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Rimini

«Oggi al porto mi hanno raccontato di un equipaggio macedone che quasi un anno fa voleva derubare due ebrei, un padre e una figlia, ma nei loro bauli hanno trovato solo pietre.» La risata di Ester echeggiò cristallina, superando il brontolio della risacca.

Shimon Baruch si fermò a guardarla, con i piedi che affondavano nella sabbia, in riva al mare.

Anche lei si fermò e ricambiò lo sguardo senza soggezione. Il vento le scompigliava i capelli, sfilando ciocche alla complicata pettinatura raccolta in trecce, pazientemente arrotolate intorno alla fronte e trattenute da sottili forcine di osso. Un colpo di vento più forte le strappò il fazzoletto quadrato, di seta ricamata, fissato sulla parte superiore del capo. Ester cercò di afferrarlo ma il refolo lo portò via con sé, facendolo danzare in aria come una farfalla. Ester rise ancora.

Shimon Baruch invece non si lasciò distrarre dal volo del fazzoletto. Rimase a fissare gli occhi di Ester, verdi come scarabei, e le sue labbra piene e rosee.

«Non è una storia buffa?» chiese lei, sorridendo.

Shimon annuì. Non sorrise. Perché ancora non aveva imparato a farlo. Ma sapeva che Ester non si aspettava che lui sorridesse. Come non si aspettava che corresse come un ragazzino sulla spiaggia, dove ogni pomeriggio si incontravano per camminare, da quando lui aveva deciso di fermarsi a Rimini.

Lei arrossì appena, sotto il suo sguardo intenso.

Né si aspettava che lui fosse felice, pensò Shimon.

Ester si voltò a guardare il fazzoletto, che era planato in acqua e galleggiava come una ninfea. Si girò verso Shimon, gli sorrise di nuovo e alzò le spalle, come a dire che non le importava, e fece per riprendere la passeggiata.

Ma Shimon s’infilò in acqua, così com’era, vestito, raggiunse il fazzoletto, lo prese e tornò indietro. Lo strizzò e lo consegnò a Ester.

Lei non sapeva cosa dire e rimase immobile. Poi, quando lo sguardo le cadde sui vestiti di Shimon, inzuppati d’acqua che gocciolava ai suoi piedi, scurendo la sabbia, scoppiò a ridere, senza riuscire a trattenersi.

Shimon la guardò. E intanto pensava che da quando Mercurio gli aveva rivoluzionato l’esistenza, la morte gli dormiva accanto, ogni notte, nel letto, con la sua testa scarnificata che gli alitava il fiato maleodorante della corruzione in faccia. E da allora la sua vita era diventata una pietra smossa sul fianco di un precipizio. Aveva cominciato a rotolare, sempre più veloce e senza controllo, condannata all’abisso. E Shimon aveva scoperto, in quell’inarrestabile cadere, di essere diverso da come aveva sempre creduto. Aveva scoperto che in lui aveva dormito, per anni e anni, una ferocia identica a quella del mondo che tanto lo spaventava. Aveva scoperto di poter uccidere senza provare la minima emozione, il minimo senso di colpa. Senza paura.

Aveva scoperto di poter vivere senza Dio. O a dispetto di Dio.

Erano ormai quasi cinque mesi che era giunto a Rimini e di nuovo qualcosa era mutato. E in maniera radicale. Erano cinque mesi che ogni sera si diceva che l’indomani sarebbe ripartito e invece, immancabilmente, restava. “Per cosa?” si era chiesto. Ma tardava a darsi una risposta che lo metteva a disagio. Era più semplice far finta di essere pronto a ripartire. Manteneva vivo il suo proposito di vendetta. Manteneva vivo lo scopo primario della sua vita. Allontanava una possibile risposta imbarazzante. “Sono stanco” si ripeteva. “Ho soltanto bisogno di riposare un poco.”

Ma la verità che incombeva, pretendendo di essere riconosciuta, era che cinque mesi prima, arrivando lì, aveva incontrato Ester. La donna il cui nome significava “io mi nasconderò”, come se conoscesse la storia dell’uomo che diceva di chiamarsi Alessandro Rubirosa.

L’aveva vista e subito, ascoltando la sua voce, aveva provato una sensazione di leggerezza, come se all’improvviso gli fosse stato tolto un tremendo peso dalle spalle. E per un altro verso si era sentito stanco. Stanchissimo. Come se solo in quel momento avesse potuto ammettere tutta la fatica che aveva affrontato.

Aveva visto Ester e si era sentito perdonato, accolto. Come se quella donna potesse perdonare peccati e accogliere peccatori dentro di sé.

«Venite. Non potete restare bagnato come un pulcino. Vi prenderete un malanno.» Ester gli tese una mano.

Shimon fece un mezzo passo indietro, fissando la mano.

Lei la ritirò.

Ma non aveva un’espressione mortificata, pensò Shimon. E allora le si accostò e presero a camminare verso l’Hostaria de’ Todeschi.

Ester riuscì a rimanere seria per pochi passi, poi scoppiò di nuovo a ridere. «Scusate…» disse, coprendosi la bocca, come una ragazzina. Rise ancora, indicando le calzature di Shimon che, a ogni passo, facevano uscire un po’ d’acqua, producendo un buffo rumore. «Sembra che abbiate le scarpe piene di rane» disse, con le guance che le si arrossavano e le trecce che si scompigliavano nell’aria. «Non vi offendete, vero?»

Shimon le fece segno di no. Non sapeva né come né perché era successo. Sapeva soltanto che incontrando quella donna aveva sentito aprirsi una breccia nella sua corazza. E in quel momento aveva saputo che non sarebbe partito da Rimini. Che non avrebbe seguito la traccia di Mercurio. Che non aveva voglia di privarsi della compagnia di Ester. Perlomeno non subito.

A volte, la sera, quando si coricava nella sua stanza alla locanda, lo assalivano pensieri funesti, di nuovo sentiva l’alito della morte. Ma erano pensieri senza peso. Leggeri come nuvole in una giornata ventosa. Scomparivano in un attimo dal panorama dei suoi ragionamenti.

E allora il suo intero essere tornava a concentrarsi su di lei. Ripensava alla giornata appena trascorsa e immaginava quella che sarebbe venuta. E in quel trovarsi a metà tra l’una e l’altra, in quella sospensione tra oggi e domani, Shimon traeva il suo massimo piacere. E il suo equilibrio.

Perché in quel momento Shimon sapeva di non essere solo.

«Vi imbarazzano le occhiate della gente?» gli chiese Ester.

Shimon si guardò intorno e si accorse che avevano lasciato la spiaggia e stavano camminando nell’abitato. I passanti, incrociandoli, si voltavano a guardare i vestiti inzuppati d’acqua.

Shimon si rese conto che Ester era l’unica persona con la quale non si sentisse menomato dal proprio mutismo. Quella donna sapeva fargli solo domande che prevedevano un sì o un no. Null’altro. Con lei non doveva scrivere, fare gesti, sperare che intuisse. Con lei era tutto semplice.

Scosse la testa. Non gli importava nulla della gente che incontravano.

Ester annuì, soddisfatta. «Nemmeno a me» disse.

Shimon la guardò.

Quella mattina, avendo notato che usciva a camminare con lei ogni pomeriggio, l’oste gli aveva detto: «Anche se è ebrea è una brava donna». Poi gli si era avvicinato all’orecchio e aveva sussurrato: «Ma non è tipo da convertirsi, signoria. E perciò fate i vostri conti… in libertà, diciamo così». E staccandosi gli aveva sorriso come facevano gli uomini tra loro quando parlavano di fare i propri comodi con una donna. Shimon lo aveva gelato con lo sguardo. L’oste si era subito pentito e aveva abbassato il capo, farfugliando: «Non fraintendetemi, signoria…». Shimon aveva continuato a fissarlo con un’espressione di disprezzo.

«Volete entrare a casa mia ad asciugarvi?» disse all’improvviso Ester, fermandosi davanti al portoncino dove ogni pomeriggio, dopo la passeggiata, si separavano. «Potreste indossare gli abiti di mio marito mentre i vostri si asciugano.»

Shimon rimase interdetto. Si guardò in giro.

Quel giorno, dopo che l’oste gli aveva esternato le sue volgari insinuazioni, per la prima volta da quando la frequentava, mentre le camminava accanto, in riva al mare, Shimon aveva pensato al suo corpo nudo. Al suo calore. E aveva immaginato di baciarla.

«Non mi interessano le chiacchiere della gente, ve l’ho detto» fece Ester.

Shimon all’improvviso ricordò la ragazza della bettola di Narni, che non era riuscito a possedere, nonostante il desiderio che provava e la bellezza di lei. Per la prima volta da giorni e giorni pensò che sarebbe dovuto partire e riprendere la caccia a Mercurio. “Non avrai pace finché non avrai trovato quel maledetto ragazzo e lo avrai fatto soffrire.” Si sentì con le spalle al muro. Avvertì la rabbia gorgogliargli in petto. Guardò Ester come avrebbe guardato una nemica. Poi si voltò di scatto e si allontanò a passi furiosi.

Lei non disse una parola. Non cercò di fermarlo.

Giunto al vicolo dove avrebbe dovuto svoltare, Shimon si girò. Vide che Ester stava aprendo la porta di casa, a testa bassa. Vide che le cadeva in terra la chiave e che, nel chinarsi a raccoglierla, si passava il dorso della mano sotto un occhio, come a cancellare una lacrima.

Vide nuovamente davanti a sé il viso corrotto dal vizio e il corpo provocante della ragazza di Narni, che l’aveva umiliato, che l’aveva fatto sentire un mezzo uomo. Il respiro gli si infiammò in gola. Serrò i pugni e le mascelle. Le unghie gli si conficcarono nel palmo e i denti gli stridettero in bocca.

Ester stava richiudendo lentamente la porta quando lui la travolse. La spintonò dentro casa, con violenza, con gli occhi arrossati e sbarrati dalla furia. Sbatté la porta, chiudendosela alle spalle.

Lei lo fronteggiò, senza indietreggiare.

Shimon rimase un attimo immobile. Vibrante. Poi le fu addosso, con brutalità, senza la minima attenzione, senza il minimo riguardo. Il sangue gli era salito alla testa, come un’ondata. E come una risacca, tutto quel sangue era sceso velocemente per il corpo, l’aveva attraversato devastandolo e, in uno schiumare vorticoso, gli aveva fatto crescere il desiderio tra le gambe. Si spinse contro Ester con quella sua carne rigida, appoggiandole i fianchi ai fianchi, aggrappandosi alla schiena di lei, attirandola a sé. Le alzò la gonna e la spinse contro il muro. Infilò una mano nei mutandoni di tela, strappò la stoffa, le insinuò le dita tra le cosce.

Ester chiuse gli occhi e aprì la bocca, come in un grido muto.

Shimon raggiunse un ruvido ciuffo di peli. Lo districò e s’infilò oltre, sentì una resistenza carnosa, frastagliata, e poi, all’improvviso, la carne sotto i suoi polpastrelli cedette e si aprì. Bagnata.

Ester era senza fiato. E ora aveva anche gli occhi spalancati.

La mano di Shimon cominciò a muoversi in quella calda, umida, vischiosa bocca che le si era aperta in mezzo alle gambe. Spinse un polpastrello su una piccola escrescenza, più dura del velluto che la racchiudeva. E ascoltò il corpo di lei che cambiava sotto il suo tocco. Con l’altra mano raggiunse la scollatura dell’abito, si aggrappò e strappò, con forza, fino a denudare un seno. Strinse il capezzolo, con foga.

Ester gemette di dolore. E di piacere.

E allora Shimon la baciò, quasi mordendola, quasi umiliandola con la prepotenza della propria lingua che la violava e ispezionava. Si staccò senza fiato, ansimando. Fissò le labbra di Ester che rilucevano, bagnate dal bacio. E vide che anche lei gli guardava le labbra, bagnate da quello stesso bacio.

Poi, all’improvviso, lei gli prese la mano e la spinse forte, stringendo le gambe, comprimendosi la carne, accartocciandosi su se stessa.

Shimon provò un’emozione intensa, come se furia e gioia insieme lo strattonassero e scuotessero. Fece sdraiare Ester in terra, con brutalità, le alzò la gonna e guardò i peli neri, scompigliati dalla sua mano. Vide che Ester allargava piano le gambe, schiudendo la pulsante apertura umida. Vide che contraeva i muscoli dell’addome. Si slacciò i pantaloni e si spinse dentro di lei come se dovesse ucciderla con la propria carne rigida. Sentì un calore che non aveva mai provato. E mentre Ester assecondava il suo movimento, Shimon sentì di nuovo tutto il sangue che gli correva impazzito per il corpo, in un ribollente uragano.

Ester gli prese le mani e se le portò al seno.

Shimon serrò i denti, fino a sentirli scricchiolare in testa. Diede uno, due, tre colpi di rene, con sempre maggior foga.

«Sì…» gemette Ester.

Ma Shimon non la sentiva più. Le sue orecchie erano piene dei propri gemiti, la sua testa si era fusa nella travolgente sensazione che gli si stava aggrappando alla spina dorsale come un parassita feroce. E infine si arrese con tutto se stesso a quel piacere che assomigliava così tanto a uno strazio.

E poi, lasciando che Ester lo trattenesse dentro di sé, sentì un nodo che all’improvviso si scioglieva.

E per la prima volta da quando era diventato muto, si accorse che era capace di emettere un suono.

«Piangi» gli diceva piano Ester. «Piangi…»