59

 

«E ora?» disse Giuditta, nell’umida penombra del pianerottolo, ancora nuda.

Mercurio, sdraiato sopra di lei, le accarezzava i capelli. La mano si fermò, sentendo il peso di quella domanda. Spostò lo sguardo, evitando gli occhi di Giuditta, fissi nei suoi. E poi fece quello che faceva ogni volta che era in difficoltà. «Ora ti vesti, altrimenti muori di freddo» scherzò.

Giuditta non si mosse. Sorrise appena. E gli occhi le si velarono di una sottile delusione.

Mercurio sentiva la pressione, la lotta interna. Non era abituato a parlare dei propri sentimenti. Non sapeva da dove cominciare. E per la prima volta in vita sua non voleva perdere quella battaglia. Voleva uscire dal suo guscio. «Ora…» disse piano «ora…» Sentì gli occhi che gli si riempivano di lacrime di rabbia. Pensò che era uno stupido. Sapeva perfettamente cosa rispondere a quella domanda. Lo sapeva nella parte più profonda del suo animo, nella parte più vera del suo cuore. Ma non riusciva a dirlo.

Giuditta lo guardava, in attesa. Poi, lentamente, voltò la testa di lato, lasciando vagare lo sguardo verso la tremolante luce della candela che agitava la penombra dentro l’appartamento.

Mercurio sentì che la stava perdendo. «Ora ti porterò via di qui» disse d’un fiato, con la voce strozzata e un po’ stridula, girandole il viso verso il suo, fino a far incrociare gli sguardi. Sperava che in quel buio Giuditta non si accorgesse del colore delle sue guance. Sapeva di averle infuocate, ne sentiva perfettamente il calore. Ma aveva vinto. L’aveva detto. E ora, superato quell’ostacolo che gli era parso insormontabile, sentiva una specie di euforia. «Ho una nave.» Ripensò al relitto di Zuan dell’Olmo. «Non è un granché.» Sorrise. «Ma ho un lavoro. La metterò a posto e poi ti porterò via di qui!» ripeté, con foga.

«Shh, parla piano» rise Giuditta, mettendogli un dito sulle labbra.

Mercurio vide che aveva una luce diversa negli occhi. Le baciò il dito e poi la mano e poi avvicinò ancora il viso al suo e tornò a baciarla sulle labbra. «Che buon sapore hai.»

Lei socchiuse gli occhi.

«Però devi vestirti, o morirai davvero di freddo» disse Mercurio. Si staccò da Giuditta e sentì un vuoto, all’altezza dello stomaco. «Ancora un attimo» sussurrò tornando a stendersi su di lei. «Ancora un attimo.» E capì di essere intero solo con lei. Ma questo non aveva ancora la forza di dirglielo. La baciò, appassionatamente, e rabbrividì di piacere sentendo le dita di Giuditta che gli si infilavano tra i capelli, districando i nodi. Poi si alzò e le porse una mano. Ora che era sua, le parve ancora più bella. E senza sapere perché si vergognò di quel pensiero. «Avanti, vestiti» le disse.

«Ti sei già stufato di guardarmi?» chiese Giuditta, con un filo di voce, arrossendo fino alla punta dei capelli, abbandonata sulla camicia da notte, con i capezzoli irrigiditi dal freddo.

Mercurio le prese la mano e la fece alzare. La aiutò a infilarsi la camicia da notte. E ricordò il giorno in cui era stato all’Arsenale e, vedendo la nave che si formava, aveva pensato al momento in cui avrebbe potuto vedere Giuditta che si vestiva. Rise.

«Perché ridi?» chiese lei.

«Perché avevo già immaginato questo momento» rispose Mercurio e la strinse a sé. Poi fece sedere Giuditta sul primo gradino e la avvolse nella cappa. Le si mise accanto, passandole un braccio attorno alle spalle.

«Vieni dentro anche tu» disse Giuditta, aprendo la cappa.

Mercurio le si strinse più vicino ancora. Sentiva il calore del corpo di lei. E quasi non riusciva a credere alla meraviglia di quel momento. «Ti porterò via di qui» disse ancora una volta, più risolutamente. «Non sopporto di vederti chiusa in gabbia.»

Giuditta gli abbandonò la testa sulla spalla. Sorrise felice. «Non mi sento in gabbia.»

«E come la chiami questa, allora?» fremette Mercurio. «Io so cosa vuol dire. In orfanotrofio ero in gabbia, mi picchiavano, frustavano. Alcuni di noi venivano legati ai letti, la notte. E anche quando Scavamorto mi ha comprato…» Mercurio sentiva ribollire il sangue, ma per la prima volta il ricordo produceva dolore puro e non rabbia. E il merito era di Giuditta. Si voltò verso di lei, che lo guardava con occhi commossi.

«Cosa?» fece Giuditta.

«Io so cosa vuol dire. E non posso sopportare che tu sia in gabbia.»

Giuditta gli prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò. «Grazie. Ma io non mi sento in gabbia. All’inizio, forse. Avevo anche paura. Non so nemmeno io di cosa. Forse paura che la situazione peggiorasse. Ma adesso non mi sento in gabbia…»

«Come fai?» domandò Mercurio, agitandosi.

«Perché io ho un trucco» rise piano Giuditta.

«Che trucco?»

«Mia madre è morta mettendomi al mondo» iniziò piano Giuditta. «Non l’ho mai conosciuta.»

Mercurio la strinse forte. Anche questo sapeva cosa voleva dire.

«Sono cresciuta con la nonna…» riprese Giuditta. «E la nonna era amica di un vecchio che tutti, sull’isola di Negroponte, credevano mezzo matto. Ma lei diceva che erano solo sciocchezze di gente ignorante…» sorrise. «Forse perché lei era più pazza di lui.»

Mercurio rise.

«Shh, fai piano o sveglierai mio padre.»

Mercurio la baciò sugli occhi. «Continua.»

«Insomma, questo vecchio veniva a casa nostra quasi tutte le sere. La nonna gli dava da mangiare e poi si sedevano insieme sotto la veranda. Parlavano fino a tardi. Io ero piccola e nella mia stanza arrivavano le loro voci. E quel ronzio mi faceva addormentare senza che mi sentissi troppo sola. Credo che volessi bene anch’io a quell’uomo. Poi una sera, a me pareva notte, mi svegliai in preda alla paura. Avevo fatto un brutto sogno. Scesi al pianterreno, da dove venivano le voci, perché avevo bisogno di farmi abbracciare dalla nonna. Ero insonnolita, mi sembrava di non essere ancora del tutto fuori dal sogno. Quando uscii di casa chiamai la nonna ma né lei né il vecchio risposero. Erano in mezzo al cortile, in piedi, e avevano il braccio sinistro alzato e l’indice puntato verso il cielo stellato. Mi fermai. Anche quello sembrava una specie di sogno. E sembrava che loro non fossero lì. Non so perché pensai quella cosa. Ma pensai proprio che non fossero lì, anche se potevo vederli. Ed era per questo che non mi avevano sentito. Ridevano piano, teneramente, complici. Quello bastò per farmi passare la paura e tornai a letto. L’indomani sera, come ogni sera, diedi il bacio della buonanotte alla nonna e in quell’attimo vidi arrivare il vecchio e gli chiesi: “Che cosa facevate ieri sera?”. Allora lui mi prese sulle ginocchia e mi disse: “Ti svelerò il mio trucco. Così potrai usarlo anche tu. Guarda lassù”, e indicò il cielo. “Vedi le stelle? Se le guardi tra qualche istante non saranno più lì, si saranno spostate. E lo sai perché? Perché le stelle sono le carrozze del cielo. E sai come si fa a salirci sopra?” Allungò il mio braccio sinistro e mi fece puntare l’indice verso il cielo. “Devi usare il sinistro perché è quello del cuore, e il cuore è infinitamente più forte della mente. Poi scegli una stella. Guardale bene, non sono tutte uguali. A me piace quella, per esempio. Ha dei sedili comodissimi e alla mia età fanno male le chiappe. Ma tu che sei così giovane puoi prendere anche quell’altra, vedi, là. È una delle più veloci. Io ho sempre amato viaggiare. Sono un marinaio. Ma ormai non mi vuole più nessuno a bordo di una nave e mi annoio a stare in quest’isola. Mi sento in gabbia…”.» Giuditta si voltò verso Mercurio, che era affascinato da quel racconto e ascoltava a bocca aperta, come un bambino. «Disse proprio “gabbia”, come te. Mi spiegò che lui cavalcava ogni sera le stelle. E che spesso anche la nonna andava in viaggio con lui. Avevano visto l’India, la Cina, l’Africa, la Spagna…» Rise. «E anche la Luna. “Ma devi crederci col cuore” mi disse alla fine il vecchio e mi batté il dito sul petto.» Giuditta abbandonò di nuovo la testa sulla spalla di Mercurio. La voce divenne triste. «Mio padre non era mai a casa in quegli anni e io sentivo la sua mancanza. Anzi, credevo che mi odiasse perché avevo fatto morire mia madre…»

Mercurio la strinse più forte a sé.

«Così da quella sera ogni notte mi affacciavo alla finestra della mia camera, toccavo il cielo con il dito e montavo su una stella. E poi mi facevo portare da lui…»

Mercurio finalmente capì che cosa stava facendo Giuditta quando l’aveva vista affacciata alla finestra dell’appartamento del Ghetto.

«Poi, crescendo, me ne sono dimenticata. Ma da quando ci hanno messo in gabbia, come dici tu, mi sono ricordata che potevo toccare il cielo, cavalcare le stelle e andarmene quando volevo, senza che nessuno potesse fermarmi.»

Mercurio la guardò. Il cuore gli batteva forte in petto. «Ma adesso che tuo padre è con te… dove vai?»

Giuditta arrossì e abbassò gli occhi.

Mercurio sentì un’ondata di emozioni travolgerlo. Non c’era bisogno che lei gli dicesse da chi andava. Le sollevò il viso, le accarezzò le sopracciglia nere e folte con il pollice. «Allora domani ti aspetterò» sussurrò, con la voce che gli si strozzava in gola. Poi avvicinò le labbra a quelle di lei.

«Giuditta!» si sentì chiamare dall’interno dell’appartamento.

I due ragazzi sobbalzarono.

«Giuditta!» chiamò ancora Isacco. «Dove sei?»

Mercurio saltò in piedi. Giuditta aveva un’espressione spaventata. Le sorrise e le diede un rapido bacio sulle labbra. Poi scese velocemente la prima rampa di scale.

«Arrivo, padre!» rispose con voce tremante Giuditta.

Mercurio le sorrise ancora e le fece segno di stare calma.

«Che fai lì fuori?» chiese Isacco.

Giuditta aveva sempre l’espressione spaurita, incapace di trovare una scusa. Mercurio fece schioccare le dita. Poi, appena avuta la sua attenzione, arricciò le labbra e il naso e fece sporgere gli incisivi.

Giuditta rise. «Un topo, padre!»

«E che c’è da ridere?» fece Isacco con la sua voce burbera, mentre ciabattava verso la porta d’ingresso. «Ammazzalo con lo scopettone.»

Mercurio tirò fuori la lingua, incrociò gli occhi e allargò le braccia, come se fosse stato spiaccicato.

Giuditta trattenne una risata. «No, è troppo carino.»

«Un sorcio carino?» La voce di Isacco era ormai vicina alla porta.

Mercurio mandò un bacio a Giuditta.

«Un topo così carino che me ne sono innamorata.»

Mercurio scomparve giù per le scale proprio mentre Isacco si affacciava alla porta. «Smettila di dire stupidaggini» brontolò scuotendo il capo. «Vieni a letto, forza.»