo, vero?»

Lanzafame prese il proprio fazzoletto e lo passò ruvidamente sugli occhi di Giuditta, levandole un po’ del nero che la prostituta le aveva passato in abbondanza sulle palpebre. Poi le pulì le labbra vermiglio, disegnate a cuore. «Ecco, così va meglio» le disse. Abbassò lo sguardo sulla scollatura. «Non pensarci.» Fece segno ai soldati di procedere.

All’esterno la luce del sole, nonostante fosse molto presto, era già abbacinante. L’aria calda e umida, soffocante.

«Strega! Ebrea! Puttana di Satana! Maledetta!» gridò la piccola folla che aspettava fuori appena la vide comparire.

«Fate largo!» ordinò Lanzafame.

I due soldati in testa al drappello colpirono senza esitare un facinoroso che sputava verso Giuditta. La folla immediatamente capì e si scostò. Si mise a seguire il corteo urlando ma senza creare ulteriori problemi.

«Non ascoltarli» disse Lanzafame a Giuditta.

«Come si fa?» provò a scherzare lei.

Il capitano annuì serio. Avevano ormai abbandonato piazza San Marco e si erano infilati per calle de l’Ascension e poi proseguirono per salizada di San Moisè. E solo allora le chiese: «Il tuo difensore è venuto a parlarti?».

Giuditta fece un’espressione meravigliata. «Doveva?»

«Merda» si lasciò scappare Lanzafame.

«È grave?» fece Giuditta preoccupata.

«Ma no… certo che no…» rispose lui, minimizzando. Rimase in silenzio. Il fatto che il difensore non si fosse presentato non era certo un segnale incoraggiante. Sperò che il processo non fosse la farsa che invece sembrava preannunciarsi, mentre, superato campo San Moisè, svoltavano a destra, verso la parrocchia di San Bartolammeo, facendo un giro tortuoso perché Lanzafame non voleva far passare Giuditta nella calle degli Specchieri, dove si sarebbe vista riflessa per tutta la strada.

Costeggiando il rio dei Fuseri, a San Luca, il capitano notò una barca. A bordo riconobbe i due giganteschi buonavoglia che accompagnavano sempre Mercurio. La barca li seguì, a una certa distanza, fin quasi a San Bartolammeo. Poi attraccò a un piccolo molo di legno. Lanzafame immaginò che servisse da appoggio.

Una gran quantità di gente era già radunata davanti al collegio canonico dei Santi Cosma e Damiano e appena avvistò Giuditta cominciò ad agitarsi, come l’acqua piatta della laguna quando si increspava per un refolo nervoso di vento.

«State compatti e non permettete a nessuno di avvicinarsi» disse Lanzafame ai suoi soldati. Poi strinse un braccio a Giuditta. «Stai tranquilla. A te ci penso io.»

Mentre fendevano la folla, che si apriva inveendo contro la strega, Giuditta si guardava intorno, cercando Mercurio. Il giorno prima, quando lo aveva visto nella piazzetta di fronte a Palazzo Ducale, dalla sua gabbia sospesa, aveva sentito che non tutto era perduto e si era resa conto, solo allora, fino in fondo del perché aveva chiesto al padre di avvertirlo. Perché se Mercurio la guardava, già si sentiva più al sicuro. Perché se Mercurio le era accanto, la paura era meno opprimente. Perché se sapeva che Mercurio soffriva con lei, poteva sopportare qualsiasi dolore.

«Puttana di Satana! Strega!»

Giuditta veniva sospinta da Lanzafame, che voleva farle attraversare in fretta lo slargo di fronte al collegio canonico per ridurre al minimo i rischi. Ma lei, invece, resisteva, cercando Mercurio.

«Sarà già dentro» le disse Lanzafame.

Giuditta si voltò a guardarlo.

«Ma siccome il comandante delle guardie lo cerca si è dovuto travestire. Probabilmente non lo riconoscerai però… lui c’è.»

«Davvero?» chiese con un filo di voce Giuditta.

«Sì» la rassicurò Lanzafame. «Adesso però andiamo. Non mi piace stare qua fuori, in mezzo a tutti questi fanatici.» Guardò i suoi soldati. «Muoviamoci!»

Raggiunsero l’ingresso laterale del collegio, sorvegliato da due guardie armate, che si fecero subito da parte. Entrarono e si ritrovarono in uno stanzone freddo e spoglio.

«Siamo pronti, allora» disse il Santo, vedendoli.

Il Patriarca di Venezia, con un piccolo stuolo di chierici e prelati intorno, appena vide Lanzafame aggrottò un sopracciglio. «In futuro vorrei che fosse l’imputata ad aspettare noi e non il contrario» fece con una voce stizzita.

Lanzafame allargò le braccia, in segno di scusa. «Mi dispiace, Patriarca, ma la… truccatrice voluta dall’Inquisitor non aveva finito di prepararla.»

Il Patriarca si voltò verso il Santo.

«Non succederà più» lo rassicurò subito il frate.

«Avanti, sbrighiamoci» disse il Patriarca, incamminandosi.

Dietro di lui si accodarono il Santo, i prelati, un domenicano che avanzava cautamente, i chierici e infine Lanzafame con Giuditta.

La sala maggiore del collegio canonico dei Santi Cosma e Damiano era immensa, con un tetto alto, fatto di travature scure a vista e colonne ai lati. Nella parte anteriore era stato costruito un palco basso, dove si sarebbero seduti il Patriarca e i prelati del consiglio, a destra un lungo tavolo per l’Inquisitor e il difensore, a sinistra una gabbia nella quale fu fatta entrare Giuditta.

Quando Mercurio la vide, rinchiusa come una bestia feroce, provò una fitta dolorosa al cuore. “Resisti” pensò, cercando di non abbandonarsi allo strazio.

Di fronte al palco e in tutta la sala maggiore erano state messe delle panche, sulle quali era già seduta e ammassata una gran quantità di popolani, accorsi per il processo. Quelli che non avevano trovato posto a sedere occupavano in piedi tutti gli spazi tra le colonne e le pareti, pigiati fino all’inverosimile. Altri ancora si ammucchiavano all’ingresso, tentando almeno di sentire. A quelli fuori, nel piazzale brullo, non restava che immaginare cosa succedesse all’interno del collegio.

Il Patriarca andò verso la poltrona centrale sul palco e stava per far segno a un prelato in tonaca di seta e fascia in raso di sederglisi accanto, quando il nobile Jacopo Giustiniani, con un balzo agile, lo raggiunse e guadagnò la poltrona di fianco alla sua.

«Patriarca» cominciò Giustiniani, mentre la folla riunita nella sala si azzittiva, «questo è un evento così importante che le autorità di Venezia debbono e vogliono schierarsi accanto alla Chiesa.»

Il Patriarca s’irrigidì. Non aveva previsto di dividere i meriti di quel processo con nessuno.

Giustiniani intanto si era rivolto al pubblico. «Siete il loro gregge, ma anche i nostri amati concittadini» disse. «Almeno non si dirà che in aula c’erano solo pecore, ma anche uomini.»

La gente rise mentre il nobile si accomodava.

«Giustiniani» sibilò il Patriarca a bassa voce, «cosa vi è saltato in mente?»

«Patriarca, lo sapete bene, perché siete prete ma soprattutto veneziano…» sorrise amabilmente Giustiniani. «Venezia non può permettersi di rimanere fuori da un evento così grosso. Non possiamo rimanere un passo indietro alla Chiesa.» Allargò le braccia. «So che mi capite, in fondo.»

Il Patriarca cercò di nascondere la stizza che lo aveva fatto diventare paonazzo e sorrise alla folla. «Si dia inizio al Santo Processo» annunciò. Con una mano indicò il Santo, alla sua sinistra. «Il paladino della Chiesa, l’Inquisitor, fratello Amadeo da Cortona.»

“Che tu sia maledetto” pensò Mercurio.

Il Santo s’inchinò al Patriarca e poi si voltò verso la gente, con le mani alzate, esibendo le stimmate.

«Venite, Inquisitor. Avvicinatevi per la nostra benedizione.»

Il frate s’inginocchiò ai piedi del palco.

«Più vicino» disse il Patriarca. E quando il Santo lo raggiunse, gli prese il viso tra le mani. «Vi bacio in nome di Nostro Signore Gesù Cristo…» disse avvicinando la bocca alla guancia destra. «Smettila di mostrare quei buchi, giullare» gli sibilò nell’orecchio, fingendo di baciarlo. Poi portò le labbra alla guancia sinistra. «E ricordati che non serve una confessione. Il popolo l’ha già condannata. Devi solo fare in modo che non cambi idea.» Lo guardò negli occhi. «Amen!» annunciò ad alta voce.

«Amen» rispose il Santo e tornò al suo posto.

«E ora il difensore» disse in tono minore il Patriarca, come a comunicare alla gente che colui che stava per presentare non contava nulla ai suoi occhi. «Padre Venceslao… che nome che avete, padre…» sorrise.

La folla rise.

«Padre Venceslao da Ugovizza» concluse il Patriarca. «E dove sarebbe questo posto?»

La gente si voltò verso il domenicano, in tonaca e scapolare bianco, con mantello e cappa neri, che si alzava incerto dal tavolo dove era seduto. Il prete aveva due occhi lattiginosi, velati dalle cataratte. Si voltò verso il Patriarca, ma senza inquadrarlo bene. «È una piccola comunità sulle Alpi, Eccellenza, che appartiene ai vescovi di Bamberga, in Baviera» rispose.

«Quindi voi siete tedesco?»

«No, Eccellenza…»

«Be’, poco importa» lo interruppe il Patriarca. «Non siamo qui per studiare la geografia» disse rivolto al pubblico, che rise ancora, divertito. «Siete pronto per il vostro… ingrato incarico, padre Venceslao?» gli domandò poi.

«A dire il vero non molto» disse il domenicano, aggirando il tavolo con prudenza, con le mani protese in avanti per non cadere. «Io non so nulla dei processi inquisitori.»

Il Patriarca s’irrigidì. «Padre, non serve tanta modestia.»

«No, no. È la verità, Eccellenza» fece il domenicano.

«Allora affidatevi alla voce del Signore.»

«Come comandate» disse il difensore, inchinandosi.

«Io non comando» lo corresse il Patriarca, a disagio. «Suggerisco semplicemente.»

«Ma ogni vostro suggerimento per me è un comando» fece padre Venceslao, umilmente.

La gente rise.

Isacco, nelle prime file, guardò prima la figlia e le fece un gesto con le mani strette a pugno, per rincuorarla, poi mormorò con rabbia all’orecchio di Ottavia, al suo fianco: «È una farsa e non si preoccupano nemmeno di nasconderlo». Scambiò un’occhiata anche con Lanzafame.

Il viso del capitano era cupo. «Stai tranquilla» sussurrò però a Giuditta.

Giuditta afferrò le sbarre e spostò lo sguardo verso l’uomo che avrebbe dovuto difenderla. Non l’aveva degnata nemmeno di un cenno. Aveva un’aria insicura e modesta, con una leggera zoppia, dovuta forse alla gotta. Oltre agli occhi velati aveva le guance rosso acceso, da bevitore. E la tonsura era piena di pustole. Le mani sporche continuavano a giocherellare col rosario che aveva al fianco, allacciato alla cintura di cuoio.

«Stai tranquilla» le ripeté Lanzafame.

«Lo dite per me o per voi?» gli chiese Giuditta.

Lanzafame non rispose e abbassò gli occhi.

«Volete parlare un momento con la vostra assistita?» intervenne Giustiniani, rivolgendosi a padre Venceslao, come a suggerirgli che sarebbe stato opportuno farlo.

Il domenicano si voltò verso il Patriarca, senza però vederlo. Rimase un attimo in silenzio, poi scosse la testa. «No… direi di no» fece e tornò più in fretta che poté al tavolo. «Per carità, parlate voi» sussurrò al Santo. «Levatemi da questo ginepraio.»

«Chiedo di poter cominciare la mia requisitoria, Patriarca» esclamò con enfasi il Santo, alzandosi.

«Siete pronto, exceptor?» domandò il Patriarca al frate cancelliere, un ometto di mezza età seduto a una piccola scrivania, con in mano una penna d’oca dal pennino d’oro zecchino che intingeva con gesti rapidi in un grosso calamaio.

«Sì, vostra grazia» rispose l’exceptor, che aveva il compito di trascrivere il processo su un grande foglio di pergamena.

«Dunque, la quaestio può avere inizio» annunciò il Patriarca.

“La buffonata può avere inizio” pensò Mercurio, cercando sostegno nella rabbia, perché la paura e la preoccupazione gli facevano tremare le gambe. Guardò verso Giuditta. Notò che lo cercava tra la gente. Di sicuro il capitano Lanzafame l’aveva avvertita che si era dovuto travestire. Ma lei lo cercava ugualmente. E lui stesso provava un irrefrenabile desiderio di farle un cenno, di farsi riconoscere, di dirle sotto quali spoglie si era nascosto, ma non poteva. Per l’incolumità di Giuditta. Se fosse stato arrestato – e aveva già visto il comandante delle guardie ducali scrutare tra la gente, cercando proprio lui –, Giuditta non avrebbe più avuto nemmeno una possibilità di salvarsi. Per quanto faticoso, doveva portare da solo quel peso sulle spalle, si disse, e non farsi riconoscere. Si concentrò sul Santo. Lo guardò con tutto l’odio di cui era capace, sperando che morisse, lì, in quel preciso istante.

Fratello Amadeo girò intorno al tavolo, attraversò tutta la stanza in silenzio, avvicinandosi alla gabbia di Giuditta, puntandole addosso un dito finché la raggiunse. Ma non si fermò. Infilò il dito nella gabbia, provocando un brivido tra la gente e costringendo Giuditta, spaventata, ad arretrare. «È iniziata la pulizia di Venezia!» urlò allora.

La folla seguiva la scena a bocca aperta, affascinata.

«Un buon attore» disse piano Giustiniani al Patriarca.

«Un guitto» brontolò quello.

«E i serpenti come te verranno schiacciati!» proseguì il Santo. Sfilò il braccio dalla gabbia e quasi corse in proscenio, davanti alla gente. «Quest’oggi e per tutta la durata di codesto processo io dimostrerò che questa…» lasciò la frase sospesa, come prendendo la rincorsa «… strega ha tramato col suo padrone e signore, Satana in persona, per carpire le anime delle donne di Venezia!» Si voltò verso il tavolo, dove aveva allineato penne di corvo insanguinate, denti di neonato, capelli annodati e quanto d’altro era stato rinvenuto negli abiti di Giuditta. «E lì ci sono le prove di codesta attività stregonesca!»

Padre Venceslao da Ugovizza si alzò per esaminare le prove. Ma per vedere si dovette avvicinare così tanto a ognuno degli oggetti esposti che un popolano urlò: «Che fai, prete, le annusi?», suscitando le risate della folla.

«Silenzio!» ordinò il Patriarca. Poi si voltò infuriato verso padre Venceslao. «E voi sedetevi!»

Il domenicano ubbidì velocemente, imbarazzato.

«Venezia, ascolta!» riprese il Santo. Si accorse che molti, tra il pubblico, guardavano verso il domenicano. «Venezia!» urlò più forte. «Ascolta!»

La gente tornò a prestargli attenzione.

«La peste di Satana si è diffusa per le nostre amate calli, infangandole, e per i nostri canali, intorbidendo le loro acque» riprese il Santo. «La peste di Satana è portata in questa città da quella donna» indicò Giuditta «e dal suo popolo. Gli ebrei! I giudii! Assassini di bambini, deicidi, bestemmiatori del Cristo e dell’Immacolata Concezione, usurai!» Il Santo si guardò in giro. «Berrette gialle!»

Gli occhi di molti si voltarono verso Isacco, Ottavia, Ariel Bar Zadok e altri della comunità, presenti per seguire il processo. Ma la maggior parte degli ebrei di Venezia, a cominciare dal capo della comunità Anselmo del Banco, non erano lì, temendo disordini e intolleranze nei loro confronti.

I soldati di Lanzafame e le guardie di Palazzo Ducale misero mano alle armi, per mostrare alla folla che non sarebbero state ammesse manifestazioni d’intolleranza.

«Il processo è a una singola donna, apparentemente, ma è il processo ai figli di Satana» disse il Santo.

Giuditta lasciò vagare lo sguardo tra la gente, cercando di indovinare chi potesse essere Mercurio.

E lui, per un attimo, di nuovo, ebbe la tentazione di farle un cenno, di richiamare la sua attenzione, di darle la prova che era lì, al suo fianco. Ma ancora una volta si trattenne.

Isacco, quando vide la figlia che cercava Mercurio, provò ad aiutarla. Alla sua destra individuò un uomo che poteva avere all’incirca la stessa corporatura di Mercurio. Aveva capelli lunghi che gli coprivano il volto, disordinati. Era vestito miseramente e si grattava in continuazione. Lo guardò con insistenza. Gli fece un leggero cenno col capo.

«Che cazzo guardi, ebreo di merda?» ringhiò l’uomo.

Isacco inizialmente abbassò lo sguardo. Ma poi, riflettendo, annuì. «Certo» disse tra sé e sé. «Giusto.» Incrociò lo sguardo della figlia e le indicò l’uomo.

Giuditta lo guardò.

«Puttana!» le urlò quello.

Giuditta si voltò verso il padre. Isacco scosse il capo, come a dirle che non era affatto convinto.

«Venezia presto sarà libera!» concluse il Santo. «Perché il Signore Onnipotente ci guida e ci ha mostrato… la strega!»

La folla applaudì eccitata.

“Merdosi” pensò Mercurio. “Credono di stare a teatro.”

«Avete qualcosa da dire?» domandò allora il Patriarca al difensore.

«No, Eccellenza…» disse padre Venceslao. «Concordo con quanto ha detto fratello Amadeo da Cortona, ispirato da Nostro Signore, in nome del quale parla. Justus es, Domine, et rectum judicium tuum.»

«Che hai detto, prete?» gridò una donna del popolo.

«Ha detto che il giudizio di Dio è retto e giusto» fece il Santo.

La gente brontolò. Anche se nessuno, inizialmente, aveva sentito l’esigenza di un difensore, ora sembravano quasi scontenti che quel processo avesse un unico e ineluttabile senso di marcia.

«Razza di coglioni» brontolò Isacco e di nuovo guardò verso l’uomo col volto coperto dai capelli.

«Per farvi comprendere la gravità delle accuse» urlò il Santo, «voglio chiamare a deporre Anita Ziani, lavandaia, che ha assistito a un prodigioso e terrificante evento. Che sia introdotta!»

Due guardie scortarono una donna vestita umilmente, con le mani arrossate, che se ne stava a testa bassa, intimorita dalla gran folla.

«Anita Ziani» disse il Santo, alzandole il viso verso la gente, «raccontate con parole vostre ai vostri concittadini gli eventi satanici!»

La donna arrossì e sorrise nervosa, mostrando grandi varchi neri tra i denti. «Signoria, come vi ho già detto…» fece la lavandaia, verso il Santo.

«Alla gente!» disse il frate, voltandola. «Raccontate alla gente!»

La lavandaia si strinse nelle spalle. «Era il giorno del Signore… addì 20 del mese di maggio e io tornavo alla mia bottega dopo aver lavato dieci paia di lenzuola fini di lino e venti…»

«Saltate i particolari» disse spazientito il Santo. «Cosa accadde?»

«Ecco… accadde che una donna, di cui non so il nome, signoria… questa donna cominciò a urlare frasi oscene in campiello dei Squelini, che è dove si trovano i fabbricanti di scodelle, a San Barnaba…»

«I fatti! I fatti!» friggeva il Santo.

«Codesta donna urlava frasi oscene» la lavandaia si fece un sommario segno di croce, «bestemmiando la Madonna in special modo e poi, con rispetto parlando… e poi s’alzò la veste e mise a nudo le parti vergognose… cioè… quelle in mezzo alle gambe.»

«E poi?» fece il Santo, cercando di tener viva la tensione.

«E poi da quelle parti basse… qui…» la lavandaia si indicò tra le gambe «uscì un uovo… piccolo, verde, che vibrò come se ci fosse dentro qualcuno che spingeva…»

La folla era ammutolita. Tutti ascoltavano a bocca aperta.

«E infatti…» suggerì il Santo, invitandola ad andare avanti.

«E infatti quell’uovo si ruppe» proseguì la lavandaia, «e ne guizzò fuori una creatura orrenda. Con occhi gialli, maligni. Sembrava una specie di piccolo serpente, sennonché aveva otto paia di zampe artigliate…»

La folla mormorò, impaurita e meravigliata.

«E poi?» insisté il Santo.

«E poi la creatura mostruosa scappò via… e la donna che l’aveva partorita indossava uno dei vestiti dell’ebrea e disse che da quando portava quell’abito ne scodellava uno al giorno, di quegli ovi verdi satanici…»

«Puttana! Strega!» urlarono alcuni verso Giuditta.

Il Santo annuiva in silenzio, lasciando che l’episodio saturasse l’immaginazione di presenti.

«“E che Dio possa accecarmi se non è vero”» suggerì padre Venceslao, scuotendo la testa in su e in giù, assorto e preso dal racconto. «Dite così, brava donna, perché un giuramento fatto a Dio contro Satana vale cento e mille preghiere.»

«No…» balbettò la lavandaia.

Padre Venceslao la guardò, stupito. «Come no?» chiese, quasi spaventato, e subito si voltò verso il Patriarca.

La lavandaia si fece il segno della croce.

Padre Venceslao continuava a guardare verso il Patriarca. «Mi dispiace, non volevo…» disse nel silenzio generale.

La gente adesso guardava la lavandaia e alcuni ridacchiavano.

Il Santo schiumava come una belva inferocita. «Giura, donna!» le intimò.

La lavandaia era terrorizzata, ma non si decideva a parlare.

«Giura!» ripeté il Santo.

«Comunque io vi credo anche se non giurate, brava donna» disse padre Venceslao.

«Tacete!» gli ordinò il Patriarca.

La gente rise.

«Giura!» urlò il Santo. «O sei d’accordo con Satana?»

«Giuro…» scoppiò a piangere la lavandaia.

Il Santo si voltò verso la folla, con un sorriso di trionfo. Ma molti degli spettatori scuotevano il capo.

«Mi spiace, Patriarca» fece padre Venceslao avvicinandosi al palco, «io volevo solo…» Allargò le braccia. Poi si girò verso la gabbia di Giuditta e le puntò un dito contro, vibrante di rabbia. «Ecco come Satana confonde le nostre menti!» urlò, istericamente.

La folla cominciò a rumoreggiare.

«Guarda che sei il difensore!» urlò un popolano.

Molti risero.

Padre Venceslao si agitò, imbarazzato, guardando coi suoi occhi opachi la gente e poi disse, con voce insicura: «Io difendo Dio!».

«Sedetevi!» gli ordinò irritato il Patriarca.

Il domenicano andò al suo posto e si sedette, dopo essersi fatto per ben tre volte il segno della croce.

«Gli imbecilli possono fare più danni dei disonesti» bisbigliò il Patriarca a Giustiniani. «Istruitelo meglio. Ditegli che è sufficiente che stia zitto.»

Giustiniani annuì, pensoso. Poi lanciò un’occhiata piena di disprezzo a padre Venceslao.

Mercurio guardò l’aristocratico. Si domandò se fosse davvero dalla sua parte, come diceva. In realtà non sapeva di chi fidarsi, ma non aveva alternative.

Intanto fratello Amadeo si era avvicinato alla lavandaia, circondandole le spalle con un braccio. Con l’altra mano le toccò amorevolmente la fronte. «Donna» parlò con una voce calda e calma, «la prova che hai dovuto sostenere ha fatto impazzire i Martiri e i Profeti. Il mio cuore è con te. Vai in pace e ringrazia Dio di essere sopravvissuta all’incontro con Satana.» Fece un cenno alle guardie di portarla via. Poi fissò la folla. In silenzio. Poteva percepire lo scetticismo generale. Annuì e le spalle gli si afflosciarono. «Ha ragione il mio nobile e puro avversario, padre Venceslao. Così grande è il potere di Satana» disse a bassa voce, come tra sé e sé, ma in modo che tutti lo sentissero. Poi si voltò e sembrò che volesse andarsene.

La folla improvvisamente era ammutolita.

Ma mentre si avviava verso il tavolo, apparentemente sconfitto, il Santo si fermò, sempre dando le spalle alla gente, guardò alla sua sinistra, verso la gabbia dove era imprigionata Giuditta, e la raggiunse a passi pesanti, affaticati.

Si aggrappò alle sbarre e fissò Giuditta. Provò a scuoterle, ma sembrava senza forze. Il suo corpo cominciò a vibrare. Dapprima debolmente, poi con maggiore violenza. All’improvviso buttò la testa all’indietro e rovesciò gli occhi, come se fosse posseduto da un’energia superiore. Quindi la sua forza aumentò, accompagnata da un verso basso che gli sgorgava dal petto e che si spandeva nel silenzio della sala. La prigione di Giuditta cominciò a vibrare, sempre più violentemente, come scossa da un terremoto, mentre il verso animalesco cresceva fino a diventare un urlo.

«Puttana di Satana!» gridò il Santo e poi stramazzò a terra, come fulminato.

La folla dimenticò tutti i dubbi e urlò furiosa, chiedendo la vita di Giuditta.