80
Venezia
Piazza San Marco era invasa dal sole. Un sole impietoso, feroce. La gente camminava boccheggiando per il caldo, all’ombra, sotto i portici delle Paratie Nuove, appena ricostruite.
L’estate si era abbattuta su Venezia come una malattia. L’aria era irrespirabile. Il cielo era basso e grigiastro, di un’indefinita luminescenza, innaturale. I canali più piccoli erano quasi prosciugati. Il fango imprigionava i pesci gatto e, dove era più secco, si intravedevano le impronte lasciate dai topi. L’acqua ferma odorava più che mai di marcio. Gli escrementi, liquidi e solidi, umani e animali, fermentavano in fretta, corteggiati da nugoli di mosche. I cadaveri di piccioni, ratti, gabbiani, gatti e perfino di cavalli si decomponevano velocemente, mostrando senza pudore il pullulare di vermi che banchettavano.
Benedetta era sudata ma procedeva ugualmente di buon passo, senza rallentare. In una mano aveva un fazzoletto ricamato di preziosi merletti di Burano. Nell’altra un lasciapassare che pochi, in quei giorni, avrebbero potuto ottenere.
Mentre camminava tra la gente, si guardò alle spalle. Aveva la sensazione di essere seguita. Da quando era uscita da palazzo Contarini le era sembrato di sentire dei passi, nelle calli più deserte, che s’intonavano ai suoi, che si fermavano quando lei si fermava. Forse il principe le aveva messo un servo alle calcagna. Era nella sua natura voler avere tutto sotto controllo. E in realtà più di una volta, in quei giorni, le aveva chiesto conto dei suoi spostamenti. Forse il servo che l’aveva portata a Mestre, da Mercurio, aveva parlato. Perciò, quasi un’ora prima, era uscita di casa da sola, senza accompagnatori. E, andando verso San Marco, aveva fatto un tragitto tortuoso.
Benedetta si voltò di scatto, di nuovo. Ma non notò nessuno.
Arrivata alla fine delle Paratie Nuove attraversò la piazza, passando davanti alla basilica e raggiunse il Campanile, alla base del quale erano addossate delle botteghe di legname. Superata l’ultima, dove una squadra di uomini stava sistemando delle alte pile di legna da ardere, vide alla sua sinistra Palazzo Ducale. Era arrivata. Si sentiva eccitata. E nello stesso tempo, forse a causa di quel caldo eccezionale, anche insicura e agitata.
Si fermò all’ombra della tettoia di una bottega. Per terra un tappeto di trucioli, nell’aria l’odore della resina fresca. Benedetta si asciugò il sudore dalla fronte col fazzoletto. E poi si tamponò la scollatura e infilò il fazzoletto anche dentro al vestito, sotto le ascelle. Respirò a fondo. Si impose di calmarsi. Distese i lineamenti del viso, cercando di avere un’espressione distaccata e, quando si sentì pronta, si mosse.
I gabbiani, in cielo, urlavano le loro stridule risate e si affollavano sui piloni del Molo sul Canal Grande.
Benedetta notò che le due guardie di Palazzo Ducale si erano voltate a guardarla. Sentì il sudore che le colava lungo la schiena e tra le gambe. Non rallentò né abbassò lo sguardo. Quando fu davanti ai due soldati, senza parlare, con un gesto altero e senza enfasi, come se fosse una prassi normale alla quale il suo rango l’aveva abituata, consegnò loro il lasciapassare.
La guardia più anziana ruppe il sigillo e lesse. Il documento era firmato dal Santo, l’Inquisitor, e controfirmato dal principe Rinaldo Contarini. L’uomo fece un leggero inchino a Benedetta, diede un’occhiata intorno e le chiese, stupito: «Non avete servitori?».
Lei lo fissò con uno sguardo gelido. «Preferisco non dar risalto a questa visita» rispose.
La guardia s’inchinò di nuovo, poi si rivolse al collega e disse: «Accompagna sua signoria dall’ebrea».
Anche l’altra guardia fece un inchino, quindi si diresse alla loggia delle prigioni.
Benedetta si voltò verso i portici. La sensazione di essere seguita non l’aveva abbandonata. Ma ancora una volta non riuscì a individuare nessuno di sospetto.
Raggiunse la guardia che l’aspettava all’ingresso delle carceri.
Quando s’infilò nei sotterranei bui e umidi, sentì il sudore che le si ghiacciava addosso. Rabbrividì. Passarono davanti alle celle comuni, dalle quali provenivano lamenti, preghiere e un odore sgradevole. Poi superarono un corridoio con delle celle singole. Infine giunsero davanti a una porta di noce scura e antica, blindata da grandi traverse di ferro battuto. La guardia fece un cenno a un collega, che aveva un grosso mazzo di chiavi alla cintola.
Infine la porta fu aperta.
«Restate fuori» disse Benedetta.
«Come ordinate, signoria» acconsentì allora la guardia, porgendole una lampada a olio. «Fate attenzione, il pavimento è sicuramente scivoloso. I prigionieri si pisciano sempre sotto.»
L’altra guardia annusò nel buio della cella e rise. Poi si fece da parte.
Benedetta prese il lume e l’alzò davanti a sé. Il buio della cella era impenetrabile. C’era un odore forte. Non di urina. Era diverso. Pensò che era l’odore della paura. E si rese conto di provare soggezione lei stessa a varcare quella soglia.
«È… legata?» chiese.
«Non può farvi nulla, signoria. State tranquilla» rispose la guardia carceraria.
Benedetta fece un respiro profondo ed entrò.
Dietro di lei i due soldati ridacchiarono.
La lampada spargeva attorno a sé la sua debole luminescenza, rischiarando un’area di non più di un passo. Benedetta vide che il pavimento era costituito da grossi lastroni di pietra, lavorati grezzamente, che il tempo aveva levigato. Le pareti erano di mattoni rossi, con un impianto a volta e grosse travature trasversali di rinforzo. Una prima serie correva parallela al pavimento a un paio di spanne da terra, una seconda serie a meno di una pertica. Alle travature erano infissi anelli, catene, gioghi.
Benedetta avanzò piano. L’odore di sporco e di umori corporali cresceva, mano a mano che si addentrava. Quando, abbassando la lampada davanti a sé, all’altezza delle proprie ginocchia, vide materializzarsi il volto di Giuditta, fece un salto all’indietro, spaventata. Poi riprese fiato e tornò ad avvicinarsi a lei.
Giuditta strizzò gli occhi, come se quella flebile luce tremolante la stesse accecando. Spostò la testa di lato.
Benedetta si accostò di più. La guardò negli occhi, senza parlare, aspettando che l’altra la riconoscesse. Poi fece scendere lo sguardo lungo il corpo di Giuditta. Era rannicchiata per terra. Aveva indosso un vestitino sporco e sgualcito. Giuditta, mano a mano che la luce della lampada la esplorava, si rincantucciava ancora di più contro il muro. Muovendosi scoprì un ginocchio sbucciato. Benedetta vide che le caviglie erano strette da due anelli di ferro, grossi e spessi, arrugginiti. E un anello, con una catena corta, le era stato stretto intorno alla vita, obbligandola a stare seduta per terra, con pochissima libertà di movimento. Anche i polsi erano incatenati e graffiati. Aveva la pelle del viso sporca. E quello sguardo da animale in gabbia.
Erano tre giorni che viveva in quel buio. La cella non sembrava avere finestre. L’aria era fredda, umida e viziata. Eppure Giuditta rimaneva bella, pensò Benedetta con un moto di rabbia. E la odiò con tutta se stessa, più di quanto già la odiasse, perché nemmeno la prigione l’aveva sconfitta. Almeno non totalmente. Era ancora una degna rivale, pensò.
«Ciao, strega» le disse.
Giuditta resse lo sguardo. Aveva gli occhi arrossati, le guance scavate, i capelli appiccicosi, sporchi, e le labbra screpolate. «Non mi fai… più paura…» disse, con una voce roca.
Benedetta le avvicinò di più il lume al viso. «Non serve che ti faccia paura io.» Poi, con un movimento circolare, illuminò la cella. «No. Non c’è più bisogno che ti faccia paura io.» Rise. Allungò una mano, come se le volesse fare una carezza.
Giuditta scostò il volto.
«È bello vederti così» le sussurrò Benedetta.
«Cosa vuoi?»
«Cosa potrei volere più di questo?» sorrise Benedetta. Fece una lunga pausa, mentre le teneva la lampada davanti agli occhi. Continuava a pensare che era ancora bella. «Voglio vederti morire!» le disse con furia.
Giuditta sentì che il terrore, nonostante tutti i suoi sforzi, le piantava gli artigli nello stomaco. «Perché?» chiese piano.
Benedetta la guardò senza rispondere. Poi le sputò in faccia, si alzò e raggiunse la porta della cella. Si fermò. «Sto andando da Mercurio» annunciò cercando di avere un tono leggero, come se parlasse a un’amica. «Lo sto consolando.» Tornò indietro. «E lui si sta facendo consolare volentieri da me.» Rimase in piedi davanti a Giuditta. «Non posso salutartelo, questo lo capisci, vero?» Si abbassò, tornando a illuminare il viso della sua nemica, e vide che piangeva. Sospirò, come per un grande piacere, e se ne andò senza più fermarsi.
Appena fuori dalle prigioni il sole la colpì con prepotenza. Quasi si era dimenticata di quel caldo e di quella luce, che si riverberava sull’acqua della laguna trasformandola in un pavimento di piccoli specchi in continuo movimento. Lasciò che l’aria calda le riempisse i polmoni e poi, come ritemprata, si avviò verso le fondamenta accanto al Molo Ducale.
Fece segno a un gondoliere e montò sulla sua barca.
Mentre si allontanava lungo il Canal Grande, si voltò, cercando ancora di capire se era seguita. Non vide nessuno. Allora guardò le altre barche e le gondole. Ma erano decine e andavano in tutte le direzioni.
Alla sua sinistra sentì un rullio di tamburi. Si girò verso la Punta da Màr, la sottile striscia di terra che divideva il Canal Grande dal Canale della Giudecca, e vide un gruppo di straccioni che seguivano un banditore.
«Domenica, giorno del Signore, per volontà del nostro Patriarca Antonio II Contarini, nella piazzetta di San Marco e vicino al Molo Ducale, al cospetto delle autorità della nostra Serenissima Repubblica di Venezia, la Santa Inquisizione Romana darà pubblica lettura e resoconto delle accuse rivolte a Giuditta da Negroponte, strega ed ebrea.»
«Due giorni soltanto» mormorò Benedetta.
«Come dite, signoria?» le chiese il gondoliere.
Lei lo guardò con un sorriso angelico dipinto sulle labbra. «Portami a Mestre, buon uomo.»
Benedetta lo guidò fino allo stretto canale d’irrigazione di fronte al casolare di Anna del Mercato. Sbarcò e gli ordinò di aspettarla. «Non mi tratterrò molto» gli disse allontanandosi.
Mentre camminava verso il casolare si voltò, sempre con quella sgradevole sensazione di essere seguita. Non vide nulla, se non un ciuffo di giunchi che si muovevano, a dispetto degli altri, immobili nella calura. Una decina di passi dietro alla sua gondola.
“Piantala di preoccuparti” si disse. “Hai vinto.”
Guardò ancora verso i giunchi. Adesso erano fermi. Probabilmente era stato un refolo d’aria, pensò.
Raggiunse il casolare. Bussò.
Venne ad aprire una ragazzina. «Sei malata?» le chiese e, senza aspettare una risposta, indicò la stalla dietro al casolare. «Vai là, è quello l’ospitale.»
«Sarai malata tu, uccello del malaugurio» le rispose Benedetta, con foga, sentendosi gelare il sangue nonostante il gran caldo.
«Chi è?» fece una voce dall’interno e poi comparve Anna del Mercato. «Ah, sei tu» disse senza entusiasmo. Si voltò verso la ragazzina. «Vai pure, Lidia. Tua madre ti cercava per stendere le bende.»
Lidia guardò Benedetta e si allontanò a passi veloci.
Anna invece la fissò, ma non con il solito sguardo caldo.
«Io non ti piaccio, vero?» le disse Benedetta con un tono di sfida.
«Se lo sai perché me lo chiedi?»
«Che ti ho fatto?»
«A me niente.»
«E allora non rompere» sibilò Benedetta. «Pensa agli affari tuoi.»
«Mercurio fa parte degli affari miei» disse Anna, seria.
«Ah, già, sei la sua mammina» ironizzò Benedetta.
Anna non le rispose e rimase a fissarla.
«Be’, si dà il caso che io invece piaccia a Mercurio.»
«Tu non piaceresti nemmeno a un serpente velenoso» le rispose Anna.
«Benedetta, che sorpresa!» esclamò Mercurio arrivando alle sue spalle dall’ospitale. Vide lo sguardo teso di Anna. «Che succede?»
«Niente» gli rispose lei.
«Fa un caldo insopportabile. Accompagnami all’abbeveratoio che mi devo rinfrescare» disse Mercurio a Benedetta.
Mentre si allontanavano, Benedetta squadrò Anna, con un sorriso maligno. «Vaffanculo, mammina» le disse.
Mercurio era a torso nudo e si stava lavando. «Hai sentito del processo?» le chiese. Aveva lo sguardo preoccupato.
«Che processo?»
«A Giuditta.»
«Ah… Giuditta?» E mentre pronunciava il suo nome sentì una specie di debolezza. Non riusciva a levarsi dalla mente l’immagine di quella maledetta ebrea, bella persino in prigione. Cercò di sorridere per non lasciar affiorare tutto l’odio e l’insicurezza che aveva nel cuore.
Mercurio pensò che Benedetta sapesse benissimo del processo, come tutti a Venezia. Perché allora aveva fatto finta di non capire? «Sì, Giuditta» disse.
Benedetta sospirò. «Poveretta, che brutta situazione.» Poi osservò Mercurio. L’acqua gli scintillava sulla pelle. Era bellissimo. «Ho comprato anch’io uno dei suoi vestiti… sai, quelli che si dice che siano stregati.»
«E lo sono?» le chiese, ormai attento alle sue reazioni.
«Credi a queste sciocchezze?» rise Benedetta.
«E tu?»
Benedetta strinse le labbra, come pensandoci. «Perché parliamo di lei? Non ti fa bene, non credi? Dovresti metterci una pietra sopra, come mi hai detto di voler fare.»
«Sì, hai ragione» annuì Mercurio.
«Ci pensi tanto?» domandò lei, con una fitta dolorosa al petto. E il viso le si contrasse in una smorfia.
Era arrabbiata, pensò Mercurio.
«Non ne vale la pena» disse Benedetta con una voce roca, piena di fiele. «Hai visto come si è comportata con te? Forse non sarà una strega, ma è comunque una…» Si trattenne a stento. «Non ne vale la pena, dammi retta. Non pensarci.»
«Sì… hai ragione» rispose Mercurio. Improvvisamente era sulla difensiva. «Difficile non pensarci, però. Ci sono banditori per tutta la città che annunciano il processo. Anche qui a Mestre.»
«E tu tappati le orecchie» rise Benedetta.
Lui la guardò. Finse di sorridere. «Stai meglio. Non hai più quelle occhiaie nere.»
«Te l’avevo detto che era un male passeggero. Sono più carina?»
«Sì… E il Santo c’entra qualcosa con questa faccenda?»
«Col mio essere carina?» scherzò Benedetta.
«Con il processo a Giuditta» disse Mercurio, serio.
«Il Santo odia gli ebrei, lo sai.»
«Sì, lo so. E vive anche in casa tua…»
«Che c’entra?» chiese Benedetta, spiazzata.
Mercurio ebbe la sensazione che avesse qualcosa da nascondere. «È stato nominato Inquisitor o sbaglio?»
«Ah, sì? Non so, non ci parliamo…»
Mercurio rimase a fissarla in silenzio.
«Ma sì, hai ragione» disse allora Benedetta. «Adesso che mi ci fai pensare… sì, credo di sì… Vuoi che ci metta una buona parola?» disse gioiosamente.
«Lo faresti?» le chiese Mercurio, con un tono freddo.
Benedetta si agitò appena, a disagio. «Lo sai com’è quel frate… Non mi starebbe a sentire.»
«Già…» annuì Mercurio. «Mi spiace che tu sia arrivata fin qua. Oggi non possiamo stare insieme» le disse sbrigativamente. «Ho promesso al dottore di aiutarlo…»
«Sì, certo» fece Benedetta. Gli mise una mano sul braccio. Inclinò la testa di lato. «Capisco, non preoccuparti.» Gli avvicinò la bocca al viso. Poi lo baciò sulla guancia. «Abbi cura di te» disse andandosene.
Mercurio si voltò verso il casolare e vide Anna sulla porta.
«Arrivederci, Anna!» salutò Benedetta, in tono gioviale.
Anna non le rispose e guardò verso Mercurio.
E lui capì che Benedetta non le piaceva. E pensò che forse non piaceva neanche a lui.
Benedetta si voltò un’ultima volta, prima di arrivare alla gondola, e agitò una mano nell’aria verso Mercurio. Poi guardò alla sua sinistra, verso un ordinato filare di pioppi, e le sembrò di scorgere una figura scura, dietro a un tronco. Per un attimo pensò che aveva ragione a sentirsi seguita. Ma poi, quando montò sulla barca, vide che l’uomo vestito di nero restava lì, senza andarle dietro.
L’uomo, infatti, mentre Mercurio si infilava una camicia bianca di lino, non si mosse. Si aggrappò al tronco del pioppo con entrambe le mani, con forza, sbriciolandone la corteccia, come se avesse paura di cadere. Come resistendo a una vertigine. E poi sentì una lacrima che gli scivolava lungo la guancia.
“Ti ho trovato” pensò Shimon, con un fremito. “Ti ho trovato.”