52
Venezia
«Eccoti un calice di vino e mirra, frate, così come fu offerto a Nostro Signore Gesù Cristo quando giunse in cima al Golgota, perché gli facesse sopportare meglio le pene che avrebbe patito» disse il principe Contarini, indicando un bicchiere di vetro soffiato di Murano che un servitore reggeva in equilibrio su un vassoio.
Fratello Amadeo lo afferrò e bevve tutto d’un fiato.
Il principe deforme rise. «Però Nostro Signore rifiutò di sottrarsi al dolore.» Rise ancora. «Ma in fondo ti trovo saggio.» Si girò verso il camino, nel quale ardeva una brace vivace, e fece segno a uno dei suoi uomini. Poi indossò dei guanti da lavoro, di cuoio spesso, di quelli che usavano i maniscalchi o i fabbri.
L’uomo gli passò un ferro appuntito, del diametro di un grosso chiodo. Il ferro era arroventato.
Uno dei cani che assistevano alla scena abbaiò.
«Tenetelo fermo» disse il principe Contarini.
Due uomini da una parte e due dall’altra afferrarono fratello Amadeo per le braccia e gliele tennero tese, con le mani appoggiate su due ciocchi di legno, a palmo all’insù.
Zolfo si strinse a Benedetta.
Il frate respirava affannosamente, con gli occhi sbarrati, mentre il principe gli si avvicinava con il ferro incandescente.
«Reggetelo» disse Contarini, puntando il ferro verso il braccio sinistro del frate.
I due uomini che gli tenevano il braccio strinsero più forte.
Fratello Amadeo cercò d’istinto di divincolarsi e chiuse la mano a pugno.
«Aprila» ordinò il principe.
Lentamente fratello Amadeo schiuse le dita.
Il principe spinse con forza la punta arroventata al centro del palmo del frate. La carne sfrigolò, mentre si apriva e cedeva alla penetrazione del ferro.
Il religioso urlò, contorcendosi per il dolore.
I cani abbaiarono di nuovo. Due ringhiarono come se volessero mordere le caviglie del frate. Il principe diede loro un calcio e quelli si fecero indietro uggiolando.
Zolfo chiuse gli occhi e spinse la testa contro l’elegante vestito di Benedetta. Lei invece rimase ferma, impassibile. Guardò il ferro penetrare a fondo nel palmo del frate e bruciare la superficie del ciocco sottostante.
Quando l’odore del legno si sovrappose a quello della carne cotta, il principe, con un’espressione soddisfatta, estrasse il ferro.
Fratello Amadeo piangeva e sudava. «Eccellenza…» disse con una voce flebile «vi prego…»
«Taci» lo interruppe il principe, girandogli intorno, e si mise in posizione davanti alla mano destra. «Reggetelo» disse ai suoi uomini. E poi, vedendo che il frate stringeva il pugno, gli ordinò: «Apri».
«Eccellenza… vi prego… no…» piagnucolò fratello Amadeo.
«Apri la mano» ripeté con un filo di voce Contarini.
«No, lasciatelo!» esclamò Zolfo, lanciandosi verso il principe.
Benedetta non fece nulla per trattenerlo.
Uno degli uomini del principe colpì Zolfo con un manrovescio violento che lo fece cadere a terra, col labbro spaccato.
Zolfo si rialzò e tornò ad aggrapparsi all’abito di Benedetta.
Lei si scostò. «Mi sporchi il vestito» gli disse.
Il principe Contarini le rivolse uno sguardo compiaciuto. Poi fissò il frate. «È per rendere più facile il tuo cammino e la tua crociata, prete. Non capisci che sto facendoti del bene, come fece Nostro Signore al poverello d’Assisi, Francesco, quando gli trasmise le sue sacre stimmate? Adesso non ti ascolta nessuno, le tue parole annegano nella laguna, nessuno è interessato alla tua battaglia contro i giudei… ma dopo questo piccolo sacrificio la gente ti vedrà come un santo. E le tue parole acquisteranno il suono delle trombe del Giudizio. Apri la mano, avanti.»
«Eccellenza, no…» pianse con più disperazione fratello Amadeo.
Sul volto del principe comparve un’espressione stizzita. Abbassò la punta rovente sulle dita del religioso strette a pugno.
Il frate urlò per il dolore e le aprì.
E allora il principe calò il ferro con violenza. Bucò la carne. Poi, dopo averlo estratto dalla mano martoriata, lo gettò nel camino. «Eccoti fatto santo!» esclamò ridendo.
I suoi uomini risero con lui e lasciarono il frate. I cani abbaiarono, senza capire se dovevano far festa o rissa. Due si azzuffarono e nuovamente furono raggiunti da una pedata.
Fratello Amadeo si raggomitolò in terra, con le mani che tremavano per il dolore.
Zolfo si precipitò su di lui, abbracciandolo. Il frate lo allontanò con una gomitata.
Benedetta guardò Zolfo, che si ritraeva in disparte, mortificato. “Abbiamo scelto dei padroni molto simili” pensò. “E questo perché noi due siamo molto simili.”
«Portatelo nei suoi alloggi e dategli da bere vino a volontà» ordinò il principe, indicando fratello Amadeo, che era ancora raggomitolato per terra. «Non sapeva di poter diventare santo. Deve abituarsi all’idea» e si voltò sorridendo verso Benedetta.
Lei gli sorrise di rimando. E sentì una specie di fremito all’inguine. Qualcosa che assomigliava tanto al piacere quanto alla paura.
«Andiamocene» le disse il principe Contarini, porgendole il braccio atrofizzato. «Le miserie umane che seguono ai grandi eventi mi mettono di cattivo umore.»
Benedetta gli prese il braccio, come una dama ben educata, e a passi misurati abbandonarono la stanza che odorava di carne cotta. Sulla porta Benedetta si voltò e vide Zolfo che si accodava come un cane randagio al frate. “Sì, abbiamo scelto due padroni molto simili.” Guardò la propria mano stretta al braccio deforme del principe, che non le aveva mai offerto quello buono. “E questo perché entrambi non cerchiamo altro che disprezzo” pensò, voltandosi per seguire con la coda dell’occhio la figura di Zolfo che scompariva.
Il principe raggiunse la camera da letto dove credeva di aver colto la verginità di Benedetta e si sedette alla sua scrivania, ingombra di documenti. Prese da un cassetto degli occhialini tondi, se li mise e poi abbassò la testa sui libri contabili, con la penna in mano, pronta a essere intinta nel calamaio.
Benedetta si spogliò del vestito elegante, uno dei tanti che da quel giorno il principe le aveva permesso d’indossare, e che erano appartenuti alla sua defunta sorella. Poi aprì l’anta accanto all’alcova e s’infilò la tunica bianca di quel primo giorno, ancora macchiata di sangue. Sangue di pollo. Prese da un cassetto la berretta gialla che Zolfo aveva strappato a Giuditta e la strinse in mano. Infine si avviò verso l’altalena che il principe aveva fatto montare proprio davanti alla sua scrivania e ci si sedette sopra. Sistemò la tunica in modo che fosse ben evidente la macchia di sangue. Poi prese a dondolare, oziosamente.
Il principe non diede segno di averla notata.
Ma Benedetta sapeva che lui la sentiva con tutta la sua anima, che non era meno deforme del corpo. E sapeva che presto avrebbe alzato lo sguardo. Dapprima distrattamente, poi con crescente cupidigia. E mentre dondolava, avanti e indietro, Benedetta stringeva in mano la berretta gialla, con odio, come cercando di imprimerle tutta la sua malevolenza.
Il principe si levò gli occhiali, fece cadere la penna sul piano della scrivania e cominciò a farsi rosso in viso. Raggiunse Benedetta e la prese lì, lui in piedi e lei sull’altalena. E nel momento del piacere alzò lo sguardo all’affresco che ritraeva la sorella morta. Poi si staccò da Benedetta e, quasi con disprezzo, le ordinò di levarsi la tunica e rivestirsi. Infine, con il membro molliccio ancora fuori della calzamaglia, si lasciò andare sul letto, a pancia all’aria.
Benedetta si rimise il vestito elegante che indossava prima del coito, si allacciò una collana di perle grosse come piselli e gli si sdraiò accanto, dalla parte del braccio menomato. In mano continuava a stringere la berretta gialla, della quale il principe non si curava affatto. Attese che il corpo del suo signore si rilassasse completamente.
«Devo chiederti un regalo, amore mio» disse allora.
Il principe non mosse un muscolo. Ma la sua voce suonò gelida come un pezzo di ghiaccio e tagliente come un rasoio. «Se mi chiami amore un’altra volta soltanto, ti faccio gettare in un canale con una pietra al collo.»
Benedetta sentì la paura stringerle la gola. Sapeva che il principe non avrebbe esitato a farlo. Rimase in silenzio.
«Ora voglio dormire» mormorò dopo un po’ il principe. «Quando mi sveglierò potrai chiedermi quello che vuoi.» Le infilò la mano deforme nella scollatura del vestito e le pizzicò un capezzolo, fino a farle male. «E lo avrai.» Sfilò la mano e respirò profondamente.
Benedetta, con delicatezza, gli pulì il membro con un lembo del lenzuolo e poi glielo mise dentro la calzamaglia.
«Grazie» disse il principe Contarini, con la voce che già andava spegnendosi nel sonno.
Quando sentì che il respiro del suo amante diventava profondo e regolare, Benedetta si alzò su un gomito e aprì la mano che stringeva la berretta gialla. La guardò. Aveva saputo che già molte cristiane, donne aristocratiche, oppure colte cortigiane, si erano lasciate affascinare da quelle forme originali, da quelle stoffe tanto diverse fra loro, così bene assemblate insieme, seppur tutte gialle, al punto da decidere di acquistare quei capi, anche se per legge gli ebrei non avrebbero potuto venderne.
Mentre osservava la berretta di Giuditta, all’interno, sul risvolto, notò una macchia rosso scuro. Sembrava sangue.
Benedetta accarezzò il petto carenato del suo potente amante, che si gonfiava e sgonfiava a un ritmo costante. Dormiva profondamente.
«Ho bisogno dei tuoi soldi e non posso aspettare… amore mio» mormorò.
Aprì il borsellino di velluto e seta che il principe portava alla cintola e ne estrasse tre monete d’oro. Poi si alzò e prese un sacchettino con i capelli di Giuditta. Infine abbandonò la stanza e il palazzo e si fece portare da un servitore a casa della maga Reina.
«Hai tutto quello che ti ho chiesto?» le domandò la maga.
Benedetta le porse il sacchetto con i capelli e la berretta gialla. «C’è una macchia all’interno della berretta» fece, mostrandogliela. «Sembra sangue.»
«Che sia una strega?» rise la maga. Poi aprì il sacchetto con i capelli e li tirò fuori. «Sono bagnati» disse, facendo una smorfia.
«Sì» rispose Benedetta. «Ci ho sputato sopra.»