30
«Perché mi hai baciato?» chiese Mercurio a Benedetta.
«Per gioco, non montarti la testa» rispose lei e accelerò il passo, per non mostrargli che arrossiva.
«Aspettami» le disse Mercurio.
«Non rompere» fece lei e poi, senza farsi vedere, si portò le dita alle labbra. Le sembrava che ancora scottassero per il contatto con quelle di Mercurio. Era stata venduta da sua madre a un prete e ad altri viziosi, ma quello, pensò, era il suo primo bacio. Svoltò in una stretta calle e camminò veloce fino a trovarsi in un ampio campo.
«Guarda chi c’è» disse Mercurio, dietro di lei. La raggiunse, le mise una mano sulla spalla e indicò un gruppetto di persone.
«Chi è?» chiese Benedetta, ancora distratta dalle sue sensazioni.
Mercurio rise. «È quel coglione di Zolfo col suo frate!»
«Pèntiti dei tuoi immondi e sudici peccati, Venezia!» urlava a braccia levate fratello Amadeo, sugli scalini dell’oratorio degli Ognissanti, in campo San Silvestro. L’aria era fredda e umida ma il religioso, sotto al vecchio saio, lercio e consunto, portava una nuovissima doppia maglia di lana e dei mutandoni lunghi, comprati con i soldi di Zolfo.
«Pèntiti, Venezia!» gli fece eco Zolfo.
Il campo era gremito di gente indaffarata. Qualcuno si voltò a guardare il predicatore e il ragazzino dai capelli stoppacciosi e la pelle giallastra. Ma poi ciascuno ricominciò a camminare, diretto alle proprie occupazioni. I più nemmeno si voltarono.
Benedetta si mosse per raggiungere Zolfo, ma Mercurio la trattenne. «Aspetta» le disse. Rimasero in disparte.
Fratello Amadeo, sugli scalini, prese fiato e gonfiò i polmoni. «Pentiti dei tuoi peccati, Venezia!» urlò di nuovo, con rinnovato vigore.
«Pèntiti, Venezia!» gli andò dietro Zolfo.
Nessuno si fermò ad ascoltare la predica.
«Sembrano due cretini» disse Benedetta.
«Sono due cretini» ribatté Mercurio.
«Che facciamo?» chiese Zolfo al frate. «Ho freddo.»
Fratello Amadeo lo fulminò con uno sguardo feroce. «Come puoi patire il freddo? Non ti scalda la fede in Cristo?»
Zolfo annuì docilmente.
Il prete alzò le braccia al cielo e gridò, testardamente: «Pèntiti dei tuoi immondi e sudici peccati, Venezia!».
«E smettila di strillare!» sbraitò una donna dall’altra parte del campo, affacciandosi da un’osteria con la stramba insegna di un cigno a due teste. Traballava sulle gambe e aveva le vene del collo gonfie. Gli occhi, dallo sguardo liquido, mettevano a fuoco con fatica il religioso e il ragazzino.
Fratello Amadeo le puntò un dito contro. «Satana, esci da quella donna! Io te lo ordino nel Santo Nome del mio Supremo e Altissimo Padrone!»
«Esci, Satana!» gli fece eco Zolfo e puntò anche lui il dito verso di lei.
Quella barcollò, indecisa, cercando di tornare nella bettola. Qualcuno, da dentro, la chiamò. «C’è un predicatore» disse soltanto. E in un attimo un’altra testa si affacciò dall’osteria. E poi un’altra e un’altra ancora. Erano ubriachi e confabularono un po’ tra di loro. «Cosa vuoi, frate?» urlò uno degli ultimi a uscire, un omone grande e grosso che si reggeva in piedi appoggiandosi al remo di una barca.
«Pentitevi dei vostri peccati! Il Signore ve lo ordina!» gridò fratello Amadeo. «Cacciate il giudio da Venezia!»
«Che stai dicendo?» strillò la donna, che si aspettava un elenco di peccati noti, in cima ai quali certamente il vino e la fornicazione.
«Cacciate il giudio!» urlò con più foga fratello Amadeo, andando al cuore della sua personale crociata. «L’ebreo è il cancro di Satana!»
Il gruppetto di ubriachi, non più di una decina, cominciò ad attraversare campo San Silvestro a passi insicuri. Quando raggiunsero gli scalini dell’oratorio degli Ognissanti avevano un sorriso ebete stampato in faccia. E anche se non sapevano bene cosa volesse, avevano deciso che si sarebbero divertiti alle spalle del predicatore. Gli si piazzarono davanti, ondeggianti come barche ormeggiate. La donna ruttò. Un paio di uomini risero.
«Che ti hanno fatto gli ebrei, frate?» chiese uno.
«Si sono scopati tua madre?» domandò l’ubriaco che si reggeva al remo della barca.
«No, hanno sodomizzato lui!» esclamò la donna, provocando uno scoppio di ilarità generale.
«Pèntiti, peccatrice!» urlò Zolfo.
«Stai zitto, nano!»
Zolfo sbuffò, facendo una faccia truce.
«Piccoletto, attento che pigli fuoco» lo schernì la popolana.
Gli ubriaconi intorno a lei risero ancora.
«Si cacceranno nei guai» disse Benedetta rivolta a Mercurio, e fece un passo in avanti.
Mercurio la trattenne di nuovo. «Aspetta.»
«Eva! Non ti abbandonare al peccato! Non prendere la mela che ti offre il Serpente!» urlò fratello Amadeo alla donna ubriaca, con gli occhi stretti come due fessure.
«Eva mi sa che era ebrea, o no?» rise lei.
«Certo! E anche Mosè» disse uno degli ubriachi.
«E re Davide» aggiunse un altro.
«E Giovanni Battista!» fece un terzo.
«Se andiamo avanti così, finisce che anche il frate è ebreo!» gridò l’omone che si appoggiava al remo.
La combriccola degli ubriachi scoppiò in una fragorosa risata.
Fratello Amadeo, teatralmente, si inginocchiò. «Padre che sei nei Cieli, e tu, Padre in Terra, santissimo Papa Leone X de’ Medici, fai scendere il tuo perdono su questi peccatori…»
«Frate, ci hai mai pensato che anche il primo Papa era ebreo?» urlò la donna, che si accaniva più degli altri contro di lui. «Pietro-su-questa-pietra, primo Papa, il fondatore della Chiesa, era più ebreo di qualsiasi ebreo che cammini oggi per le strade di Venezia!»
«Feccia!» proruppe fratello Amadeo, rizzandosi in piedi.
«Feccia!» gli fece eco Zolfo.
La donna si chinò, raccolse una manciata di fango e la lanciò contro Zolfo, colpendolo in pieno viso.
«Lo sapevo» disse Benedetta.
«Quel prete è un imbecille» fece Mercurio.
«Dobbiamo aiutare Zolfo» disse Benedetta e si avviò.
Mentre le andava dietro, alla sinistra del frate e di Zolfo, sulle scale della chiesa di San Silvestro, Mercurio notò un giovane vestito con grande eleganza. Indossava una calzamaglia bianca, immacolata, una casacca con le maniche a sbuffo, damascate, una berretta con una enorme spilla d’oro e portava una catena, anch’essa d’oro, a maglie grosse, da cui pendeva un ciondolo tempestato di pietre preziose. Al fianco aveva uno spadino con il manico di madreperla.
Intorno a lui cinque ragazzi, altrettanto ben vestiti, sghignazzavano assistendo alla predica. Mercurio sentì un brivido lungo la schiena.
«Feccia!» ripeté fratello Amadeo.
«Feccia a chi?» disse l’ubriaco che si appoggiava al remo. In un attimo sulla sua faccia alterata dal vino le risate cedettero il posto a un’espressione minacciosa.
«Frate, torna a Roma dal tuo padrone!» urlò la donna agitando un pugno nell’aria.
«Feccia sei tu, prete!» tuonò un altro ubriaco, paonazzo in viso, e si chinò a raccogliere una pietra.
«Zolfo, vieni via!» disse Benedetta raggiungendolo.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata distante, all’apparenza senza provare la minima emozione nel vederla.
«Zolfo… sono io…» fece Benedetta, spiazzata da quello sguardo. Poi si voltò verso Mercurio, con aria rabbiosa. «Che gli ha fatto quel prete maledetto?»
Volò una prima pietra. E poi una seconda.
«Vieni via, Zolfo» ripeté Benedetta e lo afferrò per un braccio.
«Lasciami!» gridò lui, dandole una spinta e mettendosi davanti al predicatore, come una patetica guardia del corpo. Una pietra lo colpì a una gamba. Zolfo gemette.
«Calmatevi» provò a dire Benedetta agli ubriachi, che si facevano minacciosamente sotto. Poi si lanciò di nuovo su Zolfo, lo prese con più forza e lo strattonò giù dalle scale. Zolfo le opponeva resistenza.
Mercurio gli diede uno schiaffo. «Seguici, cretino!» gli ordinò. «Da questa parte» disse a Benedetta, trascinandoli verso la chiesa di San Silvestro.
Intanto, la massa di ubriachi si era infuriata e si gettava contro fratello Amadeo. «Feccia ci ha detto! Facciamogliela pagare!»
Vedendo la malaparata, fratello Amadeo si accodò a Zolfo, che veniva trascinato via da Mercurio e Benedetta.
«Levati dai coglioni, frate!» urlò Mercurio quando vide che gli ubriachi cominciavano a rincorrere anche loro.
Sul cammino che li separava dalla chiesa, dove Mercurio aveva intenzione di rifugiarsi, si era piazzato il giovane ben vestito che aveva notato prima. Osservava la scena con uno sguardo divertito e crudele. Se ne stava immobile, a suo agio, con la gamba destra sul primo gradino e la mano destra infilata nell’ampia tasca della casacca. Aveva la spalla sinistra assai più alta e robusta e lo spadino era infilato nella cintola a sinistra, segno che era mancino.
Mercurio rallentò la corsa. Si guardò alle spalle. Gli ubriachi guadagnavano terreno. E la ritirata era impedita dal giovane e dai suoi compagni. «Levati!» gli urlò.
Il giovane sorrise. Aveva denti bianchissimi, corti e aguzzi, che a Mercurio ricordarono un pesce carnivoro. E anche gli occhi, così distanti da sembrare sistemati artificiosamente sui lati del viso, avevano una vetrosa fissità da predatore dei mari. Inespressivi eppure crudeli. O forse, pensò Mercurio in quell’istante di sospensione, crudeli proprio per quella loro totale mancanza di luce. Freddi.
E poi, all’improvviso, il giovane si mosse, veloce e sgraziato come un granchio. La mano sinistra corse allo spadino e lo estrasse dalla cintola. Dalla tasca destra, invece, estrasse un braccio corto, con la mano rattrappita, e anche la gamba, che a una prima impressione, appoggiata al gradino, era parsa normale, in realtà era più corta dell’altra e meno sviluppata, né si poteva estendere ma rimaneva parzialmente piegata. Con lo spadino in pugno si voltò verso i suoi compagni che, senza un attimo di esitazione, sfoderarono le loro armi e gli si fecero intorno. Il giovane caracollò, mostrando una gibbosità che gli gonfiava la scapola sinistra. Era un mostro deforme.
Mercurio s’irrigidì mentre quello sembrava lanciarglisi addosso. Ma invece lo superò, mettendo lui, Benedetta, Zolfo e il frate al riparo del suo piccolo esercito.
«Piantatela, idioti!» gridò agli ubriachi, con una voce quasi da donna, stridula e fastidiosa.
Un ubriaco gli era ormai addosso, incapace di frenare.
Il giovane menò un fendente di taglio con il suo spadino a doppia lama. Il colpo tagliò la casacca pesante dell’ubriaco sul braccio, quasi all’altezza della spalla. Una macchia di sangue cominciò ad allargarsi sul tessuto.
L’ubriaco gemette di dolore e si accasciò a terra.
«Raccoglietelo» disse il giovane con un profondo disprezzo nella voce.
«Perdonate, vostra grazia» disse la donna che aveva cominciato la schermaglia con il predicatore. «Non vi avevamo visto. Abbiate la generosità di perdonarci, vostra grazia.» Si chinò e, senza perdere di vista la punta dello spadino, si allungò verso l’ubriaco in terra. Con una forza insospettabile lo trascinò indietro, fuori dalla portata dell’arma. «Mio marito non voleva fare nulla» continuò la donna, aiutando il ferito a rialzarsi. «Non avremmo fatto del male né al frate né al ragazzo.»
«Sì, scherzavamo» dissero in coro gli altri ubriachi.
Il giovane si voltò verso fratello Amadeo. «Che cosa chiedevi loro?»
«Che si caccino gli ebrei da Venezia» rispose il frate, riprendendo il coraggio che poco prima aveva perso.
«Noi siamo pronti a diventare dei martiri!» esclamò Zolfo.
«Stai zitto, cretino» gli ordinò Mercurio.
Il giovane rise. «Ha ragione il tuo amico. Martire per mano di quattro ubriachi? Sei un cretino.»
«Il martirio è la nostra…» cominciò Zolfo, rabbioso.
«Stai zitto!» Fratello Amadeo gli mollò un ceffone violento.
Zolfo s’ingobbì, con uno sguardo mortificato.
«Che ti avevo detto, coglione?» fece Mercurio. «Se cercavi un padrone, potevi restare con Scavamorto. E sarebbe stato certamente più misericordioso.»
Il giovane inclinò la testa deforme di lato, come un cane, divertito. Sorrise a fratello Amadeo. «Tu sai da che parte stare, vero, prete?»
«Io sono dalla parte del Signore» rispose il frate.
«E io sono un gran signore» rise il giovane. «Io sono il principe Rinaldo Contarini.» Si voltò verso gli ubriachi. «E ora voi urlate: “Via gli ebrei da Venezia!”.»
Gli ubriachi si guardarono per un attimo poi, in coro, dissero: «Via gli ebrei da Venezia!».
«Più forte, pezzenti!»
«Via gli ebrei da Venezia!»
Il giovane Contarini puntò lo spadino verso l’osteria dalla quale erano usciti gli ubriachi. Sulla soglia si era affacciato il padrone. «Tu, oste, visto che non sai tenere d’occhio i tuoi avventori, chiudi per una intera settimana. Da adesso. Per mio volere. E se ti troverò aperto darò fuoco alla tua bettola.»
L’oste abbassò il capo e tornò dentro per cacciare immediatamente i clienti che erano seduti nel locale.
Il giovane principe si pavoneggiò con i suoi compagni, poi si avvicinò a Benedetta. «Come ti chiami?» le chiese, senza il minimo interesse nella voce, e intanto le accarezzò la pelle della scollatura con la punta dello spadino.
Benedetta non si muoveva. Né rispondeva. Provava orrore, paura e attrazione, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Qualcosa tornava su dal passato e nel passato la risucchiava. Qualcosa cui sfuggiva ma che la sua parte buia, senza saperlo, cercava. «Mamma…» mormorò, piano come un soffio.
«Che dici?» chiese il principe.
Mercurio la prese per un braccio e la scostò.
Il principe Contarini lo guardò con piacere. Come se non aspettasse che quello. Gli mostrò la punta della lingua, con una malizia quasi sessuale. «Lo sai che se ti ordinassi di leccarmi le scarpe ti converrebbe farlo, bel ragazzo? Come osi metterti tra me e questa puttana?»
«Non è una puttana. È vergine» rispose d’istinto Mercurio.
Il giovane inarcò le sopracciglia. «La cosa si fa interessante. È così raro di questi tempi trovarne una…»
«Non metterle addosso le tue manacce» ringhiò Mercurio.
Lo sguardo del principe s’illuminò di gioia. Un attimo dopo affondava il colpo.
Ma Mercurio era pronto. Schivò l’affondo, afferrò il braccio del nobiluomo e lo tirò in avanti, allungando la gamba. Il giovane principe perse l’equilibrio e non cadde a terra solo perché uno dei suoi compagni, più svelto degli altri, lo sorresse.
«Scappa!» urlò Mercurio a Benedetta.
Benedetta ebbe un’esitazione, poi gli andò dietro. Passarono in mezzo agli ubriachi, subito inseguiti dagli uomini del principe.
«Scappa!» urlò di nuovo a Benedetta e si infilarono in una calle stretta e buia.
Gli uomini di Contarini erano più veloci di Benedetta, impedita dalla gonna, e li avrebbero raggiunti in breve. Mercurio si buttò istintivamente verso campo Santo Aponal. Ancora non vi era arrivato che la calle del Luganegher fu bloccata da un’alta e familiare figura nera.
«Scarabello!» ansimò Mercurio.
Scarabello e i suoi uomini si aprirono per farli passare. Poi si schierarono di nuovo, bloccando gli uomini del principe. I contendenti si guardavano in silenzio. Scarabello e i suoi erano composti, con le mani pronte alle spade. Gli uomini del principe avevano bocche e narici dilatate dalla corsa. Nessuno si muoveva. Nessuno parlava.
Poi, dopo un tempo che sembrò interminabile, si sentì uno scalpiccio di passi dal ritmo irregolare. E in fondo alla calle comparve il deforme principe Contarini, che avanzava arrancando. Raggiunse i suoi uomini. Aveva il braccio atrofizzato aperto, come l’ala senza piume di un uccello. La bocca spalancata, che mostrava i denti aguzzi da pesce, e un rivoletto di saliva che gli insozzava il mento.
«Aspettavamo solo voi, vostra grazia» disse Scarabello e fece un profondo inchino.
Il principe Contarini aveva il fiato grosso per lo sforzo. Si dondolava sulle gambe, così diseguali fra loro, oscillando. Di nuovo a Mercurio parve un granchio.
«Scarabello, stai proteggendo quel giovane criminale?» chiese con la sua vocetta stridula il principe, quando riuscì a parlare.
«Effettivamente sì, vostra grazia. Si dà il caso che sia uno dei miei» rispose Scarabello, allargando le mani quasi a dirsi dispiaciuto.
Il principe Contarini sorrise e si pulì la saliva con la manica della preziosa veste. Nella penombra del vicolo le sete bianche rilucevano come la pelle viva di un animale fantastico. Solo i capelli albini di Scarabello riuscivano a emergere in quella luce flebile. Tutto il resto sembrava non esistere.
Mercurio guardava Scarabello con ammirazione. Si voltò verso Benedetta e vide che lei invece fissava Contarini.
«Voglio quel giovane» disse il principe. «Mi ha offeso e deve pagare.»
«Vostra grazia, voi sapete che vi sono devoto servitore» rispose Scarabello. «Ma, se mi vorrete perdonare, devo negarvi questa richiesta. I miei uomini rispondono unicamente a me delle loro azioni.» Guardò intensamente il principe, senza soggezione. «E io solo rispondo al mondo. Perciò, vostra grazia, dovremo discuterne voi e io, se avete rimostranze che non possono essere appianate o rimesse.»
Contarini gli rivolse uno sguardo impassibile. Ma intanto si mordeva il labbro inferiore con ferocia. Fino a farlo sanguinare. Quando parlò, la sua voce era più stridula ancora. «Di’ al tuo uomo di non farsi trovare in giro da solo. La sua testa mi appartiene e se ce ne sarà occasione me la prenderò.» Si girò e fece segno ai suoi di seguirlo. «Torniamo da quel frate. Mi piace. È divorato dal malessere. Promette sangue» rise istericamente.
«Zolfo…» cominciò Benedetta.
Mercurio le mise una mano sul braccio. «Non possiamo fare niente.»
Scarabello li raggiunse.
«Grazie» disse Mercurio.
«Non l’ho fatto per te» rispose. «Il principe è pazzo. Se gli lascio briglia sciolta si prende tutto. Ma io ho un’amicizia molto in alto, più in alto di Contarini. Così in alto che più su c’è solo il Doge. Il principe lo sa. È pazzo, ma non scemo.»
«Grazie lo stesso» ripeté Mercurio.
«Si scorderà di te» continuò Scarabello. «Troverà qualcun altro con cui prendersela. Ma fino ad allora sparisci dalla circolazione.»
«Me la caverò» minimizzò Mercurio. «So badare a me stesso.»
«Sì, ho visto» sorrise Scarabello. Poi gli batté l’indice sul petto. «Ma il mio non è un consiglio. È un ordine.»
«Senti, Scarab…»
«No, senti tu.» Scarabello gli picchiò il dito in petto così forte che Mercurio fu costretto ad arretrare di due passi. «Te l’ho già detto una volta. Te lo spiegherò con altre parole. Se io ti ordino di infilarti nel buco del culo di una balena, tu ti ci infili, chiaro?»
«D’accordo.»
«Andrai sulla terraferma. Ti troverò una sistemazione. E resterai lì per almeno un paio di settimane. Mi spiacerebbe vedere le pantegane che si portano a spasso la tua testa per i canali mentre ti mangiano gli occhi. Ed è esattamente questo che devi aspettarti dal principe. Dopo che ti avrà fatto soffrire per bene, naturalmente.» Scarabello si ravviò i lunghi capelli dietro le orecchie, li raccolse in una coda ordinata e li legò con un nastro rosso, di seta, lungo fino a metà schiena. Gli sorrise. «Hai paura a stare da solo qualche ora?»
«Vedrò di farcela» rispose Mercurio, ficcandosi i pollici nella cintola.
«Sbruffone» rise Scarabello andandosene.
Appena ebbe voltato l’angolo, Benedetta prese per mano Mercurio. «Andiamo alla locanda.»
Mercurio guardò le sue labbra. La seguì docilmente.
Salirono in camera.
«Chiudi la porta» disse Benedetta.
Mercurio ubbidì.
Lei si stese sul letto e si sbottonò il vestito, scoprendo i piccoli seni d’alabastro e i capezzoli rosa. Aveva il respiro affannoso. Non pensava al primo bacio che aveva dato a Mercurio. Pensava alla paura che le aveva procurato il principe Contarini. Alla sensazione che aveva provato. All’attrazione verso il baratro. Guardò Mercurio e pensò che non assomigliava a nessuno dei mostri ai quali sua madre l’aveva venduta. Allungò un braccio verso di lui. Non le avrebbe mai fatto del male.
Mercurio le si sdraiò accanto, immobile, inebetito. Non aveva mai baciato una ragazza prima di quel giorno.
Benedetta gli prese di nuovo una mano.
Mercurio s’irrigidì. «Che fai?» chiese. E si sentì uno sciocco.
Benedetta gli guidò la mano, lentamente, verso il proprio seno. Gliela appoggiò sopra.
«Che fai…» ripeté Mercurio, senza che fosse più una domanda.
«Hai paura?» domandò Benedetta.
Mentre era lì, disteso, con lo sguardo fisso al soffitto, con la mano immobile sul seno di Benedetta, con uno strano rimescolio di sangue nei pantaloni, Mercurio pensò che sapeva tutto della vita, più della maggior parte degli esseri umani. Sapeva sopravvivere in una fogna di Roma e in una città misteriosa come Venezia, sapeva ideare truffe, usare il coltello, violare le tasche di chiunque senza farsi scoprire, impastare la calce viva alla terra per coprire i morti; aveva fatto a botte con uomini grandi il doppio di lui, aveva ucciso un mercante, aveva tenuto testa a Scavamorto e conquistato un criminale come Scarabello. Sapeva tutto della vita.
Ma non sapeva niente dell’amore.
«Non respiro» disse.
«Accarezzami» sussurrò Benedetta.
«Non respiro, ti ho detto!» scattò Mercurio e si alzò in piedi.
«Che succede?» chiese lei, turbata.
Mercurio non capiva la furia che lo squassava. Ma non riusciva a controllarla. «Devo andare» disse con la voce strozzata.
«Vengo con te.»
Mercurio non le rispose e uscì sbattendo la porta.
Benedetta si abbottonò il vestito e si raggomitolò sotto la coperta. Chiuse gli occhi. Vide il volto spaventoso del principe Contarini. Si portò una mano tra le gambe. E si sentì sporca.
Mercurio intanto era arrivato a Rialto, trafelato.
Avvicinò il guercio, l’uomo di Scarabello.
«Devo andarmene immediatamente. Trovami una barca.»